Per L’ora sospesa di Sebastiano Burgaretta

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Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura d’ogni altro; dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete: al confine bevemmo il nostro lete). Ora, in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie. Sfondo infinito, abissitade – in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte ove si bagna il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile.

E in questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono?

E tuttavia per frasi monche, parole inadeguate, per accenni, allusioni, sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione[1].

Questa lunga citazione è l’incipit dello scritto che dà anche il titolo al libro L’ora sospesa, di Vincenzo Consolo, raccolta di articoli, brevi saggi, presentazioni di mostre curata con una sapiente scelta di testi, peraltro approvata e postillata negli ultimi suoi mesi di vita dallo scrittore di Sant’Agata Militello, dal critico e italianista spagnolo Miguel Ángel Cuevas. Questi ha arricchito il volume con un accurato apparato di note informative e critiche che colgono ed evidenziano il ruolo non secondario dei testi compresi nel volume, edito dalle edizioni Le Farfalle del poeta e raffinato editore Angelo Scandurra. Ho voluto riportarla, perché mi pare evidente che in essa risieda la cifra chiara, ineludibile non solo di questo libro ma anche dell’intero cammino letterario dello scrittore e narratore-poeta che è Consolo. Non si tratta, come potrebbe suggerire la tipologia specifica degli scritti, soltanto del tempo sospeso, dell’attimo necessario a catturare un’emozione, una sensazione da fermare con lo scatto della macchina fotografica o da dilatare col pennello su una tela. In essa è contenuta la metafora della ricerca continua che, fra tappe e soste, parola e afasia, luce e lutto, illusione e disinganno, lo scrittore e narratore ha svolto in ambito letterario con una rara e sofferta identificazione tra pagina e vita. Tutta l’avventura letteraria di Vincenzo Consolo è stata un’ora, un tempo perennemente sospeso tra dissonante assenza di luce e musicale illuminazione apportata da un ánghelos portatore di vita. A ragione l’incipit è chiuso dalle seguenti parole: Viene e sovrasta un nunzio lampante, una lama bianca, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quali paradisi? O risale prepotente da quali abissi? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai miracoli; si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro[2].

Si direbbe che la scrittura di Consolo sia ispirata, che scenda dall’alto grazie alla mediazione di un ánghelos, che ne agevola il kairós, il momento di grazia, atto a celebrare funzione e fasti della parola, sempre emergente dalla memoria, con la cadenza e il ritmo di uno spartito musicale che trasfigura in arte e poesia autentica i fantasmi e le tragedie della storia umana. In questo libro, occasionalmente dedicato alle arti figurative, è racchiusa una sorta di mini laboratorio della scrittura tutta di Consolo. Come dimostra l’apparato delle note curate da Cuevas, l’ora, il tempo creativo per lo scrittore messinese è sempre sospeso, perché questi torna continuamente a rivedere, a integrare, a rimodellare i suoi scritti, per rifunzionalizzarli a momenti diversi, a tappe creative nuove. È una perenne sospensione del processo creativo, tesa a cogliere e, possibilmente, a fissare, come fa l’artista delle arti figurative, il momento di grazia, la giusta dimensione, il kairós di luce che attinga alla sfera dell’armonia e della poesia. La scrittura di Consolo è in movimento continuo, e non a caso la metafora che supporta e caratterizza quasi tutti i suoi romanzi è data dal viaggio, così come un viaggio è stato il peregrinare dell’autore per il mondo e l’andirivieni tra la Sicilia e il continente, un viaggiare esistenziale assurto a cifra letteraria fondamentale della sua opera. Un andare e venire quasi compulsivo, sulle cui ragioni egli stesso si interrogava: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.

Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca[3].

Questo continuo movimento nella vita e nell’opera di Consolo tiene tutto in sospensione, l’animo e il pensiero dell’uomo nonché l’opera del narratore e scrittore. Tutti gli incipit dei testi compresi in questo libro postumo fanno capo al principio e alla realtà del movimento, con una sorta di corrispondenza incoercibile e perciò significativa: Manovre di notte, ronzare di motori, cigolii di maglie. Manovre di notte. (Per Pippo Spinoccia); Sì, che bisogna scappare, nascondersi. (Nottetempo, casa per casa); …T’avvolge improvvisa voluta di brezza di mare di monte… (Guida alla città pomposa); Ora avanziamo per pianure acquitrinose, fra balze, rigagnoli…Avanti è la luce. Una frigida luce di riverbero, d’un’alba immota, d’una stagione ignota. (Paludi e naufragi); Soli andavamo dentro la boscaglia, dentro il verde più cupo più profondo. (L’immensa luce); Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio…) …Ora in questa luce nuova…in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. (L’ora sospesa); E vado, vado nel tempo mio del rapimento e dell’incanto, vado alla ricerca del luogo della quiete, dell’incominciamento mio dentro la notte… (Il libro celeste).

L’illusione incessante di vedere una Sicilia diversa, nuova; da qui il viaggiare continuo per tutti gli angoli dell’isola come necessario rituale di vita e come metafora, sia nelle opere maggiori e nei romanzi col linguaggio alto della poesia, sia in quelle cosiddette minori col linguaggio della comunicazione ma pur sempre curato e musicalmente calibrato. Questa illusione perenne di Consolo che viaggiava era in continua elaborazione, in eterno fieri e induceva lo scrittore a parlare delle città e dei luoghi della Sicilia viste e amate, quando erano da amare, come vittoriniane città del mondo. E ciò con la chiara consapevolezza della differenza che passa tra lo scrivere e il narrare, perché si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale… Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della memoria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica[4].

Il libro si occupa di opere pittoriche, anche se l’autore parla, come egli stesso precisa, da non addetto ai lavori… per consonanza[5] artistica. E infatti, anche trattando di opere figurative, l’animo del poeta e del narratore viene immancabilmente fuori, a cantare con lo stesso trasporto e la stessa armonia di sempre. Emblematico, a tale riguardo, è il frammento lirico Blu, vera sintesi di quanto qui si vuole evidenziare, per cui appare quanto mai opportuna la scelta di averlo messo a chiusura del libro, quasi come cifra finale e firma autenticante: Per isole di calce, passaggi di carminio, per sprazzi gialli e sfumature verdi, ai bordi, sul ciglio d’un ignoto mondo, del più profondo azzurro, ci muoviamo. Sfioriamo un mare immenso, un immenso cielo, uno smisurato spazio… Ci prende e ci trascina questo fiume imperioso nella Venezia e Samarcanda del racconto, della favola, nell’oriente di splendori, nella Bisanzio al culmine del fasto e della grazia…Tracima ora dagli argini, scorre per invisibili passaggi, colma ogni vuoto, abisso, s’addensa a strati, spegne ogni luce, riflesso, culmina nella notte del mondo, nel blu più cupo. Nell’assoluto nero. Compiamo questo viaggio dentro le quinte mobili e fugaci, dentro l’illusione, l’inganno, la malìa dei colori, fra l’apparenza della pittura. Dentro l’avventura dell’azzurro, del colore dell’origine, dell’infinito spazio e dell’eterno, del

                                            dolce color d’oriental zaffiro[6].

È prosa questa, è poesia, è pittura modellata con la parola, o forse è tutto questo insieme? Certamente si registra qui una chiara consonanza fra i vari generi artistico-creativi. E certamente è poesia pura, in sintesi straordinaria la stessa cui ci ha educato in tanti altri suoi scritti Consolo, poesia, cioè, che gronda del sangue umano versato lungo i sentieri terribili della storia ma che vive anche della speranza e della luce della redenzione e della libertà. Poesia pura che sembra fare da antifona ai versi della successiva La palma celeste, scritto nel quale la festa di colori cangianti e il ritmo spezzato del gioco della memoria sembrano sintetizzare una sorta di metafora del cammino della vita tra natura e cultura.

Non è, del resto, un caso che Consolo abbia amato l’arte e la figura di Antonello da Messina, sino a farne un fermo punto di riferimento della sua ricerca artistico-letteraria, al punto da divenirne una sorta di alter ego empatico e consonante. La grandezza di Antonello ha le stesse radici dalle quali sarebbe germogliata anche quella di Consolo. Sembra, infatti, che lo scrittore stia parlando anche di sé stesso, quando, riferendosi ad Antonello, afferma che tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa, enorme sedimentazione di memoria. Ma di memoria illuminata, capita dopo il confronto con altre realtà, dopo aver messo la giusta distanza tra sé e tanto bagaglio, giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria[7]. Come poi avrebbe fatto anche Consolo, Antonello dovette andare via da Messina e dalla Sicilia, per potere trovare la via della sua creatività artistica: Il suo andare a Napoli, a vent’anni, l’ha salvato, gli ha salvato la ragione e il prezioso talento di pittore. Nella bottega di Colantonio gli si sono dispiegati nuovi orizzonti, ha visto nove cose, sentito nuovi linguaggi. E il suo vedere e il suo sentire altre realtà dovevano essere una continua verifica, un’illuminazione, una razionalizzazione, un controllo della realtà che si portava dentro, nella sua memoria: la realtà di Messina…e lascia il mare per la terra, l’esistenza per la storia. La Sicilia e Messina possono così tornare attivamente, espressivamente, in tutta la loro “oggettiva” bellezza e passione[8]. L’andare di Consolo ventenne a Milano, a respirare l’aria dell’ambiente vittoriniano salvò il talento dello scrittore messinese, come la Napoli di Colantonio aveva salvato quello di Antonello, perché anche lo scrittore di Sant’Agata Militello potè guardare “oggettivamente” la Sicilia e farne oggetto di appassionato canto memoriale senza i limiti esistenziali talora insiti nel provincialismo, specialmente quando questo è acritico. E, come per Antonello il tornare a Messina ormai, saldo com’è, non comporta alcun rischio[9], così per Consolo la distanza interiore stabilita era garanzia di salvezza definitiva, anche se la sirena dello Stretto richiamava sempre in patria[10] anche lui come il pittore. Ma ormai non c’era rischio d’involuzione così per l’uno come per l’altro. Tra i due grandi messinesi si configurano i termini di un parallelo cammino, anzi viaggio, di vita tra sogno e nostalgia, tra l’isola e il mondo, Messina e la Sicilia, da un lato, la storia con la sua logica, dall’altro. Solamente così, al prezzo dell’esposizione e dell’alghios del ritorno, il palcoscenico del teatro siciliano, sempre amato tra illusione e disinganno, potè trasfigurarsi nel paradigma di un più vasto teatro, facendo sciascianamente assurgere, con le opere dei due grandi messinesi, la Sicilia a metaforico teatro del mondo; il che la dice lunga sugli orizzonti culturali, artistici, politici e fondamentalmente umani dei due corregionali, la cui lontana e pur vicina somiglianza,  forse non a caso – nella vita di Consolo poco era lasciato al caso —  è resa iconograficamente visibile in alcune immagini fotografiche di lui che, con un pizzico di autoironia – velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà[11], si è fatto riprendere come l’uomo del Ritratto d’ignoto marinaio conservato al Museo Mandralisca di Cefalù o è stato ritratto, sempre con le stesse caratteristiche, dall’amico pittore Bruno Caruso, il quale ha disegnato anche, con le caratteristiche e il copricapo dell’ignoto marinaio lo stesso Antonello che varca lo Stretto di Messina[12]. E non è Consolo stesso a confermare, in quell’Autoritratto, forma di poesia visiva, significativamente messo a clausola del libro, con l’immagine dell’uovo e del limone la parentela con i volti geometrici ma intelligenti e pensosi di Antonello? Come a dire che tout se tient.

 

[1] V. Consolo, L’ora sospesa, Le Farfalle, Valverde 2018, p. 42.

[2] Ibidem.

[3] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1990 p. 179.

[4] V. Consolo, L’ora sospesa, cit., p. 70.

[5] Ivi, pp. 68, 69.

[6] Ivi, pp. 121-122.

[7] Ivi, p. 103.

[8] Ivi, p. 108.

[9] Ivi, p. 109.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 117.

[12] Cfr. E. Bilardello, Bruno Caruso, Flaccovio, Palermo 1986, p. 159.

Gli scritti sull’arte di Vincenzo Consolo

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente…

recensione di Sergio Spadaro – critico letterario

Sabato 05 Maggio 2018 

Immagine Principale

Immagine Principale

 Immagine in copertina: quadro “Marina a Tindari” di Michele Spadaro, 1972. 2) Vincenzo Consolo

 Miguel Angel Cuevas, italianista de l’Universitat de Sevilla, ha raccolto e curato gli scritti che Vincenzo Consolo ha via via dedicato agli artisti (non solo pittori o scultori, ma anche fotografi e architetti) in L’ora sospesa (Le Farfalle Ed., Valverde [CT], 2018). Giustamente dice il curatore che “abbiamo forse qui l’archetipo di una strategia di ambiguazione  da annoverare fra le più cospicue della scrittura consoliana”[…] Attraverso “passaggi in cui l’impiego di alcune risorse stilistiche (quali la frase nominale, l’elencazione, la ritmicità della prosa, la rima interna, ecc.) […] L’ora sospesa rivela l’intimo legame tra l’occasione figurativa e la stesura di pagine dominate (per dirla pasoliniamente) da ‘l’immediatezza allucinatoria della poesia che fissa le figure in un loro momento assoluto’. […] Tutti questi tratti distintivi della scrittura consoliana, di un narrare che contamina finzione e dizione (romanzo e poesia, cunto e  canto), trovano una loro cifra, una loro matrice nella dimensione ecfrastica del testo, sia essa velata o meno. […] I testi sull’arte e  sugli artisti […] si dimostrano tutt’altro che scritti d’occasione: […] bisognerebbe piuttosto parlare di occasioni alte e altre, se sono servite per mettere a fuoco le tensioni espressive di Consolo” (pp. 10/16).

   Queste “tensioni espressive” hanno momenti salienti e ricorrenti. Anziché fare pertanto una rassegna per riscontrare quanto dell’arte di ogni artista è penetrato nei testi consoliani, preferiamo indicare alcuni dei passaggi “tipici” della sua visione del mondo (tenendo presente che, in Consolo, il termine “visione”perde ogni statuto razionale e si veste, o si traveste,  invece della  sua particolare “sensibilità”). Citando L’infinito di Leopardi possiamo partire da quella Metafora (la maiuscola è nell’autore) dell’occhio, e dei portoni-occhi che si rintracciano nelle architetture di Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, nella quale Consolo vede “quale pietoso, consolatorio argine, quinta, quale parete dipinta contro lo smarrimento, l’ansia dell’indistinto, dell’infinito spazio”. Linguaggio che nasce dalla paura, dal “bisogno di esorcizzare lo smarrimento di fronte all’infinito e al silenzio” (L’occhio e la memoria, pp. 63/65).

   Questo della metafora è un passaggio centrale in Consolo, che arriva anche a teorizzare una differenza fondamentale fra narrare e scrivere. “Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico. […] Il narratore procede sempre con la testa rivolta indietro […].   Ha però il narratore […] una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo sposta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, sì, figli della natura, ma siamo anche – direi soprattutto – figli della cultura. […] Lo scrivere, invece, al contrario del narrare, può fare a meno della memoria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica” (Fotografia e/o racconto, p. 70). E ritorna ancora a Leopardi, citando stavolta il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Tristi nenie […] suscitano dunque il deserto e la notte, lo smarrimento davanti al vuoto, all’infinito, e nel pastore leopardiano domande che […] denunciano [..] sfiducia nella vita, malinconia per la condizione umana. L’insopportabilità di un orizzonte sconfinato, d’uno scenario uniforme e vuoto aveva forse indotto i Segestani a costruire sul ciglio di un abisso, tra l’eminente loro città e la nuda vastità dintorno, il colossale tempio che mai vollero finire, che forse concepirono come segno sospensivo, schermo, come sosta o soglia verso ‘l’infinito seren’, la ‘solitudine immensa’ “ (Faber audace, pp. 87/88). E poiché Consolo procede sempre per opposizioni e contrasti, cita persino la dialettica nietzschiana fra apollineo e dionisiaco che, in Andalusia, si trasforma nel lorchiano Duende: “Avveniva nell’animo di questi nomadi […] la caduta […] dello spirito socratico e l’irrompere dello spirito dionisiaco: avveniva in essi il prevalere del sentimento sul ragionamento, dell’espressione sulla comunicazione, del canto, del movimento sulla prosa razionale” (p. 88). Per concludere: “Dai luoghi estremi, dai deserti, lontano dai segni della storia, della realtà apparente, vinto lo sgomento, si può partire per un’avventura in cui si scoprono alfabeti ignoti, forme e movimenti sconosciuti, si può approdare a una nuova conoscenza, a una fantasia che reinventi il mondo, dia di esso ragione e poesia” (p. 94).

   Questo del “vincere lo sgomento” richiama subito la prosa di Marina a Tindari (poi confluita ne Il sorriso dell’ignoto marinaio), che nella dialettica fra storia e natura, indica l’operazione coraggiosa compiuta dal pittore: “Ma per certo su la tremula landa sconfinata navigò qualcun altro puntiglioso, scoraggiando la perdita, il malessere: di quel luogo tremendo ne riportò i segni, l’idea” (p. 27).

    La metafora può diventare in Consolo persino simbolo generale di ascensione verso l’alto, una di quelle sue figure di ?nghelos, come lo stesso Empedocle (in Catarsi e in Oratorio ne fa quasi un santo che s’immola per il bene dell’umanità). Oppure come il personaggio melvilliano di Billy Budd che, essendo radicalmente buono non può integrarsi nella società umana e, di fronte alla ingiustizia, non può parlare, ma solo agire. Consolo dirà a proposito; “L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze” (p. 76, ma anche in Preludi e naufragi, p. 35).

   Anche la figura di Antonello da Messina è, per Consolo, un prodotto della dialettica fra storia e natura “Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa, enorme sedimentazione di memoria. […] Giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria. […] E’ l’immagine nostalgica e struggente di una città, un’epoca, di ricca umanità che era nel luogo dove l’ottusa violenza della natura tende sempre a tutto cancellare, tutto smemorare” (p. 103). E in Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia, aggiunge, con tipica immedesimazione personale: “Avrebbe potuto, Antonello, come altri siciliani, come altri messinesi, perdersi, annullarsi nel mare dell’esistenza, essere sopraffatto dalla oggettività fino a perderne coscienza, sprofondare in vortici, chiudersi in labirinti di paura  e incomprensione se non fosse fuggito via in tempo dalla sua città” (pp. 107/108).

   Ricordiamo che, persino nel Ritratto d’ignoto di Antonello del Museo Mandralisca, Consolo   vede “il suo sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (p. 116).

   Un esempio infine della metaforizzazione manieristica di Consolo si ha in Autoritratto , dove il  suo volto viene descritto come un uovo, anzi un limone spremuto e la facies così assomiglia a quella mortuaria:”Nella metafora manieristica, si sa, appare assai debole la somiglianza fra gli oggetti posti a confronto: il paragone viene istituito, non tanto con un altro oggetto, quanto con il poeta e la metafora nulla rispecchia fedelmente come il poeta stesso” (Amedeo Quondam, Problemi del manierismo, Guida, NA, 1975, p. 181).

   Gli artisti che appaiono in questo libro sono rispettivamente: i pittori Pippo Spinoccia, Luciano Gussoni, Michele Spadaro, Mario Bardi, Franco Mulas, Marcello Lo Giudice, Ruggero Savinio, Fabio Zanzotto, OttavioSgubin, Rino Scognamiglio, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici   (che in Retablo era un personaggio della narrazione), Antonello da Messina, Enrico Muscetra; gli architetti: Bruno Reichlin e  Fabio Reinhart; lo scultore Nino Franchina; i fotografi: Enzo Sellerio, Giuseppe Leone e Stefano Baroni. A questo punto ci chiediamo perché non sia stato riportato lo scritto che Consolo aveva dedicato al pittore Togo. E siccome il curatore ci avverte che la selezione dei testi è autoriale (p. 132), si tratta evidentemente di una dimenticanza. Per questo – essendo in grado di farlo – saniamo appresso la lacuna (il catalogo si riferisce alla mostra tenuta da Togo allo Studio d’Arte  Grafica di Milano, dal 26 gen. al 23 febbr. 1995). Oltretutto il testo, come direbbe il curatore, è un esempio di ékphrasis, cioé di descrizione della sua pittura dai colori fauves e dall’ambientazione messinese:

Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzurro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, lo squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’intreccio impietoso, nelle latebre profonde, nel segreto germinare.

Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria. In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi,in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna  instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore.

In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza,come l’incanto d’una strada chiara,d’una fata morgana  tra il cielo e il mare dello Stretto.

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente… Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura. 

VINCENZO CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, Le farfalle, Valverde [CT], 2018. € 13,00.

da Paese Italia press.it

Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio

DARAGH O’CONNELL

In un’intervista fatta a Vincenzo Consolo parecchi anni fa, lo scrittore siciliano ha parlato della “fantasia creatrice” come di un elemento femminile con il quale si può uscire dal cerchio della ragione, un cerchio simboleggiato dalla metafora della “chiocciola” nel Sorriso dell’ignoto marinaio (O’Connell, 2004: 238-253). Questa fantasia creatrice nel romanzo, si muove nei panni del personaggio Catena Carnevale la fidanzata che sfregia il sorriso ironico e pungente del ritratto e, in seguito, ricama la tovaglia di seta intitolata «L’albero delle quattro arance «. La descrizione nel libro di questa tovaglia e fondamentale e assomiglia per certi versi proprio allo stile della scrittura consoliana, ed e in realtà una metafora per il testo stesso, se non l’intero progetto letterario di Consolo. Leggiamo: Sembrava, quella, una tovaglia stramba, cucita a fantasia e senza disciplina. Aveva sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenui e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi più sfacciati. Sembrava, quella tovaglia, – penso la baronessa, – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare che la ragione le fosse andata a spasso. (Consolo, 2015: 167-168) Questa analogia tra la scrittura letteraria e il ricamo e lo sfregio di Catena, richiama proprio la poetica distintiva di Consolo: una poetica palinsestica che prevede l’accumulo e l’elisione di vari testi di provenienza diversa, siano essi di stampo giornalistico, creativo o saggistico, in uno spazio di singolare gestazione autoriale fra polifonia e palinsesto (O’Connell, 2008: 161-184). Queste pagine intendono analizzare, da diversi punti di vista, il primo capitolo del longseller di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), delineando l’evoluzione del romanzo dalla sua forma primigenia fino alle più recenti rielaborazioni. Saranno messe a fuoco alcune varianti testuali (Messina, 2009: 143-202) e dichiarate le fonti, letterarie e non, sottese all’intero capitolo. Il primo capitolo e in effetti, a mio avviso, un grande palinsesto, e molte delle procedure adottatevi da Consolo richiamano una polifonia e una concezione alla Bachtin ell’enciclopedismo, la sua definizione di romanzo di Seconda linea. In più, il capitolo I sancisce in realtà molti aspetti della nuova poetica di Consolo, che in definitiva rappresenta lo spazio letterario in cui il passaggio da riso a sorriso e più evidente. Consolo conclude cosi la Nota dell’autore, vent’anni dopo aggiunta come postfazione dell’edizione Mondadori del 1997: […] che senso ha la riproposta di questo Sorriso? E la risposta che posso ora darmi e che un senso il romanzo possa ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo. (Consolo, 1997: 183)2 Sono passati vent’anni da queste enunciazioni, e oggi il testo sfaccettato di Consolo ha cominciato a ricevere il trattamento critico che merita. Abbiamo avuto oltre quarant’anni per metabolizzare e situare un romanzo della sua importanza, non solo nel contesto della narrativa italiana del ventesimo secolo, ma anche in quello dell’evoluzione poetica di Consolo. Si dovrebbe, pertanto, entrare nel cuore del dibattito su questo allargarsi del tempo, contribuire attivamente alla crescita di questo corpus critico-accademico con al centro la poetica di Consolo. Tuttavia, in questo approccio al capitolo I, ciò che più ci preme non e tanto il suo allargarsi nel tempo, quanto il suo restringervisi, cercando di individuare con esattezza i momenti cardine della composizione del testo. Sarebbe erroneo, in tanti sensi interconnessi, dire che Il sorriso e un testo nel fiore dei suoi quarant’anni. Quando leggiamo le mini-biografie sulle copertine dei libri di Consolo, siamo portati a credere che Il sorriso sia un prodotto testuale della metà degli anni ’70 e perfettamente inserito nel suo tempo. In realtà, va sottolineato che Il sorriso e un testo mutevole, «un lavoro perennemente mobile e non finibile», per dirla con Contini (1970: 5), la cui genesi può essere collocata intorno alla metà degli anni ’60 e le cui più recenti articolazioni possono essere datate al 1997. Questo saggio intende dimostrare che Il sorriso si può considerare come un atto letterario il cui incipit – non solo testuale, ma anche concettuale – e retrodatabile a cinquant’anni fa. Fuori dalla storia del testo in quanto tale, alcune delle tematiche e delle metafore de Il sorriso sono apparse in diverse guise, in altre narrazioni più tarde di Consolo. Sia Nottetempo, casa per casa sia L’olivo e l’olivastro si riferiscono esplicitamente al Ritratto d’uomo di Antonello (Consolo, 1992a: 138-139 [Consolo, 2015: 142-143]; Consolo, 1994: 124-125 [Consolo, 2015: 852- 853]). Per cui si può dire che Il sorriso, dal suo livello ipertestuale originario, 2 La Nota dell’autore, vent’anni dopo e successivamente riapparsa come saggio di chiusura in Consolo, 1999a, p. 276-282, con il titolo «Il sorriso», vent’anni dopo. 57 e diventato un ipotesto per le opere successive di Consolo3. Per di più, Il sorriso e il primo capitolo di una trilogia di romanzi che prendono le mosse da importanti momenti della storia siciliana e italiana: l’insorgere del fascismo nei primi anni ’20 e la sua correlazione in tempi più recenti con la nuova destra italiana, in Nottetempo, casa per casa (1992); e il fallimento del tentativo di creare una società giusta da parte della comunemente definita “generazione del dopoguerra”, simbolizzato dall’assassinio del giudice Paolo Borsellino, in Lo spasimo di Palermo (1998). Tralasciando queste considerazioni, la focalizzazione esclusiva su Il sorriso e, in particolare, sul capitolo iniziale del romanzo, si basa su alcune valide ragioni: anzitutto, il capitolo I risulta il più negletto di tutti, dato che la critica ha preferito studiare e interpretare i cosiddetti “capitoli caldi” della seconda meta del romanzo; poi, perché e il capitolo con la storia testuale più lunga, e dunque la sua gestazione dovrebbe apparire più evidente ad un’attenta analisi; infine, il capitolo inaugura una nuova poetica per Consolo dopo La ferita dell’aprile (1963): gli elementi di solito associati al romanzo – il significato del sorriso, la chiocciola, la compresenza di poesia e prosa, le forme metriche, gli stilemi, l’uso dell’elencazione, di forme dialettali e parodistiche, l’impegno dell’autore, e un’abbondante messe di intertesti, in breve, una polifonia – sono già tutti presenti nel loro insieme in questo capitolo. Certo i commenti dell’autore facilitano la lettura del primo capitolo del romanzo, e le riflessioni sono molto rilevanti, non solo per ciò che nascondono, ma anche per ciò che rivelano. Forse, quella più significativa riguardo al Sorriso appare nella Nota dell’autore chiamata in causa all’inizio, in cui, pur a distanza di venti anni, Consolo delinea i tre elementi fondamentali da cui la struttura del romanzo ha preso forma: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcara, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezze […] a una terra di consapevolezza e di dialettica. (Consolo, 1997: 177-178) Dei tre punti sopraelencati, solo il primo e notoriamente escluso, e di là da venire. Inoltre, questo movimento ad assetto triangolare, emanante dai brani d’apertura del capitolo, e illuminante riguardo alla poetica di Consolo e a come (e dove) egli si vede situato all’interno della tradizione letteraria siciliana: in una posizione intermedia tra quella occidentale e quella orientale, che e come dire, tra 3 Seguo le categorizzazioni e classificazioni genettiane della “transtestualità”, vale a dire la trascendenza testuale del testo, rilevate da Gérard Genette (1997: 7-8): «si tratta appunto di quella che chiamerò d’ora in poi ipertestualità. Designo con questo termine ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto) sul quale esso si innesta in una maniera che non è quella del commento». storia e mito. I movimenti spaziali da est a ovest nel primo capitolo del romanzo, e la decisione dell’autore di abbracciare le tradizioni storiche occidentali degli scrittori dell’isola, si scorgono nello stesso incipit4. Nel libro-intervista Fuga dall’Etna, riferendosi proprio alla prima parte del romanzo, Consolo afferma: Il libro e scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. (Consolo, 1993: 45) Se gli elementi parodistici, mimetici e sarcastici sono davvero presenti, e in abbondanza, nella prima parte del romanzo, Consolo pero non evidenzia tutti gli altri che danno “forma” a questo capitolo: un’angoscia delle influenze di altri scrittori, la ricerca di una nuova poetica, una concezione totalmente alterata di quello che è il genere del romanzo. L’analisi s’incentrerà proprio su questi elementi nascosti o impliciti, peraltro parzialmente rivelati dall’esame del graduale crescere del testo, gli inizi del quale si possono far risalire a un momento circostanziato della vita dell’autore, un evento che e l’emblema degli obiettivi dichiarati della sua poetica, vale a dire, la fusione dei due filoni, orientale e occidentale, della letteratura siciliana. E mia ferma convinzione, che l’incontro organizzato da Consolo tra i suoi due mentori, il poeta Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e il più chiaro esempio possibile del punto di partenza del futuro romanzo. Né Le pietre di Pantalica, Consolo racconta l’evento tenutosi il 7 marzo 1965, una data degna di nota, perché coincidente con la prima messa officiata in lingua italiana dopo il Concilio Vaticano Secondo: Sciascia arrivo da Caltanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali». Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via» mi diceva Piccolo. «A Milano con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno più fascino suscitano interesse e curiosità.» Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia. (Consolo, 1988: 142-143 [Consolo, 2015: 599])5 Ad un primo sguardo, nel brano sono proprio pochi gli accenni riferibili alla futura opera Il sorriso, perché Consolo taglia corto con la storia dell’incontro raccontando di altre esperienze con Piccolo. Invece nella Fuga dall’Etna riprende il racconto con un’interessante coda: 4 Per le discussioni sulla mappatura della letteratura siciliana del luogo, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2005: 29-48); e O’Rawe (2007: 79-94). 5 La più antica traccia si trova in due quaderni autografi (Ms 3, Ms 4), per cui cfr. Messina (2009: 58 e n. 53). Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «[…] “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali.” “C’e qui Consolo,” rispose Sciascia. “Consolo e ancora giovinetto,” replico Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone.» Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. (Consolo, 1993: 23-24)6 Non è da ritenere una coincidenza il fatto che siano esattamente queste nostre terre, quei paesi medievali a costituire il contenuto o retroscena del primo capitolo del futuro romanzo. La sfida sottaciuta di Consolo a Piccolo diventa poi col tempo anche sfida a tutta la letteratura siciliana, e il romanzo che ne risulta e un romanzo i cui antenati sono certo Verga, De Roberto, Pirandello, Vittorini e Tomasi di Lampedusa, ma i cui “istigatori” potrebbero considerarsi Piccolo e Sciascia: sia detto per inciso, richiamati rispettivamente dal protagonista Enrico Pirajno Barone di Mandralisca (Piccolo) e del deuteragonista Giovanni Interdonato (Sciascia). Tredici anni di silenzio separano il primo romanzo di Consolo La ferita dell’aprile datato 1963 e Il sorriso. La concezione originale de Il sorriso, comunque, prende le mosse negli anni ’60 ed e connessa, almeno dal punto di vista ideologico, al periodo di “acuta storia”. Inoltre, e un romanzo siciliano in senso stretto, non solo perché tratta di storia siciliana, ma anche perché la sua nascita e il suo sviluppo sono databili al periodo 1963-1968, ovvero gli anni in cui Consolo visse in Sicilia prima di spostarsi a Milano definitivamente nel gennaio 1968. Ma Consolo, e chiaro, non smise di scrivere a meta anni ’60 per riprendere la penna in mano soltanto a metà degli anni ’70. Rimase attivo, sia sul piano creativo sia su quello giornalistico, durante gli anni che separano le date di pubblicazione dei due romanzi7. Tuttavia, ciò che si commenta e la preistoria effettiva del libro, ovvero come arrivo alla sua versione definitiva nel 1976. Quanto segue e la storia tracciata sulla fortuna di pubblicazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, dalle prime apparizioni fino ad oggi. Testo e testi: variazioni e varianti. Nel numero luglio-settembre di «Nuovi Argomenti» del 1969, diretto da Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, appare per la prima 6 Le virgolette evidenzierebbero il passaggio citato da Le pietre di Pantalica fino a «una sfida verso il barone». In realtà, il passo da «C’e qui Consolo» a «una sfida verso il barone» non appaiono, come si è visto, in Le pietre di Pantalica. 7 Per la scrittura creativa, cfr. i racconti di quegli anni ora in La mia isola è Las Vegas (Consolo, 2012). Per quella giornalistica, anche se ne dà solo una visione parziale, Esercizi di cronaca (Consolo, 2013). Da non escludere sono anche gli articoli raccolti in Cosa loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010, (Consolo, 2017). Ed altri ancora, di vario argomento, risulta che ne siano conservati nell’Archivio Consolo. Volta un racconto dal titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. A tutti gli effetti e ciò che diventerà il primo capitolo del futuro romanzo omonimo (Consolo, 1969: 161-174). Il racconto non presenta alcun antefatto o appendici. E di poco successivo, del 1975, un libro dallo stesso titolo con un’acquaforte di Renato Guttuso del famoso Ritratto d’uomo (edizione limitata in 150 copie). Il volume contiene i primi due capitoli di quello che sarà il romanzo che conosciamo (Consolo, 1975a). Corrado Stajano, amico di Consolo, avvalendosi di una celebre metafora pirandelliana, ha scritto un pezzo per Il Giorno per segnalare questa pubblicazione: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, e diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicato in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché Il sorriso dell’ignoto marinaio e un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. (Stajano, 1975) La motivazione dell’articolo di Stajano sembra essere quella di voler forzare la mano di Consolo, spingendolo verso il completamento del romanzo. E anche notevole l’intento di fare pubblicità al romanzo futuro. Tuttavia, Stajano risulta anche molto ben informato del contenuto dei capitoli inediti e ciò suggerisce che al momento della pubblicazione della versione di Manusé la maggior parte del romanzo era già stata completata, o già comunque concettualmente concepita, e che Consolo ne stava discutendo apertamente con gli amici più fidati. Il romanzo completo, l’editio princeps, venne pubblicato l’anno successivo da Einaudi e fu accolto dagli elogi della critica (Consolo, 1976). Nel 1987 la Mondadori ne stampo un’edizione economica includendo una Introduzione firmata da Cesare Segre (Consolo, 1987). Nel 1991 Mursia pubblico una seconda edizione aggiornata dell’antologia di Leonardo Sciascia e Salvatore Guglielmino Narratori di Sicilia, che accoglie, con annotazioni, la prima sezione del capitolo I de Il sorriso (Consolo, 1991). Nel 1992 Einaudi ripubblico il romanzo (Consolo, 1992b) e nel 1995 ne apparve un’edizione scolastica, edita e annotata da Giovanni Tesio (Consolo, 1995).
Nel 1997 Mondadori ha pubblicato ancora una volta il romanzo insieme alla Nota dell’autore, vent’anni dopo (Consolo, 1997). Due successive riedizioni del romanzo sono state pubblicate sempre da Mondadori: la prima, nella collana Oscar scrittori del Novecento (Consolo, 2002); la seconda, in quella Oscar classici moderni (Consolo, 2004). Come si può intuire dalle date di pubblicazione, il periodo di gestazione de Il sorriso e stato decisamente lungo e in più va considerato che la versione originariamente pubblicata in «Nuovi Argomenti» differisce molto da quelle successive con una divisione in capitoli, anche perché parziale. Le varianti testuali tra le dieci versioni, edizioni e ristampe, databili dal 1969 al 1997, rivelano che Consolo ha rielaborato di continuo il suo testo. Che la maggior parte di esse siano quelle tra la versione di «Nuovi argomenti» e l’edizione del 1997, significa inoltre che Consolo ha ritoccato il testo dopo il 19768. Le varianti si diversificano per tipologia e importanza, partono dai più banali errori di battitura per arrivare alle sostituzioni e alle rielaborazioni di interi paragrafi. Questo di per sé suggerisce che il capitolo I e una sorta di workinprogress, un testo sempre compulsato dall’autore e completato da una serie di aggiunte accorpate nel corso degli anni. Lasciando da parte le fonti pubblicate, il cosiddetto emerso9, si può andare indietro fino al livello delle fonti precedenti alla pubblicazione e paratestuali che vanno a toccare il punto cruciale della genesi e gestazione del romanzo. Ho deciso di chiamarli pre-testi, nel senso che essi variano in tipologia, importanza e stato. Alcuni sono stati pubblicati e quindi dovrebbero rientrare nella categoria del paratesto, venendo così ad aumentare il nostro attuale bagaglio di nozioni sul romanzo. Pre-testi: genesi e gestazione Lo stato di incertezza che caratterizza i manoscritti autografi, i testi scritti a macchina, i saggi e gli altri “interventi autoriali”, con particolare attenzione alla gestazione del testo, sono noti. Anche il problema di datare il materiale presenta non poche difficolta. La tentazione, quando si ha a che fare con manoscritti e varianti testuali, e quella di sviluppare un approccio unilineare alla poetica dell’autore considerato; ascrivere a quell’autore certi presupposti fondamentali che tuttavia non sono facilmente verificabili. Nel caso di Consolo, al di là delle suddette edizioni del testo in forma di racconto e romanzo e dell’allettante realizzazione di varianti che intercorrono fra esse, esiste anche un ricco patrimonio di documenti non pubblicati. Nicolo Messina ha suggerito che sarebbe stato «illuminante, oltre che un’entusiasmante avventura, il poter penetrare grazie a un’edizione critica genetica all’interno della sua officina» (Messina, 1994: 40). Da allora, Messina si e imbarcato in questa avventura con una serie di articoli ispirati a un approccio filologico critico-genetico alle opere di Consolo, specialmente Il sorriso (Messina, 2005: 113-126). Oltre a ciò, Messina ha completato l’edizione critica del romanzo di cui si sentiva l’assoluta necessita e che è in sé stessa un vero capolavoro di critica-genetica10. Poiché Messina ha lavorato sui manoscritti e dattiloscritti, non mi ci soffermerò. 8 L’edizione del 1997 e il testo tenuto come base per lo studio di tutti gli altri, essendo la versione che ha ricevuto l’ultimo ne varietur dell’autore. Concordo in questo con Messina (2005: 121-124). 9 Ricorro alla denominazione di Messina (2005: 117-121). 10 Messina (2009). L’approccio critico-genetico di Messina e basato sui seguenti studi: Hay (1979), Degala (1988), Gresillon (1994), Tavani (1996) e Contat e Ferrer (1998). Ai fini del nostro discorso, pero, risulta assai significativo un dattiloscritto denominato Ds 2, o piuttosto le pagine che l’accompagnano (Ds 20), perché contengono una sorta di resoconto del futuro romanzo. In particolare, l’asserzione nella scheda Ds 20 che «sono due capitoli di un romanzo (capitoli o racconti autonomi, perché, nelle intenzioni dell’autore, intercambiabili e combinatori come carte da giuoco)», pone una serie di questioni che sono rilevanti per la genesi e la gestazione del testo. Ci sono numerose sovrapposizioni, intrecci tematici e corrispondenze lessicali tra i capitoli I e II del romanzo. Dal punto di vista strutturale, la narrazione di entrambi i testi e in parte focalizzata attraverso Mandralisca (capitolo I) e Interdonato (capitolo II) con corrispondenze tra i due. Il fatto che i capitoli I e II siano intercambiabili e combinatori, postula un’influenza di Italo Calvino sul metodo strutturale di Consolo, in particolare del saggio Appunti sulla narrativa come processo combinatorio (Calvino, 1995: 199-219). Nella spiegazione di Calvino dell’ars combinatoria tanti elementi avrebbero potuto colpire Consolo, non ultimi le citazioni da Strutture topologiche nella letteratura moderna di Hans Magnus Enzensberger11, Calvino tra l’altro afferma anche: La battaglia della letteratura e appunto uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio; e dall’orlo estremo del dicibile che essa si protende; e il richiamo di ciò che è fuori dal vocabolario che muove la letteratura. (1995: 211) E che Calvino nel saggio ritorni sul simbolo del labirinto dopo l’analisi fattane nel precedente La sfida al labirinto (1962), non avrà lasciato indifferente Consolo tutto preso dalla sua curiosa, personale concezione siciliana del labirinto in Il sorriso: cioè la chiocciola12. La questione della genesi del romanzo si può far risalire ancora più indietro, all’attività giornalistica di Consolo da metà degli anni Sessanta in poi. Al riguardo ci si può anche chiedere quale influenza abbia potuto esercitare il giornalismo sui suoi sforzi creativi. Per tanti aspetti il giornalismo consoliano e come un’istantanea dei multiformi interessi nutriti in quel tempo: letterari, artistici, politici e civili; e quando tutto ciò viene visto attraverso la lente de Il sorriso, ci si apre un’intrigante entrée nel mondo della sua attività creativa e poetica ancora in via di sviluppo. Consolo ha scritto per Tempo illustrato e, durante il suo primo periodo a Milano, ebbe una regolare rubrica intitolata Fuori casa nel giornale palermitano L’Ora13. Tuttavia, il suo rapporto con L’Ora 11 Avrà una diretta influenza su Consolo, si sa, il saggio di Hans Magnus Enzensberger (1966: 7-22). 12 Calvino (1995: 99-117) dove (116) si sostiene: «Quel che la letteratura può fare e definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che passaggio da un labirinto all’altro. E la sfida al labirinto che vogliamo salvare, e una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto». Consolo mette in scena la sua sfida al labirinto attraverso il personaggio secondario di Catena Carnevale in Il sorriso. 13 La rubrica, pubblicata dal dicembre 1968 al maggio 1969, e definita un piccolo gioiello» da Nisticò (2001: 113); e si può rileggere in Consolo (2013: 179-223). precede il suo trasferimento a Milano ed e indissolubilmente legata con le sue attività in Sicilia14. Nel 1965 e negli anni immediatamente adiacenti, un gruppo di intellettuali e scrittori cominciarono a frequentare il giornale, tra questi Sciascia, il fotografo Enzo Sellerio, lo scrittore Michele Perriera e Consolo stesso. Vittorio Nisticò, direttore de L’Ora nel periodo 1955-1975, ricorda con affetto la presenza e il contributo di Consolo in quegli anni 15. Nel 1966, a seguito dell’omicidio per mano mafiosa del leader sindacale socialista Carmine Battaglia a Tusa (provincia di Messina), Consolo scrisse un breve racconto ispirato all’uccisione, Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, pubblicato ne L’Ora (16 aprile) un mese dopo l’evento 16. Anche se non può facilmente e strettamente rientrare nella categoria del giornalismo, il racconto, come sostiene Sciascia, e «una sorta di reportage giornalistico» (Consolo, 1967b: 429), ed e forse la prova più significativa della scrittura creativa di Consolo dopo La ferita dell’aprile, perché presenta in forma embrionale alcuni elementi linguistici, strutturali e tematici che saranno precipui de Il sorriso. Consolo, senza dubbio, ebbe come modello Le parole sono pietre di Carlo Levi, in particolare la terza sezione in cui si narra la sua visita a Francesca Serio, la madre del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, assassinato anch’egli dalla mafia (Levi, [1955] 1979). Non e una coincidenza che Consolo abbia firmato in seguito l’introduzione per una nuova edizione del “libro-indagine”, (Levi, 1979; Consolo, 1999a, 251-257) in cui scrive tra l’altro: A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio di commozione rattenuta dal pudore, di parole scarne e risonanti. (Consolo, 1999a, 256) Lo stesso senso di ingiustizia e indignazione permea Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, anche se nella storia di Consolo la figura della madre e abbattuta dal dolore e il compito di parlare viene lasciato alla figlia, «una giovane bellissima». All’inizio la incontriamo impegnata in un’attività che fa seriamente presagire le preoccupazioni testuali e metaforiche del futuro romanzo: «dietro i vetri di una piccola finestra, ricamava» (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20). Come personaggio, la figlia anticipa la figura liminale, altamente metaforica, 14 La prima collaborazione risalirebbe esattamente al 4 febbraio 1964, una recensione di Menabò, 6. Cfr. Salvatore Grassia, in Consolo (2013: 229-230). 15 Nisticò (2001: 113): «Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile.» Il memoriale di Nisticò e senz’altro un affascinante resoconto di un giornale di sinistra in prima linea nella lotta contro la mafia in uno dei più difficili periodi storici. 16 Il racconto fu poi ripreso da Narratori di Sicilia, cit. [ed. 19671], (Consolo, 1967b: 429- 434); ora, col titolo Un filo d’erba al margine del feudo (Consolo, 2012: 18-22; 239). Sul caso Battaglia, cfr. Ovazza (1967) e Santino (2000: 232-233). della venticinquenne Catena del Sorriso, che nell’Antefatto il padre si augura di vedere «serena dietro il banco a ricamare» (Consolo, 1997: 11)17. Anche il cognome di Catena e intrigante: si chiama, infatti, Carnevale, nome che rafforza il legame con il “giovane”, ventiduenne, Salvatore del racconto e con la famiglia di Le parole sono pietre. La presentazione della giovane ragazza da parte di Consolo suggerisce a Traina «sviluppi successivi della narrativa consoliana», come «l’insistenza sul dettaglio cromatico e sull’immagine “rubata” dal passante, che si fa quasi, emblematicamente, quadro o fotografia». (Traina, 2001: 16). Questa tecnica di sospensione della realtà tramite l’immagine fissa, una forma di ipotiposi, e un aspetto prevalente della narrativa più tarda di Consolo. Il racconto di Consolo contiene inoltre una serie di espedienti e scelte lessicali che saranno ulteriormente ampliati nel romanzo. Ecco esempi di emergenza di scrittura “consoliana”, quale poi impronterà il romanzo: «Il sole batteva […] sulle pietre di via Murorotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo»; «[…] col suo castello sull’acqua smagliante e triangoli di vele sui merli» (Consolo, 1867b: 429 2 431; Consolo, 2012: 18-19). E successivamente, nel capitolo I de Il sorriso, leggiamo: «Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali, muro d’arenaria che si sfalda […]»; «Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollano i lor merli di cinque canne sugli scogli» (Consolo, 1997: 12; Consolo, 2015: 132). Inoltre, va sottolineato che la predilezione di Consolo per la catalogazione o inserzione, soprattutto di toponimi, e presente in maniera decisa nel racconto. Entrando nella citta di Tusa, il narratore si mette a conversare con un «vecchio con lo scialle», che indica le montagne circostanti: «Motta» […]. E poi «Pettineo, Castelluzzo, Mistretta, San Mauro…» […]. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la ringhiera e indicai il mare. «Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Continente, Roma…» «Roma» ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuo a indicare verso le montagne, ora con un breve cenno del capo: «Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Foieri…». (Consolo, 1967b: 430; Consolo, 2012: 18) Il nome di Roma non dice niente al «vecchio», egli ripete meccanicamente ed elenca rapidamente i toponimi del suo mondo, toponimi non registrati sulle mappe ufficiali, come se la loro enunciazione andasse a evocare una realtà diversa. Questo senso di “urgenza toponimica” e la sua sospensione sono ripetuti nel capitolo I del romanzo, dove ancora una volta l’elenco dei toponimi della costa tirrenica della Sicilia e predominante: «Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo…» (Consolo, 1997: 12; Consolo 2015: 128). L’antico passato greco di Tusa e evocato in una breve parentesi del racconto e anticipa il Consolo de Il sorriso: La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agora, i cocci d’anfora e i rocchi di colonna affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). (Consolo, 1967b, 431; Consolo, 2012: 19) 17 Il ricamo di Catena e una chiara metafora tessile del testo. Per ulteriori approfondimenti di questo aspetto consoliano, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2003, 85-105). Genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio 65 Il nome di Tusa deriva dall’arabo “Alesa al-tusah” (“Alesa la nuova”), quando l’antica città greca di Alesa perse il primato nella zona nella seconda meta del ix secolo, e il centro fu spostato verso il sito dell’odierna Tusa (Ingrilli, 2000: 56). Nel romanzo, Consolo sancisce una sorta di nostalgia antico-archeologica tramite l’esposizione di ulteriori elenchi toponimici: Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Citta nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 128- 129) Oltre a manifestare le preoccupazioni più importanti del Mandralisca per l’archeologia e il suo rifiuto di affrontare la realtà contemporanea, nella fattispecie quel che si rivelerà essere un cavatore di pomice ammalato di silicosi, la frase si riferisce agli antichi toponimi greci della regione dei Nebrodi sulla costa tirrenica, alcuni dei quali erano già stati citati da Cicerone tra le città della Sicilia vittime di Verre: Tyndaritanam, nobilissimam civitatem, Cephaloeditanam, Haluntinam [Alunzio], Apolloniensem, Enguinam, Capitinam perditas esse hac iniquitate decumarum intellegetis. (Verrine, II.3, 103) Tuttavia nell’edizione del 1997 c’è una variante del testo: «Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa…». Consolo ha chiaramente sostituito la diade Alunzio e Calacte con l’altra Alunzio e Apollonia con l’evidente intenzione di migliorare l’allitterazione della frase e ottenere un elenco alfabetico pressoché perfetto, e in tal modo ha rivelato che alcune rielaborazioni de facto hanno avuto luogo tra le due edizioni cronologicamente estreme dell’intero romanzo. Consolo suggerisce il motivo della sostituzione in un saggio celebrativo di Cefalù pubblicato nel 1999: «Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà» (Consolo, 1999b: 17). Le somiglianze sono evidenti e ci permettono di visualizzare i processi che hanno delineato la creazione di questo capitolo. Non e un caso, quindi, che questa invocazione alla lettera A, alla storia antica, alla storia seppellita sotto i toponimi odierni dovesse avvenire nella fase iniziale di un romanzo intimamente connesso tanto con ciò che la storia nasconde quanto con ciò che essa rivela. Apollonia, inoltre, si ritiene che fosse l’antico toponimo dell’odierna San Fratello, un paese che ha una funzione estremamente metaforica in gran parte delle opere di Consolo, non ultima Il sorriso18. Consolo sta, quindi, mettendo uno dei suoi marker, o 18 La citta e evocata, in vario grado, in La ferita dell’aprile (1963), Lunaria (1985) e nel racconto «I linguaggi del bosco», in Le pietre di Pantalica (1988). In particolare il sanfratellano, usato o semplicemente citato da Consolo a più riprese, sembra attirare l’attenzione dello scrittore per la natura e ricchezza di lingua “periferica”, voce di una cultura particolare in netto contrasto con la lingua omologata “centrale” cui ricorre la cultura dominante. Segnali, alludendo a qualcosa che acquisisce via via importanza con il procedere del racconto. L’evocazione di antichi toponimi era riapparsa invero in Le pietre di Pantalica, in quel Il barone magico che si avvale ancora una volta della toponomastica poetica e suggerisce con gli stessi toponimi (e qualcuno nuovo) non solamente una topografia autoriale personalizzata, ma anche la loro contiguità con l’atto di scrittura e gli inizi della parola: Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi, alle origini della civiltà. (Consolo, 1988: 147; Consolo, 2015: 603) Il passo tratto da Il sorriso condivide anche somiglianze con un’altra opera d’impostazione storica parallela, I vecchi e i giovani di Pirandello: Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle… – nomi: luci di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi. L’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, eran finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio degli Arabi era rimasto indelebile negli anni e nei costumi della gente. (Pirandello, 1973: 163) Il suo stato di intertesto e ulteriormente rafforzato appena più avanti, nello stesso quarto paragrafo, quando Consolo sostiene: «Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni» (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 129). Le affinità tra il pirandelliano nome: luci di nomi e il consoliano nomi […], suoni, sogni sono degne di nota. Forse sarà più significativo che Per un po’ d’erba ai limiti del feudo anticipi la tendenza di Consolo a usare documenti storici come discorsi compensativi all’interno delle proprie narrazioni, una pratica più pienamente realizzata ne Il sorriso dell’ignoto marinaio19. Sul portone del municipio era scolpito lo stemma della citta: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avventarsi, i denti scoperti. (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e altrove, i Consigli municipali, costituiti dai Governatori distrettuali, erano composti di elementi della grossa borghesia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»). (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20) La parte del passo in corsivo e tratta da un documento contemporaneo allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e sottolinea un fondamentale fattore storico del Risorgimento in Sicilia: l’opposizione delle classi dominanti in Sicilia al decreto del 2 giugno 1860 «col quale Garibaldi ordinava la divisione delle terre demaniali mediante sorteggio a tutti i capi di famiglia sprovvisti di terra, riservando una quota certa ai combattenti della guerra di liberazione ed ai loro eredi» (Romano, 1952: 139). 19 Segre esamina la funzione narrativa di tale pratica consoliana, anche se l’attenzione del saggio e incentrata esclusivamente sui documenti storici riprodotti in appendice e non su quelli incorporati nel testo stesso (Segre, 2005: 129-138). L’amara ironia che scaturisce dall’inclusione del documento sottolinea il fatto che in 106 anni poco era cambiato nella vita e nelle aspirazioni dei diseredati. E, forse, per questa ragione che Sciascia nella storia scorge il «gioco gattopardesco delle forze della conservazione» (Consolo, 1967b: 429). Da parte sua, di fronte alla staticità del corso degli eventi, Onofri sottolinea che l’immobilita storica, sancita dal documento legislativo, «trova finale suggello nella letteratura, testimonianza abbastanza precoce di quello che possiamo definire il circolo ermeneutico consoliano» (Onofri, 1995: 232). Tuttavia, a permeare queste pagine e soprattutto l’impegno di Consolo a favore della giustizia sociale. Nel racconto, dunque, si possono ritrovare le tracce evidenti del suo primo tentativo di scrivere qualcosa sui paesi medievali additati da Piccolo, pero attraverso il filtro dell’impegno di matrice sciasciana, cioè della sua stessa volontà di abbracciare i temi della giustizia sociale e politica. Sulla questione dell’inserimento di documenti storici nel narrato, il primo capitolo del Sorriso offre un accattivante esempio del metodo di Consolo. E riscontrabile nel diciannovesimo paragrafo e da nell’occhio proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate dallo scrittore nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una condizione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo e riportata in corsivo e nel Capitolo v, Il Vespero, in cui il passo incastonato non in tondo e mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: e la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il “tempo” e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna (Consolo, 1997: 106; Consolo, 2015: 204-205; Manzoni, 2002: 409). Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Nessuna indicazione, né note a piè di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano e interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che esclama: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Consolo, 1997: 20; Consolo, 2015, 134), poiché la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, pero, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, e il frutto del pensare altrui, benché sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si ha un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Biscari, l’Asmundo Zappala, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pepoli, il Bellomo e forse il Landolina. Questo forse il Landolina e l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né e in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, e, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento. La fonte e proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del xix secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, fatta nel 1803 (Dizionario dei Siciliani illustri, 1939). Il testo in questione e da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti Agnello, 1972: 218-219; Consolo, 1997: 19-20; Consolo, 2015: 134): Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare. Il brano di Landolina e citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali e in quei segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità e abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rilevato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del xix secolo. La citazione letteraria diretta si può considerare ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo e qui quello del Mandralisca, com’e peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico e più problematica. Segre scrive che Consolo condivide con Gadda «la voracità linguistica, la capacita di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico» e, assecondando le riflessioni di Bachtin, aggiunge che il plurilinguismo di Consolo e anche «nettamente plurivocità» (Segre, 1991: 83-85). Al riguardo i commenti bachtiniani sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti romanzi della seconda linea. Questo tipo di romanzo tende all’enciclopedicità dei generi, e si avvale anche dei generi inseriti. Il fine principale e introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i generi extraletterari sono introdotti non per “nobilitarli” e “letteraturizzarli” ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo (Bachtin, 2001: 218). L’uso sapiente di Consolo di mescolare generi letterari ed extraletterari contrassegna Il sorriso come un complesso romanzo polifonico. Tuttavia, la funzione di memoria qui e profondamente testuale e quindi comparabile a un palinsesto. Un altro brano altamente significativo di Consolo in questi anni Sessanta appare ne L’Ora ed e un pezzo dedicato a Lucio Piccolo. L’articolo intitolato Il barone magico celebra in apparenza l’impresa poetica di Piccolo (Consolo, 1967a)20. Il testo di Consolo sarebbe un pretesto per la presentazione di tre poesie inedite di Piccolo e un frammento della sua prosa Balletto in tre tempi: L’esequie della luna21. Come nel caso di Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, Il barone magico anticipa molto del futuro Sorriso, ma se l’attenzione nel racconto era imperniata sull’indignazione civile dell’autore, il pezzo su Piccolo vede un Consolo lontano dalle questioni politiche e, invece, fortemente immerso nelle potenzialità magiche della parola, radicate nella seduzione del testo poetico. Se il primo era sciasciano nei presupposti e risultati, il secondo e, in gran parte, piccoliano nella sua espressività. Queste tendenze conflittuali dovevano risolversi nell’intensa fusione della scrittura de Il sorriso, in cui Consolo stesso divenne, per Stajano, uno «Sciascia poetico» (Stajano, 1975). E – si potrebbe forse aggiungere – anche un “Piccolo impegnato”. Questi, poi, sono gli scritti di Consolo fino al momento del trasferimento a Milano nel 1968, scritti che rivelano chiaramente che egli aveva già in mente le coordinate del futuro romanzo. Non che il suo rapporto con il giornale palermitano si fosse concluso con la decisione di lasciare la Sicilia, anzi le collaborazioni di Consolo con L’Ora s’intensificarono e divennero più “tradizionalmente” giornalistiche. I temi affrontati per il quotidiano erano abbastanza diversificati e variavano dalla politica, alla cronaca, alla critica d’arte, alle interviste e recensioni, come anche ad alcuni saggi di produzione creativa. Nel 1975 Consolo torno in Sicilia a lavorare al romanzo e ricomincio a frequentare L’Ora. La testimonianza di Nisticò e interessante per l’attenzione prestata agli interessi poliedrici di Consolo e alle attività da lui svolte contemporaneamente alla scrittura de Il sorriso: Nei primi mesi del ’75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo. […] si butto con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. […] Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a Il sorriso dell’ignoto marinaio: il capolavoro che da li a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca. (Nisticò 2001: 113-114) 20 La maggior parte del materiale dell’articolo costituisce la prima sezione del suo successivo «Il barone magico» (Consolo, 1988: 133-135). 21 Le poesie erano Plumelia, L’andito e quella che sarà poi intitolata Non fu come credesti per lo scatto. Un altro esercizio giornalistico con attinenza diretta alla formazione del capitolo i e un articolo, datato al 1970, fremente d’indignazione civile per le deplorevoli condizioni di lavoro dei cavatori di pomice dell’isola di Lipari. Originariamente intitolato «Il paese dei vivi pietrificati», fu pubblicato su Tempo illustrato, ma sotto altro titolo e solo dopo aver subito pesanti interventi modificatori (Consolo, 1970)22. Ancora una volta, affiora il primo capitolo del romanzo che si occupa del destino dei cavatori di pomice di Lipari e della strana malattia da cui sono affetti: la silicosi, popolarmente conosciuta come Male di pietra. L’articolo di Consolo e degno di nota, in quanto mette in risalto un misto di strategie del discorso significative anche per la sua poetica narrativa (Consolo, 1997: 177). Le preoccupazioni di Consolo sono molteplici, ma ciò che dà forza all’articolo e nel fondo la messa a fuoco della percentuale insolitamente alta a Lipari di malati di silicosi e della loro breve aspettativa di vita. Come chiarisce l’ignoto marinaio del romanzo, a provocare la malattia e l’estrazione della pietra pomice senza rispettare le più elementari misure di sicurezza. Consolo definisce le cave «un kafkiano teatro di vita penale dove si aspetta da sempre il messaggio dell’imperatore»23. E una sorta di altra controversia liparitana, ma diversa da quella della Recitazione sciasciana, in quanto lo sfondo non e settecentesco e Consolo vi delinea una storia dei cavatori di pietra pomice sull’isola a partire dal 1838, quando il monopolio e dato in appalto ad un francese di nome Gabriel Barthe. Lo scrittore si addentra nella battaglia giudiziaria tra questi e il vescovo di Lipari Giovampietro Natoli per il controllo delle miniere: il vescovo ottenne la proprietà delle terre, rifacendosi a un decreto del re Roberto I d’Altavilla datato 108424! E non mancano accenni alla moglie del Guiscardo ovvero Adelasia di Monferrato, evocata nel primo capitolo del romanzo e sepolta a Patti. Questa serie di informazioni a prima vista insignificanti permette a Consolo di presentare l’effettivo proprietario delle cave di pietra pomice al momento della redazione dell’articolo: la mafia, legata al finanziere Michele Sindona, nato a Patti 25. Tuttavia, che le condizioni di lavoro dei cavatori non fossero cambiate 22 Sono grato a Caterina Consolo per avermi fornito una copia dell’originale Il paese dei vivi pietrificati, composto da 5 cartelle battute a macchina con annotazioni e correzioni di mano dell’autore, e aggiunte vergate da Caterina Consolo: il toponimo «Lipari» (indicante il tema), la data di redazione: «settembre», e il futuro del testo: «[pubblicato non integralmente]». La cartella finale e datata: «3 settembre 1970». 23 «Il paese dei vivi pietrificati», cit., c. 3. Omesso nella versione apparsa in Tempo illustrato. 24 Consolo cita dal documento storico riportandolo ne «Il paese dei vivi pietrificati», ma il passaggio non compare in «Cosi la pomice si mangia Lipari». 25 Il banchiere Sindona fu una figura di spicco che ebbe contatti stretti con la mafia, leader politici italiani e la Loggia Massonica di Licio Gelli: la P2 (ben nota per gli scandali in cui fu coinvolta). Cfr. Renda (1998: 400-404); Lupo (1996: 262-271). L’editore di Tempo Illustrato soppresse evidentemente ogni riferimento a Sindona e al fatto che il manager dell’impianto Italpomice, Gebhart Raisch, era presumibilmente un ex Maggiore delle SS. dal 1852, anno dell’azione del primo capitolo de Il sorriso, e ben descritto nel pezzo che segue: Alle spalle di Canneto e il monte Pelato, il monte grigio-bianco con pomice con tra le gole radi cespugli verdastri. […] Gli operai sono dentro le gallerie sparsi qua e là per il costone. Con solo le mutande addosso, sotto questo sole di agosto, sono neri, piccoli e neri contro il bianco abbagliante. Sembrano ragni o scarafaggi che si muovono sopra una parete di calce o di sale. Dall’altra parte della strada vi è il burrone che precipita fino al mare. Dalla costa sì partono e vanno fino al largo snelli pontili neri, geometrici, sui quali scorrono i nastri trasportatori che riempiono le stive delle navi attraccate all’altro capo26. Il passo ha notevoli affinità con un altro del capitolo I de Il sorriso in cui Mandralisca svia il minuzioso esame di Interdonato permettendo alla sua immaginazione di proteggerlo dalla vista di uno di questi ‘cavatori’ e rivelando cosi che Consolo sta visualizzando la scena attraverso il filtro del suo testo: Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante che chiama si Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa col piccone; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali inflorescenze…)27 Il paese dei vivi pietrificati e poi un esempio di come i processi creativi di Consolo abbiano chiaramente influenzato la sua scrittura giornalistica, in un’inversione di tendenza rispetto agli scritti per L’Ora fin qui considerati. Questi articoli dimostrano che Consolo stava riconsiderando i temi Risorgimentali da tanti punti di vista e in differenti prospettive. Un ultimo punto da trattare, attinente alla gestazione del romanzo, e quello degli scritti consoliani relativi, ovvero ispirati, all’arte figurativa. Questa scrittura differisce considerevolmente da quella della produzione giornalistica ed e fatta principalmente di presentazioni per mostre di artisti contemporanei. Una in particolare, manifestando l’innata vocazione di Consolo a usare forme metriche nella prosa, esercito una diretta influenza sulla gestazione del capitolo i. Il testo, intitolato Marina a Tindari, fu scritto per la mostra personale di Michele Spadaro tenutasi a Como presso la Galleria Giovio il 15-30 aprile 1972. Un centinaio di copie del testo della presentazione di Consolo venne pubblicato 26 «Il paese dei vivi pietrificati», cc. 2-3. La parte di testo in corsivo e stata omessa nell’articolo di Tempo illustrato. 27 Consolo (1969) e Consolo (1975a) presentano entrambi la variante precedente «sotto un sole di foco che pare di Morea». Consolo ha scritto un altro pezzo per Tempo illustrato (2 ottobre 1971) con il titolo «C’era Mussolini e il diavolo si fermo a Cefalù». L’articolo porta avanti un’indagine sulla residenza di Aleister Crowley a Cefalù nei primi anni venti del Novecento ed e il primo indizio del futuro Nottetempo, casa per casa (1992). nello stesso anno dal fratello dell’artista, Sergio Spadaro, insieme a un breve saggio (Consolo, 1972)28. In Marina a Tindari, dopo un’introduzione di prosa prelevata direttamente da Consolo (1969), seguono ventiquattro versi: Quindi

Adelasia, regina d’alabastro,
ferme le trine sullo sbuffo,
impassibile attese che il convento si sfacesse.
— Chi e, in nome di Dio? — di solitaria
badessa centenaria in clausura
domanda che si perde per le celle,
i vani enormi, gli anditi vacanti.
— Vi manda l’arcivescovo? —
E fuori era il vuoto.
Vorticare di giorni e soli e acque,
venti a raffi che, a spirali, muro
d’arenaria che si sfalda, duna
che si spiana, collina,
scivolio di pietra, consumo.
Il cardo emerge, si torce,
offre all’estremo il fiore tremulo,
diafano per l’occhio cavo
dell’asino bianco.
Luce che brucia, morde, divora
lati spigoli contorni,
stempera toni macchie, scolora.
Impasta cespi, sbianca le ramaglie,
oltre la piana mobile di scaglie
orizzonti vanifica, rimescola le masse.

(Consolo, 1972: 15-16)

Nel primo capitolo di Consolo (1975a) il paragrafo 14 e un chiaro esempio delle numerose aggiunte testuali di questa edizione. Il paragrafo e costituito proprio da questo testo in versi di Marina a Tindari, ricondotto, per così dire, all’originaria prosa del catalogo, e in questa forma interpolato tale e quale da Consolo in nell’edizione di 1975a29. Echi di T. S. Eliot, Salvatore Quasimodo e Piccolo sono evidenti sin da una lettura iniziale. Il dato significativo, pero, e che la poetica di Consolo comporti anche l’innesto di altri testi nel romanzo. Questo accorpamento non è solo una forma di autocitazione, ma un radicale spostamento di materiali testuali e potenzialità poetiche: cioè la nuova poetica 28 Consolo scrisse anche per la personale di un altro pittore: Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971. Il titolo della presentazione era, nota interessante, Nottetempo, casa per casa. Secondo Messina (2005: 123), il testo scritto per la mostra avrebbe avuto una diretta ripercussione nella costruzione del capitolo vii de Il sorriso, dove sarebbe stato rifuso. Cfr. Messina (2009: 390-393); e inoltre p. 592-621 e 623-627, con le anastatiche del catalogo di Spadaro e di Marina a Tindari, seguite da quella del catalogo di Gussoni. 29 La disposizione in versi e opera del curatore del libretto, Sergio Spadaro, che ha inteso cosi visualizzare i metri intravisti nella prosa consoliana per il catalogo originario. Per un’analisi delle forme metriche nella prosa di Consolo, cfr. Finzi e Finzi (1978: 121-135). di Consolo comporta l’accumulo di diversi testi di varia provenienza, siano essi giornalistici, creativi o di ambito saggistico, in uno spazio a meta fra il polifonico e il palinsesto di singolare gestazione autoriale. Inoltre, in questo particolare esempio, lo spostamento di materiali testuali investe il rapporto di Consolo con l’arte figurativa e le potenzialità proteiformi di parola e immagine. Altrove lo scrittore ha dichiarato: [.,.] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli ‘a parte’, la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano ‘cantica’. (Consolo, 2006: 235) Questo tipo di poetici a parte o di elementi lirico-narrativi a carattere digressivo, sono presenti con maggior frequenza nell’opera più tarda di Consolo e vi assolvono una funzione decisamente corale. L’esempio dedotto dal capitolo i de Il sorriso rappresenta la prima apparizione di questa procedura unica nell’opera di Consolo, una procedura che suggerisce anche il suo ruolo epifanico all’interno della prosa. Non si tratta di un’ekphrasis nel senso stretto del termine, ma la fonte prima svolge una funzione ecfrastica nel suo accentuare l’articolazione del campo visivo. Cosi, queste fonti testuali, giornalistiche, saggistiche e creative, insieme alle varianti testuali, offrono un aiuto inestimabile per la ricostruzione del capitolo i de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Esse evidenziano i momenti salienti della gestazione e forniscono spunti di approfondimento delle preoccupazioni dell’autore; sono parte integrante dei processi creativi del romanzo e ampliano la nostra conoscenza degli aspetti oscuri dell’intero testo; soprattutto, ci permettono di vedere Il sorriso come un prodotto testuale degli anni attorno al 1960, periodo intimamente collegato agli anni di Consolo in Sicilia. Una volta a Milano, lo scrittore inizio l’arduo cammino di tracciare la forma del suo romanzo, di riunirvi tutti i disparati elementi di questo testo mutevole.


Daragh O’Connel

Bibliografia

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Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo

Nicolò Messina Universitat de Girona



Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera più studiata di Vincenzo Consolo sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti, manoscritti). Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica di testi moderni e contemporanei. Abstract The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed, typed and manuscript editions). Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions of modern and contemporaneous texts. 1. In limine Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle più prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente: «Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no sabemos lo que es». 1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine, che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio è almeno doppio. 1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese. La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42. 114  Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre alla medesima etichetta: «Classici moderni»; 2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago — non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate, irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo — da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo, da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di questo nostro nuovo secolo).4 2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo. 3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista, improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano: Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136) 4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994; Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel libro testimonianza si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115 2. De finibus terminisque constituendis Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato, ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste: dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi, 6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal «ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10 Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11 Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi quanti si escludono dal novero degli estimatori più ferventi dell’opera consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno, come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualche coinvolgimento emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano, continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla — la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35) 5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo, 1990. 6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995. 7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna: Il Lunario, 1998. 8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001. 9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003, 179-198. 10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori, 2004, p. XIV-XVII. 11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno, Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero, Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano: Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa» (p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni (Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo di questo numero di Quaderns d’Italià. 116 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente allo stesso variare delle mode critiche.12 D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano è a più riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore: in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003). Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione, quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò al dibattito critico un qualcosa di forse più congeniale alla mia natura di manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente, una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando materiali sparsi, più o meno noti, e aggiungendovi, con cautela, alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le mie intenzioni saranno più perspicue e, ancor di più, se si preciseranno le coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera, nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una prospettiva di contro più complessa e solo nominalmente, per così dire, capovolta: in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores — anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo — e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono, trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court 12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e 59-67. 13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Littéraire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo», Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla più organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime, l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet, a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001. 14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso, ed. 2004, p. 167-175. destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto — pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso, non ne costituirebbero una fase cronologica più bassa, inferiore, bensì soltanto e nient’altro che il più alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita, proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma una sorta di illuminante pre-archetipo.15 3. L’emerso Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa [in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso: 1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15 [luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici I e II; 1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale, cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro arance, senza Appendici I e II [autunno]; 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.]; 1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano: Mondadori [marzo]; 1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi; 1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO, intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond Scuola [dicembre]; 1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio]; 2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano: Mondadori [gennaio]; 2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori [marzo]. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 117 15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90; Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. 118 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa — nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese più crudele» di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore: quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti (luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro, ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17 È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto così rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». 18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo così: Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria.19 Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi | del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole interesse nella cronologia del farsi dell’opera. 16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati più precisi: «[…] impresso nel mese di settembre dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas. 17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione di un assegno di tale importo. 18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38. 19. Ibid., p. 38. 20. Così viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze, a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti, il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione, viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto quell’estate da Caterina. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119 i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma, dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958 (E. PAPA, art. cit., p. 194). 21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi» (V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34). 22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001, p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta, potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo più di casa, il più famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ‘75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala» (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.» 120 Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150 esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé, edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV». Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana, propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante: il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23 Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione. Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, così scrive: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia. Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al “Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana visto da Sciascia» (9 settembre). 23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto. 24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno, Domenica 30 novembre 1975, 3. E più avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta l’autore: Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate, è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»: «Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi. Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno? «Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che non voleva scrivere più perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio viverla che raccontarla. C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello stesso anno. 4. Tra emerso e sommerso Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo, in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e, in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio. E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121 25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione» dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995, p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica del protagonista. 122 si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio più noto, Pavia) o variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati della Collection Archives, 26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso romanista italiano Giuseppe Tavani.27 Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta, tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera; cinque manoscritti. Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal 1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture. Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato. Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su 26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit. 27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte: son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»; «L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique», tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit., rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma: Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica, ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1998, p. 545-554. 28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio, 10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana (30 settembre 1969). L’Ora, 29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia, ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860 sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860 lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido apparire, non più di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che così contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà così approssimare.35 Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre, di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi rispettivamente nei capitoli VII e I.36 Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123 29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca) e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966). 30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, p. 428-434. 31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93- 129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra, tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba… 33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di «Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970», senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre». 34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 35. Ms 4, ff. 41v -33v . Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974. 36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio, 15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav. Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)». Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas. 124 5. Il sommerso Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente diversi. Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica. Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori, infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v ), l’altro, Ms 4, di un ulteriore innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta e di Versailles» (f. 18). Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo 1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem. 38 Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò ante il 18 ottobre 1974. Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3 tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo sulla mostra di Guttuso) o tutt’al più, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento. Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei capitoli VII, VIII, IX. 37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v . 38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna, op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio 1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149. Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura dell’opera. Solo qualche breve accenno. Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo, con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3, contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV; la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente «10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10) Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite). Ancora più illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo» (e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico» (con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica. 41 È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore, «il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, 2005 125 39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare», e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare». Ancor di più il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale) e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia? 40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I. 41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico» nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135. 126 come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con I promessi sposi (1842).46 Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo «critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.»47 42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione più volte manifestata, ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)». 43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 91. 44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione della Storia manzoniana, che viene bensì riportato nella fonte di quel passo (in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. «…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130). 46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116. 47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI, «Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»

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Nottetempo, casa per casa

Sì, che bisogna scappare, nascondersi. Che bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati.

A cerchi, ad ellissi, avanzano, ad onde avvolgenti, nella notte isterica, le trombe stridule. II respiro, mòzzalo. Sfiorano
a parabola – lacera la curva le libre – declinano, a corno svaniscono, schiere di cherubini opachi («Toh, sfaccime, toh!.,.»), le bùccine d’acciaio, feroci.

Sul blu’ in diagonale, in vortice di dramma, le mani tra i capelli sulle guance, virano, cabrano, picchiano, occhi a fessura,

piccole animelle colombine, agli Scrovegni. Aggelati nel Giudizio, fermi nel cerchio d’oro della testa… << Per San Michele, tu dal nulla generi la colpa!».

E qui, in questa muffa d’angolo… Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con sirene lame della notte. Perchè il silenzio, la pausa ti morde.

Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. <<…La rabbia resa spietata da una

lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il tirnor di mancare a un’aspettativa generale…; il tirnor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. Ma tu aspetta, fa’ piano. Deponi le mutrie, gli orpelli, i giochi insensati d’ogni giorno, lascia scolare nelle fogne la miseria, concentra la tua mente: sii uomo per un attimo.

Poggia il tuo piede qui, su questa tela, entra, fissa la scena: in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe. Esci, esci, se puoi, dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda dal corpo in prospettiva, mantegnesco. L’uomo è caduto su punte di cristallo.

Mart! Cam t’affuoddi stumatin

Chi t’arcuogghi u garafu ‘ntra u sa giggh! (1)

Le buro-barecrazie innalzano poi barriere, muri, labirinti. E dalle pietre del forte, stella di terrore, il soave mattaccino murato vivo (hanno fermato il piede che disegna per l’aria libere buffe spirali) urla nella notte: <<.,,Questa  nostra lenta agonia che è già morte civile… ». E l’urlo rimbalza di casa in casa, per scaloni di porfido, cortine di damasco, su per ciscranne, podi, teche opalescenti.
«Che si laccia tacere!» gridano, alzando sulle teste manti, pluviali,

cappe, palandre d’ermellino.

Ma vi fu un tempo idillii. Tempo d’arie e d’acque, di erbe e d’animali, di baite romite, masi. Luce in ritmi, equilibri, scomposizioni, essenze: vuoto bianco e schiene di purezza, braccia. Cattedrali d’aria vagano per luci di granato, smeraldine, martire impalato e fraticello matto invetrati (…per sora acqua e frate sole…), illusioni a suoni flautati di canne gotiche e ghirigorì barocchi di fumi orientali. Tempo di tessere smaltate, di giochi bizantini, veloci impasti,

guizzicromie su fresche scialbature, segni, graffi su mollezze caglianti.

E tempo di maestri. Punto e linea, luce ferma. Oltre la greppia euclidea, fughe, profondità, aggetti.

Del chierico diafano non t’inganni la sua luce di febbre: il sacco copre croste, piaghe, sozzure, orgogli. Schizofrenia gli cela il flusso degli eventi, condizioni coatte. Estraneo alla dimora della famiglia dei polli.

ln stie sotterranee, tra fumi d’arsenico e scoli di cianuro, per il mio e il tuo, beccano il vuoto tondo dilatato ebete occhio, segano vene, tendini, polpe. In ciclo di crusca e sterco, crusca e sterco. Sfiora il tao ventre ora, dallo sterno al punto del cordone, con dita ferme: senti la stimma del tuo gastrosegato, la tacca per la fuga della bile. E qui, dove le fughe? In pesi squilibrati di colori, in dissonanze, chiusure dimensionali. In trittici distorti ti rifiuto la tua crusca e il mio sterco. A te, dalla razza degli angeli!

Ma all’estremo della notte, già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli.

Viene fuori l’eretico, prendetelo! Caricatelo di catene e mùffole, di torcia, di mitra e sambenito, stringetegli al collo la corda di ginestra.

E nell’immensa piazza, grida il capitano: «Vivo abrugiato, le sue ceneri al vento siano sparse ».

Vincenzo Consolo

(1) «Morte! Come t’affolli stamattina – A coglierti il garofano dal suo calice!».
postille al margine “nasce 1971 in Il sorriso pa,103-105 cap. VII-1976 modificato”
dal catalogo della mostra di Luciano Gussoni
Villa Reale di Monza 10 novembre – 30 novembre 1971


Barecrazie 71
Volo da una finestra 1°
Luciano Gussoni