La memoria di Vincenzo Consolo

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di Giulia Stucchi

Oggi ricorre il primo anniversario della morte di Vincenzo Consolo, spentosi a Milano lo scorso 21 gennaio.

Lo scrittore, di origine siciliana (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), viveva stabilmente nel capoluogo lombardo dal 1968. Per quanto la sua opera letteraria sia ormai conosciuta dalla maggior parte degli “addetti ai lavori”, ancora scarsa è la critica che lo riguarda e pochi i lettori comuni che gli si avvicinano, complice la fama di scrittore difficile” che lo accompagna. Eppure il fascino dei testi consoliani, per quanto sia certo da attribuire anche alla loro complessità, la travalica, e ci regala veri e propri squarci di poesia, in una continua tensione, mai risolta, fra la ricerca del fatto artistico come portatore di un potere universalizzante, e il tentativo di afferrare il reale in tutta la sua infinita varietà. Un tentativo, quest’ultimo, che nasce dalla convinzione dell’autore che esista un compito etico a cui l’intellettuale è chiamato: si tratta cioè della cosiddetta “poetica dell’impegno”. Lo scrittore, allora, deve intervenire sulla società, guardare ad essa in modo critico e consapevole, per metterne a nudo i mali, le contraddizioni e combattere, per dirla con le parole di Consolo, «l’afasia del potere».

Del resto l’intero percorso letterario del nostro autore è giocato su questa tensione, resa ancor più problematica dalle continue domande, tipicamente novecentesche, riguardanti la necessità, il valore e persino la possibilità stessa di scrivere. Per chiarire meglio ciò di cui sto parlando pensiamo, per esempio, all’alternarsi di opere come Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976),Nottetempo, casa per casa (Mondadori, 1992) e Lo Spasimo di Palermo(Mondadori, 1998) da un lato, e, dall’altro, di testi quali Lunaria (Einaudi, 1985) o Retablo (Sellerio, 1987).

I primi tre libri sono ambientati su uno sfondo storico ben preciso e danno vita ad un’ideale trilogia romanzesca all’interno della quale vengono passati in rassegna alcuni momenti cruciali per la storia del nostro Paese: troviamo così il periodo risorgimentale e unitario nel Sorriso, la nascita del fascismo inNottetempo, casa per casa, le fasi finali della dittatura mussoliniana, con il terrorismo politico degli anni Settanta e le stragi di mafia sul finire del secolo scorso, nello Spasimo. Grazie a questo escamotage Consolo intende recuperareil valore memoriale della Storia, capace di offrirci, sia per la sua lontananza, che per la sua funzione di lente interpretativa, uno sguardo distaccato e consapevole, in grado di leggere e capire anche il presente. Ma la Storia si carica qui anche di un valore simbolico che la fa aggiungere alle tante metafore su cui si fonda la poetica di questo autore: gli avvenimenti, infatti, si succedono e si succederanno ciclicamente fino a che l’uomo non imparerà a dar vita a una società giusta, equa, all’interno della quale il divario fra i ceti popolari e quelli più abbienti si assottigli fino a scomparire. La Storia, allora, non serve solo per capire il presente, ma anche per rappresentarlo, poiché ciò che è stato è, o sarà.

Anche quando gli avvenimenti trattati da Consolo sembrano non avere apparentemente un aggancio diretto con il presente, infatti, essi non perdono la loro capacità di farvi riferimento e di fornire uno sguardo critico sulla contemporaneità. Si pensi per esempio al Sorriso e a come le insurrezioni contadine che prendono piede nel Meridione alla notizia dell’arrivo delle truppe garibaldine forniscano l’occasione per parlare, seppur indirettamente, delle rivendicazioni del movimento contadino degli anni Sessanta del Novecento (vivo presente al momento della stesura del libro), rivendicazioni riguardanti tanto la richiesta di una riforma agraria, quanto la questione meridionale. Il parallelo tra i due episodi è tanto più forte dal momento che, in entrambi i casi, le rivolte vennero represse nel sangue dallo Stato e i problemi rimasero così irrisolti. Lo stesso discorso, del resto, può essere fatto per il periodo fascista in rapporto all’oggi: in una realtà in cui il potere è in grado di gestire i mass media e l’informazione, qualsiasi voce di dissenso è destinata ad essere soppressa, nascosta, fatta tacere. La democrazia lascia così il posto ad una nuova forma di dittatura, che, per quanto non dichiarata e meno violenta, non per questo risulta essere meno assoluta.

Consolo 4Ma torniamo a noi, e vediamo invece due testi come Retablo e Lunaria, la cui ambientazione risulta essere ben diversa, calati come sono in un Settecento piuttosto astratto (specie per quanto riguarda il secondo), la collocazione temporale serve allora solo per caratterizzare gli ambienti e per allontanare il racconto dall’esperienza quotidiana del lettore. Queste due opere, non a caso, sono state redatte durante gli anni Ottanta, anni in cui il rifiuto della figura dell’intellettuale impegnato da parte della società spinge Consolo a rivedere il proprio modo di scrivere, fino a metterne addirittura in discussione il senso. L’autore si rifugia allora in una narrazione che recupera la forma fiabesca e al cui interno il passato diventa solo un modo come un altro per affacciarsi su di una realtà altra, che faccia riflettere, sì, ma che con la sua lontananza e astrattezza sia in grado di regalare anchequell’effetto di straniamento e oblio di sé che è proprio anche dell’arte:

 io mi chiedei se non sia mai sempre tutto questo l’essenza d’ogni arte (oltre ad essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto), un’apparenza, una rappresentazione o inganno […]; l’essenza dico, e il suo fine trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii. (Retablo, pp. 66-67)

Questa citazione è tratta da Retablo e ci propone il pensiero del protagonista, il pittore milanese Fabrizio Clerici, che, intrapreso un viaggio in Sicilia con l’intento di raggiungere l’atarassia e l’equilibrio interiore, si ritrova invece a dover fare i conti con una realtà “altra”, certo, ma pur sempre una realtà. Ciò lo spinge a riflettere sul valore del viaggio inteso come allontanamento dal proprio mondo, e quindi anche sul significato dell’arte e di un passato mitico come quello dell’antica civiltà greca che ha abitato l’isola.

Per dare un quadro completo, per quanto breve e sommario, delle opere di Vincenzo Consolo non si può però non accennare anche al valore, giocato sempre sul confine fra realtà e trasfigurazione simbolica, della Sicilia. Di quest’ultima, che è sempre presente nei testi dell’autore, Consolo ci fornisce un ritratto dai molteplici volti, soffermandosi ora sugli aspetti più concreti dell’isola, ora su quelli più propriamente metaforici. La Sicilia, allora, è sì un luogo reale, ma è anche un simbolo: grembo materno, fonte di regressione, di ritorno alle proprie radici e di recupero della propria identità, essa è però anche il punto da cui bisogna necessariamente partire per giungere ad una possibile rinascita, che può avvenire soltanto con la conoscenza di sé e con la consapevolezza che da tale conoscenza deriva.

Alla medesima esigenza di recupero della memoria, una memoria, quindi, declinabile tanto da un punto di vista storico, quanto personale e artistico, concorrono anche le frequenti citazioni e i richiami a opere letterarie (e non) presenti nei testi di Consolo, nonché l’uso sperimentale ed espressionistico che egli fa della lingua italiana. Di quest’ultima l’autore recupera infatti le infinite varianti, siano esse imputabili al tempo, allo spazio, all’estrazione sociale del parlante o ai gerghi tecnici, nell’intento di riscoprire il reale valore delle parole, la loro forza significante e la loro funzione identitaria. Consolo conferma così il proprio sperimentalismo di fondo, pur attraverso un costante confronto con la tradizione, nell’intento di superarla e di rendere la scrittura uno strumento critico capace d’incidere sul mondo di oggi.

Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

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Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

Roberto Andò

L’intervista postula tra chi pone le domande e chi le subisce il vago stagliarsi di un’impersonale vibrazione in cui aleggiano due voci in cerca di echi, pensieri, ricordi, probabili pudori intorno a un mestiere impossibile. Ci si accosta al rito teatrale dell’intervista con un certo senso paradossale di sfida alla nicchia invisibile di chi scrive, immemori al cospetto della condizione ideale che rende autorevole e senza un volto lo scrittore, intenti a violare il vero desiderio di ogni grande scrittore che è quello di sparire. L’amicizia, la conoscenza o la confidenza, nella concitazione rituale, vengono deposti per lasciare il posto enunciati in cerca di oggettività. Tuttavia ci si accorge, a intervista conclusa, che si è accennato un ritratto, in forma di catalogo, dove la malinconia e quella dimensione salvifica della memoria che è la letteratura fanno dello scrittore, ovunque e comunque, un esiliato irriducibile, perfettamente a proprio agio solo nell’esilio della scrittura.

Ho incontrato Vincenzo Consolo e ne sono diventato amico molti anni fa per il tramite di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, per parlare di poeti dimenticati o rimossi dalla civiltà letteraria del consumo, poeti della luna. Ci possono essere mille ragioni per il senso di un incontro o per il suo bilancio. Di quel primo incontro ricordo il piacere immenso di poter riferire la letteratura a ciò che sta fuori dalla letteratura, la possibilità di insediarla al centro di un’emozione da fronteggiare e distanziare senza tradirne il senso sacrale misterioso. E ricordo anche una certa cupezza del momento, identica, per ragioni diverse, al momento in cui si è svolta questa intervista, che essendosi teatralmente compiuta in due tempi, a distanza di poco più di un anno, presagiva nella latenza di certi motivi quanto è successo in Italia, ciò che rende oggi il nostro Paese irriconoscibile, sfigurato e, se possibile, persino più smemoratamente cialtrone. A segnare il tempo, da Nottetempo, casa per casa, vincitore del Premio Strega nel periodo del nostro primo incontro, Consolo è approdato nel suo personale viaggio a L’olivo e l’olivastro, vale a dire dalla malinconia del racconto al furore di chi sa che nel disastro le strategie del racconto non sono più bastevoli e la letteratura senza puntelli può affrontare il rischio di nuovi confini, di un nuovo tono di voce.

ll malinconico, con la sua segreta e dolorosa interiorità, è un esiliato in potenza. Leggendo i tuoi libri, e in modo accentuato Nottetempo, casa per casa, si assiste a uno sfaccettarsi di figure del dolore, malinconici più o meno furiosi, con gli altri, con sé. L’epigrafe della Kristeva, che attribuisce alla malinconia il ruolo del sacro nella nostra epoca, sembra avvertire che nei cicli della Storia I conti possono farsi e disfarsi incarnandosi nella singolarità del male, del dolore umano…

“Hai detto bene. Il protagonista di Nottetempo è un esiliato che rompe a un un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre a esempio

che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna una figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura dominata da un dolore insopportabile che equivale a un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa. Ma c’è un altro grado di follia, sotto forma di mania di persecuzione, di paranoia, che vive nel romanzo la sorella del protagonista, Lucia. E ancora un terzo grado di malinconia, di dolore, quello del personaggio intravisto nella penombra della stanza, racchiuso in un gesto meccanico, nello sgranarsi rigido di un rosario in cui la vita si pietrifica. Ho voluto rappresentare la follia dolorosa e innocente che questa famiglia ha pagato forse per una ragione atavica, esistenziale, di razza, e per ragioni storiche. È una famiglia infatti che ha attuato un passaggio, un salto di classe. La provenienza reale è quella del proletariato contadino. Li ho chiamati Marano, da Marrano, rinnegato. Si portano dietro un coagulo di razze. Oltre a essere ebrei il narratore dice che dentro, attraverso la madre, filtra una memoria di nomi greco – bizantini, spagnoli, insomma il crogiuolo della civiltà mediterranea. Ed è come se assommassero nel loro destino il peso di tanti esili diversi. Pagano il prezzo di un cambiamento, di un passaggio di classe: da contadini che erano diventano piccoli proprietari terrieri per un atto di generosità compiuto da un uomo a sua volta folle, in un gesto che è di distacco dalla propria classe. È il personaggio di Don Michele, lo zio dell’antagonista del romanzo, una figura tolstoiano, anch’egli esiliato. Un’antecedente di questa figura di autoesiliato in una famiglia potente lo si trova in De Roberto e nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Nei Viceré è uno degli Uzeda che, folgorato dalla lettura dell’Isola del Tesoro di Stevenson, si esilia in una campagna dove fa il falegname. È chiamato dai parenti il Babbeo. In Pirandello è tratteggiato in Don Cosmo Laurentano, ritratto d’eccentrico che si confina nella tenuta della contrada Valsanìa. Lì il personaggio è quello di uno studioso d’astronomia; e in qualche modo lo cito nel romanzo in quel passaggio in cui le stelle sono chiamate “i chiodi del mistero”. Dicevo che questa famiglia Marano, nel proprio destino di follia, svela una condizione che è nostra, l’approdo a una informe identità alienante, ricca, abbiente, in continuo movimento nel proprio delirio. Lo sfondo storico è quello della follia ideologica, collettiva, gli anni Venti dell’avvento inquietante del fascismo”.

Insomma, ci sono le fughe nella follia che non possono raccontarsi e quelle che possono trovare forma nel racconto. Il silenzio, l’afasia o l’esilio della parola chiara, delle ragioni per fronteggiare il dolore, del dolore che sa raccontarsi senza altri compagni di strada che la propria solitudine. In mezzo c’è la falsificazione, i contorcimenti e le parodie dell’ inautentico: Crowley, Don Nenè, D’Annunzio, Schicchi…

<< Si, è l’inautentico,la perdita della veritàil decadentismo. Nel romanzo ho usato molto la disgressione.Queste digressioni hanno un po’ la funzione del coro. In una di queste digressioni, quando c’è l’episodio Crowley conil suo seguito adorante che scende verso la spiaggia e sorprende il pastore Janu con la ragazza, questa discesa notturna con le torce in mano ricorda al narratore certa pittura vascolare in finzione, la sostituzione della verità con una sua rappresentazione, l’incidersi di una cesura, di un distacco definitivo dalla verità.  Quando il protagonista si allontanerà dal paese in  una sorta di eco dell’abbandono di Renzo e Lucia,  c’è la dolorosa consapevolezza di questa frattura insanabile e inaccettabile. La sua gente si allontanata dalla realtà, quella realtà con cui  intratteneva un rapporto armonico. E’ uno stato di sfasamento, di follia generale in cui gli è possibile volgere le spalle al paese senza rimpianto>>.

L’altro scacco viene subito dalla nozione mitica di ragione …

<< Sì, la ragione viene sconfitta.  Un barlume resta in quello che è Il deuteragonista del racconto, Cicco Paolo. C’è un dialogo significativo che s conclude con questa battuta: “ la fantasia è più bella della ragione “.  L’ irrazionale, la violenza, la falsificazione sono le modalità cui la ragione viene sconfitta, e dalla sconfitta fa capolino la follia. Questo  tema della follia d’altronde mi ha accompagnato in tutti i miei libri. Nel segno della follia si apre libro che non a caso si svolge anch’esso a Cefalù,  Il sorriso dell’ignoto marinaio. La prima azione di quel romanzo è un gesto di follia rintanato n antefatto in un’ azione  in limine alla narrazione, che in qualche modo la prec ede e l’orienta. E’ la comparsa di Catena, che sfregia quel quadro che sta li a simboleggiare il discorso della ragione, acquattato nelle pieghe di quel volto. Dalla ragione può uscire dal basso per corruzione, in modo speculare al gesto della ragazza, ed è Il caso del monaco pazzo personaggio della corruzione e della disgregazione che compare nel terzo capitolo in cui si narra dello stupro praticato nei confronti di una ragazza morta, o dall’alto, come fa Caterina sfidando la creazione, l’atto creativo. Lei è un’intellettuale, una che ha letto gli illuministi napoletani francesi  protosocialisti, e che ha vagheggiato una sorta di nuovo assetto sociale: la sua uscita dalla ragione è nelle pieghe dell’ utopia politica. In questo libro, invece, che accanto al  Sorriso un dittico, c’è la sconfitta, lo scacco storico – sociale: e l’unica luce è innocenza dell’umanità è la scrittura come possibilità di raccontare il dolore>>.
Questa possibilità di raccontare il  dolore ha modelli e antecedenti in cui si mescolano letteratura e solchi personali inevitabilmente …
<< In questo  libro c’è il rovesciamento di un rovesciamento. Quando  parlavo del Sorriso del Ritratto d’Ignoto di Antonello,  dicevo di uno segnato dal dolore della conoscenza. Avevo rovesciato la cognizione del dolore di Gadda.  Qui, in Nottetempo c’è veramente l’esposizione della conoscenza del dolore, non più il dolore della conoscenza >>.
A un certo momento del libro il protagonista il parla così: << Non so adesso … Adesso odio il paese,l’isola odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole … odio finanche la lingua che si parla >>. Mai adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui ci sono luoghi cui dedicare una  presunta fedeltà…
<< Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi  c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare. C’è risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non parlo solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della  lingua è chiaro, qui. Io ho sempre cercato di scrivere in un’altra lingua,ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di uscire dai codici, il  disobbedire ai di codici>>.
Questa  disobbedienza ai codici, nelle cose che scrivi, ha però un segno opposto  a quello dei percorsi linguistici dell’avanguardia, nei cui confronti hai sempre provato insofferenza e ostilità …
<< Pasolini, nelle sue invettive, ha detto tutto quello che si può dire contro l’avanguardia. Bisogna distinguere tra sperimentazione e avanguardia. lo credo che ogni vero scrittore dovrebbe essere sperimentatore dentro l’alveo di una tradizione. L’avanguardia è qualcosa di stupidamente in quietante, che io rigetto. Mi sembra un azzeramento e una ricostruzione artificiale, un atto di violenza. Ne ho avuto sempre Il sospetto,non  solo dal punto di vista letterario, ma  direi principalmente in senso etico, o se preferisci politico. Gli azzeramenti preludono sovente alla mediocrità o all’orrore. La tradizione non si può cancellare, e chi  pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa  la vera funzione della letteratura , nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria >>.

C’è una figura fondamentale nel tuo tragitto. Per rispetto alle origini più o meno casuali degli incontri mi piace ricordare che è una persona che ha fatto da tramite al nostro primo incontro che molte volte abbiamo frequentato insieme. La distanza di generazione e Il momento in cui l’ha incontrato e si è stabilita un’amicizia fa sì che io lo consideri , con tutte le zone ambigue del termine, un maestro. Per te potrei dire con più forte ambiguità che si delinei, cosi lontana nel tempo dei tuoi primi passi nella letteratura e cosi ingombrante, come un  figura paterna. Parlo di Leonardo Sciascia.

<< La Presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in  un certo senso, per un tratto della mia attività, di  concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se si vuole delle vacanze. Perché lui aveva una metafora certa – era la sua impostazione letteraria della vita storico-sociale del nostro paese. I Suoi libri erano tutti metafore e letture della contemporaneità politica scavate in una scrittura di tipo illuministico, dentro le strutture del giallo. La sua azione di scrittore civile consentiva  a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e  Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e Italiana. In quel momento  mi sono  accorto che avevano tirato un respiro di sollievo volevano sbarazzarsi della sua forza letteraria, che avevano fretta di fare i conti, di neutralizzarne l’eco. Il fenomeno paradossale è nel fatto che coloro che stanno producendo la barbarie , i detentori della comunicazione, i giornalisti scrittori, si sono sentiti liberati della presenza di uno che batteva sul loro stesso terreno d’investigazione loro, con ben diversi risultati letterari,  tra i più alti della letteratura contemporanea. Anche la mia presenza li irrita, proprio perché invece non combatto nello stesso terreno. I miei  libri, che sono anch’essi profonda mente metaforici, vengono invece attaccati sul piano formale,  mentre cresce il  fastidio per questa  querimonia sicula che continua ancora. Questa  voce siciliana che non si estingue li irrita>>.

Qual è Il tuo rapporto con la società letteraria, ammesso che ne esista una, con la più giovane leva di scrittori?

Una società letteraria non esiste più. Ai giovani  rimprovero la facilità con cui si sottopongono alla proposta omologante delle aziende editoriali . Lo scrittore come oggetto coltivato in serra è una evidenza. Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie. Lo scandalo che alcuni hanno sollevato intorno alla Storia della letteratura di Giulio Ferroni è consequenziale alle dimensioni di libertà di quel libro, libertà dalle aziende che invece riflettono il loro messaggio sulla cosiddetta critica militante dei giornali. In questo senso l’Università come luogo di ricerca di spiriti liberi può ritrovare una funzione liberatoria.

Perché nutri un interesse cosi esclusivo per la Sicilia?

Prima o poi finirò anch’io per scrivere un mio Per le vie. La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’e, ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce sino in fondo, è connaturato un uno stile che ingloba la memoria  attraverso il linguaggio. Un linguaggio si abita, nostro malgrado. Anche se non ho avuto la stagione mondana di Verga, a Milano mi sono ritrovato Nella sua stessa condizione di spaesamento, a contatto  con un mondo che non riuscivo capire. Verga lo scrittore  gigantesco c è, nasce da una regressione da una  paura, da un’impossibilità. Anch’io quando  mi sono trasferito a Milano avevo intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capii che per farlo avevo bisogno della distanza della metafora storica. E’ quello che acutamente ha sottolineato come peculiarità del mio modo di scrivere un critico come Cesare Segre: è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente.

Che cosa ti interessa della letteratura Europea  contemporanea?

Quando parliamo di letteratura dobbiamo circoscrivere discorso alla narrativa; la poesia ci porterebbe altrove. La narrativa resiste nei luoghi periferici, non colonizzati, se vuoi nei  terzimondi. Nel mondo post-industriale essa è  seriamente minacciata da un linguaggio che somiglia alla letteratura, un po’ come accade in politica: appaiono linguaggi copia, surrogati,imposture. Milan Kundera è uno degli scrittori più interessanti e di resistenza. I frutti più vitali del romanzo contemporaneo sono legati infatti a questo senso incombente di fine. La poeticità sta sparendo dal mondo e da solo il romanzo può raccontare questa fine. Una certa vivacità la si trova anche nella letteratura araba, come sino a qualche anno fa la si trovava nella letteratura sudamericana.
Il cosiddetto crollo delle ideologie ha ridefinito Il ruolo dell’ intellettuale, o piuttosto quella figura e quel ruolo sembrano stagliarsi piccoli e sperduti in un paesaggio in continuo cambiamento. Senza grandezza senza avventura

L’intellettuale ha avuto sempre angoscia di rimanere fuori dalla storia. Angoscia della cancellazione, oscillando fra opportunismo, cinismo ed entusiasmi. Questa storia del crollo delle ideologie è in conflitto con i nodi irriducibili dell’esistenza: il povero e il ricco esistono senza possibili equivoci e il postulato ideologico che s’è sostituito all’ideologia – la ricerca della felicità e del godimento –   è continuamente attraversato da un’inquietudine insanabile. Ingiustizia, Invenzione di nuovi confini, ritorno dell’orda tribale poveri che premono ai  cancelli, enormi frange di gente che si sposta alla ricerca di mezzi di sussistenza: il panorama reale che viene incontro a noi è questo. Le ideologie dei conservatori e degli esteti non mi sono mai piaciute. Preferisco l’ideologia degli esiliati che alita sul nostro benessere.

Il fatto indubbio è  la continua esibizione di aspetti miserabili della vita intellettuale.

E’ la televisione, la bomba atomica permanente che distrugge i linguaggi dopo avere già avuto distrutto la poesia del cinema. Attraverso la televisione si attua una perdita continua di pietas. E’ Il campo di sterminio della coscienza e dell’intelligenza del dolore. Ne ho orrore, e una certa e sinistra vi ha concorso a pari merito con il dilagare tronfio della conservazione.

L’olivo e l’olivastro un libro Importante, un libro indignato che fruga in quel male che la televisione cerca di divorare quasi sempre in modo avvilente,perfettamente intercambiabile con la posizione opposta.  E un libro dolente che piega la scrittura a un un tono che sta dentro e fuori dalla letteratura senza rinunziare alle tensioni del linguaggio muovendosi a zig zag Tra ciò che resta di un luogo, la Sicilia, dopo e durante il disastro. Il tono e quello della disillusa e intelligenza evocata dal viaggiatore del libro, disperata ma non rassegnata. Almeno cosi mi pare di averla avvertita, o mi sbaglio?

Ricordo una drammatica fotografia scattata da Ferdinando  Scianna dopo Il terremoto della valle del Belice; si vedeva un uomo sopra un cumulo di macerie di quella che forse era stata la sua casa, lo sguardo, un pugno chiuso rivolti contro il cielo; certo è l’immagine di un’imprecazione, di una bestemmia mossa dal dolore, dalla disperazione.

Ne L’olivo e l’olivastro il viaggiatore tra le rovine di Sicilia. o l’io che narra, se vuoi, è mosso, negli urli, nelle invettive, dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione.

Ti è capitato sempre più spesso di dover far sentire la tua voce pubblicamente, di rimettere nelle mani di chi te  l’aveva consegnato il mandato di Presidente di un teatro, a esempio. Perché  il ruolo dell’intellettuale in Sicilia rischia di essere sempre più di dimissionario o di scomunicato?

Ho accettato quell’incarico per ingenuità, con l’illusione che cosi avrei potuto portare sul piano della prassi  un contributo immediato alla cultura palermitana. Delusione e quindi tristezza. All’intellettuale non è ancora permesso nessun tipo di rapporto col potere.

Quali sono le cose che ti irritano maggiormente nelle vicende di potere in Sicilia e qual è lo spazio d’azione dell’Intellettuale? Parlo di uno spazio d’azione comune, che sfugga alla barbarie della duplicazione della guerra civile che si nota nelle relazioni tra intellettuali e a tutti i livelli della vita sociale.

Mi irrita l’aggressione costante che i mediocri mettono in atto nei confronti di persone o enti che hanno saputo realizzare qualcosa di valido: l’aggressione alla casa editrice Sellerio, l’unico fenomeno culturale vero venuto fuori dal l’Isola dal dopoguerra a oggi, è un esempio al di là di ogni vicenda politica o giudiziaria. Gli aggressori dovrebbero sentire una grande vergogna. Azione comune? Com’è difficile! Siamo, noi Intellettuali vanitosi e superbi, ferocemente individualisti, distruttivi e autodistruttivi .

Qual è il libro che ti racconta meglio e perchè?

Tutti: li considero capitoli di un unico libro. Ma più strettamente legati tra loro che più mi raccontano sono ll Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa timo libro casa per casa, e quest’ultimo libro L’olivo e l’olivastro
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Nuove Effemeridi rassegna trimestrale di cultura

13313591_10208804237936395_453919843_oDa Nuove Effemeridi
Vincenzo Consolo
nella sede del giornale ” L’ora ” di Palermo
foto di Salvo Fundarotto

Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco,come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E Sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare Infine, in suprema forza, è lo scriver d’un viaggio, e d’un Viaggio nella Terra del passato […]  Mi chiedo: sogno, chiuso nella mia casa deserta di Milano o egli è vero che io sto viaggiando,  che mi trovo ora qui, sul Suolo della celebre Segesta?
Retablo

A dispetto delle innumerevoli, multiformi cassandre che vogliono l’universo letterario ormai succube di una comunicazione dominata dalla piattezza dell’immagine, la scrittura di Vincenzo Consolo continua a stupire e a imporsi. Probabilmente perchè, diversamente da tanti scriventi d’oggi, Consolo è scrittore nel senso pieno del termine, artista che fa del proprio lavoro sul linguaggio un lavoro attraverso il linguaggio, artigiano che inventa una particolare relazione tra mezzi e fini, espressione e contenuto, parole e cose sempre e comunque reversibile. Stabilire quale delle due facce del segno – nei libri di Consolo – prevalga sull’altra vuol dire negare l’esistenza del segno, la compiutezza dell’opera o, se si vuole, la stessa creazione letteraria. Consolo non è scrittore di cose, così come non è scrittore di parole, per il semplice motivo che in lui le parole s’impongono come cose e le cose si leggono come parole. Ecco perchè, quando gli si chiede ragione di un suo presunto barocchismo, risponde senz’altro: “è il mondo a essere barocco, io non faccio che rappresentarlo”. La figura e l’opera di questo inattuale fortemente impegnato nel presente non possono, pertanto, non stimolare discussioni e polemiche, perplessità e distinguo, odi e amori, la cui visceralità e il cui entusiasmo, peraltro, incessantemente traspaiono nelle pagine di libri come Il sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo o Nottetempo. Difficile, forse incongruo, andare in cerca di etichette e di formule, di poetiche e d’influenze: se la letteratura sfugge il senso, è perché lo produce di continuo, eterna germinazione di visioni e idee, di affetti e problemi. Se c’è un itinerario sotteso all’opera consoliana, con trasformazioni e revisioni, determinazioni e tentennamenti, è prematuro definirne forme e motivi, non foss’altro perchè il tracciato è tutt’altro che concluso. Per riconoscere la strada che sì è percorsa, occorre conoscere la tappa finale: cosa che possiamo giurarlo, neanche Consolo può per adesso – e speriamo per molto – indicare. Questo fascicolo monografico di Nuove Effemeridi – interamente dedicato, appunto, a Vincenzo Consolo – vuole rappresentare tutto questo. Esso non è soltanto un doveroso omaggio a uno dei pochi scrittori che, pur essendo una delle presenze più significative nella cultura contemporanea, è riuscito a sfuggire al marketing letterario dei giorni nostri.

Vuole soprattutto rendere testimonianza dell’insieme variegato di letture critiche, posizioni, passioni, questioni, ricostruzioni e rigetti che le sue opere hanno suscitato, dal 1963 – data della pubblicazione de La ferita dell’aprile – alla fine del 1994 con interruzioni che, a ben riflettere, si  rivelano ancora più significative degli ostinati proseguimenti.  Apre il fascicolo un inedito di Consolo, “29 aprile 1994 : cronaca di una giornata”,dove non a caso l’immaginazione linguistica della scrittura s’intreccia inesorabilmente con gli affetti, i dubbi ei trasalimenti indotti dal mondo attuale. Anche l’intervista, rilasciata a Roberto Andò, insiste sui nessi che legano e al contempo separano l’ovattata ricerca letteraria e l’enfasi dell’indignazione per il presente, la fuga nel passato e il valore attuale attuale della memoria, il candore e lo scetticismo, la poesia e la ragione.
Le quattro letture che seguono prendono in considerazione i principali aspetti ei diversi momenti dell’opera letteraria di Consolo. Il saggio di Salvatore Trovato sviscera a fondo le forme e le funzioni  del linguaggio utilizzato nel Sorriso e in Lunaria, mostrando come la migliore ricchezza inventiva nasca sempre sullo sfondo di alcune tradizioni (sia colte sia popolari) preesistenti e spesso dimenticate. L’articolo di Cesare Segre ricostruisce i modi in cui il tema della Luna – attraverso Leopardi, Pirandello e Piccolo giunge sino a Lunaria, in cui, trasformandosi le forme comunicative, mutano conseguentemente le emergenze semantiche. L’analisi semiotica che Gianfranco Marrone e Stefano Montes conducono sul primo racconto di Le pietre di Pantalica rende conto, a sua volta, della maniera in cui, parallelamente alle forme linguistiche,anche le tematiche e, in generale, i contenuti narrativi subiscano un complesso trattamento di tipo “ espressionista “. L’Intervento di Salvatore Mazzarella, infine, rilegge pressoché l’intera opera di Consolo alla luce del motivo del viaggio, in quell’intreccio tra vita e letteratura evento e forma, olivi e olivastri che ne è Il segno di riconoscimento.
La sezione immagini propone una selezione di fotografie di Giuseppe Leone che ripercorrono i Luoghi delle opere consoliane. Segue un Lungo archivio, suddiviso in tante sezioni Quante Sono le Principali opere di Consolo (ferita, Sorriso così etc), in cui vengono ripubblicati alcuni studi o articoli apparsi su riviste e quotidiani italiani e stranieri. Il quadro che emerge e nello stesso tempo variegato e compatto: talvolta  interpretazioni si rincorrono, ma più spesso s’oppongono, finendo per trascinare l’opera consoliana ora  sul versante della sperimentazione  linguistica ora su quello dell’impegno sociale e politico. Basta articolare Il complesso intreccio delle diverse valutazioni, sovrapporle e miscelarle, per trovare forse, una delle più conducenti direzioni delle letture a venire. Chiudono il numero un testo poco noto dello scrittore sulla figura di Jacopone da Todi e una bibliografia degli scritti di e su Vincenzo Consolo

La figura e l’opera

Gli scrittori si dividono in scrittori con la testa e scrittori senza testa (naturalmente ci sono anche gli scrittori con mezzatesta). Al di là dello scherzo voglio dire che ci sono due modi di essere scrittore: scrittore di tipo logico-razionale, di pensiero e scrittore di tipo irrazionale-intuitivo, di sentimento. Più semplicemente la distinzione è questa: scrittore tout-court e narratore.

È una distinzione, questa, che rimbalzando da un’intervista rilasciata nel 1982 (su “L’Ora”) ad una pagina narrativa, ci aiuta a segnalare una delle componenti che alimenta e connota il fare inventivo di Vincenzo Consolo.

Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perchè il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. Grande peccato, che merita una pena come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo […] Questo salto mortale si chiama metafora […] ma la metafora si sa si esprime attraverso il racconto.

Il dilemma che muove la riflessione del narratore santagatese (e che ritroviamo al centro del racconto Un giorno come gli altri) relativo alla distinzione tra lo scrivere e il narrare, è certo da ancorare ad un pronunciamento politico e ideologico che ha indotto l’autore del Sorriso dell’ignoto marinaio, al pari di scrittori come Moravia o Pasolini o Sciascia, a considerare l’esercizio scrittorio uno strumento capace di incidere sul reale in senso conoscitivo e trasformativo. Di qui la scelta di una scrittura, il cui progetto è quello di fondere, nella propria articolazione, la complessità delle cose e le vibrazioni affettive e razionali.

Il ponte ideale di cui si avvale Consolo per collegare il mondo esterno alla sensibilità dei protagonisti, il passato al presente, è un elemento di antico retaggio culturale e per di più denso di valenze poetiche: la memoria. È questa che concede al narratore la possibilità di entrare negli spazi del narrabile, consentendo la metamorfosi dell’accaduto e del vissuto in figure dotate di forza metaforica.
E costruzioni metaforiche, dense di tensione intellettiva e di fascino poetico, sono i suoi romanzi a cominciare dai titoli: La ferita dell’aprile, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Lunaria, Retablo, Le pietre di Pantalica. Metafore narrative attorno a cui ruotano, come cardini ideali dell’invenzione consoliana, oggettività e finzione, poesia e coscienza critica. Consolo ci appare quindi impegnato, da un lato, a spiegare il senso della propria adesione alla realtà e alla storia, dando rilievo a tensioni conoscitive o di denunzia, e dall’altro intento a marcare la autonomia dell’immaginazione e dello scatto simbolico, che rechino al proprio interno la carica utopica del narratore.
Scrittore in parte dimidiato, forse, ma autenticamente siciliano nel declinare l’antica dialettica isolana di ragione e mito, di esistenza e storia, elabora una prosa con la quale tenta di rappresentare gli aspetti problematici del reale e delle idee. Peraltro le spinte contrastanti della produzione consoliana sono, in parte, da riportare ad un’area geocultu-rale e storica che si presenta ab origine striata di chiaroscuri. Egli infatti è nato e cresciuto in una zona, Sant’Agata di Militello, che, per sua definizione si configura come «incerta, ibrida, di confluenza tra la provincia di Messina e di Palermo». Terra di confini fra ambiti naturali e storici, – la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale -, ove si fronteggia-no, ma spesso si intersecano in maniera viva e feconda di sviluppi, tradizioni differenti. «Zona di esistenza, di eventologia quotidiana» – ha scritto il nostro autore -, ma anche di tendenza al mito quella orientale, mentre zona implicata ed innervata nella storia quella occidentale, connotata per di più da frementi dubbi sul valore stesso della inchiesta razionale, come Pirandello e Sciascia ci hanno insegnato.
L’insularità di Consolo è da vedere nella particolare disposizione ad ibridare componenti diverse senza chiuderle in percorsi definitori, ad utilizzarle, anzi, come chiavi di una personale sperimentazione stilistica e tematica, entro un dettato narrativo composito.
Dai suoi romanzi emerge il profilo di un intellettuale al bivio fra saggistica e letteratura, dello scrittore meridionale sradicato ma attento ai problemi della propria terra, deluso dalla realtà ma non rinunciatario, pronto, anzi, ad intervenire dialetticamente; «di un isolano, insomma, che unisce» – come ha scritto Tedesco per Bruno Caruso – «un continuo sognare all’assiduo meditare».
Parafrasando quanto Consolo ha scritto a proposito di un poeta da lui molto amato, Lucio Piccolo, possiamo affermare che anche egli, come il poeta orlandino di adozione, è portatore di «due anime in petto»: una greca-messinese’ e una ‘spagnola-palermitana’. L’una pervasa di un gusto per la natura dagli aspetti solari e luminosi, pronta agli scatti e alle fughe della fantasia, l’altra attenta alla realtà degli uomini e alle vicende storiche, ma incline al barocco delle forme espressive, all’ombra e al mistero che si celano dietro ogni forma o evento razionalmente indagati.
Che poi l’immagine delle «due anime in petto» si avvicini a quella vittoriniana delle «due tensioni» ci rende avvertiti del modello intorno a cui gravita la formazione del nostro autore. Modello, quello di Vittorini, che in Consolo sorreggeva, all’altezza degli anni Cinquanta, anche una privata tensione alla fuga dall’isola natia, e motivava la scelta di una scrittura che, pur orientata sulla propria terra, passasse attraverso il filtro della distanza memoriale.
Consolo riproponeva l’antica diaspora degli scrittori siciliani che si allontanano dalla propria isola per insoddisfazioni e scontenti, e per il bisogno di inserirsi più concretamente nei canali di produzione. E in tal senso la Lombardia, con le sue tradizioni di impegno civile di tipo illuminista, gli si presentava come la terra ideale in cui placare le proprie urgenze umane e culturali, e riflettere sui modi e i temi che avrebbero connotato la sua attività.

A ridosso della prosa di Consolo scorgiamo quindi la lezione del realismo lirico-fantastico di Vittorini, nonchè di Pavese e Calvino, le cui opere, non condizionate da rigida osservanza ai dettami del neorealismo, nutrivano nel giovane scrittore una radicata esigenza di libertà inventiva. Ma nel laboratorio dello scrittore santagatese sentiamo che molto ha significato il modello di prosa di quegli scrittori di ‘cose’ che da Verga a De Roberto, da Pirandello a Sciascia, avevano privilegiato uno scavo lucido e disincantato del reale. Senonchè proprio la scelta di una narrazione che declinasse realismo ed immaginazione, storia e pensiero, imponeva al nostro autore la ricerca di una strada personale, pur nella accettazione dei grandi modelli che ne avevano pilotato la formazione. E il timbro personale si coglie, sin dal primo romanzo, nella vigile attenzione che Consolo mostra per l’aspetto linguistico in cui si può sedimentare un atteggiamento ideologico contestativo, ed anche una carica immaginativa che modifichi i moduli espressivi già realizzati. Così, se pure nella Ferita dell’aprile vi è un tono epico-lirico d’ascendenza vittoriniana, ed un’attenzione alla realtà popolare che rinvia al Verga, è già in quelle pagine una scelta di realismo pluridirezionale e metaforico che mostra l’originalità del giovane scrittore.
La metafora narrativa, così cara all’autore, diviene non solo la spia della sua forza inventiva, ma anche il supporto poetico di una scrittura che – per dirla con Calvino – abbia «una presa attiva nella storia», e mantenga alta « la coscienza acuta del negativo», cioè lo scarto critico del pensiero sugli avvenimenti. Strumento privilegiato con cui operare una vigile ed elegante trasfigurazione della realtà effettuale.
Il primo romanzo di Consolo viene pubblicato nel 1963, in anni di profonde trasformazioni sociali e culturali. Lo scrittore ha certo un orecchio sensibilissimo alle sperimentazioni compiute in quel periodo sul terreno del linguaggio e dello stile, ma non rinuncia alla lezione narrativa otto-novecentesca, con la quale anzi intende misurare le proprie energie creative. Costruisce un romanzo d’ambientazione popolare col quale evitare da un lato le secche di certo neorealismo populista postbellico, e dall’altro le fughe evasive dalla realtà. Il romanzo passa però sotto silenzio, forse perchè appare anacronistico, in anni di avanguardistica scomposizione della trama romanzesca, quel suo richiamo evidente alla tradizione, e non ci si accorge che l’operazione di Consolo era proprio quella d’innestare sul tessuto realista una personale elaborazione di stile. Sul piano tematico, con La ferita dell’aprile egli intende raccontare l’incidenza della Storia in una realtà minore e marginale, senza tralasciare quel carico di vissuto e di particolari umani che spesso si ignorano; trasformandoli anzi in «occasioni poetiche». Una proposta letteraria che si avvicinava in modo significativo agli intenti di un altro artista siciliano, Bruno Caruso, il quale, nello stesso arco di tempo, poneva al centro della propria invenzione «una realtà minore […] riproposta da una sensibilità e da un’intelligenza che mentre si accorge di poterne ancora fare esperienza giornaliera, subito la decanta e la filtra come da fondo oscuro di lontane e ora affioranti memorie. La validità di questa proposta […] era nell’ancora accertabile verità di questi aspetti dell’esistenza, sentiti tuttavia quali occasioni poetiche» (Tedesco). E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin dal primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio. Poli interscambiabili, a ben guardare, di una scrittura che viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sè il compito di narrare quanto è andato disperso. Ma memoria anche di modelli letterari, rinascimentali o settecenteschi, di viaggi fantastici e filosofici, (basti pensare a Lunaria e Retablo), che sarà sempre attiva nell’universo inventivo di Consolo.
E il viaggio, metafora pregnante del rapporto che uno scrittore siciliano intrattiene con la propria terra, si compie ora nei terreni dell’autobiografismo, ora nelle terre del pubblico, del quotidiano e del favoloso, mescidati secondo percentuali e proporzioni differenti da un romanzo all’altro. Figura insistita della prosa consoliana, è il luogo in cui si aggregano funzioni narrative e referenti simbolici. E libro di memorie che si dipanano in un viaggio a ritroso è La ferita dell’aprile, il romanzo che segna l’esordio letterario dello scrittore santagatese.
I ricordi del protagonista si presentano come piccoli intarsi entro un quadro, il cui sfondo è la realtà storica del secondo dopoguerra in Sicilia, con i problemi antichi di miseria ed arretratezza, e i recenti contrasti sociali dovuti al nuovo assetto politico.
Consolo in queste pagine, intreccia il registro del realismo, rispettoso delle leggi della verosimiglianza e della trama narrativa, con quello del fantastico ove le leggi della causalità e razionalità vengono trasgredite a favore della libertà simbolica. Ne scaturisce una prosa originale che fa slittare l’andamento mimetico della narrazione verso un dettato figurativo:

Randisi è un paese nero, le case di lava senza intonaco, le chiese pure, nera l’Etna tranne la cima con la neve. Girammo e girammo, vicoli ferri gonfi dei balconi, donne incinte, le mille reti, le sorbe, fichi d’India sulla pala come dita risipolate sulla mano, ghirlanda di frutta per gli archi dei balconi e le finestre come nei quadri scuri delle Madonne nelle chiese vecchie.

Il motivo del viaggio, in questo primo lavoro, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’ionarrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che sia conquista di una propria misura espressiva.
Non a caso uno dei tratti che connota la fisionomia interiore del giovane protagonista della Ferita dell’aprile, è proprio l’adolescenziale incertezza espressiva di chi, sradicato dal paese d’origine a causa della morte del padre, è costretto ad immettersi in un altro tessuto sociale, in una diversa area linguistica.

Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione. Di’ un po’ non sarai mica settentrionale? E le risate di que’ stronzi mi fecero affocare.
Glielo dissero che ero uno zanglé, che avevo una lingua speciale. Don Sergio volle sapere e fece la scoperta che poteva essere colonia francese, che zanglé storpiava lesanglè, non inglesi, ma normanni. Ma non sono neanche uno zanglé, un civile di casino, facce smorte e pertiche di faggio, zarabuino, se ci tiene tanto.

Tema, questo, che tornerà in uno dei racconti delle Pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, a siglare la permanenza feconda di un sentimento forse autenticamente sofferto, cioè il disagio per una diversità linguistica. Ma si può anche pensare che proprio siffatta coscienza abbia acuito la sensibilità dello scrittore, maturando in lui quella profonda attenzione al linguaggio, destinata, come è noto, nelle sue varietà idiomatiche e colte, a diventare la peculiare cifra stilistica di Consolo.
La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente che lungo un itinerario di sentimenti ed entusiasmi, gioie e dolori, approda alla conoscenza della solitudine e della conflittualità dell’esistenza. Lo snodarsi dei ricordi non solo scandisce l’educazione del protagonista, ma evidenzia nel contempo un variegato contesto socio-storico. Il modello stilistico verghiano, di una coralità che esprime se stessa tramite l’idioma dialettale, viene sì rimesso in circuito dallo scrittore santagatese, ma entro un tessuto narrativo che è ormai quello novecentesco della memoria autobiografica, in cui si fondono, con agilità e freschezza, verosimiglianza e punto di vista del soggetto narrante. L’aderenza alle forme espressive proprie del paese in cui è ambientata la storia non produce effetti di completa mimesi linguistica e sociale, giacché sono presenti scatti fantasiosi, di imprevedibile esplosione, che svelano la propensione all’ironico e al poetico della prosa consoliana.

Don Sergio principiò con le cocuzze: allora quant’erano? Il pegno, la penitenza, tre pater ave e gloria stasera appena a letto, che è confessionale? a chi riesce a contare i miei bottoni gli do le caramelle. E Tano cominciava dal primo sotto il collo premendo con il dito, ma poi, sul più bel-lo, don Sergio scuoteva e il numero saltava: addio, si ricomincia […].Il Mùstica forse non sentì, tirò avanti come un condottiero, di quelli delle storie d’Omero. Sul lato che il sole tramontava, lontano entrò nel mare assieme al suo cavallo, si fecero il bagno, la spuma che saltava, bianca e risplendente per il sole. […] — Salta giù, subito! Pazzo, pazzo sei, allo istituto ne parliamo. Fila, vatti a vestire, ti viene una bronchite.Le risate, le mutande bagnate appiccicate, gli si leggeva sano, per giunta che Filippo non scherzava.

Lo sguardo memoriale del narratore e quello reale dell’adolescente che osserva e filtra la realtà degli adulti (con i suoi problemi e contrasti), conferiscono alla narrazione un timbro favoloso e insieme vivido. Peraltro, sul piano narrativo, è proprio il filtro della memoria del giovane protagonista che agglutina una realtà che altrimenti resterebbe frantumata in segmenti bozzettistici. L’autore tenta di far vivere i frammenti di una collettività marginale quale può essere quella di un paese del sud senza che alcuno dei personaggi, tranne il narrante, sia posto come centro strutturante della narrazione.
E questa, spesso, segue moduli para-tattici: i più idonei a cogliere il fluire della vita, delle microstorie nel loro farsi, nonchè i pensieri del giovane protagonista che quella realtà trapunta con i filamenti sottili di una sensibilità in crescita. Il dettato narrativo, ora disteso ora concitato, segue ritmi di un’epicità raccolta e schiva. Ma se «l’epica moderna non conosce più dei – come ha scritto Calvino – l’uomo è solo e ha di fronte la natura e la storia», con le quali istituire un rapporto di interrogazione. Ragione per cui non sono più le grandi azioni umane la forza motrice della narrativa, ma i segmenti di realtà che coinvolgono la memoria e la partecipazione critica del narratore: i bisbigli e i piccoli discorsi dei ragazzi orfani, che trascorrono quasi l’intera giornata nell’istituto che li ospita; gli squarci di vita di paese ove, a personaggi di arcaica staticità e misteriosa fascinazione, come la «vecchia che taglia con un coltello» La tempesta di mare che avanza, si affiancano personaggi vividi e ben delineati, come alcuni compagni di collegio del protagonista, o il padre di Mari Campisi tornato dall’America, che si fanno emblemi di un presente incalzante.
E poi ancora sensazioni, desideri, luoghi e giorni che sembrano uguali e cambiano invece nel trepido affiorare di una diversa dimensione interiore. Da un lato particolari oggettivi: poveri cortili, un rumoroso e sporco salatoio ove lavorano le donne, la vita dei ragazzi nell’istituto religioso e l’aspra realtà dei pescatori; dall’altro lo spettacolo di una natura che si trasforma in visione, in momenti incantati, in sogni incerti di un futuro gravido di incognite.
Romanzo di formazione si può considerare La ferita dell’aprile, in quanto in esso ritorna un itinerario di crescita e maturazione; ma anche romanzo dibattito con il quale l’autore mette a punto una sua interpretazione del neorealismo degli anni Cinquanta, giocando una personale scommessa tra natura e storia, fra destino personale e problematica sociale, fra realtà e progettazione culturale.
Consolo come Vittorini torna ad una Sicilia antica e quasi arcaica, posta sul limite estremo della scomparsa e vi cerca le tracce della propria identità umana e culturale in un viaggio immaginario, le cui tappe sono i movimenti continui della vita, e l’approdo è la coscienza di tali trasformazioni. Raccontare la Sicilia è per lo scrittore un modo di ricostruire l’antica dimora dei padri e tornare alle radici di un linguaggio col quale riappropriarsi della propria terra. Con la consapevolezza che è la scelta della lontananza, temporale o geografica, quella che gli consente la narrazione. Dimensione con la quale si è fuori dalle urgenze polemiche che rendono aspre, per alcuni intellettuali siciliani, le ragioni del consistere. E che tuttavia accende di bagliori affettivi luoghi e tempi che divengono generatori inesauribili di poesia.
Ed ecco lo scrittore raccontare, in prima persona, ne La ferita dell’aprile, di un tempo favoloso, l’adolescenza, segnato dal libero fantasticare prima dell’intrusione della realtà con il suo carico di amarezze e responsabilità, fissate emblematicamente nella morte del padre. La Sicilia, nei romanzi di Consolo, si dispone come luogo di separatezza storica e nel contempo come metafora di problemi sociali che investono tutta l’Italia, come dimora arcaica difficilmente sondabile e come «zona di realtà narrabile».
Tutto ciò si compone in una prosa che fonde di continuo mimesi del reale ed addensamenti di immagini, icasticità ed esplosione visionaria, secondo modalità di stile che contengono già la maniera del narratore maturo. Ma nei primi degli anni Sessanta – quando compone La ferita dell’aprile – Consolo non poteva certo trascurare la lezione linguistica di narratori come Gadda e Pasolini. Dai romanzi del primo assimilava la forza, anche provocatoria, di combinare giochi linguistici e mescolanze di stili. E dalle scelte stilistiche ed ideologiche di Pasolini traeva l’esempio per costruire un linguaggio capace di trasformare l’idioma popolare dei suoi personaggi in una lingua poetica ma dotata anche di umori polemici. La continua intersezione, nelle pagine di Consolo, di lingua e dialetto, di forme culte e popolari, l’accentuazione barocca dell’immagine, spostano il modulo narrativo neorealista verso soluzioni di pastiche che collocano lo scrittore sul versante di una tradizione sperimentale. Un altro motivo presente nel primo romanzo (e poi nei successivi) è quello di un autobiografismo riflessivo che induce lo scrittore a mescolare la propria voce autoriale con quella del narrante. Quando, infatti, nel romanzo il diaframma narrativo allenta la sua tensione, irrompono le considerazioni, irrompono le considerazioni del protagonista sull’amarezza della solitudine e sul distacco da quella vita varia e brulicante, che, pirandellianamente, viene narrata ma non vissuta.
In tal senso, e riferendoci al suo titolo, possiamo parlare di un tema definibile come ‘la ferita’ dell’artista, ovvero la coscienza di un incolmabile iato esistente tra la vita e l’arte, tra la scrittura e la complessità del reale. «Uno che pensa, uno che rifletta e vuol capire questo mare grande e pauroso, viene preso per il culo e fatto fesso. E questa storia che mi intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbio, a cangio di saltare i muri che mi restano davanti?».
La ‘ferita’ dell’artista, topos della grande letteratura novecentesca, sta nell’impossibilità dello scrittore, che pure ne ha un desiderio struggente, di partecipare all’umanità che egli stesso mette in scena nelle sue opere. Si è segnati da questa ferita che apre un abisso di solitudine, nostalgia e ironia; si è colpiti da una vera e propria fascinazione verso i gesti semplici che accompagnano la vita di ogni giorno.
All’artista non rimane che guardare da lontano – come affermerà in Retablo don Gennaro, maestro di canto: «Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta con invidia, con nostalgia struggente allunghiamo la mano per toccare la vita che si scorre per davanti».
La scrittura può allora configurarsi come un farmaco col quale tentare di guarire le personali ferite, o proporsi come strumento di conoscenza. Ma il contrappunto dialettico tra la infinita nostalgia della vita e la necessità artistica della solitudine è anche la sua forza, come ha evidenziato la migliore lezione dell’arte novecentesca (Mann). Letteratura e vita sono i termini di un dibattito antico e sempre vivo, ma sono anche un grumo pulsante di energie ed ambiguità da cui di volta in volta scaturisce l’immaginario del narratore.

Flora Di Legami, La Figura e L’opera – 1990

Prefazione al libro di Pino Di Silvestro “Le epigrafi di Leonardo Sciascia”

Nome dell’autore, titolo, dedica, introduzione, prefazione, postfazione, nota, epigrafe, e molt’altro, sono i «dintorni», più o meno prossimi, del testo letterario, sono quel paratesto che Gérard Genette chiama Soglie e che nell’omonimo saggio ampiamente analizza.

Le soglie, le cornici, autografe o allografe, che avvolgono o vestono la nudità del testo, sono state, secondo le epoche e le mode, più o meno ampie, ricche, qualche volta ampollose. Si pensi a titoli e sottotitoli lunghi, complessi, di opere per esempio che sinteticamente chiamiamo Robinson Crusoe o David Copperfield, si pensi alle dediche o alle lettere dedicatorie, esterne o interne al testo, che partono almeno da quella indirizzata a Mecenate nelle Georgiche e vanno fino a quelle per altri illustri mecenati come Ippolito e Alfonso d’Este, rispettivamente nell’Orlando e nella Gerusalemme, come il duca di Béjar nel Don Chisciotte, vanno fino alla breve « Per Ezra Pound – il miglior fabbro » ne La terra desolata, all’ermetica « a I.B. » ne Le occasioni; arrivano, le dediche, rare e significative, necessitate dal testo (non teniamo in conto quelle esortative e spesso patetiche apposte in molti libri d’oggi) fin nelle opere di due scrittori << illuministi>>, scarni e severi di come Calvino e Sciascia: in Calvino compare una dedica, ne  Il sentiero dei nidi di ragno e in Se una notte d’inverno un viaggiatore; in Sciascia, soltanto in Occhio di capra, avendo diversa collocazione e diverso senso altre due incorporate rispettivamente nella nota finale della Morte dell’inquisitore e nel titolo della Recitazione della controversia liparitana.

Rimanendo sulle soglie, al paratesto dell’opera di questi due scrittori, ultimi grandi testimoni e cronisti d’una fine, vicini nelle origini, nel terreno di coltura o cultura (la Firenze rinascimentale, il centro della lingua attica, della scrittura laica e limpida, della civile comunicazione, la Toscana rondista di Cecchi, Barilli, Savinio, l’acqua lustrale dell’Arno del Manzoni che, attraverso la Lombardia dei Verri e del Beccaria, portava oltralpe, alla Francia dei Lumi, alla lingua unica, geometrica ch’era espressione d’una formata e consolidata società), vicini nelle origini dicevamo, i due autori, ma divergenti, lontani negli esiti, colpisce nell’opera di Calvino l’assenza assoluta di epigrafie l’alta frequenza di esse, al contrario, in quella di Sciascia. Perché?, ci chiediamo. Avanziamo allora l’ipotesi che in Calvino rimane costante, disperatamente salda, in un luogo e in tempo in cui ateismi oppressivi e devastanti stanno per bandirla, la fede nell’affabulazione, nel racconto, nel suo assoluto valore, unico strumento di percezione, e conoscenza del mondo, di lotta contro la malinconia, l’impietrimento, e da questa fede ne viene il suo continuo cercare sapiente, sagace, infaticabile «castoro della penna», come lo chiamò Pavese, onnivoro e felice organismo metabolico nuovi sentieri, nuove piste, nuovi territori. In lui dunque ogni memoria letteraria, ogni citazione è messa en abime, è dissolta e occultata nel testo. Sciascia, meno chierico, più laico, a causa di un retroterra quello siciliano, che si fa paradigma, nucleo metaforico – di più drammatica storia, di più atroce realtà, perde man mano fede nell’affabulazione, perde speranza in una possibile sopravvivenza e incidenza del racconto e, dopo aver rovesciato e quindi distrutto un modulo narrativo collaudato e funzionale quale il romanzo poliziesco, arriva a spostare il testo nel paratesto, mutare il racconto in parodia, in saggismo, spingerlo verso le soglie, verso la citazione, la rimemorazione della letteratura, la grande letteratura d’altri tempi e d’altri contesti, cielo di verità sopra un mondo, contro una storia di menzogna e di sconfitta, di offesa all’uomo. Ambroise: Pratichi costantemente la riscrittura, la parodia, l’arte della citazione vera o falsa. Che senso dai a questo tipo di operazione che implica un rapporto singolare con il proprio testo: non tuo eppure tuo lo stesso, forse tuo nel suo non esserlo?
«Sciascia: Non è più possibile scrivere: si riscrive.

E in questo operare più o meno consapevolmente si va da un riscrivere che attinge allo scrivere (Borges) a un maldestro e a volte ignobile riscrivere. Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere, Tutto pagato». Così nelle 14 domande a Leonardo Sciascia, in apertura del primo volume delle Opere dei Classici Bompiani. «Un consapevole, aperto» riscrivere, dice Sciascia, E l’apertura più ampia, più costante – da Le tavole della dittatura fino A futura memoria – è sulle soglie, nell’epigrafe, chiave d’apertura del testo, epicitazione d’ogni altra citazione, lume, filo d’Arianna, ramo d’oro per percorrere i meandri dell’oscurità della realtà rappresentata, per uscire dal labirinto dell’inganno e dello smarrimento.
Le epigrafi. Le epigrafi delle opere di Sciascia: queste antologizza, legge, interpreta, « illustra» qui Pino Di Silvestro.
Cos’è ‘epigrafe? Così il sunnominato Genette: «Definirò approssimativamente l’epigrafe come una citazione posta “in esergo”, in genere all’inizio del l’opera o parte dell’opera; “in esergo” significa letteralmente fuori dall’opera, il che forse è un po’ esagerato: l’esergo consiste piuttosto, in questo caso, in un confine dell’opera, in genere molto vicino al testo…».

In Sciascia l’epigrafe, come il titolo, come l’illustrazione in copertina – sempre dallo scrittore scelta e indicata all’editore -, come la dedica, come ogni altro elemento del paratesto, è quanto di pia vicino, di più connaturato al testo ci sia. La sua epigrafe è sempre di un autore scelto per ammirazione e immedesimazione, è brano, frase d’un’opera sotto la cui luce bisogna porre il testo che ci accingiamo a leggere (epigrafati sono di volta in volta Orwell, Poe, Shakespeare, Montaigne, Courier, Pascal, Casanova, Brancati, Borgese, Borges, Canetti, Dürrenmatt, Bernanos…; ma è anche voce di dizionario, spezzone di documento storico, ed è inoltre frase d’ironico contrasto assunta per disarmo, per malinconico giudizio, come quella di Palazzeschi apposta a 1912 + 1 o quell’ineffabile « O Rousseau!» di Anonimo al Contesto: anonimia fin troppo scoperta, esclamativamente indicativa).

Epigrafatari, destinatari di questo prezioso testo fuori testo, «composto» e proposto dall’Epigrafatore, sono i lettori, siamo noi. Destinatario è, nel caso di cui vogliamo qui discorrere, Pino Di Silvestro, lettore privilegiato per l’appassionata, straordinaria capacità ch’egli possiede di percorrere il «testo» sciasciano, di riassumerlo e assumerlo nell’epigrafe, di stendere su di esso una sua ulteriore epigrafe, un suo visivo paratesto che è il corpo dei disegni, delle chine: il testo vale a dire di questo suo libro. Che è quanto di più sciasciano si possa fare, per ammirazione e per immedesimazione, per scrittura, per stile. Amava il disegno, Sciascia, le gravures, acqueforti e puntesecche, che, con il loro segno nero si potevano accostare alla scrittura, erano anzi per lui un’altra affascinante forma di scrittura, simile allo scrivere che è «imprevedibile quanto il vivere». In questo segno di china di Di Silvestro, quasi un «nero su nero» della realtà descritta da Sciascia, il bianco, a rinforzare ed esaltare ancor più il nero, emerge dal fondo, s’insinua da maglie di stretti reticoli, sorge da cave occhiaie o vitree lenti, da fori di corpi crivellati, fumoso lampeggia da bocche di armi, lattiginoso piove da globi di lampade, s’effonde da corpi di donne, balugina in riquadri di porte o grate, s’espande da una mesta luna che suscita facce di cristallo, squadra tetti, muri di case d’un villaggio perduto. Il segno sottile, secco di queste chine, le figure espressive o espressioniste creano un mondo in negativo, un universo privo di luce e pietà. E sono quasi sempre inscritte, figure e scene, in spazi chiusi, tribunali, prigioni, celle, luoghi del potere e della pena, stanze della tortura, dello strazio. È uno spazio, questo creato da Di Silvestro, quasi riferito alla più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, quella di Pirandello: la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta.

Vincenzo Consolo
Milano, 6 novembre 1996