Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

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PERIODICO QUADRIMESTRALE DI STUDI SULLA LETTERATURA E LE ARTI SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE»

Sinestesieonline – N. 20 – Anno 6 – Giugno 2017
di Carmela Rosalia Spampinato Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

Il 15 agosto del 2004 sul giornale La Sicilia viene pubblicato il racconto di Vincenzo Consolo La mia isola è Las Vegas, in cui compare l’hapax “matria”. La matria è una metafora di triplice natura: insieme lingua, terra e madre. Analizzando Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, Il sorriso dell’ignoto marinaio e La mia isola è Las Vegas si individuano attestazioni e ricorrenze. Dei tre versanti della complessa metafora, quello materno e femminile si rivela il più articolato. On August 15, 2004 in the newspaper La Sicilia is published the story of Vincenzo Consolo My island is Las Vegas, in which the hapax “matria” appears. The matria is a triple nature metaphor: along with language, land and mother. AnalyzingAltarpiece, The Pantalica stones, The olive tree and the olive tree wild, The Smile of the unknown sailor and My island is Las Vegas are identified claims and celebrations. Of the three sides of the complex metaphor, maternal and feminine it reveals the most articulate.
Nel racconto La mia isola è Las Vegas, pubblicato da Vincenzo Consolo sul quotidiano «La Sicilia» il 15 agosto 2004, si legge per la prima ed unica volta il termine «matria»1 : «Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei»2 . Il termine «matria» si può assumere come metafora e chiave di lettura per l‟intera produzione consoliana. L’incipit del racconto, fortemente evocativo, rimembra una terra lontana che è la «matria» poiché come una madre ha dato i natali allo scrittore, una terra che è dunque donna, che può essere America, tutte le terre insieme e nessuna, una terra che è dialetto e nenia, canto popolare, ritornello dedicato alle arance: Sicilia mia, oh che nostalgia! Ricordo una bella canzoncina che m‟hanno fatto imparare quand‟ero ancora picciriddu. Faceva così: “Di Muncibeddu i figghinuisemu, ohi oh, / terra di canti e di ciuri e d‟amuri, ohi oh, / „st‟arancisulunui li pussiremu, ohi oh, / e la Sicilia nostra si fa onuri, ohi oh. / E di luntanuvenunu li furisteri a massa / dicennu la Sicilia chi ciauruca fa, / chi ciauruca fa…”. Mi viene da piangere a ricordare queste parole. Terra antica, nobile e ricca, la mia Sicilia. Terra importante3 . Ecco dunque il nucleo più pro Vegas– si riscontrano le declinazioni della matria come: lingua, terra e madre5 . La lingua In primis, vi è la lingua. Ripudiando la lingua moderna, appiattita dai mass media, violentata, privata delle sfumature, Consolo sceglie lo sperimentalismo, una lingua definita pastiche6 , la lingua della plurivocità7 , all’insegna della ricerca e della convivenza degli estremi – razionalismo, illuminismo e prosa da una parte, musicalità e poesia dall’altra. E ancora, lo scrittore riscopre il dialetto – spesso nella variante sanfratellana8 –, culla dell’ultimo seme di autenticità, e lo mescola a termini dotti, prestiti linguistici, latinismi, grecismi e neoformazioni, risacralizzando9 così le parole. Il dialetto – la lingua che si impara da piccoli, quella della prima nominazione e quindi dell’invenzione del mondo, carico di ricordi, pulsioni ed affetti – può avere questa valenza forte e virginea. Il dialetto è importante poiché ha echi materni10 . 5 La metafora della matria si ritrova anche nelle altre opere di Vincenzo Consolo. 6 Salvatore Trovato afferma: «Studiare la lingua di Consolo significa estrarre dal pastiche delle sue opere gli ingredienti, isolarli e analizzarli singolarmente, in sé e in rapporto agli altri, nel testo singolo e nell’opera consoliana in genere. […] La lingua che […] possiamo fin da ora definire “dialetto metaforico” o, pascolianamente (ma senza allusioni alla complessa problematica decadentistica e simbolistica di Pascoli), la “lingua che più non si sa”»; S. C. Trovato, Italiano Regionale, Letteratura, Traduzione, Euno Edizioni, Leonforte, 2013, p.92. 7 Cfr. Consolo: «Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettalgergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell‟introduzione al Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, Donzelli Editore, Roma, 1993, p.16. 8 «No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla, un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…. Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati» Ivi p.54. 9 «“Risacralizzazione” non è sinonimo di aulicizzazione. La mia ricerca letterario-filologica è volta al recupero di parole che abbiano una loro intrinseca purezza, una verginità non ancora imbrattata e degradata, che portino una intima risonanza di luce e verità» D. Calcaterra, Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza, Prova d’Autore, Catania, 2007, p.169. 10 «Si potrebbe ipotizzare che la scelta linguistica di Consolo – che egli stesso connette all’uccisione del padre e che si può ricondurre alla profondità naturale e “materna” del dialetto (anzi, dei dialetti: il siciliano standard e i dialetti gallo-italici, come il sanfratellano […]) – si situi in un equilibrio difficile con la proiezione storica (e dunque “paterna”) della sua ispirazione: è la stessa ricerca di equilibri fra “mondo dei padri” e “mondo delle madri” perseguita da Vittorini e, La scrittura consoliana, si serve dell’innesto e dello scavo archeologico: portando in auge termini dimenticati e ormai seppelliti, mescidandoli con altri, sperimenta un linguaggio nuovo e potente, che non scade mai nel tono medio. Tutti gli elementi della lingua consoliana richiamano fortemente la Sicilia. Narrando di una terra che dà i natali, che segna nel profondo l’uomo, la lingua diventa il mezzo per esprimere l’identità, la vocazione, l‟appartenenza. Consolo afferma infatti: Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. […] Credo, infine, di non aver mai smesso di essere uomo di quest‟isola, figlio di questo paese. A cui sono grato di tutto quanto mi ha dato, con i suoi segni, con la sua luce, con i suoi accenti11 . Attraverso le parole del racconto Memorie, si congiungono i tre vertici della matria: vi sono la lingua, una madre e la terra, di cui lo scrittore afferma di essere figlio. 2. La terra Dunque la matria è anche terra. È la Sicilia. E per Vincenzo Consolo: «Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro»12. E ancora, ne Le pietre di Pantalica afferma: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone,conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca13 . La Sicilia è sempre nei pensieri dello scrittore: «Io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese14». Da una parte è l’isola santa(«la Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa!15 »), dall‟altra è anche la terra delle contraddizioni, degli orrori, della in forme meno palesi, da Sciascia. Un equilibrio che […] si rivela sempre precario, frutto comunque di un azzardo lacerante» G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole, 2001, p.56. 11V. Consolo, Memorie, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.137-138. 12Ivi p.135 13V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.632 14V. Consolo, Memorie, cit. p.135. 15V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in Id., L’opera completa, cit. p.176. violenza e della forzatura: E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo; è dolorosa saggezza, disperata intelligenza16 . E proprio del paradosso e di un inspiegabile grumo di odio e amore si alimenta il siciliano e lo scrittore. Per Consolo, narratore–viaggiatore–siciliano, la Sicilia non è mai semplice sfondo, muto e incolore, ma vera innegabile protagonista. Per Consolo, la terra è un culto, rappresenta la devozione di un figlio nei confronti della madre. A riprova di ciò, le parole scelte per la Sicilia sono di eco materna. Le città vengono descritte come donne, la terra raccontata come una madre, verso cui riservare le medesime attenzioni: I campi vogliono la vicenda: ora grano, ora fave, e un anno riposo. Non bisogna sfruttare eccessivamente la terra: se troppo le chiedi, ti rende meno. Dàllemodo di rafforzarsi e nutrirsi: essa è come la nutrice, che ha bisogno di riposo e di buon nutrimento per avere buon latte17 . Ecco come la matria appare ben riconoscibile. La metafora tripartita, la trinità laica, mostra i propri vertici. Li intreccia. 3. La madre E con la presenza materna, si introduce il vertice più importante dell‟hapax. La matria è donna. Elemento femminile. Natura profonda. La matria è madre. Metafora del «grembo» 18, recesso più interno e proibito19. Di volta in volta muta, si trasforma, si declina. Grazie a un’attenta ricognizione nei dizionari constatiamo che il termine «matria» ha nel panorama letterario italiano solo tre antecedenti: Màtria, sf. Letter. Luogo natio, patria. Tasso20 , II-379: Ne godo fra me stesso per molte cagioni, delle quali la prima, ch’ella sia di quella nobil patria de la quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria, secondo l’usanza antica dei creti. M. ni21 ,3-4-338: La Patria e la Matria (per parlare al presente, come dicono i Cretesi), la 16V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.631 17Ivi p.523. 18V. Consolo, Retablo, cit. p.427. 19Ivi, p.437. 20T. Tasso, Dialoghi, a cura di E. Raimondi, 4 voll., G. C. Sansoni, Firenze, 1958, p.379. 21M. Adriani, Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati, 6 voll., Stamperia Piatti, Firenze, 1819- 1820, p.338. quale è più antica, a cui siamo più forte obbligati che ai genitori, parimente è di lunga vita. – Figur. Gioberti22 , 1-71: La Chiesa è la patria, e per, usare la bella espressione dei Cretesi, legittimata da Platone, la ‘matria’ dell’uman genere, perché comprende, rannoda e restringe con vincolo interno, sacro e tenace, tutte le patrie speciali. = Formazione dotta, dal lat. matermatris ‘madre’, sul modello di patria23 . Tasso, Adriani e Gioberti scelgono il termine richiamando la tradizione cretese. È il luogo natio, insieme impasto affettivo e culturale. La matriacustodisce l’elemento sacro e diviene il cantuccio dei ricordi. Consolo, che si rifà alla lezione bizantina24 per la sacralità della lingua, alla cultura greca, all’oralità araba e allo stile makamet25, sembrerebbe stato memore anche della lezione cretese, dell’interpretazione antica di luogo natio, di dea e madre. Potrebbe aver usato il termine tanto come neoformazione che come riferimento alle attestazioni passate. Entrambe le intenzioni rappresentano la poetica dello scavo archeologico e dell‟innesto. Infatti ripescando una tradizione matriarcale profondissima e sepolta, di matrice siciliana (e non solo), Consolo modifica il termine tradizionale «patria» e lo adatta al fine di raccontare una storia diversa, personale, affettiva e materna. L’etimologia di «matria» è «mater». E questa madre si porta dietro un modello archetipo di valori, tradizioni, culti, storie, miti26 . 22V. Gioberti, Il gesuita moderno – Apologia, Dalla Stamperia del Vaglio, Napoli, 1848, p.71 23Battaglia, S. Barberi Squadrotti, G. (a cura di) [1961-2004], Grande dizionario della lingua italiana. Torino, Utet, 21 voll. + Supplemento + Indice degli Autori citati a cura di G. Ronco. 24«Gli scrittori bizantini nel momento in cui la loro grande civiltà stava finendo, scavavano ossessivamente nel linguaggio, cercando disperatamente di recuperare la loro matrice che era classica greca. Reinventarono una scrittura ricca e complessa, che non corrispondeva al momento storico che stavano vivendo ma era un modo per riaffermare la loro identità proprio mentre scomparivano dalla storia. Avevano i barbari alle porte e scrivevano in modo straordinario (p.15 e p.10)» SINIBALDI (1988); cit. in S. C. Sgroi, Scrivere Per Gli Italiani Nell’Italia Post-Unitaria, Franco Cesati Editore, Firenze, 2013, p.374. 25«[la prosa consoliana] credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. […] I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste inuna sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche, nella mia scrittura c’è uno slittare dalla prosa verso un ritmo poetico. Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di “risacralizzarsi” (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, cit., p.52. 26Per ulteriori approfondimenti: E. Neumann, La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, con 74 figg. e 186 tavv. fuori testo, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1981, ed. it. e trad. a cura di Antonio Vitolo; E. Neumann, La psicologia del femminile, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1975, trad. di Matelda Talarico; J. J. Bachofen, Il matriarcato. Ricerca sulla ginococrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, tomo I e tomo II, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino, 1988, ed. it. a cura di Giulio Schiavoni; I. Magli, Matriarcato e po- 3.1. Le divinità femminili La prima manifestazione femminile della matria è di natura divina. La matria è dea. Un catalogo di dee. In Retablo, la Sicilia è la terra della coppia indissolubile Demetra e Persefone– Kore. La dea ammantata di nero27 che ha subito l’oltraggio è il simbolo della fertilità, delle messi e dei campi. È la madre della figlia rapita e sposa di Ade, signore della morte. Demetra collerica alterna alla fertilità l’aridità della terra, fino al momento in cui le è concesso il ricongiungimento alla figlia sfortunata. Dunque vita e morte diventano facce della medesima metafora. Alla madre si lega la terra, alla coppia madre–figlia si lega il dolore e l’oltraggio, simboli della Sicilia più antica e ferina. La matria è mito e terra. I luoghi delle dee e della mitologia sono luoghi sacri, carichi di significato e tradizione. Luoghi di magia e mito, silenzio e meraviglia. Alla madre disperata è riservato il luogo sacro, il temenos inviolabile e inviolato. Alla dea spettano i templi, i grandi luoghi misteriosi della Sicilia. Mediante le parole dello scrittore si rintraccia l’antichissimo nucleo del mistero. In Retablo riguardo Egesta, Consolo scrive: Porta o passaggio […] verso l‟ignoto, verso l‟eternitate e l‟infinito. L‟ignoto oltre la vita, metafisico, che nei riti notturni e sotto il cielo stellato le madri, per la gran Madre comune e originaria, vollero sondare; […] l‟infinito oltre questo tempio, […] oltre quest‟isola dal passato morto, dal presente tumultuoso e tragico per cui ora mi sogno di viaggiare28 . La matria si manifesta con i connotati più regali. A Selinunte, per il protagonista Fabrizio Clerici solcare i luoghi mitici vuol dire immergersi nel cuore della metafora. O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos‟è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l‟uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, poiché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d‟amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d‟ogni uomo.29 Nel mistero più oscuro, vi è posto per un altro culto, per un’altra donna dea e madre – anche se le due divinità spesso coincidono, come ne Le Pietre di tere delle donne, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1978; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO), 1981. 27V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. L’intero capitolo Malophòros risulta assolutamente denso e utile al fine dello studio della metafora materna e divina insieme. 28 V. Consolo, Retablo, cit. p.414. 29Ivi, p. 436. Pantalica –, la Molle e Umida, la Malophòros, letteralmente «portatrice di mela»: «Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice»30 . Lo scrittore mostra un panorama di figure antiche femminili e divine, dee e ninfe, sante. Vi è spazio anche per Ecate Triforme, degna di attenzione per la natura tripartita, ricorrente in Consolo e nella tradizione siciliana: Traversato il ponticello sul fiume, arrivammo alla collina delle divinità catactonie, sotterranee, di Demetra Malophòros, la portatrice di mela, di Persefone, di EcateTriformis […] : stazione dei cortei funebri verso la vicina necropoli e recinti di culti segreti, di sacri misteri31 Inoltre questa divinità viene associata secondo alcune varianti del mito alla luna e proprio la luna è simbolo della vita e della morte, insieme donna fertile e malinconia di luponario, protagonista del sogno teatrale Lunaria32 e di Nottetempo, casa per casa33 . E volendo inoltrarsi ancor di più nelle pagine dello scrittore agatese, in Retablo ritroviamo altri due importanti culti femminili e materni: la Grande Dea Madre Astarte e la Celeste Madre Tanit. Era quello il cimitero ove i Fenici di quest’isola di Mozia seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dèi. Il primo nato sacrificavano gli sposi, la primizia, estrema privazione e suprema offerta, come l’offerta del primo fiore o frutto d’una pianta, alla celebre madre Tanit o Astarte34 . Una delle manifestazioni più potenti della madre divina è ancora tra le pagine di Retablo, in cui il pastore Mastro Curatolo venera una Matre Santa, secondo un antichissimo culto che si tramanda di padre in figlio e la cui origine è ormai dimenticata. – Mastro curatolo, don Nino, che santa è quella? – La più santa – rispose l‟uomo. – E si chiama? – La Matre santa. – E dove la si venera? – Qua, per intanto, nella mia casèna. – Ma lo sanno i monaci, i parroci che avete in casa questa santa? – Lo so io e basta. Come lo seppe mio padre, da cui l‟ereditai. Che l‟ereditò dal padre suo e così arrere, fino a che si perde la memoria, memoria dico della mia famiglia.35 3.2. Rosalia e la matrazza 30V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. 31Ibidem. 32Lunaria, può considerarsi una sorta di favola teatrale e viene pubblicata per la prima volta nel 1985 dalla casa editrice Einaudi. Ora in: V. Consolo,L’opera completa, cit. pp.261-364. 33 Il romanzo è pubblicato da Mondadori nel 1992 e vince il premio Strega. È incluso in: V. Consolo, L’opera completa, cit. pp.647-755. 34V. Consolo, Retablo, cit. p. 445. 35Ivi, pp. 408-409. Retablo è forse l’opera in cui la metafora della matria si manifesta con maggiore poeticità e con un numero elevato di ricorrenze. Infatti è il romanzo di una coppia madre–figlia36 (che richiama Demetra–Persefone): una figlia, che è fiore37, statua, simbolo dell‟eros, metafora della Veritas e una madre, una matrazza38viva e terrena, una madre bagascia39, «la ‘gna Cristina Insàlico, vedova Guarnaccia»40. I connotati di questa madre sono negativi. A tal proposito tornano utili le ricerche svolte sui vocabolari del siciliano-italiano, poiché tanto nell’Antonino Traina41quanto nel Giorgio Piccitto42 il termine «matria» si attesta col significato di «matrigna». Dunque la matriaconsoliana può essere anche la matrigna siciliana. Il romanzo di Demetra e della fanciulla con il nome di fiore parla anche di questa donna terribile. E Rosalia, l’altra metà dell’innesto materno, è tante Rosalie insieme. A partire dall’incipit in cui si tramuta in tanti fiori, è rosa e giglio43 , malia e maledizione, amore agognato e maledetto, angelo e diavola, magàra44 , si sdoppia, acquista più forme e diviene più donne. È Rosalia di Isidoro, ma è anche Rosalia Granata, è Teresa Blasco, è Ortensia, è «la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»45. Siamo dinanzi a un personaggio che non è più personaggio, a un corpo mitizzato e sfumato46, a un soggetto che è metafora e destinatario indefinito di tutto l’amore. E Rosalia diviene anche soggetto artistico. In Retablo la statua della Veritas, realizzata dal Serpotta, ha le sue sembianze e provoca la reazione folle di Isidoro nelle prime pa36 «Già nel primo incontro Isidoro vede Rosalia in coppia con la madre, dettaglio quest’ultimo da non trascurare, poiché il ritratto della figlia si confonde talvolta coi tratti materni, fino a costituire un curioso corpo ibrido» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, Comunicazione presentata al Convegno della Mod, Scritture del corpo, tenutosi a Catania il 22-24 giugno 2016 (in corso di stampa). 37Rosalia è rosa, giglio, gelsomino. Prende il nome di «Ortensia» nella parte finale del romanzo, altro fiore. Cfr R. Galvagno, L’inno a «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, in corso di stampa, nel quale si analizza l’incipit del romanzo e si enunciano i vari riferimenti al mondo floreale. 38V. Consolo, Retablo, cit. p.373. 39Ivi, p.370. 40Ivi, p.375. 41 «Matria. V. MATRIGNA. In quel di Modica.» A. TRAINA, Vocabolario siciliano-italiano illustrato, 2 voll., Edizioni Sore, Palermo, 2ª ed., 1977. 42 «Matria (Spa., Tr., Av., Ma., ecc., RG7) f. matrigna.» G. PICCITTO, (a cura di), Vocabolario Siciliano, 5 voll., Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Catania – Palermo, 1977. 43Secondo le parole della madre: «la figlia mia ch’è giglio, regina»V. CONSOLO, Retablo, in Id., L’opera completa, cit. p.373. 44 V. Consolo, Retablo, cit. p.370. 45Ivi, p.423. 46«Quale corpo femminile è allora in questione nei due casi? Non è, in definitiva, che un corpo fantasmatico, puro oggetto della pulsione quello di Rosalia; un oggetto altamente idealizzato quello di Teresa Blasco; ma entrambi investiti dal furore dei loro amanti» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, cit. gine del romanzo. Nel penultimo capitolo invece viene contemplata con ammirazione da Fabrizio Clerici47 . Ma Consolo dissemina nel testo molti riferimenti alla Veritas. Infatti «VERITAS» è il titolo dell‟ultima sezione del romanzo, nella quale Rosalia–Ortensia racconta la propria verità nella lettera dettata a Don Gennaro. Queste pagine malinconiche sono impreziosite dall‟ironica anafora «Bella la Verità!». Anche Rosalia Granata racconta una verità, la verità di una «smarrita pecorella, peccatora inveterata, anima confusa»48. La confessione, scritta in corsivo rispetto al tondo del testo, parla d‟amore ma anche di abusi e violenza. Attraverso Rosalia, la statua della Veritas e i vari riferimenti alla verità, Consolo affronta un tema a cui tiene particolarmente. In Retablo, nel Sorriso e in altre opere, mediante metafore, ekfraseis, rimanti più o meno celati e riflessioni, lo scrittore cerca e trova la propria verità49 . 3.4. Il corallo e l’arancio/arancia All’interno del catalogo femminile di Consolo, la donna finirà con l‟assumere anche i tratti del corallo e dell’arancia, due potenti rappresentazioni poetiche. Il corallo, sublime più di ogni altra pietra è sensuale e seducente, perché il colore suo morbido e carnale rimemora le carni femminine, […] il corallino pallido le carni ascose, immaginate, quello acceso, le carni in vista delle labbra, delle dita, degli orecchi, del canale pettorino… […] Di questa pietra o fior sottomarino che, pur raffigurando Annunziate, sante Rosalie, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne, sono sempre carne, carne, che risveglia ogni senso e appetito.50 L’arancia e l’arancio richiamano la maternità, la fertilità umida del grembo, la conca intima, il miracolo. In diverse opere, al frutto e alla pianta sono dedicate le pagine più liriche, più cariche d’amore e nostalgia. Come la madeleine di Proust, il ricordo dell’arancia provoca l’epifania del passato, l’apparizione improvvisa della terra natia, il ricordo, una fitta al cuore. In Retablo, don 47«L’immagine su cui lo scrittore posa il suo sguardo narrativo, alla fine del viaggio di Clerici, è quella ambigua, esemplata in una statua del Serpotta, in cui è raffigurato il corpo reale di Rosalia e l’idea della Veritas. Vera e propria Morgana di un reperimento di senso, costituisce la figura più affascinante ed emblematica di un tentativo di mediazione tra reale ed immaginario, immagine concreta e simbolo ideale. Emblema infine del doppio insito in una narrazione ai limiti dell’artificio barocco, ove protagonista principale è la coscienza di una ricerca costantemente disillusa. La figura ariostesca di una Rosalia-Angelica, sempre sfuggente ai desideri e ai ritrovamenti dell’amato, si compone enigmaticamente nella realtà inattingibile della statua» F. Di Legami, Vincenzo Consolo, la figura e l’opera, Editrice Pungitopo, Marina di Patti, 1990, p.41. 48V. Consolo, Retablo, cit. p.416. 49Per un‟analisi approfondita, vedi: R. Galvagno, «Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, «Diverso è lo scrivere», Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, a cura di Rosalba Galvagno e con Introduzione di Antonio di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino, 2015, pp.39-64. 50Ivi, pp.457-458. Carmelo Alòsi, «d’una Sicilia remota»51, dedica una struggente preghiera d’addio alla pampinella vergine, alla fanciulla fantasiosa, alla figlia e sposa bambina: Addio, promessa d‟ogni essenza, sorgente di fragranza, corona delle zagare, goliera dell‟aurora. Addio ramo di miele, fanciulla fantasiosa, stellaria vanigliata, regina dei giardini. Spero che gli innesti arcani compiuti nel grembo tuo di nardo fruttino la fantasia di spere multicolori, di scrigni di sapori impareggiabili. […] Bevi rugiada e ambrosia, o Mora, cresci, Bionda, Sanguinella, Tarocchina, divieni donna piena, fruttifera, amorosa, a te la buona sorte, vergine ingallata, zingara maliosa, figlia e sposa mia bambina, narancia affatturata.52 E ancora: Nel tepore del grembo, nutrito dagli umori, il seme gonfia, s‟apre, emette il suo germoglio. E in poco tempo, il semenzale, la pampinella vergine, è pronta per lo squarcio e per l‟innesto. […] Volevo che la mia prima amante si tramutasse in donna singolare, si facesse sogno, irrealtà, chimera. Io la contemplavo, le parlavo, le rivolgevo fiati e sillabe d„amore per tutto il tempo dell„incubazione e dell’attesa. E quindi, tolta la fasciatura della rafia, gridai al miracolo.53 La terra delle arance è Mazzarà. Anche il paese diventa così donna e madre: «Mazzarà: grembo, nutrice, madre d’ogni pianta d’agrume, limone o arancio, cedro o lumia, bergamotto, mandarino o chinotto che si trovi in questa terra di Sicilia e oltre. Luogo privilegiato, conca umida e calda riparata…»54 . Nel racconto Arancio, sogno o nostalgia55 il profumo inebriante di un aranceto dà vita alla narrazione di una Sicilia arabaantica e perduta: Ricordo, nostalgia è l’arancio, o il limone o il cedro, ma anche sogno, desiderio. Simbolo, accanto al tempio dorico, alla cavea di granito d’un teatro, al luminoso pario d’una Venere, d’un Sud d’antica civiltà. […] Non ci sarà più storia, per gli agrumi, per gli aranci di Sicilia, per questo pomo così antico, così mitico, per questo frutto dei poveri e dei reali56? L’arancia diventa vana illusione, ricerca di speranza e domanda priva di risposta. Consolo si chiede se potrà esserci ancora un futuro per l’arancia di Sicilia, se potrà esserci ancora un futuro per la sua metafora, per il mistero di una terra senza tempo e di un popolo senza speranza. 51Ivi, p.426. 52Ivi, pp.426-427. 53Ivi, p.429. 54Ivi, p.427. 55 Arancio, sogno o nostalgia viene pubblicato per la prima volta sul giornale «Sicilia Magazine», nel dicembre 1988 (con traduzione inglese a fronte). È trascorso circa un anno da Retablo. Nonostante i rispettivi anni di pubblicazione, è probabile che la stesura del racconto sia stata antecedente o contemporanea al romanzo. 56V. Consolo, Arancio, sogno o nostalgia, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.129-133. Anche ne L’olivo e l’olivastro un tenue lamento è dedicato al frutto dorato, al «profumo d’arancio edi nardo»57 . E infine nel capitolo del Sorriso intitolato L’albero delle quattro arance, la pianta è ricamata su una tovaglia. Questa immagine capovolta si trasforma nella penisola, in cui le arance finiscono per rappresentare le bocche dei tre vulcani di Sicilia58. Ancora una volta torna il numero tre, ancora una volta i vertici siciliani, ancora una volta la metafora. 3.5. Il carcere/labirinto, la chiocciola e la lumaca La metafora diventa altro ed altrove. Diventa carcere e discesa nell’antro recondito, nel profondo nucleo materno. Echi vittoriniani si avvertono nel romanzo Il Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui la prigione ha forma circolare e richiama la chiocciola. Il simbolo della chiocciola59, il suo guscio a forma di conchiglia rappresentano il riferimento più arcaico della metafora materna60 . La chiocciola è l’origine61. E il ritorno all’origine significa ritorno alla madre ed alla terra natia62, preghiera alla donna, circolarità dell’immagine. Dentro il labirinto, i detenuti invocano le proprie donne con preghiere incise sui muri. «Mammuzza mia»63, scrive un povero diavolo, e si legge anche Rosa64 e Serafina65, giacché la donna è sogno e ristoro, attesa e sollievo. Dunque la metafora matria–madre–donna diviene carcere–labirinto–conchiglia– chiocciola–lumaca. 3.6. L’ermafrodita e il castrato È necessario riflettere ancora sul simbolo della lumaca poiché rappresenta anche l’ermafroditismo. Insieme maschio e femmina, la metafora si alimenta così di dicotomie per affermare la propria potenza. La lumaca non è il solo riferimento all’ermafroditismo nelle pagine dello scrittore agatese. Infatti più volte viene 57V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. p.773. 58V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.168. 59 Per la metafora della chiocciola cfr: S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio»,Sellerio editore, Palermo, 2011. 60Riguardo la metafora materna nel Sorriso, cfr.: G. Traina, Vincenzo Consolo, cit. pp.27-29 e pp.62-63. 61V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.236. 62 Attilio Scuderi si sofferma sulle metafore malinconiche di Consolo: «Conclude il libro l’effigie della chiocciola, vera parola fine del manifesto della poetica di Consolo; come se il libro volesse farsi anch’esso pietra, per rientrare nel ciclo della Terra-Madre concludendo una goethiana discesa nel luogo delle matrici originarie del tutto» A. SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Il Lunario, Enna, 1997, p.33. 63V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.239. 64Ivi, p.246. 65Ivi, p.248. citato l’indovino Tiresia, personaggio mitologico sia uomo che donna per sette anni, alter ego di Consolo. E se narrare vuol dire inventare un mondo altro66 , dunque narratore e indovino finiscono per coincidere. L’attività del narrare così è paragonabile alla magia e meritevole delle peggiori condanne dantesche («Grande peccatore, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni […]. Ed anche “di maschio femmina”, diviene, come Tiresia, il narratore67 »). Dunque se Tiresia è l’indovino cieco sia uomo che donna, se indovino è anche il narratore, Consolo diviene il custode della metafora femminile. Altra figura importante è quella del castrato, che si ritrova in Retablo, nei panni del personaggio di Don Gennariello. Figura apparentemente secondaria e marginale, il castrato è anche l’artista. Infatti è proprio Don Gennariello a scrivere la malinconica e poetica lettera di Rosalia/Ortensia. E proprio in un’affermazione di questo personaggio si manifesta un’importante chiave della poetica consoliana: “Siamo castrati, figlia mia” aggiunse, “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pittore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”68 Ed è castrato anche l’Ulisse moderno de L’Olivo e l’olivastro, uomo senza nome e ormai senza via. A Scheria, dinanzi a Nausicaa si copre i genitali e mediante l’inconscio gesto manifesta la propria privazione69 . Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro […], si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato al mattino dalle voci, dalle grida gioiose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. Esce dal riparo e si presenta a loro, il sesso schermato da una 66Per Consolo, scrivere e narrare sono due attività differenti. Egli si definisce un narratore e questo vuol dire aver la capacità di inventare un mondo nuovo, altro. Vedi: V. Consolo, Un giorno come gli altri, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.87-97. 67Ivi. pp. 92-93. 68V. Consolo, Retablo, cit. p. 473 69«Il capitolo II del libro rievoca il tremendo viaggio di Ulisse fino a Scheria, il suo naufragionostos come segno di una colpa storica: lo scempio della guerra ma anche l’abbandono colpevole della Terra-madre. Troviamo qui – nella rievocazione del racconto omerico dell’approdo dell’eroe, nel suo coprirsi i genitali dinanzi alla vergine Nausicaa il segno di “simbolica autocastrazione” – una completa psicologia del nòstos: luttuoso; l’espiazione consiste nel doloroso passaggio attraverso “quell’utero tremendo di nascita o di annientamento: Scilla e Cariddi”, simboli della “metafora dell’esistenza” che diventa quel braccio di mare, metafora di una vera ordalia in cui il soggetto può perdere la ragione o recuperare l’utopia, la sua felice Scheria, la sua Itaca; infine l’autocastrazione e la remissione colpevole nel ventre materno, nel ventre-Sicilia» A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, cit., pp.95-96. fronda, come per simbolica autocastrazione, per non allarmare le vergini, come umile supplice, dimesso70. 3.7. La madre, stanca Nessuna Penelope attende l’eroe. Vi è solo una madre stanca, dimentica, irriconoscibile, che sonnecchia indifferente sulla poltrona71. Approda a questo la matriaconsoliana. Diventa vecchia la donna regale di un tempo. Non più Demetra, non più dea. Ora solo Euridice. Non basta più la poesia. Resta solo il silenzio. Un «mah» emesso tra i denti, a labbra strette. Il viaggio all’interno della matria, delle metafore femminili e materne si conclude con l’immagine più forte, più vera. Questa matria è antica, questa madre stanca… Dopo anni, anni d‟assenza, lontananza, dopo sconfitte, perdite, follie, afflizioni, ritornava sovente, rimaneva nel paese. Ritornava e stava chiuso nella casa, seduto a parlare con la madre. Parlare… era lei, quando non chiudeva gli occhi e s‟assopiva. Lui rispondeva alle domande. – Chi sei? – Tuo figlio. – Mah… Pensava fosse quella la vecchiaia, quello sfilacciarsi, rompersi di legami, allontanarsi a poco a poco, procedere a ritroso. […] La guardava, ne studiava la faccia, la pelle sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti, i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli orecchini. Ma presto provava imbarazzo, distoglieva lo sguardo, gli sembrava di violare l‟intimità indifesa di quella donna ch‟era stata sempre candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi. […] La madre s‟era addormentata. […] Pensava ch‟era stato lui per primo a rompere gli ormeggi, allontanarsi, via per tanto tempo. Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore sempre vivo per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma quando, come?) e s‟era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto di partenza, far tornare lei, la vecchia Euridice, di là dall‟ombra dell‟oblìo? – Mamma, o ma‟… – Chi sei? – Tuo figlio. – Quale figlio? 70V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.767-768. 71«Il ritorno alla vera patria, al paese natio, potrebbe essere allora un rimedio allo scempio, anche perché comporta il vero e proprio ritorno vittoriniano, alle madri. E l’ulisside […] incontra la madre, che però è una presenza attonita: sonnecchia, lo riconosce appena, non fa altro che evocare la propria madre, giusto sul filo della continuità matriarcale. Un ritorno inutile, che provoca sola la rievocazione dell’antico bisogno di partenza» G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., pp.101-102. […] Cos‟era quel sostare nella casa della madre? Era per cancellare un insopportabile presente, la Tauride dell‟esilio e dell‟offesa, saldare la frattura, colmare l‟incolmabile voragine. […] Osservò ancora quella faccia, quegli occhi vivi, ma lontani. I quali poi si chiusero e diedero al volto l‟aspetto d‟una maschera severa72 . 72V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.848-850, c.n.

Incroci identitari in Vincenzo Consolo

Scritto da Mario Minarda – cover consolo

(Recensione a Mediterraneo. Viaggiatori e migranti di Vincenzo Consolo, Edizioni dell’Asino, Roma, 2016, pp.38).

Due parole al singolare, mito e storia, che fissano i nuclei ideativi di partenza e una al plurale, letterature, che di quei nessi costituisce la filigrana espressiva, la facies esteriore, ma anche l’antico sostrato di fondo, disseminato in reminescenze culturali multiple. Queste le connotazioni principali che affiorano leggendo Mediterraneo. Viaggiatori e migranti di Vincenzo Consolo (Edizioni dell’Asino, Roma, 2016, pp.38), una piccola silloge di prose in forma breve che raccoglie testi già pubblicati dall’autore del Sorriso dell’ignoto marinaio, alcuni dei quali presenti nel recente Meridiano mondadoriano, curato da Gianni Turchetta.

Il libro presenta un prezioso incastro di storie, riprodotto anche nella struttura stilistica degli scritti, accomunati dall’incisiva brevitas e dal tema conduttore: il viaggio, il movimento continuo come metafora di accoglienza e scambio. Ma anche come dispositio mentale di luoghi e sogni, identità meticcie, desideri ed emancipazioni. La dimensione narrativa, da questo punto di vista, è solo l’attacco emblematico di un itinerario conoscitivo nel quale trovano posto riflessioni critiche sulla lingua e la storia, reportage, memorie private e recensioni letterarie: spunti per una spicciola, e sui generis sociologia della letteratura, in costante dialogo con i fermenti dell’attualità.

Attraverso essa Consolo ci consegna una scrittura ricca, curiosa e vorace, dipanata in una tessitura testuale che segue la Storia ufficiale (citata , per esempio, è la Storia dei musulmani in Sicilia, di Michele Amari), ma che non disdegna le antiche cronache locali dimenticate, gli aneddoti legati a certe figure minori, o le microstorie, anche di natura (auto)biografica, che hanno dato vita a trame letterarie di intensa levatura, come ci insegna, tra gli altri, Leonardo Sciascia, che di Consolo fu amico e maestro. Ne viene fuori una prosa a metà strada tra racconto e saggio, nella quale l’armonizzazione dei pensieri dell’autore si accompagna ad una piacevole cifra conversativa con il lettore.

Si parte così dal racconto dei racconti, ovvero Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario, palinsesto mitico per eccellenza, bacino universale di smarrimenti e frustrazioni, ma anche di fascinose seduzioni, dal momento che «Il romanzo di Ulisse non poteva che svolgersi in mare, perché il mare, questo cammino mobile e mutevole, è il luogo dove avviene il distacco dalla realtà, dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico» (p.7). Il movimento si associa al ricordo e alla trascrizione di esso, come a volere catturare un’impressione gravida di informazioni sul sociale, religiose, geografiche, familiari. È il caso del viaggio di Ibn Giubayr, curioso pellegrino arabo di fede islamica che disegna nel suo taccuino una privata odissea, ossia un «magico Memoriale» pubblicato postumo, che rievoca un lungo percorso da Granada verso la Mecca, passando attraverso le meraviglie abbaglianti di una Sicilia ancora inedita.

L’autore non manca tuttavia di gettare un occhio alle questioni geopolitiche più controverse, per scoprire come facili razzismi e difficili integrazioni odierne, andando indietro nel tempo, apparissero lievemente mutate di segno: ne è eco «la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano» in Tunisia che «avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali» (p.26).

La congerie embricata di trame e riflessioni morali continua fino alla chiusura dell’antologia consoliana, costituita dal racconto Uomini sotto il sole del 1963, dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani. Attraverso questo libro, che parla di esuli, di profughi senza patria morti tragicamente mentre andavano in cerca di fortuna nel Kuwait, Consolo ci parla del tema delle precarie identità nazionali e civili, sfibrate in mille rivoli retorici e spesso avulse dal multi prospettico reale; dolenti tasselli di una consunzione erratica e seminomade che dal mondo torna sempre alla letteratura e, attraverso essa, guarda con più viva circolarità e densa incisività di nuovo al mondo.

VINCENZO CONSOLO POETA DELLA STORIA

di Carmelo Aliberti

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Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.

Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio.
Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.

Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.

Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.

Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.

Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.

Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.

Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.

A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.

Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.

Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.

L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.

Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.

Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.

La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.

Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.

Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.

La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.

Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.

Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.

Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.

La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.

In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.

La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].

Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.

L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.

BIBLIOGRAFIA

Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.

Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia. La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa siciliana d’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala a chiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cose di Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stesso ceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.

[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.

Carmelo Aliberti

 il 7 febbraio 2017 Terzo millennio rivista letteraria

4 liriche Vincenzo Consolo

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Quando qualcuno glielo chiedeva, Vincenzo Consolo negava recisamente di aver mai scritto poesie. Un’affermazione che non corrispondeva del tutto alla verità. Era la sua idea della poesia, intesa come la più ardua forma d’arte, e la sua intransigenza di artista mai soddisfatto di sé e degli altri, a impedirgli di dirsi ‘poeta’. Anche se poi la poesia entrava di diritto nel suo stesso modo di concepire la narrazione. In un’intervista rilasciata a Rosaria Guacci per il trimestrale ‘Tuttestorie’, dice: “Il romanzo era per la borghesia, oggi è inconcepibile… Io non scrivo romanzi. Io narro, e la narrazione ha radici lontanissime, che risalgono fino ai testi orali. E quindi la prosa si avvicina necessariamente sempre di più alla forma poetica, alla scansione metrica”. Dunque la poesia era il substrato della sua stessa narrazione. Non solo. Era anche una sua forma d’espressione saltuaria e per così dire ‘clandestina’, ma esercitata con passione e vigore. Come dimostrano le “4 liriche” inedite, che sua moglie Caterina ha pubblicato in occasione del quarto anniversario della morte. Quattro liriche brevi ma indimenticabili, raccolte in un libretto di grande eleganza, arricchito da una bella incisione di Luciano Ragozzino.

Maria Rosa Cutrufelli

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Viaggiatori e migranti Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Mediterraneo

Viaggiatori e migranti

 di Aldo Meccariello

 Edizioni dell’asino, Roma 2016
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Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche.

Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).

Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più.

La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).

Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.

Vincenzo Consolo: da ” Accordi ” a ” Marina a Tindari “

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Vincenzo Consolo: da “Accordi” a “Marina a Tindari”

di

Sergio Palumbo

     La plaquette di Vincenzo Consolo “Accordi” apparsa nel dicembre del 2015 per Zuccarello Editore, lo stabilimento tipografico di Sant’Agata di Militello diventato famoso per la pubblicazione delle “9 liriche” di Lucio Piccolo finita poi nelle mani di Eugenio Montale, mallevadore dell’aristocratico poeta siciliano, non sorprende perché questo scrittore non è nuovo per rarità bibliografiche. Ma la plaquette postuma ha la particolarità di raccogliere una manciata di versi, il che rappresenta un fatto inedito perché Consolo non ha mai pubblicato sue poesie né, diceva, di averne mai scritte.

     Si tratta di una curiosità letteraria che certo non autorizza a parlare adesso di un Consolo poeta. Egli rimane un narratore puro come lo è Vittorini così come Quasimodo, Cattafi e Lucio Piccolo sono poeti puri. Gli altri importanti autori siciliani del secondo Novecento, non volendo scomodare ancor prima Pirandello, quali Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, Addamo, per quanto vengano considerati dalla critica essenzialmente dei narratori, ci hanno lasciato sillogi di versi, soprattutto gli ultimi due. Gli “Accordi” di Consolo, ritrovati nell’archivio milanese dello scrittore dalla moglie Caterina Pilenga e, come specificato nel libriccino, risalenti non si sa a quale data, sono stati amorevolmente raccolti a cura di Claudio Masetta Milone e Francesco Zuccarello. La plaquette, con impaginazione grafica di Giulia Tassinari, presenta in copertina un’incisione di Mario Avati.

     Diego Conticello, sempre attento e puntuale nelle sue ricognizioni, recensendo per “Carteggi letterari – Critica e dintorni” il 16 marzo scorso la plaquette consoliana, “Una mancata armonia: Accordi”, sottolinea opportunamente che in verità un precedente poetico di Vincenzo Consolo, edito, esiste. Una sua lirica infatti è compresa nell’antologia curata dal sottoscritto “Poesia al Fondaco” (Pungitopo, 1992). S’intitola “Marina a Tindari”. Nel 1972 venne data alle stampe, presso il laboratorio d’arti grafiche di Piero De Marchi a Vercelli, un fascicolo, su carta Fabriano tirata a mano in cento esemplari numerate fuori commercio (una delle preziose rarità bibliografiche appunto in cui appaiono testi consoliani), contenente, oltre a un commento curato da Sergio Spadaro, quello che si riteneva fino ad allora l’unico testo poetico dello scrittore santagatese. La plaquette (posseggo la copia numero 78) s’intitola “Marina a Tindari”. Il singolare componimento, all’epoca scritto per una mostra del pittore Michele Spadaro, reca in calce la firma di Vincenzo Consolo e la data: 27 febbraio 1972.

     In realtà. come ha poi chiarito lo stesso Sergio Spadaro, fu lui a mettere in versi il testo consoliano, anche se bisogna ammettere che dal fascicolo ciò non risulta con immediatezza. Occorre leggere il commento critico dello stesso Spadaro che accompagna la composizione lirica di Consolo per prenderne atto. Comunque, ripeto, la precisazione di Spadaro, ribadita pubblicamente in più occasioni, è giusta e va rispettata. Qui vorrei aggiungere ancora una cosa inedita. L’esemplare mio di “Marina a Tindari” reca addirittura due dediche autografe. La prima, dell’8 febbraio 1992, è del pittore per il quale Consolo scrisse il testo, Michele Spadaro, che fu pure mio amico. “Col permesso degli Autori, con simpatia, a Sergio Palumbo”. La seconda dedica, invece, riagganciandosi alla prima, è di Vincenzo Consolo. E Consolo, curiosamente, si attribuisce la “paternità” di quegli “antichi” versi. “Sant’Agata, 21 aprile 1992: Permetto, e come!, anche perché l’ispirazione di questi miei ‘antichi’ versi mi veniva da una mostra di Michele Spadaro, oltre che dalla memoria del Tindaro.
A Sergio Palumbo, Vincenzo Consolo”.

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Ho letto “Le pietre di Pantalica” di Vincenzo Consolo

Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie di pluvia spenta di lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente…
Ho scoperto Vincenzo Consolo per via del Ritratto d’uomo o d’ignoto marinaio di Antonello da Messina, conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, dove sarei andato a trascorrere le mie vacanze siciliane. Sul ritratto si era soffermato Consolo pubblicando nel 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, da molti considerato il suo capolavoro. E’ mio vezzo da sempre leggere in vacanza libri che riguardano il luogo dove mi trovo. Scoprire Consolo mi ha dato una grande opportunità. Cosi ho cominciato con Le Pietre di Pantalica, una raccolta di racconti pubblicata nel 1988. Pantalica in provincia di Siracusa, che conoscevo perché fino al 2003 vi si è disputato un trofeo ciclistico internazionale, è una necropoli rupestre formata da migliaia di grotte scavate fra il XIII e l’VIII secolo a.C.
I primi racconti sono frammenti per un possibile romanzo ambientato all’epoca dello sbarco degli americani in Sicilia. Si svolgono tra Gela, Licata e Mazzarino.
Guatarono sulla strada quella gran tartuca di ferro, quella cùbbula possente, quel bufone meccanico col cannone sulla testa che avanzava lasciando dietro una coda di fumo e polverazzo. Videro le stelle bianche stampate sopra i fianchi e la bandiera floscia in su la cima dell’asta sopra il parafango. Che è che non è, capirono finalmente che si trattava d’essi, dei Mericani...
Da subito dunque Consolo intriga per quel suo linguaggio che lo rende assai diverso, più diretto, rispetto a quello artificiosamente siculo di un Camilleri.
Nella Mazzarino invasa da inglesi e americani lo scrittore ci introduce un fotografo ungherese al seguito delle truppe, uno che odiava la guerra, lo schifo della guerra e lo schifo dei fascismi e delle dittature che provocano le guerre. Ecco che Consolo regala al lettore una figurina (da alcune pagine si è capito che si tratta di Robert Capa), sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto.
Consolo si sofferma sulla chiamata alle armi del dopo 8 settembre ’43, quando si cercò di ricostituire qualcosa che somigliasse a un italico esercito. Arrivano le prime cartoline precetto: Rocco Ansaldi, al centro, con lo zolfanello diede fuoco alla sua carta di precetto, e alzò in aria, per una punta, alta la fiamma. Tosto l’imitarono i fratelli; tutti l’imitarono di poi, e nella piazza, tra voci e sghignazzi, fu un ballo di fiamme, brevi come fuochi di paglia. Le cartoline rosa si fecero di cenere.
Nella Mazzarino di Consolo compaiono personaggi pittoreschi come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, che sul letto di morte si fece leggere il Decamerone. Il medico Giunta, don Turiddu Bartoli e don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione. E più di tutti piace la baronessa donna Elisa Accàttoli, elegante, ma d’una superbia tale e d’una prepotenza, e pardessù d’una sboccataggine, che pareva ci avesse sotto due cose come un uomo.
E’ proprio la Sicilia che volevo conoscere e che ho trovato in questo e altri scritti di Vincenzo Consolo che poi filosofeggia attraverso il personaggio di Vito Parlagreco (“Ma che siamo noi, che siamo?… formicole che s’ammazzan di travaglio… Il tempo passa, ammassa fango, sopra un gran frantumo d’ossa… E resta come segno della vita che s’è trascorsa, qualche fuso di pietra scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra… Un cimiterio resta, di pietre e ciaramìte mezzo a cui cresce, a ogni rispuntar di primavera, il giaggiolo, l’asfodèlo”).
Sono racconti che vanno letti con attenzione per assaporare tutto lo humour che lo avvicina a Pirandello e agli scrittori siciliani che lo hanno preceduto. In altre pagine ci parla di intellettuali siculi, Sciascia, Buttitta, Antonino Uccello, Lucio Piccolo e ci porta a spasso per la costa nord, tra Palermo e Messina, così scorrono Naso, San Fratello, Capo d’Orlando, Sant’Agata di Militello che è il suo paese di nascita. Entrano di diritto nella narrazione la poesia, il teatro, la storia, l’archeologia. Sempre critico verso la sua Sicilia, abbandonata ben presto per vivere e lavorare a Milano, Consolo scrive righe allucinanti su Palermo: Palermo è fetida, infetta. In questo luogo fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti sopra Bellolampo.
Sembrano frasi scritte oggi, a luglio 2016. Della sporcizia e fatiscenza di Palermo sono stato recente testimone. Purtroppo. Ma è possibile che lì nulla cambi mai? Aveva ragione Tancredi, il nipote del principe di Salina che gattopardescamente aveva detto “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Questa è la Sicilia ancora oggi. E c’entra – l’oggi – nel Memoriale di Basilio Archita, il racconto che narra di un mercantile su cui si sono imbarcati di nascosto dei clandestini africani: Il capitano confabulò con gli ufficiali; il secondo comunicò poi a tutti che avrebbero buttato i negri in mare. L’oggi, appunto.
E infine nel racconto Comiso Vincenzo Consolo lascia una sorta di testamento nei confronti della sua terra: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato… Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto… Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.

Riccardo Caldara
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Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo

Foto di Giovanna Borgese

Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo Sperimentalismo ed eticità: l’(in)attualità di Consolo Può destare sorpresa, vista la loro estrema complessità linguistica, ma i libri di Vincenzo Consolo sono stati tradotti in molte lingue: francese, inglese, tedesco, olandese, polacco, portoghese, spagnolo, catalano. In spagnolo addirittura alcune opere sono state tradotte due volte: in castellano continentale e nello spagnolo dell’America Latina; lo stesso è accaduto per il portoghese, con una seconda traduzione in portoghese brasiliano. Il sorriso dell’ignoto marinaio 1 è stato tradotto persino in arabo. Consolo è insomma scrittore di indubbia caratura internazionale, conosciuto in molti paesi. Per avviare il discorso su di lui, mi appoggerò all’auctoritas di Cesare Segre, autore di Un profilo di Vincenzo Consolo che precede l’edizione dei Meridiani Mondadori da me curata: un profilo che è stata l’ultima fatica del grande critico e filologo saluzzese, scomparso nel 2014. Scrive Segre: « Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione » 2 , quella degli anni Trenta (Consolo è nato nel 1933 ed è scomparso pochi anni fa, nel 2012). Non voglio contraddire ciò che dice Segre, che ha certo ragione, ma dire che « Consolo è lo scrittore più grande della generazione degli anni Trenta » soltanto rischia di essere un po’ riduttivo. Diciamo allora, senza mezzi termini, che Consolo è, in assoluto, uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. Proviamo a restare ancora un poco sulle generali. Consolo è anzitutto un autore di altissima qualità artistica. Il suo stile, di straordinario spessore, ha un’immediata riconoscibilità, un inconfondibile marchio di fabbrica, ed è dotato di una densità, complessità e originalità straordinarie. Spesso Consolo ha parlato di una lingua in qualche modo « inventata », e addirittura di una sua ferma intenzione di «non scrivere in italiano», di allontanarsi dalla piattezza della lingua comunemente parlata, mescidando lingue, registri e sottocodici, in un amalgama che si distende lungo una gamma amplissima di varianti diacroniche e diatopiche. Nel racconto autobiografico I linguaggi del bosco 3 , tratto da Le pietre di Pantalica, Consolo racconta di quando, a cinque anni, per leggeri problemi di salute – era infatti troppo magro e un po’ malaticcio – era stato portato per qualche mese in montagna, nella casa di famiglia al bosco della Miraglia. Qui egli vive un’amicizia, che è quasi una infantile ma serissima storia d’amore, con Amalia, una ragazzina dodicenne del posto: non si può certo parlare di amore in senso stretto, però i due si piacciono, e, per farla breve, sono sempre in giro insieme. Consolo racconta di come Amalia gli rivelasse il bosco, facendogli scoprire un mondo variegato e coloratissimo, fatto di cose, ma anche di parole: gli insegna come si chiamano gli alberi, gli arbusti, le erbe, i fiori, gli animali, e glielo insegna, fatto molto importante, non solo in siciliano, ma anche in sanfratellano, una lingua provenzale parlata in alcuni paesi del nord della Sicilia,
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1 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1976 (1a ed.); Milano, Mondadori, 1987 (2a ed., introduzione di C. Segre); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. TURCHETTA e uno scritto di C. SEGRE, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, pp. 123-260. 2 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XI. 3 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, in V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988 (1a ed.); 1990 (2a ed. Oscar , a cura e con introduzione di G. TURCHETTA) ; ora in in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 606-612. 2
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nella zona dei monti Nebrodi, subito a ridosso della costa di Sant’Agata di Militello, dove Consolo è nato. In molti casi, però, Amalia inventava le parole, costruendo un proprio personale linguaggio: Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava. Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, fèibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche…4 In questo modo Consolo delinea evidentemente una sorta di mise en abyme della propria poetica e della propria scrittura, mostrandoci appunto la costruzione di un linguaggio altro, analogo in qualche modo al suo: come Amalia dava alle cose “altri” nomi, anche Consolo costruisce una lingua che « chiama » sempre le cose in modo diverso da come le « chiamiamo » nella lingua di tutti i giorni. Prima di tornare a parlare del suo stile e della sua scrittura, voglio sottolineare che Consolo è molto importante anche perché ha un eccezionale spessore intellettuale. Si rileggano per esempio i saggi del suo volume Di qua dal faro 5 , che chiude il Meridiano. Il titolo evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva «di qua dal faro» implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare anche la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, in qualche modo come mondo “altro” e però anche emblematica di un mondo più vasto. Si tratta di un libro di saggi dove si trovano anche tante “storie” straordinarie: come per esempio la ricostruzione della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o quella della pesca del tonno. Ma questo libro è solo una piccolissima parte della vasta produzione del Consolo saggista, poiché ci sono ancora decine di saggi che non sono stati mai raccolti in volume: nel prossimo futuro mi piacerebbe lavorare a un’edizione degli altri scritti saggistici di Consolo. Pensiamo per esempio ai numerosi saggi dedicati alla storia dell’arte, di cui era un grande conoscitore: a Antonello da Messina, a Caravaggio, ma anche a innumerevoli artisti contemporanei, per i quali in numerosi casi ha scritto prefazioni per i cataloghi delle loro mostre. Consolo, grande intellettuale, ha avuto anche un’attività giornalistica di straordinaria ampiezza e intensità: rimando per questo alla bibliografia da me
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4 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, cit., p. 610. Corsivi nel testo. 5 ID. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 3 curata per il Meridiano 6 .
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E pensare che alcuni critici hanno scritto che Consolo era “pigro”: una insostenibile falsità! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: ma questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva « letteratura » impiegava anni a costruire quelle prodigiose macchine espressive, che chiameremo ora, assai provvisoriamente, i suoi “romanzi”. Ma mentre si dedicava alle scritture letterarie, egli scriveva anche pezzi giornalistici, a un ritmo che ha dell’incredibile. Nella bibliografia del Meridiano Mondadori ho cercato di fare un censimento (quasi) totale di tutti i suoi scritti, anche « militanti » e d’occasione: le bibliografie, si sa, non sono mai complete, ma spero di essermi avvicinato abbastanza all’ esaustività. Ma che cosa si vede da quest’attività? Si guardi per esempio al volumetto pubblicato da Sellerio, Esercizi di cronaca 7 , che raccoglie solo una selezione degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo « L’Ora » . Possiamo cogliere già come Consolo fosse costantemente presente nella vita pubblica e nella vita politica, ma ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che, a ben vedere, deriva proprio dalla cultura francese: pensiamo per esempio a Émile Zola o allo stesso Jean-Paul Sartre. Consolo era un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità. Vorrei fra l’altro segnalare che nel 2017 uscirà presso Bompiani, per le cure di Nicolò Messina, un volume che raccoglie un’ampia selezione degli scritti di Consolo sulla mafia: per un siciliano, certo, scrivere sulla mafia è un grande dovere morale. In questo grande scrittore c’è quindi sempre una straordinaria tensione etica, che è anche, dato senso, a una tensione politica. A suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dai politici… Il suo eccezionale spessore artistico e intellettuale rende sempre più necessaria sua una più stabile e più percepibile «canonizzazione» – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria -, che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. Anche per questo era necessaria un’edizione come quella dei Meridiani Mondadori, che, oltre a raccogliere tutti i suoi libri principali, fosse corredata di ampie note e di apparati critici capaci di aiutare nella comprensione dei testi. Ma degli apparati parleremo più avanti. In prima approssimazione vorrei dire che Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore « attuale » anche e proprio per la sua « inattualità », e che questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta -, ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce quella sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile, trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti
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– 6 In V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 7 V. CONSOLO, Esercizi di cronaca, a cura di S. GRASSIA, Prefazione di S. S. NIGRO, Palermo, Sellerio, 2013. 4
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che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora molto sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore « politico », verso i contenuti. Spesso Consolo è stato accusato di “formalismo”: un’accusa veramente ingiusta e poco fondata. Come si evince anche dal sottotitolo di questo intervento, Consolo è, da un lato, uno scrittore che attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia; ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla Neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche ad essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni Ottanta ha scritto infatti spesso di migranti che morivano in acqua, specie nord-africani. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 19578 ) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete), fa insomma tutt’ uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Vorrei ricordare, ad esempio, che il suo primo romanzo, un
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8 Ora in V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. MESSINA, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 5
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romanzo di formazione, La ferita dell’aprile 9 , parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il già citato sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche, e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica, in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora ad Eliot, al suo April is the cruellest month (celeberrimo attacco di The burial of the dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A portrait of the artist as a young men presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto, e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta inoltre tutta da studiare un’altra interessante questione, ovvero il ruolo di Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’ epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile 10 , fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella Sudamericana: si pensi per esempio a quanto di Faulkner arriva a Garcia Marquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Fatte queste premesse, nel mio discorso seguirò quattro piccole tappe: la Sicilia; la poetica di Consolo – perché nella sua poetica risiedono le radici e le ragioni della sua grandezza -; alcuni aspetti formali della sua scrittura, delle strutture dei suoi testi e della lingua; infine spiegherò a grandi linee com’è articolata l’edizione delle sue opere da me curata per i Meridiani Mondadori. L’ossessione della Sicilia Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Ma che Sicilia è? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria, storica, e una cura di una severità rara: possiamo dire, da questo punto di vista, che Consolo è un vero storiografo. Frequentando per tanto tempo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo arrivava ad ogni sua scrittura letteraria, raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Per esempio nel Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni
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9 V. CONSOLO, La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963 (1a ed.); Torino, Einaudi, 1977 (2a ed.); Milano, Mondadori 1989 (3a ed., con introduzione di G.C. Ferretti).; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 3- 122. 10 Cfr. G. TURCHETTA, Da un luogo bellissimo e tremendo, introduzione a V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XXXVIII, e Id., Note e notizie sui testi, ivi, p. 1293. 6 di lavoro)
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si parla della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, repressa poi nel sangue, ma a sua volta assai cruenta. Consolo l’ha ricostruita non solo studiando i libri di storia, ma andando in archivio, ritrovando tutte le carte di quella vicenda: tant’è vero che, per fare un esempio concreto, si è procurato tutti i certificati di morte di coloro che furono fucilati alla fine della prima parte del processo contro i rivoltosi. Alla fine del Sorriso dell’ignoto marinaio troviamo infatti proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna: è anzitutto un documento autentico, ma certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, che è quasi un nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, che abbiamo percepito quando, nel cap. V, la rappresentazione passa proprio attraverso la focalizzazione interna su Peppe Sirna. Consolo lavora così sempre: da un lato lavora come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli rappresenta è sempre “altro”, nel senso che è una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. Secondo me, si potrebbe dire della Sicilia di Consolo qualcosa di simile a ciò che è stato detto da Italo Calvino a proposito della Lucania rappresentata in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, un libro peraltro fondamentale per la formazione di Consolo. Nel romanzo di Levi si parla della miseria, dell’oppressione dei più deboli e della rabbia contadina che a volte esplode in rivolte selvagge e sanguinose. Calvino sostiene che la Lucania di Carlo Levi è servita da modello per tanti altri Sud del mondo: non a caso questo romanzo è stato tradotto e letto in America Latina, in Asia, ed è diventato un libro di riferimento per altre lotte, per altre rivoluzioni 11 . Ma anche la Sicilia di Consolo è una grande rappresentazione del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-europee. C’è un avvenimento che si ricorda poco e che apparentemente ha poco o nulla a che fare con la letteratura: nel 2008, per la prima volta, gli abitanti del mondo che vivono in città sono diventati più numerosi di quelli che vivono nelle campagne. Si tratta di un cambiamento enorme, epocale: in tutta la storia dell’uomo gli abitanti delle campagne sono sempre stati di più rispetto a quelli delle città, mentre ora assistiamo al fenomeno inverso. Consolo ci parla proprio di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà e mettano a rischio la sopravvivenza del pianeta stesso, ma in lui non vi è, come spesso accade negli intellettuali, il pianto, la nostalgia, la lamentela su un mondo che era più bello, anche se egli costantemente critica senza nessuna indulgenza questa modernizzazione. Ricordiamo che l’idea di Consolo di scrivere mescolando tante lingue è anche l’idea di conservare, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che sono dentro quelle parole. Nella scrittura di Consolo vi è una grande preoccupazione, oltre che storica, anche antropologica: egli desidera mostrare come cambia la cultura e, cogliendo i processi di cambiamento della Sicilia, coglie emblematicamente anche i cambiamenti del mondo tutto. Come molti altri intellettuali siciliani, Vincenzo Consolo ha rappresentato la Sicilia andando a vivere al Nord, e in particolare a Milano, come Verga, Vittorini, Quasimodo e tanti altri. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori (un’altra contraddizione produttiva) di necessità
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11 I. CALVINO, La compresenza dei tempi (1967), in C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945, poi 2010, p. XI. 7
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del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria essenziale che non esiste più: questa impossibilità ha come causa evidente proprio i processi di modernizzazione. A questo allude, per esempio, una delle più celebri poesie di Giuseppe Ungaretti, Girovago: «in nessuna parte di terra / mi posso accasare». Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma, una volta di più, parlando della Sicilia ci parla di noi tutti, di come ci spostiamo e di come non riusciamo più a ricostruire la nostra identità: perché ormai la nostra identità è un processo che si costruisce giorno per giorno, e non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andati perdute, che hanno deluso. Nelle sue opere egli ha messo a fuoco tre momenti fondamentali di questa parabola storica in tre romanzi storici, che a posteriori ha collocato in una trilogia. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) parla del Risorgimento italiano, di quello che ha rappresentato, come grande speranza ma anche grande delusione, straordinaria occasione perduta. Il Risorgimento infatti ha rappresentato l’illusione di un grande cambiamento non solo politico, ma anche sociale ed economico: il potere, infatti, non si sposterà di molto rispetto al periodo precedente. In Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega 12) Consolo parla dei primi anni Venti e della nascita del fascismo, in un periodo caratterizzato dall’irrazionalità e dalla violenza, che hanno segnato non solo la storia italiana ma anche gran parte della storia europea. E nel romanzo Lo spasimo di Palermo (199813) ci racconta un terribile presente, quello dei primi anni Novanta del Novecento, delle stragi di mafia del 1992, ovvero il presente dalla mafia (non soltanto siciliana), della corruzione, della complicità fra potere politico e potere criminale, della necessità di denunciarlo e anche della difficoltà di uscire da una situazione sempre più drammatica. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. La Sicilia è infatti, lo sappiamo, una terra bellissima, dove, per farla breve, c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, della Magna Grecia e della romanità, del Medioevo, del Barocco; una natura rigogliosa; e inoltre la Sicilia è pure un posto, perdonate la banalità, ma… perché non dirlo?, dove si mangia benissimo. In Sicilia c’è tutto, e quindi da un lato potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo esemplarmente e tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la mafia, quella criminalità organizzata così importante che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate «mafie», in analogia con quella siciliana. Pensiamo ora al romanzo Retablo 14 , in cui vi sono dei meravigliosi incontri tra amici, e nuove amicizie che nascono, e al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore senza fine: leggiamo per esempio la scena delle prostitute a
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12 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 647-755. 13 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 873-975. 14 V. CONSOLO, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 8
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cui per punizione viene tagliato il naso 15. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo: ma anche che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso 16 . La Sicilia è metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono; ma è importante aggiungere che Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati – non solo italiani, ma di quelli italiani di sicuro: quello di mettere tutto in «un tempo senza tempo», di parlare della violenza e della tristezza come di qualcosa di eterno, di un destino senza fine. In questo Consolo è davvero radicalmente diverso dal Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, che consapevolmente contestava: egli non dice mai che la storia non cambia, che «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono sempre storicamente determinati, che non c’è un male metafisico eterno. E che quindi noi dobbiamo continuare a combattere. Sempre. La poetica di Consolo Partendo da lontano potremmo farci una domanda molto difficile a cui darò, di necessità in modo rapido, varie risposte: «Che cos’è la letteratura?» O meglio: «Che cos’è questo discorso così particolare, che continuiamo a sentire come un discorso così fragile e allo stesso tempo così necessario?» Il grande sociologo francese Pierre Bordieu ha scritto un libro straordinario, Les règles de l’art (1992), per mostrare che cosa ha significato nella cultura dell’Occidente definire una specificità del «campo» della letteratura. Quello che noi sentiamo come «letteratura», infatti, lungi dall’essere una tipologia testuale ben delimitata da millenni, come di solito crediamo, nasce e si definisce nel secondo Ottocento, da un movimento che mette radici già nel Romanticismo. Qualcuno ha tentato di definire la letteratura secondo i suoi tratti linguistici: è stato il sogno degli Strutturalisti e, ancora prima, dei Formalisti russi, che hanno aspirato ad un’identificazione e a una definizione scientifica della specificità della letteratura; ma non ce l’hanno fatta, perché la letteratura può essere scritta in tutti i modi possibili, come mostra ad abundantiam il romanzo. C’è poi una definizione che potremmo chiamare di tipo retorico, quella di un grande teorico italiano, purtroppo scomparso abbastanza giovane, Franco Brioschi (1945-2005): egli mette a fuoco la letteratura come un linguaggio, o meglio delle pratiche discorsive legate ad una situazione comunicativa particolare, spiegando che «la letteratura è ciò che chiamiamo letteratura». A prima vista si tratta di una tautologia, ma in realtà non lo è, perché rinvia ad una specificità comunicativa, al fatto che i discorsi che noi identifichiamo con l’etichetta generica “letteratura” sono una varietà dei discorsi di “riuso” (un termine che Brioschi riprende dal grande filologo tedesco Heinrich Lausberg), che assume la sua qualità specifica, la sua letterarietà, in virtù di un contesto comunicativo, e storico, che gliela attribuisce. Il grande sociologo della letteratura francese Robert Escarpit, invece, pensava – in modo molto vicino alla definizione di Brioschi –che ciò che noi intendiamo come letteratura è
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15 Ivi, p. 400. 16 V. CONSOLO, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 9
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l’immagine sociale che una certa epoca si fa della letteratura: un’immagine che ci viene consegnata dai testi che definiscono il canone condiviso. Nel suo sempre illuminante Qu’est-ce que la littérature? (1947) Jean-Paul Sartre afferma che «écrire est dévoiler le monde, et en même temps le proposer comme un devoir à la générosité du lecteur». È un’immagine profondamente etica della letteratura, secondo la quale la letteratura non solo svela sempre qualcosa al lettore, ma anche gli impone, nel disvelamento, la necessità di tentare di cambiare quel mondo. E per Consolo, che cosa significa «letteratura»? Cerchiamo di capire dov’egli si collochi, perché in questa collocazione sta molto della sua grandezza. Per lui, da un lato la letteratura esiste solo come letteratura stricto sensu, nel senso che è importante distinguere tra le scritture giornalistiche e la scrittura d’invenzione, appunto la “letteratura”, ovvero fra gli articoli ch’egli stesso scrive quasi tutti i giorni e i libri costruiti attraverso una fatica di molti anni. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso quella che io chiamo la pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica una speciale intensità. Da un altro lato però questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi da un lato Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. En passant, Le parole sono pietre 17 è il libro di Carlo Levi sulla Sicilia: tre narrazioni di storie vere siciliane, che Consolo cita spesso e a cui fa spesso riferimento esplicito, o implicito, come nel titolo Le pietre di Pantalica. Da un lato quindi le parole vogliono essere come cose e, per renderle più dense, Consolo le “moltiplica”, le pluralizza in tanti modi; ma le parole non sono cose, non sono pietre: e quindi Consolo ci dice allo stesso tempo che la “letteratura”, perdonate la citazione molto mainstream, è per definizione una «mission impossible». È infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose: ma bisogna farlo sapendo che non è possibile… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che come Consolo hanno spinto verso la grande letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento, ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. In Consolo è costante la coscienza e la problematizzazione dei limiti della parola. Proprio perché la parola ha dei limiti irriducibili, che vanno sottolineati, si genera nelle sue opere un discorso che è anche costantemente meta-linguistico, in cui le parole non sono solo quello che sono, ma diventano anche discorso su se stesse. In Consolo, percepibilmente, c’è inoltre anche una costante tensione meta-letteraria: la sua è una letteratura che si domanda sempre «che cos’è la letteratura?»; e la sua narrativa è meta-narrativa, e mette costantemente in discussione la narrazione e le sue strutture ingannevolmente continue. Il sorriso dell’ignoto 17 C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955; poi ivi, 1979, con prefazione di V. Consolo, e anche, col titolo Carlo Levi, in Di qua dal faro, cit., pp. 1227-1233. 10 marinaio, per esempio, è un romanzo ma anche un anti-romanzo, così come è un romanzo storico e un anti romanzo-storico: è quindi, se vogliamo, sia ciò che vuole essere sia ciò che sa di non poter essere. Mentre sta scrivendo un romanzo-storico, inoltre Consolo sa bene che il romanzo-storico è già di per sé una contestazione della Storia, come ben sapeva Alessandro Manzoni, nume tutelare indiscutibile dell’idea consoliana del romano storico-metaforico; ma intanto egli contesta il romanzo-storico che sta facendo insieme alla storiografia ch’esso mette in discussione: come dire che in ogni momento egli fa un certo tipo di discorso, ma intanto gli toglie subito il terreno da sotto i piedi, lo svuota, lo demistifica. Se la parola è sempre problematizzata, proprio mentre egli la spinge verso le sue massime capacità espressive, ciò accade anche perché Consolo ci dà la percezione profonda e costante del fatto che ogni discorso è detto da qualcuno, che la parola è radicata in un soggetto e che quindi non esistono discorsi che si fanno ‘da soli’, perché la lingua è sempre «in situazione», come ci ha insegnato Michail Bachtin, e dopo di lui la pragmatica e la linguistica degli Speech Acts. Non esiste una lingua astratta, perché le parole derivano da persone che le hanno dette o scritte, e questo significa che le parole sono dotate di una capacità di verità legata, e non è una contraddizione, proprio al fatto che derivano da qualcuno che le utilizza in relazione ad una specifica esperienza di vita. In altri termini, in ogni parola c’è un vissuto che si afferma: e quindi per Consolo anche il più cattivo, il più stupido e il più infame degli uomini ci dirà delle verità perché ci parlerà di qualcosa che ha davvero vissuto; e la sua verità farà tutt’uno con i limiti invalicabili della sua parzialità, della sua non-verità. Nel terzo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, per esempio, c’è la rappresentazione dall’interno di un personaggio terribile, Frate Nunzio: un reazionario, un violento, un maniaco sessuale, che appartiene alla Chiesa ma al tempo stesso ne fa di tutti i colori, arrivando addirittura ad uccidere una ragazza e a stuprarla dopo morta… Nelle narrazioni, in genere, come ha spiegato Wayne Booth, raramente si rappresenta il punto di vista dei personaggi spregevoli, perché quando si presenta il punto di vista di qualcuno ci si avvicina alle sue ragioni, alle sue motivazioni. Ma Consolo ci mostra anche il più cattivo, il più infame, ci mostra che è possibile metterlo in scena, perché così svela e offre alla nostra comprensione una realtà esistenziale. L’ossessione di radicare il discorso dentro qualcuno che parla è anche un modo di mettere in scena la concreta verità nell’esistenza. Da un altro lato però, proprio perché le parole sono sempre di qualcuno, Consolo ci mostra che le parole sono sempre una mistificazione; qui sta l’altro lato della mission impossibile consoliana: «devo dire la verità, ma se la verità è sempre di qualcuno, non potrà mai essere una verità assoluta, e quindi devo anche criticarla, demistificarla». La complessità del discorso che Consolo fa sulla parola è grandissima, come possiamo vedere bene nel capitolo VI del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui troviamo la voce del protagonista principale, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, figura storica realmente esistita, che si dedicava ad attività intellettuali nobili, disinteressate, e forse anche inutili, o comunque di utilità assai limitata: egli era infatti un grande studioso di lumache, un malacologo, e la lumaca diventa simbolo portante del libro, come figura di inutile complicazione, di mescolanza di geometria e caos, come equivalente del labirinto. Mandralisca si trova a confrontarsi con la violenza della Storia ed è chiamato in qualche modo ad impegnarsi, ma non riesce a farlo sino in fondo o, quanto meno, coglie i limiti della propria azione. Consolo rappresenta il barone mentre mette in discussione il proprio discorso, che si presenta anche e proprio come 11 discorso di un intellettuale, che non riesce ad incidere sulla realtà storica. Consolo fa così quindi chiaramente una mise en abyme, mettendo in discussione anche il proprio discorso di intellettuale e di scrittore. Al tempo stesso egli imita lo stile di un erudito dell’Ottocento, uno stile un po’ retorico, pomposo, complicato, con una sintassi e un lessico complessi e un po’ involuti. Il passo a cui faccio riferimento è una lettera (un testo di fiction che ha l’apparenza di un genere di non fiction) in cui il barone Mandralisca, di Cefalù, che è anche colui che nella realtà storica ha acquistato il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, conosciuto anche come Il ritratto dell’ignoto marinaio, scrive a Giovanni Interdonato, a sua volta personaggio storico reale e militante molto attivo nella vicenda Risorgimentale. Mandralisca scrive dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, dove la rabbia dei contadini era esplosa al punto da portarli a massacrare tutti i “notabili” che si erano trovati sulla loro strada: i padroni, le autorità locali, i benestanti, i preti, ma anche i bambini… Siamo di fronte quindi a una violenza terribile, da un lato giustificata da secoli di oppressione, ma dall’altro assurda e cieca, come succede spesso in queste rivolte (come accadeva nelle jacquéries, ovvero nella contro-rivolta contadina e realista degli anni della Rivoluzione francese). Ecco le parole di Consolo, che imita uno stile in cui non crede e ci fa vedere, anche nello stile, la necessità di demistificare: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori , scansati alla fucilazione cui soggiacquero tredici d’essi in Patti, dietro sentenza di quella Commissione Speciale, il dì 18 dell’agosto scorso, quali in catene e quali latitanti, questa memoria non suoni invito istigativo a far pendere i piatti della bilancia della Giustizia sacra da una parte o dall’altra, ma sia intesa quale mezzo conoscitivo indipendente, obiettivo e franco, di fatti commessi da taluni che hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’ noti fatti. Or io invoco l’Esser Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel narrare que’ fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe de’ civili e quindi sapiente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe, le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati: sarà possibile, amico, sarà possibile questo scarto di voce e di persona? No, no! Ché per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizzi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiamo veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 12 Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che noi si possa fare è quella di gettar via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare con le scorze e con le bave di chiocciole e lumache, limaccia, babbalùci, fango che si maschera d’argento, bianca luce, esseri attorcigliati, spiraliformi, viti senza fine, nuvole coriacee, riccioli barocchi, viscidumi e sputi, strie untuose… » 18 . Ci sono coloro che hanno il diritto di prendere la parola e coloro che non riescono a raccontare la propria storia: e la letteratura sarà quindi anche un modo di dare voce a chi non può parlare. Ma è importante notare il lato critico dei personaggi consoliani, ossia mettere in discussione il loro discorso proprio nel momento stesso in cui lo pronunciano. Appare anche, sì, il sogno di dire le cose come stanno, ma è un sogno impossibile, perché il barone di Mandralisca parlerà fatalmente come un barone, anche se barone progressista, “di sinistra”. Ricordiamo che Peppe Sirna, detto Papa, è un bracciante agricolo, analfabeta, di cui, come accennato, si rappresenta nel cap. v il punto di vista, contrapposto poi alla sua morte, e di cui Consolo inserisce nell’ultima Appendice il vero certificato di morte. Significativamente, «impostura» è un termine che ricorre spesso in un’opera di Leonardo Sciascia a cui Consolo guarda sovente, e soprattutto per Il sorriso: Il consiglio d’Egitto. Le parole non sono solo parole, dice anche chiaramente Mandralisca, che da questo piunto di vista è un porta-parola dell’autore, ma rinviano ad una situazione culturale, ad un modo di sentire e ad emozioni che sono culturalmente e socialmente determinate. Il barone Mandralisca sogna un giorno in cui «le parole siano intieramente riempite dalle cose»: ma Consolo ci fa intuire che questo è un sogno impossibile». Allo stesso tempo, bisognerebbe scongiurare il rischio di smettere di scrivere, di parlare. In Consolo c’è insomma sempre una tensione verso l’assoluto della parola che confina con l’afasia: qualcosa che, mutatis mutandis, lo avvicina al rischio dell’afasia e della pagina bianca in Mallarmé, o alla tentazione di buttar via la penna, di smettere di scrivere, perché non ce n’è più bisogno o comunque non serve a niente, come ha fatto a Rimbaud, che smise di scrivere poesie, andando a fare il mercante di cannoni. Può parere strano questo accostamento per il “meridionalista” Consolo: eppure egli fa stare insieme, fa convivere l’impegno e la tentazione del silenzio, proprio perché mette in discussione il senso delle parole, di qualsiasi parola. Per lui è quindi necessario essere consapevoli dei limiti della parola e però anche combattere contro questi limiti. E come? Proprio con la strategia di moltiplicazione, di pluralizzazione: cui è dedicata la terza parte del mio discorso. La parola plurale È possibile combattere i limiti della parola o, meglio, provare a combatterli – perché questi limiti comunque resteranno -, ma bisogna spingerli oltre se stessi, in un certo senso «lanciare il cuore oltre l’ostacolo»: lo lanceremo, non ce la faremo, ma è necessario, bisogna farlo, altrimenti non ci sarà letteratura. Consolo si pone il problema dei limiti della parola, facendoci capire che esso è intimamente legato alla questione degli intellettuali. In lui c’è infatti, non a caso, una presenza molto profonda del pensiero di Gramsci, un autore che ha posto costantemente la «questione degli intellettuali», ovvero del loro ruolo storico, specie in rapporto alle peculiarità della storia italiana, e alla necessità di abbandonare la posizione
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18 Cfr. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio (cap. VI), in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 215- 217. 13
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dell’intellettuale tradizionale, orgoglioso di far parte di una casta, per diventare intellettuale organico, partecipe di un progetto politico. Ma torniamo alla strategia consoliana di pluralizzazione, cercando di capire la complessità di Consolo, che opera a tanti livelli, non solo al livello stilistico. Per esempio a livello di genere, poiché i generi nei suoi testi (salvo forse in La ferita dell’aprile) sono sempre rimescolati. Lunaria, ad esempio, è un libro che parla nuovamente della Sicilia, in particolare di Palermo, di una Palermo settecentesca un po’ storica e un po’ inventata, di una Palermo bellissima e corrotta. Quest’ambivalenza, lo sappiamo, vale per tutta la Sicilia: e poi anche per la vita tutta, «bellissima e terribile» allo stesso tempo. Lunaria è la storia fantasiosa di un momento drammatico, in cui cade sulla terra un pezzo della luna. La luna, ammalatasi a causa della corruzione del mondo, perde un pezzo, che cade in una remota contrada, lontana dalla corte di Palermo, dove è ambientata inizialmente la rappresentazione: una contrada dove vivono dei contadini che portano in sé ancora un’autenticità emotiva, sentimentale; quindi non a caso la luna sceglie di cadere proprio lì: è un segnale proprio dell’intima verità dei suoi abitanti, dell’autenticità di questi contadini, in qualche modo riconosciuta da un evento cosmico emblematico. Il viceré, allo stesso tempo uomo di potere e intellettuale problematico, porterà la propria corte proprio lì dov’è caduto il pezzo di luna, che verrà raccolto e riappiccicato al suo posto. La contrada verrà allora chiamata Lunaria. Ma ecco invece un’immagine della bellissima e corrotta Palermo: Ecco il più bel promontorio del mondo, corona di Ruggeri e di Guglielmi, ecco la grotta ove s’adagia l’Odalisca santa, la vergine romita, avida d’omaggi, d’allusioni, di maschili moventi sfigurati, sospiri, ardori, ceri esorbitanti… Declina, si scioglie quella roccia all’Arenella, all’Acquasanta: ed ecco il feudo senza barone, il regno di nessuno, la piana che palpita di scaglie, mobile strada per le Spagne, per le Afriche, per oltre le Colonne, la porta delle Nuove Indie… Da dove vengono, dove vanno tanti uccelli bianchi, tanti fiocchi, tanti vascelli del sogno? Che predano, quali speranze portano? (Esce dal suo nascondiglio e si sposta davanti al terzo balcone.) E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda… Ah la processione di cupole smaglianti, giare andaluse, lozas doradas, le facciate di zuccheri, cannelle, mandorlate, la pampillónia dei marmi nelle chiese, e i monasteri d’ombre, bocce ove crescono lieviti malsani, e i conventi turpi, Ostérii di supplizi, cani ch’alimentano roghi disumani, vampate di barbarie… E i superbi palazzi de’ superbi, in gara eterna col Nostro, con Noi, con gli Dèi… E i giardini, le fontane, le peschière, impensabili ville sopra i Colli, alla Bagarìa, pietrificazioni d’orgogli, d’incubi, follie, sonni, echi snaturati di Cube, di Zise, di Favàre… Ah città bambina, ah vanità crudele, ah fermento cieco, serpaio, covo di peste, di vaiolo, esplosione di furie, ribellioni! Ah carnezzeria feroce, stazzo di lupi, tana di sciacalli!… Ignorancia, altaneria, locùra, tumba de verdad, cuna de matanza!» 19 La struttura del testo è teatrale, con le dramatis personae, le scene e le didascalie; ma, al tempo stesso, siamo davanti a una fiaba, che però è anche un testo molto poetico, in gran parte scritto in versi20. Quindi Lunaria è teatrale e non è teatrale, è una fiaba, ma allude anche alla storia, è poesia e allo stesso tempo ha una dimensione saggistica, che la rende affine a un conte philosophique. E qui gli esempi potrebbero continuare. Si pensi a un libro come L’ulivo e l’olivastro: è un saggio o una narrazione? A che genere appartiene? I testi di Consolo sono quindi caratterizzati quasi sempre da un’alta complessità a livello di genere, da un addensamento, una pluralizzazione anche sul piano macro-strutturale. Vi è poi, ma lo sapevamo già,
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19 V. CONSOLO, Lunaria, Torino, Einaudi, 1985; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 276-277. 20 Recentemente Etta Scollo, una cantante siciliana che vive e lavora in Germania, ha musicato i testi in versi di Lunaria, facendone un disco bellissimo: Nella gioia luminosa dell’inganno, Jazzhouse, 2013. La Scollo si occupa di repertorio siciliano classico, come quello di Rosa Balistreri, per esempio. 14 una grande complessità a livello di lingua, tanto che si è parlato di «plurilinguismo» per la lingua di Consolo; ma Cesare Segre obiettava giustamente che «plurilinguismo» – come ci ha spiegato anzitutto Bachtin, che Segre riprende – è anche «polifonia», cioè pluralità di prospettive, e dunque non si tratta soltanto di molte lingue, ma di diverse prospettive sul mondo. Per questo «raccogliere le parole», come fa Consolo, significa cercare di preservare la «biodiversità» del linguaggio, la sua varietà, e dunque quella delle culture che lo impiegano. In Consolo vi è una moltiplicazione anche a livello di tono: di solito si è insistito sul lato tragico di Consolo, che si fa più unilaterale nelle ultime opere, quando il suo linguaggio e la sua prospettiva hanno iniziato a farsi più cupi. Però mi sembra importante sottolineare quanto c’è di ironico e persino di comico in Consolo e quanto la sua rappresentazione mescoli continuamente l’alto e il basso: come per esempio nel personaggio di Vito Parlagreco, un contadino che parla solo dialetto, a dispetto del suo cognome…. Vito fa una riflessione d’intonazione leopardiana, e si chiede: «Ma che siamo noi? Che siamo?» si chiedeva Vito Parlagreco, masticando pane e pecorino con il pepe. «Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.» 21 Una riflessione altissima, metafisica ed esistenziale, fatta da un personaggio di modestissima condizione e di ancor più modesta caratura intellettuale, mentre mangia pane e pecorino: ma il suo formaggio e la sua condizione di persona ignorante, di bracciante, si mescolano visibilmente con le sue nobili interrogazioni, cambiandone profondamente il tono. Ancora: in Consolo vi è una costante mescolanza di poesia e di prosa. Qui la critica ha lavorato molto ed è stato notato spesso che i testi di Consolo possono essere riscritti mettendo in molti luoghi gli ‘a capo’ e quindi creando dei versi, che sono già presenti nella ritmica, anche ‘per l’occhio’. Spesso, significativamente, si hanno delle sequenze di endecasillabi e settenari, che certo alludono proprio al modello della canzone leopardiana. Ma questi versi, comunque, non sono propriamente versi, tranne in Lunaria o in qualche altro luogo, perché a rigore restano comunque prosa. In questo senso penso che Consolo condivida l’aspirazione a fare una prosa narrativa che sia completamente poesia, aspirazione che era di Vittorini, per certi versi un maestro per Consolo: anche se, absit iniuria verbis, la qualità della scrittura di Consolo è a mio avviso superiore a quella di Vittorini. Ancora: spesso Consolo fa entrare in conflitto, in calcolata contraddizione, diverse voci. Citerò qui soltanto Retablo, in cui si raccontano e s’intrecciano più storie d’amore. Retablo è un termine spagnolo che indica una «pala d’altare»: e il libro è costruito proprio come una pala d’altare, con un capitolo breve all’inizio e uno breve di analoghe dimensioni alla fine, e con in mezzo una parte molto più ampia, proprio a simulare la proporzione fra le parti di un polittico. Nel primo capitolo, il primo “quadro” del retablo, vi è il racconto di Isidoro, disperato, che rimpiange la sua amata Rosalia; alla fine troveremo il racconto speculare di Rosalia, che ci rivela come, anche se si prostituiva, ha sempre amato solo Isidoro. Deve lasciarlo, ma lo ama. Al centro vi è un altro romanzo d’amore, assai più ampio, che ha come protagonista Fabrizio Clerici, che è anche il narratore principale. Abbiamo quindi tre protagonisti e tre narratori, che si alternano e alludono anche a una struttura pittorica: ma Fabrizio Clerici era anche un pittore vero, contemporaneo e amico di Consolo, di cui nell’edizione Sellerio sono 21 V. CONSOLO, Filosofiana, in Le pietre di Pantalica, cit., p. 541. 15 anche riprodotti dei quadri. Bisogna ammettere che un difetto serio del Meridiano è quello di non aver potuto aggiungere le immagini e le copertine di tutti i libri, che erano parte integrante dell’operazione artistica, e che inoltre ribadiscono l’interesse di Consolo per la storia dell’arte e la pittura in particolare, che si fanno spesso parte integrante della sua scrittura. Ma c’è ancora un’ulteriore complicazione, perché in realtà Fabrizio Clerici dà costantemente la parola ad altri personaggi che, a loro volta, raccontano delle lunghe storie e diventano, come direbbe Genette, narrateurs de deuxième dégré, quindi ancora altre voci. Inoltre, se c’è la Rosalia numero uno, ovvero quella dell’ultimo capitolo, l’amata di Fra’ Isidoro – un frate che poi deve allontanarsi dal convento -, c’è anche un’altra Rosalia, Rosalia Granata, che pure, nel capitolo Confessione 22 , racconta una storia in cui si parla di amori controversi con preti e che viene presentata come se fosse fisicamente scritta sul retro, sul verso delle pagine che Fabrizio Clerici sta scrivendo. Quindi c’è una pagina scritta in carattere tondo e una, dietro, scritta in carattere corsivo, come un secondo racconto, perché Fabrizio dice che sta usando una carta che è già stata usata: dove si assiste a uno sfondamento del testo nella realtà, a un’uscita nella materialità della scrittura e della costituzione fisica del testo, che è poi un’altra maniera di cercar di andare oltre i confini della parola, di segnalarceli e, allo tempo stesso, di vincerli. La mescolanza tra scrittura e pittura è un’altra forma di pluralizzazione, di sfondamento, come per esempio il riferimento costante nel Sorriso dell’ignoto marinaio al Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, a cui assomiglia in modo incredibile uno dei personaggi, Giovanni Interdonato, di cui conosciamo l’aspetto fisico, appunto perché scopriremo, assieme a Mandralisca, che è identico al ritratto di Antonello da Messina. Consolo ci sta così spingendo, con una sorta di “violenza” semiotica, al di fuori del testo, che pure resta fatalmente un testo. E potrei citare ancora come ne Lo spasimo di Palermo si parli del cinema, mettendo in gioco un altro codice semiotico. Consolo continua quindi a mescolare i vari codici e a fare questo gioco teatrale in molte sue opere, come in La ferita dell’aprile o in Retablo, in cui si parla di spettacoli teatrali e se ne mostra la messa in scena, ricordando intanto, con una prospettiva barocca, molto spagnola ma non meno siciliana, che la vita è un teatro, e forse addirittura che «la vita è sogno». Il richiamo a Calderón de la Barca e a Cervantes è esplicito: infatti in Retablo viene messo in scena un intermezzo (un entremés) di Cervantes, mentre il resoconto narrativo dice esplcitamente che la vita in qualche modo è recitazione e illusione. L’edizione di Consolo nei Meridiani In questa edizione dei Meridiani ho cercato di dare il più possibile la parola a Vincenzo Consolo e negli apparati ho usato tutto quello che ho potuto trovare di sue dichiarazioni. L’ho anche intervistato e interrogato per circa tre mesi, nell’autunno del 2011: e qui vorrei ricordare con grande affetto e intensità la sua generosità e il suo coraggio, poiché persino negli ultimi mesi di vita continuava a rispondere senza sosta alle mie sollecitazioni, ai miei dubbi. Anche per me è stato difficile, e non nascondo che quel lavoro mi dava una grande angoscia: ma Consolo era anche certo contento che stessimo lavorando insieme all’edizione completa delle sue opere. Sono stati mesi affascinanti e terribili, durante i quali sino a poche settimane prima della morte egli continuava a riflettere sul suo lavoro e a spiegarlo; e anche, voglio sottolinearlo, sino a pochi giorni prima della morte continuava a scherzare. 22 V. CONSOLO, Retablo, cit., pp. 416-422, alle pagine pari. 16 Certo, negli ultimi anni si era incupito; ma Consolo certo non è, come ho già sottolineato prima, solo uno scrittore che sa adoperare esclusivamente il tragico: egli è stato un uomo molto spiritoso e vivace, e anche la sua scrittura, a ben guardaare, ce lo mostra così. Così ho potuto dargli la parola anche attraverso le molte risposte che mi ha dato direttamente, soprattutto domande su singole parole. In seguito ho raccolto le numerose lettere che ha scritto ai traduttori, rispondendo alle loro infinite domande: perché Consolo, certo, è difficile e i traduttori avevano tanti dubbi. Gli scrivevano moltissimo e Consolo rispondeva con lettere che vanno dalle due alle venti pagine circa, in cui rispondeva una per una a tutte le loro domande, di nuovo con cortesia e generosità straordinarie. Nel Meridiano si trova spesso la sigla LT, che significa «lettere ai traduttori», senza però l’indicazione ogni volta del nome del traduttore a cui Consolo aveva risposto, perché sarebbe stata una scelta editorialmente troppo macchinosa. Però ho raccolto tutte queste sue risposte, in modo che la stragrande maggioranza delle questioni poste dal testo al lettore è di fatto chiarita dalle sue stesse parole, in modo da non lasciare dubbi. Ho poi costruito, con la Cronologia, una biografia di Consolo, che prima mancava totalmente: la sua vita forse non ha grandissimi eventi, ma ci sono tantissime cose interessanti. Qui vorrei anzitutto ricordare che Consolo si è laureato in Giurisprudenza. È comprensibile che abbia scelto questo corso di laurea, certo, perché in Meridione, dove non ci sono grandi industrie, moltissimi studiano per ottenere una laurea in Giurisprudenza, così da fare poi l’avvocato o il magistrato o il notaio. Ma per Consolo è stato un po’ diverso, forse un po’ più complicato: perché il padre, il nonno e il bisnonno di Consolo, da tre o quattro generazioni, erano commercianti di alimentari. Essi raccoglievano un eccellente olio di Sicilia, che veniva usato per ‘tagliare’ e integrare la scarsa produzione di un olio ligure di una grande azienda, quella dei Fratelli Costa, che fingevano di vendere olio di Liguria. La Sicilia, quindi, come spesso accadeva, era sfruttata da quelli del Nord, che ne traevano lauti guadagni. La famiglia Consolo raccoglieva dunque l’olio che andava alla grande azienda Costa, che peraltro esiste ancora. Però ad un certo punto i Consolo hanno pensato di creare la loro l’azienda invece di far guadagnare tanti soldi a industriali liguri: e a quel punto hanno deciso che il settimo dei nove figli di Calogero, Vincenzo, avrebbe dovuto seguire studi universitari di chimica. Ma questi voleva studiare Lettere e poiché la famiglia, soprattutto gli zii, avrebbero voluto impedirgliele, perché li consideravano «studi da femmine», alla fine Giurisprudenza viene scelta come una mediazione: Vincenzo avrebbe dovuto diventare l’esperto legale dell’azienda di famiglia. Mi permetterò ora di raccontarvi ancora qualche aneddoto divertente della vita di Consolo e dei suoi familiari. Ecco il primo: a Sant’Agata di Militello, cittadina del Nord nella provincia di Messina, in realtà un po’ più vicina a Palermo che a Messina, davanti alle isole Eolie, i Consolo avevano un negozio di alimentari, dove vendevano olio, granaglie varie e pasta, che allora veniva venduta sfusa. C’era la pasta di prima, di seconda e di terza qualità, quest’ultima comprata dai più poveri. Al negozio dei Consolo si recava sempre il barone Lucio Piccolo, poeta, diventato molto noto per un articolo su di lui scritto da Eugenio Montale, anche se la sua notorietà sarebbe poi stata superata di molto da suo cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I Piccolo erano molto ricchi, avevano una proprietà straordinaria e anche una grande, bellissima villa a Capo d’Orlando, Villa Vina: proprietà che poi gli furono praticamente rubate da amministratori disonesti. Il barone Piccolo andava a far la spesa dai Consolo, o 17 meglio faceva andare il suo autista, Peppino, poiché lui non usciva mai dall’auto imponente con cui si faceva portare in giro, una Lancia Lambda, forse perché noblesse oblige… o forse anche perché c’era la puzza di pesce che lo disturbava – dice Consolo stesso. Peppino comprava cinquanta chili di pasta di seconda qualità, e il nonno di Consolo continuava a domandarsi perché il barone Piccolo, così ricco, acquistasse pasta di seconda qualità; era scandalizzato, perché gli sembravano troppo tirchi. Un giorno chiese a Peppino il perché e questi rispose: «Ma no, quella è per i cani…». Secondo scandalo: allora i baroni Piccolo erano troppo spendaccioni…, e sprecavano pasta comunque buona che sarebbe stata più opportunamente da dare ai cristiani! Un altro aneddoto divertente della biografia di Consolo e della Cronologia riguarda l’acquisto del primo televisore. I Consolo non erano ricchi, però stavano bene in quanto commercianti e quindi acquistarono presto un televisore, e, come accadeva allora, invitavano spesso amici e parenti a guardare i programmi RAI. Una sera la famiglia era riunita intorno alla tavola e tutti mangiavano con la televisione accesa: tranne la zia Rosina, di anni novanta, che non mangia quasi nulla e se ne resta tutta triste ed intimidita in disparte. Alla fine della serata esclama: «Ma che vergogna! Mangiare davanti a tanti estranei… ». Un altro aneddoto. Un giorno Vincenzo e sua moglie Caterina – che voglio ringraziare infinitamente per l’ospitalità e la generosità, perché per tre anni e mezzo mi ha accolto con affetto e disponibilità impareggiabili – hanno finalmente ospite a cena Leonardo Sciascia, che era il migliore amico di Vincenzo. Caterina vuole fare bella figura, e, essendo originaria della zona di Bergamo, in più residente a Milano, decide di preparare una cena alla milanese – risotto con lo zafferano e cotoletta alla milanese -. Sciascia mangia tutto con appetito e gusto e alla fine sentenzia: «Però se non mangio la pasta mi sembra di non aver mangiato…! ». Per tornare agli apparati dell’edizione, e per terminare, nella parte finale del Meridiano c’è anche un Glossario, ovvero una raccolta lemmatica delle parole ricorrenti che possono creare delle incomprensioni; anche in questo caso una buona parte delle parole mi è stata illustrata e chiarita dallo stesso Consolo. Le Note e notizie sui testi, che sono frutto di un lavoro davvero molto lungo e approfondito, forniscono una ricostruzione ampia e sistematica della storia di tutti i testi del Meridiano. Voglio segnalare, fra le altre, la ricostruzione della storia redazionale ed editoriale di La ferita dell’aprile, il libro d’esordio, attraverso cui Consolo assume piena consapevolezza di essere davvero uno scrittore e combatte contro chi vuole fargli cambiare troppo, snaturando il suo stile, così laboriosamente costruito: è una battaglia importante e decisiva, di cui ora ho ricostruito tutto il percorso, attraverso le varianti e attraverso le lettere. Un’altra sezione delle Note e notizie sui testi che ci offre dati finora non conosciuti è quella in cui mostro la genesi di Le pietre di Pantalica, un libro nato come reportage storico-giornalistico sul processo ai frati estorsori di Mazzarino, per una collana sui processi celebri diretta da Giulio Bollati e Corrado Stajano, e poi diventato in corso d’opera un progetto di romanzo-storico sulla cittadina di Mazzarino: ma anche questo progetto è stato nuovamente riorganizzato, anche se è stato in parte compiuto, e ancora se ne percepiscono le linee portanti nella struttura del libro così come lo leggiamo ora, specie nelle prime due parti. L’edizione Mondadori è poi corredata da una vastissima Bibliografia. In conclusione, vorrei comunque sempre ricordare, financo con insistenza, come in Consolo troviamo una continua tensione verso la vita, per il gusto del vivere: forse non è così banale ricordare quante volte egli parli di cibi, di dolci; per me, curatore, è stato fra l’altro un grande e non sempre facile lavoro trovare tutte le spiegazioni dei diversi dolci, dei vari formaggi, dei materiali per preparare e cucinare. Sono convinto che tutto ciò ha a che fare con una percezione sensuale, piena di godimento della vita. Consolo è uno scrittore problematico, drammatico, ma dobbiamo anche sentire in lui tutta questa vitalità, questa voglia di farci sentire appunto che questo luogo che è il mondo è tremendo, ma è anche bellissimo. Vorrei finalmente davvero chiudere, leggendo l’inizio di Retablo, in cui il fraticello Isidoro parla della sua Rosalia. Due brevi commenti linguistico-letterari prima di leggere il testo. Consolo costruisce un attacco di romanzo in cui c’è un nome di donna a partire dal quale produce vari giochi linguistici: si tratta di una reinvenzione, non certo solo una riscrittura, dell’attacco di Lolita in Nabokov, dove c’è tutta una serie di giochi linguistici sul nome di Lolita. Qui Consolo gioca su Rosalia, che è Rosa, il fiore, e Lia, che cioè “lega” (dal verbo “liare” che significa “legare”); ma va aggiunto che Rosalia è la Santa Patrona di Palermo e di Rosalia si parla ricordando non solo lei come santa, ma anche la cripta, la grotta di Santa Rosalia, a Palermo, dove c’è una teca di cristallo con una sua statua molto venerata. Di questa grotta parla a lungo Goethe nel suo Viaggio in Italia, cui Consolo fa chiaramente riferimento: il che ci ricorda anche che Retablo è anche un libro di viaggio, che riprende la grande tradizione della letteratura di viaggio Sette-Ottocentesca: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi! con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre?
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23 23 V. CONSOLO, Oratorio, (incipit) di Retablo, cit., pp. 369-370. 19
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Riflessioni e domande del pubblico : Laura Toppan : Nello Spasimo di Palermo il personaggio di Gioacchino afferma : « invidiava i poeti, e maggiormente il veneto, rinchiuso nella solitudine di una Pieve saccheggiata, tu possa del Montello questo mondo, le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vibrava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante, la tua seconda scoscesa, questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sponda del suo Mediterraneo devastato”. « Il veneto » è Andrea Zanzotto, rinchiuso nella sua Pieve di Soligo, attento ai cambiamenti epocali e alla trasformazione del paesaggio, come Consolo che, da Milano, è attento alle trasformazioni della ‘sua’ Sicilia. È interessante notare che Consolo si definiva un « archeologo della vita » e Zanzotto « un botanico di grammatiche ». In queste espressioni possiamo ritrovare uno stesso modo di concepire il lavoro letterario. E lo sperimentalismo linguistico e di generi che Consolo attua in prosa, Zanzotto lo raggiunge in poesia. L’affinità tra i due grandi autori la si riscontra anche nella loro apertura europea e sarebbe interessante forse andare più a fondo di questa consonanza. Giorgia Bongiorno : D : Un altro « meridonialista europeo » è Gesualdo Bufalino. Che tipo di rapporto o di contrasto c’era tra Consolo e Bufalino? R : Non si amavano molto, non c’era molta simpatia. Consolo sentiva Bufalino come uno scrittore un po’ troppo professore. C’è un apprezzamento abbastanza tiepido, anche se c’è una foto che gira molto con loro due e Sciascia che ridono: +una foto scattata in occasione della collaborazione per il volumetto Trittico. Complessivamente era un autore che Consolo non riusciva ad amare; ma non penso che vi fosse competizione. Anche Bufalino è certo testimone della forza della tradizione siciliana: qualcuno ha detto che è la regione d’Italia che ha prodotto la miglior letteratura del Novecento; altri hanno invece detto « sì, ma la Sicilia non è Italia; la Sicilia è la Sicilia». Secondo me è vero e allo stesso tempo non è vero: pensiamo per esempio al titolo di una raccolta di racconti di Consolo, La mia isola è Las Vegas, dove il racconto eponimo racconta di un siciliano mafioso che dopo la seconda Guerra Mondiale spera che gli americani si prendano la Sicilia e ne facciano la 51esima stella degli Stati Uniti, così si potrebbe farne finalmente una specie di immensa bisca, come Las Vegas. Consolo era consapevole dell’importanza di molti scrittori siciliani e quindi anche di Bufalino, ma lo avvertiva come troppo «letterato», nel senso che in lui non avvertiva così tanta pressione verso la vita. Secondo me è importante insistere su questo punto per capire sino in fondo Consolo. Egli ha avuto infatti una vita intellettuale ricchissima, anche dal punto di vista dei contatti e delle amicizie, come per esempio José Saramago o Milan Kundera. Sébastien Ortoleva (studente) : D : Dal punto di vista dei rapporti con altri autori, com’era il rapporto che Consolo aveva con Sciascia ? R : Consolo ha sempre avuto un’ammirazione grandissima per Sciascia, sia come intellettuale che come persona, però ha sempre pensato che il modello di letteratura di Sciascia non fosse quello ‘giusto’, perché troppo comunicativo, più vicino alla saggistica, più denotativo, e che invece fosse necessario fare ‘altra’ letteratura. Dal punto di vista della pratica letteraria quindi 20 Consolo ha sempre contestato il suo grande amico, in modo esplicito, ma sempre ‘amoroso’, perché l’affetto per lui è sempre rimasto grande. L’ha difeso infatti anche nei momenti più difficili, per esempio all’indomani dell’uscita dell’articolo I professionisti dell’anti-mafia (gennaio 1987 sul « Corriere della Sera ») – un articolo molto problematico di cui si discute ancora oggi – in cui Sciascia parla male dei magistrati anti-mafia, del pool di Borsellino e di Falcone, e soprattutto di quest’ultimo. Sciascia parlava, in modo un po’ sprezzante, di coloro che hanno fatto carriera occupandosi di mafia… Sciascia fu difeso da Consolo, ma altri non furono d’accordo e in effetti bisogna dire che l’articolo fece fare dei passi indietro al lavoro del pool. Questo dimostra che Consolo difendeva Sciascia anche nei momenti in cui sarebbe stato meglio non difenderlo, però lo contestava anche, ovvero contestava quel modello di letteratura troppo comunicativa, rappresentata appunto da Sciascia e anche da Calvino. Per Consolo infatti questo tipo di letteratura non riusciva a «caricare» abbastanza il linguaggio come lui voleva fare, tanto che Il sorriso dell’ignoto marinaio, il suo secondo romanzo, il suo massimo libro, forse il suo capolavoro, di eccezionale complessità, comincia proprio con una polemica con Sciascia. Si ricorda il quadro di Antonello da Messina e un episodio che Consolo reinventa ma che in qualche modo è storicamente vero, ossia quello di una ragazza che ha sfregiato con un punteruolo un po’ di questo sorriso (e questo danno è ancora visibile). Forse l’ha fatto, come racconta Consolo, perché era innamorata di colui che assomigliava proprio al ritratto dell’ignoto, cioè Giovanni Interdonato, e forse perché il suo amato si faceva vedere troppo poco, dato che era sempre a combattere per il Risorgimento e l’unificazione d’Italia. Ma lo stesso Consolo ha affermato che quell’attacco al quadro di Antonello – quadro di cui parla anche Sciascia in un famoso saggio, L’ordine delle somiglianze, e che viene citato all’inizio del Sorriso – e in quel sorriso sembra poter riconoscere qualcuno che conosciamo, anche se si tratta di una persona che non sappiamo chi sia… Consolo cita Sciascia, ma poi, quando vuole citare il ritratto sfregiato di cui parla Sciascia, fa un’ironia sul Sorriso che è nel ritratto dell’Ignoto, polemizzando proprio con Sciascia. Ancora una volta Consolo ha scelto, programmaticamente, una via lontana da quella di Sciascia, e l’ha fatto anche quando lo cita, poiché nel Sorriso ci sono molti rinvii a Il Consiglio d’Egitto e a Morte dell’inquisitore. Consolo non voleva una letteratura tutta razionale, e l’idea di sfregiare il quadro per amore corrispondeva alla vitalità, alla passione che Consolo in Sciascia non trovava poi tanto. Il progetto di stile di Consolo è, se non opposto, molto lontano quindi da quello di Sciascia. Nell’Archivio ho ritrovato tutte la corrispondenza relativa all’edizione del primo romanzo: essa mostra un processo molto importante di questo giovane scrittore che sta acquisendo la consapevolezza di essere uno scrittore e combatte per difendere la propria opera. Consolo si rivolge anzitutto a Basilio Reale, un importante intellettuale – a sua volta poeta e soprattutto psicanalista – cha è stato colui che ha portato il manoscritto alla Mondadori, e attraverso questo carteggio e anche altre lettere – per esempio gli interventi dei lettori editoriali – si può ricostruire tutto l’iter della pubblicazione. Ma c’è ancora molto da fare, perché per il momento mi sono limitato a fare solo una sintesi per spiegare lo stato di questi dattiloscritti: possediamo non soltanto il dattiloscritto della prima versione, che possiamo confrontare con quella finale, ma anche due dattiloscritti uguali: in uno ci sono le note dell’amico Basilio Reale che suggeriva cambiamenti, nell’altro ci sono sia gli interventi suggeriti da Raffaele Crovi, editor alla Mondadori, sia le controcorrezioni di Consolo. Questi a volte cambiava in base alle richieste dell’editore, a volte effettuava delle scelte ancor più radicali. C’è quindi il dattiloscritto, ci sono le varianti interlineari, quelle a margine e quella sul verso dei fogli dattiloscritti, dove Consolo riscrive il pezzo a penna. Attraverso questi documenti preziosi si può vedere com’egli costruisse piano piano la misura ritmica, perché alle volte scrive un testo quasi identico: copia alcune righe ma cambia qualche pezzetto, cerca la misura giusta: è lo spettacolo del “farsi in diretta” della scrittura. 21 Inoltre nelle carte delle Pietre di Pantalica ho trovato un racconto totalmente inedito, di cui anche Caterina Consolo ignorava l’esistenza: un racconto che è un segno del progetto cambiato e di una parte di questo progetto, un racconto che c’è nell’apparato del Meridiano e si intitola L’emigrante. C’è un certo Vito – probabilmente il Vito Parlagreco di cui parlavamo prima – che sta emigrando a Milano. Poi forse Consolo ha ritenuto che spingere anche verso l’emigrazione lo allontanava troppo da quel territorio siciliano in cui doveva restare la rappresentazione. Però questo ritrovamento è davvero molto interessante: c’è un racconto, non dimenticato ma messo da parte, dell’emigrante che arriva a Milano e vede dal suo punto di vista soggettivo la città.


Conférence du Professeur Gianni TURCHETTA de l’Université Statale de Milan qui s’est tenue à Nancy, le 8 Mars 2016 sous invitation et organisation de Laura Toppan, MCF en Italien (transcription de la conférence enregistrée et du dialogue avec le public par Laura Toppan)

Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.

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ROBERTA DELLI PRISCOLI

Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.

ROBERTA DELLI PRISCOLI

Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo.

Tra gli ultimi scritti di Consolo sono presi in attenta considerazione «L’olivo e l’olivastro» (1994), «Lo Spasimo di Palermo» (1998), «Il viaggio di Odisseo» (1999), «La mia isola è Las Vegas» (2012). «Il viaggio di Odisseo», trascrizione di una conversazione tra Consolo e Nicolao, offre una illuminante chiave di lettura. Il ritorno catartico di Odisseo nell’ Itaca della ragione e degli affetti diventa metafora del nostos di chi è nato nell’ isola dai tre angoli. La Trinacria, isola in cui sono confluite le fisionomie diverse, ma complementari di varie componenti etniche, è configurata come modello emblematico di una più ampia realtà storica e geografica. Le aporie del tempo presente sembrano offuscare il panorama sociale e ambientale del mondo del Mediterraneo, ma, secondo Consolo, la salvezza è ancora possibile, ove si dia spazio al linguaggio della letteratura e della poesia. Il viaggio di Odisseo 1 ‘offre il filo di Arianna al lettore che si avvicina alla multiforme e complessa produzione letteraria di Vincenzo Consolo.2 Il libro, attento e meditato confronto tra Consolo e Nicolao, delinea l’orizzonte culturale, le coordinate letterarie, i valori di riferimento dello scrittore siciliano. Questi, preliminarmente, dichiara che, tra i più recenti scrittori, i più significativi per lui sono Vittorini (Conversazione in Sicilia) e D’Arrigo ( Horcynus Orca), ambedue siciliani «di una terra, di un’isola eccentrica, estrema, che fanno compiere ai loro rispettivi eroi, Silvestro e ’Ndria Cambria, il nostos, il viaggio di ritorno».3 Ma, dopo aver preso atto che l’utopia vittoriniana di Conversazione in Sicilia è definitivamente crollata, Consolo risale da Vittorini all’ Odissea, a questa grande matrice del racconto, per capire e per capirsi.4 «L’Odissea è così piena di sensi, di significati: in ogni frammento di essa si possono leggere interi mondi».5 Egli  compie così un nuovo viaggio nel poema omerico, mettendo in luce originali prospettive di lettura, che sono non verità filologiche, ma scoperte soggettive, utili alla sua concezione del mondo. Odisseo è visto come l’eroe della colpa, della colpa soggettiva, e il suo nostos diventa il viaggio dell’espiazione e della catarsi. La colpa dell’eroe è la creazione del cavallo di legno, «mostro tecnologico, […] arma estrema, sleale e dirompente che aveva segnato la sconfitta di Troia alla fine della guerra».6 Nicolao, in uno dei suoi interventi,7 sottolinea come Odisseo, nella prospettiva di Consolo, sia il primo eroe che collega mētis e technē nell’arte bellica, attirando su di sé la maledizione dell’uomo tecnologico.8 Consolo ribadisce il collegamento tra la maledizione di Odisseo e l’irruzione della tecnologia nel mondo del menos, del furore guerriero, proponendo una riflessione sulla tecnologia in generale, che è la chiave di volta della sua intuizione del mondo: La tecnologia ha un automatismo di riproduzione di velocissimo e inarrestabile sviluppo che l’uomo non riesce più a controllare: è lei che ci controlla, ci determina. Siamo insomma al mito di Frankenstein di Mary Shelley. Siamo all’ambiguità della scienza, che ci può salvare  1 V. CONSOLO – M. NICOLAO, Il viaggio di Odisseo, Milano, Bompiani, 1999. Il testo è la registrazione,

aggiornata, di una conversazione tenuta da Consolo e Nicolao presso la libreria Messaggerie Paravia di Milano il 10 ottobre 1996. 2 Sugli stretti rapporti tra l’opera di Consolo e l’Odissea, cfr. A. GRILLO, Appunti su Odisseo e il suo viaggio nella cultura siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo e a Cattafi, in S. NICOSIA (a cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita, Venezia, Marsilio, 2003, 593-604. Una ricca rassegna bibliografica su Consolo si legge in TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), 2001, 117-122. 3 CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 13. 4 Ivi, 20. 5 Ivi, 32. 6 Ivi, 28. Cfr. V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano, Oscar Mondadori, 2012, 15 (I edizione: Scrittori italiani, Mondadori, 1994). 7 CONSOLO-NICOLAO, Il viaggio di Odisseo …, 30. 8 IVI, 29-30. 2 o distruggere. La tecnologia, certo, ha rivoluzionato il mondo, ci ha liberati dalla fatica, dall’isolamento, dalla lentezza, dalle offese della natura, dalle malattie. Ma quella stessa tecnologia ha creato la bomba atomica, ha ammorbato il mondo, avvelenato la natura. L’elettronica poi ci ha fatto varcare le colonne d’Ercole, uscire dall’angusto Mediterraneo, dato sicuramente nuove conoscenze, ma insieme ci ha immesso in un oceano tempestoso di messaggi, ci ha staccati dalla realtà, ci ha risospinti nella caverna platonica o meglio nell’incantato palazzo di Circe, dove avvengono le mutazioni più degradanti.9 Odisseo, dunque, rappresenta l’archetipo dell’homo technologicus, responsabile di mali estremi. 10 Per altro, egli non è solo individualmente responsabile della costruzione del cavallo, ma è anche compartecipe della colpa collettiva degli Achei, che hanno scatenato la guerra di Troia, la guerra, «questo grande cataclisma».11 Il tema odissiaco della guerra e della colpa soggettiva degli eroi achei, in primis di Odisseo, è interpretato da Consolo come metafora dei mali e delle colpe della modernità, con la precisazione che le colpe della modernità non sono soggettive, come quelle di Odisseo e degli altri duci greci, ma oggettive. Con amaro pessimismo scrive Consolo: I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato (tutti noi abbiamo scatenato le guerre, creato i campi di sterminio, le pulizie etniche, lasciamo morire per fame la stragrande maggioranza dell’umanità…). Nessun viaggio penitenziale e liberatorio è ormai possibile. Itaca non è più raggiungibile.12 Come Itaca, così la Sicilia, l’Itaca dello scrittore, non è più raggiungibile, perché l’isola è stata distrutta dal potere politico-mafioso. I due mostri dell’Odissea, Scilla e Cariddi, acquattati sulle opposte coste dello Stretto, sono la zoomorfizzazione del cavallo di legno, il suo contrappasso.13 Partendo da questa visione negativa della modernità, di matrice sociale e politica, Consolo perviene ad una radicale concezione pessimistica del destino dell’uomo e della sua storia esistenziale; e gli elementi fondamentali di questa desolata Weltanshauung egli attinge da una sua peculiare interpretazione dell’Odissea: «Ma tutta l’Odissea, sappiamo, è una metafora della vita. Casualmente nasciamo in un’Itaca dove tramiamo i nostri affetti, dove piantiamo i nostri olivi, dove attorno all’olivo costruiamo il nostro talamo nuziale, dove generiamo i nostri figli. “La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice Paul Claudel».14 Consolo, rimodulando la frase di Claudel, afferma che alla radice dell’odissea moderna è l’olivastro, richiamando i vv. 476-485 del libro V dell’Odissea, in cui sono descritti un olivo e un olivastro nati dallo stesso ceppo, sotto i quali si rifugia Ulisse, sbattuto dalle onde sull’isola dei Feaci.15 L’olivo selvatico è per Consolo metafora di tempeste e naufragi, inganni, regressioni, perdite; insomma, è simbolo del ritorno del barbarico e mostruoso mondo dei Ciclopi.16 È questa l’intelaiatura culturale e ideologica da cui prendono luce e significato le opere di Consolo, in particolare quelle degli ultimi anni: L’olivo e l’olivastro (1994), Lo Spasimo di Palermo (1998), La mia isola è Las Vegas (2012). I primi due libri sono strettamente interconnessi. Come scrive lo stesso Consolo,17 il primo è una sorta di proemio, di antefatto del secondo. Suoi temi dominanti sono la centralità geografica della Sicilia, nuova Itaca, nel mare Mediterraneo, la  9 Ivi, 32-33. 10 IVI, 29-30. 11 Ivi, 21.12 Ivi, 22. 13 Ivi, 22-23. 14 Ivi, 24. Per la citazione di P. Claudel, cfr. L’Odyssée, Préface de P. CLAUDEL, Introduction et notes de J.BÉRARD, Traduction de V. BÉRARD, Paris, Gallimard, 1973. 15 Di qui il titolo del libro L’olivo e l’olivastro, che ha in epigrafe i vv. 476-482 del libro V dell’Odissea. 16 CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 24. 17 Ivi, 20.3 ricchezza e la molteplicità culturale dell’isola, la presenza in essa di indelebili testimonianze della colonizzazione e della civiltà greca: la Sicilia, insomma, è non solo l’ombelico geografico del Mediterraneo, ma anche il crocevia di viaggi e migrazioni, l’approdo di diverse etnie e civiltà. Prefigurazione di questa varietà e mobilità culturale è l’Odissea, il cui protagonista attraversa tutto il Mediterraneo e, secondo alcune fonti antiche e medievali,18 si spinge oltre le colonne d’Ercole sulle coste meridionali atlantiche dell’ Iberia, vedendo e conoscendo molti popoli e i loro costumi.19 Altro Leitmotiv del libro, e in generale di tutta l’opera consoliana, è il drammatico contrasto tra l’età dell’oro della Sicilia e il catastrofico scadimento del tempo presente. L’opera si articola in diciassette capitoli, ciascuno dei quali offre un racconto autonomo. Consolo considera la navigazione di Ulisse secondo una duplice prospettiva: in una dimensione orizzontale il viaggio è da oriente verso occidente, nel Mediterraneo; ma, una volta immerso nella vastità del mare, Ulisse compie il suo viaggio in verticale, nell’ipogeo della memoria, dove il reale si sfalda e insorgono paure e rimorsi. Ulisse, l’inventore del mostro tecnologico, il cavallo, compie un viaggio di espiazione per purificarsi dagli orrori e dalle colpe della guerra di Troia, causa di morti e distruzioni. L’eroe affronta la prova suprema nell’attraversare lo stretto, tra Scilla e Cariddi: Una metafora diventa quel braccio di mare, quel fiume salmastro, una metafora dell’esistenza: lo stretto obbligato, il tormentato passaggio in cui l’uomo può perdersi, perdere la ragione, imbestiandosi, o la vita contro lo scoglio o dentro il vortice d’una natura matrigna, feroce; o salvarsi, uscire dall’orrido caos, dopo il passaggio cruciale, e approdare, lasciata l’utopia feacica, nell’Itaca della realtà e della storia, della ragione e degli affetti. Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli: epifania, periglioso sbandare nella procella del mare, nell’infernale natura; salvezza possibile dopo tanto travaglio, approdo a un’amara saggezza, a una disillusa intelligenza.20 Queste riflessioni di Consolo sullo stretto aprono la strada alla descrizione della devastante rovina che è stata provocata nell’ isola dal dissennato uso degli strumenti tecnologici ed elettronici, ultime proliferazioni della nefasta invenzione del cavallo di Troia. In più di un capitolo Consolo delinea il quadro spaventoso di una Sicilia stuprata e deturpata da nuovi proci. Crudamente realistica e orrifica è la rappresentazione degli scempi perpetrati nella piana di Milazzo, «uno dei più incantevoli teatri dell’intera Sicilia»,21 come scriveva nell’ Ottocento lo storico siciliano Piaggia. Dopo avere ricordato la sacrilega uccisione delle intoccabili vacche del Sole, compiuta dai compagni di Ulisse, Consolo evoca un analogo sacrilegio del tempo presente: Ai milazzesi è stato distrutto per sempre, verso la fine degli anni Cinquanta, quell’“incantevole” teatro, come è stato distrutto agli augustani, ai siracusani, ai gelesi. Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura.22 È uno scenario apocalittico di distruzione e di morte. Con un inquietante collegamento transtestuale,23 Consolo inserisce nella narrazione le parole di un operaio miracolosamente sfuggito alla morte in un incidente verificatosi nella raffineria di Milazzo. Allo scrittore, tutto  18 Cfr. M. CORTI, Introduzione, in CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, VI. 19 Cfr. Od. I, 3. 20 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 17.

21 IVI, 23.

22 Ibidem. 23 Sulla diffusa transtestualità nell’opera di Consolo, che spesso si spinge fino all’autoplagio, cfr. DARAG O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, in «Quaderni d’Italia» 13, 2008,163-164, 174, 180- 182.4 immerso nel racconto odissiaco, si presenta ovvia l’analogia tra lo scempio delle vacche del Sole e la strage degli operai di Milazzo: come le pelli delle vacche sgozzate strisciavano prodigiosamente e muggivano le loro carni, sia quelle cotte intorno agli spiedi, sia quelle crude,24 così i superstiti sperano «che le nere pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni dei ministri».25 A questo terrificante quadro della rovina presente si collega e insieme si contrappone il panorama della Sicilia felix di un tempo, ricca di fermenti culturali, che possono diventare l’inizio di una catarsi, a somiglianza del viaggio liberatorio di Ulisse. Emblematici, a tale riguardo, sono alcuni capitoli. Così, nel capitolo XI, in cui Consolo, con un ardito volo di fantasia, immagina un viaggio di Caravaggio a Siracusa per incontrare l’amico e discepolo Mario Minniti, al tema centrale del fecondo intreccio di civiltà si associa il motivo, appena accennato, dell’esilio dei siciliani dalla loro terra: Il tono scarno e grave, ermetico e dolente vorrebbe avere d’Ungaretti o tutti i toni degli innumerevoli poeti per sciogliere […] un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio Ovidio Ibn Hamdĩs esule a Majorca.26 Chi scioglie il canto di nostalgia per Siracusa è lo stesso Consolo, simbolo di ogni viaggiatore in esilio, Odisseo della modernità. Dalla grecità classica, che è la lente culturale attraverso cui sono guardate la storia e la e la civiltà letteraria di ogni popolo, egli si spinge fino a Ibn Hamdĩs, il poeta arabo-siciliano, nativo di Siracusa, dell’XI-XII secolo, esule dalla sua città a causa della conquista normanna. Figura per antonomasia dell’esule è Ifigenia, trasportata da Artemide nella Tauride, dove regnava il barbaro re Toante, secondo la vicenda rappresentata nell’Ifigenia in Tauride di Euripide. I tre poeti lirici greci viaggiarono molto: seguendo la rotta di Ulisse, vennero nell’isola del Sole, a Siracusa, alla corte di Ierone, e nei loro carmi celebrarono il re, la Sicilia, Siracusa. Dai poeti greci a Ibn Hamdĩs, a Ungaretti, il canto dei poeti celebra Siracusa. La Cattedrale siracusana di S. Lucia, in cui è «incastonato il tempio di Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza, guida del reduce, soccorso dell’errante»,27 è simbolo della civiltà cosmopolitica della città, dei traffici plurietnici del suo porto, verso cui convergono tutte le rotte del Mediterraneo, il mare che «solcò la nera barca d’Ulisse, che solcarono le navi dei Corinzi che vennero a fondare Siracusa».28 Nell’ampia e variegata prospettiva culturale di Consolo Siracusa assurge a simbolo di città europea nel cuore del Mediterraneo. Qui venne Guy de Maupassant; qui venne e morì il “Pindaro germanico”, August von Platen: la sua tomba è nel parco di Villa Landolina, dietro il museo dove è custodita la Venere Anadiomene, espressione suprema della Bellezza greca, amata e cantata dal poeta tedesco.29 Ma il il presente ha oltraggiato e sfigurato i luoghi della memoria. Il reduce di Siracusa, ossia Consolo, per rappresentare la decadenza di questa città, con raffinata dottrina, vivificata da sincero pathos, incastona nel racconto un passo della Historia turco-byzantina di Ducas, che scrive un compianto per la caduta di Costantinopoli, nella mirabile versione di un anonimo traduttore  24 Cfr Od. XII, 394-396.

25 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 23. 26 Ivi, 74. 27 Ivi, 73. 28 Ivi, 80. 29 Ivi, 88-89. 5 veneto.30 Siracusa e Costantinopoli alle due estremità del Mediterraneo: l’una devastata dai moderni barbari, l’altra occupata dai turchi. Accanto a Siracusa Consolo esplora la storia, la composita cultura, il fascino e la rovina di altre città dell’isola. Nel capitolo VI si snoda, lungo le pendici dell’Etna, una fantasmagoria di personaggi moderni e antichi, in un’ambigua dimensione atemporale. Fra tutti emerge Empedocle di Agrigento, il filosofo che, secondo la tradizione, si sarebbe gettato nei crateri dell’Etna, per dare credito alla diceria che fosse diventato un dio;31 accanto al filosofo compare Pausania, il giovane amato, a cui il filosofo dedica il poema Sulla natura.32 Empedocle e Pausania propongono ampie citazioni dalla tragedia in un atto Catarsi, che Consolo scrisse nel 1989 e che nel novembre di quell’anno andò in scena al teatro Stabile di Catania.33 Le autocitazioni sembrano dare un ritmo desultorio al capitolo, ma, ad una lettura attenta, emerge chiaro il disegno di un mosaico, che ha come motivo conduttore «la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi».34 In alcuni capitoli la tecnica dell’agglutinamento di vari nuclei narrativi perviene a risultati di forte concentrazione tematica, soprattutto in relazione alla cultura classica. Così, nel capitolo I, è raccontato il viaggio di un giovane meccanico di Gibellina dalla Sicilia a Milano: quel giovane è il Doppelgänger di Consolo stesso, che, nella narrazione, passando repentinamente alla sua vicenda autobiografica, ai suoi viaggi a Milano, dove era già Vittorini, così conclude il racconto, alludendo a se stesso: Un lungo tempo uguale, di orrori, fughe, follie, vergogne, un infinito tempo di rimorsi. Alzò le vele un tempo e abbandonò altre macerie. Come un vecchio lazzarone ferma ora la gente, invitati alla festa di nozze e, senza opportunità e ritegno, si confessa: – Sì, sono io l’astuto inventore degli inganni, il guerriero spietato, l’ambiguo indovino, il re privato dell’onore, il folle massacratore degli armenti, sono io l’assassino di mia figlia.35 Consolo allude velatamente a personaggi dell’epos omerico: Ulisse, Achille, Tiresia o Calcante, Menelao,Aiace, Agamennone. Ora lo scrittore non è più soltanto un altro Odisseo, ma si rispecchia in altri personaggi omerici, tutti colpiti da un avverso destino e segnati da colpe individuali e collettive. L’olivo e l’olivastro, che aveva preso inizio dal viaggio emigratorio di un giovane meccanico di Gibellina, si chiude, secondo la tecnica della Ringkomposition, con la storia dello stesso emigrante, che alla fine va a lavorare nelle cave di Meirengen, presso Basilea, e non torna più in Sicilia, l’Itaca negata. L’antica Gibellina non esiste più, sepolta sotto un manto di macerie, distrutta dal terremoto del Belice. Al suo posto sorgono «le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne».36 Volgendo lo sguardo indietro, nella storia ebraica, Consolo trova un cupo  30 Ivi, 93. L’inizio del Lamento sulla città caduta di Ducas, insieme con tre versi di Jacopo da Lentini, è premesso in epigrafe al romanzo Retablo: V. CONSOLO, Retablo, Milano, Oscar Mondadori, 2000, 5 (I edizione: Palermo, Sellerio, 1987). 31 Cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. REALE, Milano, Bompiani, 2005, 1001 (VIII, 69) 32 Ivi, 993 (VIII, 60); I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006, 649 (EMPEDOCLE 1). 33 Catarsi, tragedia in un atto, fu pubblicata insieme con due atti unici rispettivamente di Bufalino e Sciascia in Trittico, a cura di A. DI GRADO e G. LAZZARO DANZUSO, Catania, Sanfilippo, 1989. Cfr. Vincenzo Consolo, Spettacolo di fuoco avvolto nel mito, in «Corriere della Sera», 21 luglio 2001, 17.; G. TRAINA, Vincenzo Consolo…, 31-32. 34 V. CONSOLO, Per una metrica della memoria, in G. ADAMO (a cura di), La parola scritta e pronunziata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, Prefazione di G. FERRONI, S, Cesario di Lecce, Manni, 2006, 187. 35 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 11. 36 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 130 6 riscontro allo scempio di Gibellina nella tragedia di Masada, narrata da Giuseppe Flavio.37 E nella sua potente fantasia, di ascendenza pasoliniana, i romani, che entrano nel forte di Masada, si trasfigurano in violenti motociclisti, che sfrecciano sulle rovine di Gibellina: «I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette, corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio con fari. Trovano corpi, fiamme, silenzio».38 La frase conclusiva dell’Olivo e l’oleastro prelude significativamente alla Stimmung che domina nel successivo romanzo Lo Spasimo di Palermo, a cui in epigrafe sono premessi i vv. 196-198 del Prometeo incatenato eschileo: «Corifea Rivela tutto, grida il tuo racconto… / Prometeo Il racconto è dolore, / ma anche il silenzio è dolore».39 A questa iniziale citazione eschilea fa da controcanto una citazione omerica, dal libro VIII dell’Odissea (vv. 577-578), in cui a Odisseo, che piange ascoltando il canto di Demodoco sulla caduta di Troia, Alcinoo chiede: «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte…».40 Le due citazioni preannunciano per il protagonista Gioacchino Martinez un destino «d’atroce perdita, di pena, di sconfitta».41 Egli è un novello Prometeo, incatenato alla rupe scoscesa delle sue sconfitte e sofferenze, e, al tempo stesso, un novello Odisseo sventurato, esule dalla sua Itaca/Sicilia, ramingo in paesi lontani. Lo stesso titolo del romanzo richiama chiaramente il destino di Palermo,42 della Sicilia e di tutti coloro che in Sicilia sono nati, segnati, come Mauro, il figlio di Gioacchino, «dalla nascita nell’isola, nell’assurdo della storica stortura, prigione dell’offesa, deserto della ragione, dissolvimento, spreco di vite, d’ogni umano bene».43 Il titolo è stato suggerito all’autore da una tela di Raffaello, La caduta di Cristo sul cammino del Calvario, chiamata a Palermo Lo Spasimo di Sicilia, tela dipinta originariamente per la chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e poi ceduta al re Filippo II per la sua cappella dell’Alcazar di Madrid. Consolo riporta la descrizione del quadro fatta da un anonimo siciliano, il quale scrive che la scena dell’incontro di Cristo con la Vergine, accompagnata da Giovanni e dalle Marie, è così viva e perfetta, che il pittore le diede il nome di “sgomento della Vergine e Spasimo del Mondo”. «In progressione – commenta Consolo – andava dunque questo Spasimo, da Palermo, alla Sicilia, al mondo».44 Nel romanzo è narrata la storia dello scrittore Gioacchino Martinez e della sua famiglia, in particolare della moglie Lucia e del figlio Mauro. Il racconto, in undici capitoli, cronologicamente procede, per così dire, a zig-zag, giustapponendo segmenti narrativi appartenenti a tempi diversi. Temi conduttori sono l’allontanamento dalla Sicilia, l’inesorabile perdita degli affetti e la conseguente solitudine, il tragico tramonto di un’Itaca felice, per sempre distrutta da nuovi e più disumani proci. Il figlio del protagonista, arrestato in Italia per partecipazione a gruppi terroristici, riesce a fuggire con la sua compagna Daniela a Parigi, dove frequentemente si reca Gioacchino, per rivedere «quel figlio che si negava a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento».45 Mauro respinge il padre e con lui tutti i padri di quella generazione che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che dopo il disastro avrebbe dovuto  37 FLAVIO GIUSEPPE, Guerra giudaica, a cura di G: VITUCCI, Milano, Mondadori, 2008, 484-499 (VII, 8, 2 – 9, 2). 38 CONSOLO, L’olivo e l’olivastro…, 132. Nelle pagine culminanti nella rievocazione di Masada C.RICCARDI [Inganni e follie della storia: lo stile lirico tragico della narrativa di Consolo, in E. PAPA (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di V. Consolo, Siracusa, 2-3 maggio 2003, San Cesario di Lecce, Manni, 2004, 101- 102] ha messo in luce elementi strutturali della tragedia greca. 39 La traduzione italiana è di Consolo. 40 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Oscar Mondadori, 2013, 59 (I edizione: Scrittori italiani,Mondadori, 1998), Come è precisato a p. 111, la traduzione italiana è di G. A. Privitera. Per la correlazione di questa citazione omerica con la concezione di Consolo della «narrazione poematica», cfr. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso…, 177-179. 41 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 54. 42 Per la percezione consoliana della realtà palermitana, cfr. S. PERRELLA, In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, Messina, Mesogea, 2014, 30-33. 43 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 74. 44 Ivi, 94 45 IVI, 35.7 ricostruire il paese, «formare una nuova società, una civile, giusta convivenza».46 E invece, come dice Mauro al padre, il paese è sempre «nel marasma, nel fascismo inveterato, nell’ingerenza del pretame, nella mafia statuale».47 Al ristorante parigino, dove Mauro e Daniela accompagnano il padre, questi osservando attentamente i compagni di Mauro, ricostruisce nella sua mente il quadro di un naufragio generale, che ha coinvolto la generazione dei padri e quella dei figli: Provò pena per quei naufraghi, rematori sulla galea dell’illusione e dell’azzardo, vittime della follia del capitano, della ferocia del nostromo, superstiti d’un tempo di speranza, prigionieri d’uno slancio, d’una idea pietrificata, esuli sfuggiti alla condanna, privati del ritorno. Per quelli seppelliti nelle galere, uccisi dalle droghe, transfughi negli assoluti, metafisiche di conforto o apocalissi di catarsi. E ancora per i cinici, barattieri d’ideali e dignità, accattoni di condoni e di prebende. Pena per una generazione incenerita da un potere criminale, figlia di padri illusi, finiti anch’essi nei più diversi naufragi.48 I viaggi di Gioacchino, nella prima parte del romanzo, sono diretti dalla Sicilia verso il continente, prima a Milano, dove si stabilisce con la famiglia, e poi in Francia. Ogni viaggio «era tempesta, tremito, perdita, dolore, incanto e oblio, degrado, colpa sepolta, rimorso, assillo senza posa».49 Nel capitolo ottavo ha inizio il viaggio di ritorno, il nostos verso la Sicilia. Gioacchino lascia Milano, vista nella prospettiva delle peregrinazioni di Odisseo: «Qui la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’eea dei filtri, della mutazione, del grugnito inverecondo».50 Ma, come Consolo aveva dichiarato nel Viaggio di Odisseo, non è più possibile nessun viaggio di catarsi, Itaca non è più raggiungibile, perché non esiste più. La Sicilia è un «pantano», «luogo infetto», una «terra priva ormai di speranza, nel dominio della mafia».51 Lo stesso antico Mediterraneo, un tempo solcato dalle navi dei coloni greci, simbolo dell’incontro di diverse culture, è ormai un mare devastato.52 Palermo, la città dove torna Gioacchino, l’ Odisseo disincantato del nostos infausto, è irrimediabilmente deturpata dal «sacco mafioso».53 Martinez-Consolo ne delinea un quadro apocalittico:Intrigo d’ogni storia, teatro di storture, iniquità, divano di potenti, càssaro dei criati, villena degli apparati, osterio di fanatismo, tribunale impietoso, stanza della corda, ucciardone della nequizia, kalsa del degrado, cortile della ribellione, spasimo della cancrena, loggia della setta, casaprofessa della tenebra, monreale del mantello bianco. Congiura, contagio e peste in ogni tempo.54 L’esistenza del reduce deluso, sofferente, disperato si conclude tragicamente in un attentato mafioso, che stronca la vita di un magistrato, di un innocente fioraio, dello stesso protagonista. Conclusione amara, intrisa di scorato pessimismo. E tuttavia Consolo non ha perduto una sia pur fioca speranza di risorgere: la salvezza può venire dalla poesia. «Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore».55 46 Ivi, 105. 47 Ivi, 32. 48 Ivi, 32. 49 Ivi, 83. 50 Ivi, 79. 51 Ivi, 65.52 Ivi, 89. 53 Ivi, 83. 54 Ivi, 102. Sui variegati registri linguistci di Consolo, cfr. G. ALVINO, La lingua di Vincenzo Consolo, in ID., Tra linguistica e letteratura, «Quaderni pizzutiani» 4-5, Roma, Fondazione Antonio Pizzuto, 1998. 55 CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo…, 44.
8 Moduli strutturali della visione di Consolo della realtà siciliana e mediterranea ricorrono anche in alcuni racconti della raccolta La mia isola è Las Vegas.56 Nel racconto Le vele apparivano a Mozia,57 in cui lo scrittore narra un’escursione, compiuta da lui insieme con Clerici, Guttuso e altri amici, sui siti archeologici da Segesta ad Agrigento, vengono in primo piano l’antica città fenicia di Mozia sull’isolotto di S.Pantaleo e i suoi straordinari reperti, testimonianza emblematica della ricca e variegata storia della Sicilia, della sua civiltà plurietnica, della sua centralità geografica e culturale nel contesto dei paesi bagnati dal Mediterraneo. Il vero protagonista di questo racconto è «la stupenda statua in tunica trasparente del cosiddetto ragazzo di Mozia»58. Intorno a questa statua Consolo elabora una fantasia letteraria tra autocitazione e suggestione eliotiana. Ricorda che nel suo precedente libro Retablo59 aveva immaginato che il protagonista, il pittore, portasse via dall’isola la statua e che questa, nel corso di una burrascosa traversata verso Trapani, cadesse in fondo al mare. L’episodio di Retablo richiama alla memoria dello scrittore i versi della quarta e penultima sezione di The Waste Land di T. S. Eliot intitolata Death by Water, in cui è tratteggiata la morte a mare di Phlebas, maturo marinaio fenicio, un tempo giovane e bello. Mozia è l’isola dove approdano le navi dei colonizzatori fenici, cariche di mercanzie, il luogo in cui si incrociano le civiltà dei semiti, dei greci e dei romani, ombelico del Mediterraneo e crocevia delle sue rotte.60 Consolo fa sparire in fondo al mare il ragazzo di Mozia, perché gli appare dissonante rispetto alla mercantile civiltà fenicia: […] quella statua di marmo mi sembrò una discrepanza, un’assurdità, una macchia bianca nel tessuto rosso della fenicia Mozia; mi sembrò una levigatezza in contrasto alla rugosità delle arenarie dei Fenici, uno squarcio, una pericolosa falla estetica nel concreto, prammatico fasciame dei mercanti venuti dal levante. Come l’arte, infine, un lusso, una mollezza nel duro, aspro commercio quotidiano della vita.61 Analoga trama tematica è nel racconto Arancio, sogno e nostalgia.62 Qui il Leitmotiv è dato dagli agrumi siciliani, considerati nella loro lunga storia, dalla prima origine in Oriente al loro arrivo in Occidente e, lungo le rotte del Mediterraneo, nell’isola di Sicilia, «che, nel centro di questo mare, ha avuto tutte le invasioni, ma ha accolto e sviluppato tutte le civiltà e culture»63 Dai greci ai bizantini, dagli arabi ai catalani e fino a tempi recenti, gli agrumi sono stati sempre diffusamente coltivati in Sicilia, poiché in quest’isola, simile all’omerico orto di Alcinoo e all’ariostesco Paradiso Terrestre, hanno trovato il loro clima ideale: questi alberi, arancio o limone o cedro, sono diventati il simbolo d’un Sud di antica civiltà, «accanto al tempio dorico, alla cavea di granito d’un teatro, al luminoso pario d’una Venere».64 Ed è per gli agrumi che la Sicilia è diventata il paese del sogno, vagheggiato da Goethe nella lirica «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn» e da Stendhal nella Vie de Henri Brulard.65  56 V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, Milano, Mondadori, 2012. In questo volume, l’ultimo voluto e concepito da Consolo, sono raccolti racconti precedentemente pubblicati o inediti. 57 Il racconto fu pubblicato per la prima volta in «Il Gambero rosso», supplemento di «il manifesto», 5-6 giugno 1988. 58 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 127. 59 Cfr. CONSOLO, Retablo…, 89-94. 60 Sul mare come culla e crocevia di civiltà, cfr. le riflessioni dello stesso Consolo in PERRELLA, In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo…, 67-69. 61 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 127.62 Il racconto fu pubblicato per la prima volta in «Sicilia Magazine», dicembre 1988, 35-46 (con traduzione inglese a fronte). 63 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 130. 64 Ivi, 129. 65 Ivi,129, 132. La poesia di Goethe apre il terzo libro di Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, traduzione di A. RHO ed E. CASTELLANI, Milano, Adelphi, 2006, 127. Per la citazione di STENDHAL, cfr. Vie de Henri Brulard, Édition établie sur le manuscrit, présentée et annotée par B. DIDIER, Paris, Gallimard, 9 Il racconto si conclude con l’amara constatazione che oggi gli agrumi in Sicilia sono mandati al macero, sono schiacciati sotto le ruspe, simbolo, questa volta, di un degrado civile e sociale. Lo scrittore pone a sé e al lettore una sconfortata domanda: «Non ci sarà più storia per gli agrumi, per gli aranci siciliani, per questo pomo così antico, così mitico, per questo frutto dei poveri e dei reali?».66 Questa grave nota di amarezza e di sfiducia di fronte alla mutata situazione del tempo presente costituisce la Stimmung di un altro racconto, Il mare, del 2005.67 Consolo, nato in un paese marino sulla costa tirrenica di Sicilia, si sente profondamente legato al mare, con il quale ha un rapporto ancestrale e vivificante. Ma il mare di Sicilia, tutto il Mediterraneo, non è più quello di una volta. La conclusione del racconto è di un’attualità inquietante, ha quasi l’intonazione di una lucida profezia: Luoghi tremendi, di tragedie e di pene, e di vergogna per noi, come Porto Palo o Lampedusa, dove i pescatori tirano nelle reti cadaveri di poveri “clandestini” annegati. Questo odierno terribile Canale di Sicilia, questo Mediterraneo di miti e di storia, è divenuto oggi un mare di dolore, un mare di morte. E sono, sì, sempre attuali le parole di Fernand Braudel: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”.68 E tuttavia, anche se le aporie del tempo presente sembrano offuscare il panorama sociale e ambientale del mondo del Mediterraneo, secondo Consolo, la salvezza è ancora possibile, ove si dia spazio al linguaggio della letteratura e della poesia e si riscoprano i valori perenni della civiltà nel suo lungo cammino da Omero agli scrittori e agli artisti più rappresentativi del mondo contemporaneo.69  1973, 92-93: «Ce qui me frappa beaucoup alors, c’est que nous étions venus […] d’un pays [l’Italie], où les oranges croissant en pleine terre. Quel pays de délices, pensais-je!». 66 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 133. Per la citazione di F. BRAUDEL, cfr. Civiltà e imperi del

Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986, vol. II, 921-922. 67 Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta in CONSOLO, La mia isola è Las Vegas…, 220-222. 68 Ivi, 221-222. 69 Cfr. CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio di Odisseo…, 38-43

I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Padova, 10-13 settembre 2014), a cura di Guido Baldassarri, Valeria Di Iasio, Giovanni Ferroni, Ester Pietrobon, Roma, Adi editore, 2016
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