Paludi e naufragi

Vincenzo Consolo scrive questo testo ispirandosi
all’ opera dell’ artista Franco Mulas.

La-montagna-dacqua
*

PALUDI E NAUFRAGI

Ora avanziamo per pianure acquitrinose, fra balzi, rigagnoli, pozzanghere, ristagni, fra muschi e filamenti, sterpaglie macere, gromme, viscidumi: scivola, schizza la grassa mota sotto il piede o si gonfia e cresce, avvolge, preclude il movimento. Forse siamo fermi, forse sprofondiamo. E dietro è la notte senza scampo, il fitto oblìo: nulla sappiamo ormai dei luoghi consistenti, dei solidi sentieri, del cammino che ci portò nelle maremme. Avanti è la luce. Una frigida luce di riverbero, d’un alba immota, d’una stagione ignota. E avanti s’erge la barriera, il velario d’acque, la perenne cascata ch’erode e che cancella: in quali lontananze, in quale tempo cominciò questo diluvio?

Una montagna s’erge, un cumulo di frantumi o d’ossa, una massa informe, spugnosa, che si schiude e diffonde ancora acque. Dentro il suo cuore mùcido, di melma, è sepolto e si sfalda l’ultimo segno: furono mai, e dove, fuochi, cieli chiari che non fossero questi, febbrili e violacei, sabbie, rocce, lastre, orme, forme, cifre sicure e decifrabili? Nella palude pallida, nel verminoso verde annega la memoria: vana sembra la ricerca, la prova d’un racconto. Labili, sfuggenti immagini riaffiorano dalle liquide arche, parole tronche, àtone, echi di vaste, deserte scalinate, di balaustre, di monche statue, precipiti, d’inseguimenti e fughe e guizzi di metalli: quale mai tragedia s’è consumata sopra quegli spalti? E ancora e altrove brani di praterie solarizzate, sfocature, riflessi, traiettorie, immobili sequenze: notturno è il mondo o d’una luce traslucida che abbacina e consuma. Ma se appena ci volgiamo, castigo di sale, siamo spinti ancora, per lo scarto d’un riquadro, più dentro alla cascata, più presso alla montagna: e troveremo un varco, un passaggio, e cosa ci attende dietro quel sipario?

Mutata è la scena, ma uguale resta lo spettacolo, uguale il sogno, la pena. Ecco che da riviere di conterìa di vetro s’aprono le distese dei mari che naviganti improvvidi solcarono e notti illuni e cieli gravi, brume e calmerìe sinistre in cui si sciolse ogni punto o freccia delle mappe, l’oscillazione degli aghi, il giro delle sfere, la fune del richiamo, il breve cerchio del fanale, ogni ricordo d’ancore e di porti: l’enigma è nell’occhio stupefatto, nel respiro fermo, sul labbro sibillino di tutte le polene. È certo tuttavia che velieri salpati alla speranza di isole felici cozzarono ai passaggi di infide simplegadi, s’incagliarono in ambigui fondali, sfasciarono su scogli invisibili e fatali, si persero nei gorghi. E pietre e scogli d’oro – riflesso e ironia di tesori dispersi o ricercati –, in simbiosi o mutazione, divennero le chiglie, i fasciami, gli alberi, le coffe, le sartie, le vele gonfie d’un vento ch’è calato, e i naviganti, naufraghi immortali – oh in tempi ancora umani la pietà per il fenicio a cui sappiamo le correnti sottomarine in dolci sussurri spolparono le ossa –, madrépore, cemento di conchiglie, cavi manichini d’un metallo senza suono.

Ma animo, antichi e ricorrenti sono i naufragi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi, naufraghi d’una storia infranta, simboli d’un epilogo, involontarie comparse, attoniti spettatori di questa metafisica.

Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo, incauti, il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili.

Da trasparenze di fondali, dal placarsi di onde sopra onde basse, da risacche lievi, dal riemergere di ciotoli, legni, ferri levigati, dalla breve scogliera s’erge inclinata la nave, fantasmatica nell’incendio dell’estremo raggio; e sulla nave, sul tamburo della plancia, batte gli zoccoli in galoppo, vivida fiamma la criniera, un cavallino rosso: è l’ultimo innocente sogno, la nostalgia struggente di un Billy Budd prima d’annegare o di pendere nel vuoto del pennone?

Su un altro scoglio, sui rottami d’un veliero, contro la murata, gli anfratti e le volute di cuoio d’una vela, sta assorto un marinaio, cavo come il barile a cui s’appoggia, nell’attesa di trasmettere o ricevere un impossibile messaggio.

Ma il messaggio viene, ambiguo e illusorio, al dileguarsi della notte, all’esplosione della luce, viva e irreale, col battello che scivola sicuro sopra l’acque e il simbolo crudele d’una donna dalla veste di vento e madreperla.

E quindi è la volta di isole stregate, di lagune e di montagne, di luoghi in cui si compiono sortilegi, incontri imprevedibili, sarcastiche apparizioni, amare citazioni d’iconografie consunte e ignorate.

Ma grande sembra il sonno, grave il tedio, sembra che non ci sia scampo alle paludi e ai naufragi, spenta l’allegria e spento anche il desiderio d’una fuga:

La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres.

Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres.

D’être parmi l’écume inconnue et les cieux!*

Non resta che la malinconia d’una musica interrotta, una viola muta, una statua riversa dentro l’acqua.

*              Mallarmé, Brise marine.

Brano tratto dal libro L’ ora sospesa ed. Le Farfalle
*
mulas

Per L’ora sospesa di Sebastiano Burgaretta

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Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura d’ogni altro; dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete: al confine bevemmo il nostro lete). Ora, in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie. Sfondo infinito, abissitade – in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte ove si bagna il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile.

E in questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono?

E tuttavia per frasi monche, parole inadeguate, per accenni, allusioni, sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione[1].

Questa lunga citazione è l’incipit dello scritto che dà anche il titolo al libro L’ora sospesa, di Vincenzo Consolo, raccolta di articoli, brevi saggi, presentazioni di mostre curata con una sapiente scelta di testi, peraltro approvata e postillata negli ultimi suoi mesi di vita dallo scrittore di Sant’Agata Militello, dal critico e italianista spagnolo Miguel Ángel Cuevas. Questi ha arricchito il volume con un accurato apparato di note informative e critiche che colgono ed evidenziano il ruolo non secondario dei testi compresi nel volume, edito dalle edizioni Le Farfalle del poeta e raffinato editore Angelo Scandurra. Ho voluto riportarla, perché mi pare evidente che in essa risieda la cifra chiara, ineludibile non solo di questo libro ma anche dell’intero cammino letterario dello scrittore e narratore-poeta che è Consolo. Non si tratta, come potrebbe suggerire la tipologia specifica degli scritti, soltanto del tempo sospeso, dell’attimo necessario a catturare un’emozione, una sensazione da fermare con lo scatto della macchina fotografica o da dilatare col pennello su una tela. In essa è contenuta la metafora della ricerca continua che, fra tappe e soste, parola e afasia, luce e lutto, illusione e disinganno, lo scrittore e narratore ha svolto in ambito letterario con una rara e sofferta identificazione tra pagina e vita. Tutta l’avventura letteraria di Vincenzo Consolo è stata un’ora, un tempo perennemente sospeso tra dissonante assenza di luce e musicale illuminazione apportata da un ánghelos portatore di vita. A ragione l’incipit è chiuso dalle seguenti parole: Viene e sovrasta un nunzio lampante, una lama bianca, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quali paradisi? O risale prepotente da quali abissi? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai miracoli; si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro[2].

Si direbbe che la scrittura di Consolo sia ispirata, che scenda dall’alto grazie alla mediazione di un ánghelos, che ne agevola il kairós, il momento di grazia, atto a celebrare funzione e fasti della parola, sempre emergente dalla memoria, con la cadenza e il ritmo di uno spartito musicale che trasfigura in arte e poesia autentica i fantasmi e le tragedie della storia umana. In questo libro, occasionalmente dedicato alle arti figurative, è racchiusa una sorta di mini laboratorio della scrittura tutta di Consolo. Come dimostra l’apparato delle note curate da Cuevas, l’ora, il tempo creativo per lo scrittore messinese è sempre sospeso, perché questi torna continuamente a rivedere, a integrare, a rimodellare i suoi scritti, per rifunzionalizzarli a momenti diversi, a tappe creative nuove. È una perenne sospensione del processo creativo, tesa a cogliere e, possibilmente, a fissare, come fa l’artista delle arti figurative, il momento di grazia, la giusta dimensione, il kairós di luce che attinga alla sfera dell’armonia e della poesia. La scrittura di Consolo è in movimento continuo, e non a caso la metafora che supporta e caratterizza quasi tutti i suoi romanzi è data dal viaggio, così come un viaggio è stato il peregrinare dell’autore per il mondo e l’andirivieni tra la Sicilia e il continente, un viaggiare esistenziale assurto a cifra letteraria fondamentale della sua opera. Un andare e venire quasi compulsivo, sulle cui ragioni egli stesso si interrogava: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.

Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca[3].

Questo continuo movimento nella vita e nell’opera di Consolo tiene tutto in sospensione, l’animo e il pensiero dell’uomo nonché l’opera del narratore e scrittore. Tutti gli incipit dei testi compresi in questo libro postumo fanno capo al principio e alla realtà del movimento, con una sorta di corrispondenza incoercibile e perciò significativa: Manovre di notte, ronzare di motori, cigolii di maglie. Manovre di notte. (Per Pippo Spinoccia); Sì, che bisogna scappare, nascondersi. (Nottetempo, casa per casa); …T’avvolge improvvisa voluta di brezza di mare di monte… (Guida alla città pomposa); Ora avanziamo per pianure acquitrinose, fra balze, rigagnoli…Avanti è la luce. Una frigida luce di riverbero, d’un’alba immota, d’una stagione ignota. (Paludi e naufragi); Soli andavamo dentro la boscaglia, dentro il verde più cupo più profondo. (L’immensa luce); Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio…) …Ora in questa luce nuova…in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. (L’ora sospesa); E vado, vado nel tempo mio del rapimento e dell’incanto, vado alla ricerca del luogo della quiete, dell’incominciamento mio dentro la notte… (Il libro celeste).

L’illusione incessante di vedere una Sicilia diversa, nuova; da qui il viaggiare continuo per tutti gli angoli dell’isola come necessario rituale di vita e come metafora, sia nelle opere maggiori e nei romanzi col linguaggio alto della poesia, sia in quelle cosiddette minori col linguaggio della comunicazione ma pur sempre curato e musicalmente calibrato. Questa illusione perenne di Consolo che viaggiava era in continua elaborazione, in eterno fieri e induceva lo scrittore a parlare delle città e dei luoghi della Sicilia viste e amate, quando erano da amare, come vittoriniane città del mondo. E ciò con la chiara consapevolezza della differenza che passa tra lo scrivere e il narrare, perché si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale… Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della memoria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica[4].

Il libro si occupa di opere pittoriche, anche se l’autore parla, come egli stesso precisa, da non addetto ai lavori… per consonanza[5] artistica. E infatti, anche trattando di opere figurative, l’animo del poeta e del narratore viene immancabilmente fuori, a cantare con lo stesso trasporto e la stessa armonia di sempre. Emblematico, a tale riguardo, è il frammento lirico Blu, vera sintesi di quanto qui si vuole evidenziare, per cui appare quanto mai opportuna la scelta di averlo messo a chiusura del libro, quasi come cifra finale e firma autenticante: Per isole di calce, passaggi di carminio, per sprazzi gialli e sfumature verdi, ai bordi, sul ciglio d’un ignoto mondo, del più profondo azzurro, ci muoviamo. Sfioriamo un mare immenso, un immenso cielo, uno smisurato spazio… Ci prende e ci trascina questo fiume imperioso nella Venezia e Samarcanda del racconto, della favola, nell’oriente di splendori, nella Bisanzio al culmine del fasto e della grazia…Tracima ora dagli argini, scorre per invisibili passaggi, colma ogni vuoto, abisso, s’addensa a strati, spegne ogni luce, riflesso, culmina nella notte del mondo, nel blu più cupo. Nell’assoluto nero. Compiamo questo viaggio dentro le quinte mobili e fugaci, dentro l’illusione, l’inganno, la malìa dei colori, fra l’apparenza della pittura. Dentro l’avventura dell’azzurro, del colore dell’origine, dell’infinito spazio e dell’eterno, del

                                            dolce color d’oriental zaffiro[6].

È prosa questa, è poesia, è pittura modellata con la parola, o forse è tutto questo insieme? Certamente si registra qui una chiara consonanza fra i vari generi artistico-creativi. E certamente è poesia pura, in sintesi straordinaria la stessa cui ci ha educato in tanti altri suoi scritti Consolo, poesia, cioè, che gronda del sangue umano versato lungo i sentieri terribili della storia ma che vive anche della speranza e della luce della redenzione e della libertà. Poesia pura che sembra fare da antifona ai versi della successiva La palma celeste, scritto nel quale la festa di colori cangianti e il ritmo spezzato del gioco della memoria sembrano sintetizzare una sorta di metafora del cammino della vita tra natura e cultura.

Non è, del resto, un caso che Consolo abbia amato l’arte e la figura di Antonello da Messina, sino a farne un fermo punto di riferimento della sua ricerca artistico-letteraria, al punto da divenirne una sorta di alter ego empatico e consonante. La grandezza di Antonello ha le stesse radici dalle quali sarebbe germogliata anche quella di Consolo. Sembra, infatti, che lo scrittore stia parlando anche di sé stesso, quando, riferendosi ad Antonello, afferma che tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa, enorme sedimentazione di memoria. Ma di memoria illuminata, capita dopo il confronto con altre realtà, dopo aver messo la giusta distanza tra sé e tanto bagaglio, giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria[7]. Come poi avrebbe fatto anche Consolo, Antonello dovette andare via da Messina e dalla Sicilia, per potere trovare la via della sua creatività artistica: Il suo andare a Napoli, a vent’anni, l’ha salvato, gli ha salvato la ragione e il prezioso talento di pittore. Nella bottega di Colantonio gli si sono dispiegati nuovi orizzonti, ha visto nove cose, sentito nuovi linguaggi. E il suo vedere e il suo sentire altre realtà dovevano essere una continua verifica, un’illuminazione, una razionalizzazione, un controllo della realtà che si portava dentro, nella sua memoria: la realtà di Messina…e lascia il mare per la terra, l’esistenza per la storia. La Sicilia e Messina possono così tornare attivamente, espressivamente, in tutta la loro “oggettiva” bellezza e passione[8]. L’andare di Consolo ventenne a Milano, a respirare l’aria dell’ambiente vittoriniano salvò il talento dello scrittore messinese, come la Napoli di Colantonio aveva salvato quello di Antonello, perché anche lo scrittore di Sant’Agata Militello potè guardare “oggettivamente” la Sicilia e farne oggetto di appassionato canto memoriale senza i limiti esistenziali talora insiti nel provincialismo, specialmente quando questo è acritico. E, come per Antonello il tornare a Messina ormai, saldo com’è, non comporta alcun rischio[9], così per Consolo la distanza interiore stabilita era garanzia di salvezza definitiva, anche se la sirena dello Stretto richiamava sempre in patria[10] anche lui come il pittore. Ma ormai non c’era rischio d’involuzione così per l’uno come per l’altro. Tra i due grandi messinesi si configurano i termini di un parallelo cammino, anzi viaggio, di vita tra sogno e nostalgia, tra l’isola e il mondo, Messina e la Sicilia, da un lato, la storia con la sua logica, dall’altro. Solamente così, al prezzo dell’esposizione e dell’alghios del ritorno, il palcoscenico del teatro siciliano, sempre amato tra illusione e disinganno, potè trasfigurarsi nel paradigma di un più vasto teatro, facendo sciascianamente assurgere, con le opere dei due grandi messinesi, la Sicilia a metaforico teatro del mondo; il che la dice lunga sugli orizzonti culturali, artistici, politici e fondamentalmente umani dei due corregionali, la cui lontana e pur vicina somiglianza,  forse non a caso – nella vita di Consolo poco era lasciato al caso —  è resa iconograficamente visibile in alcune immagini fotografiche di lui che, con un pizzico di autoironia – velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà[11], si è fatto riprendere come l’uomo del Ritratto d’ignoto marinaio conservato al Museo Mandralisca di Cefalù o è stato ritratto, sempre con le stesse caratteristiche, dall’amico pittore Bruno Caruso, il quale ha disegnato anche, con le caratteristiche e il copricapo dell’ignoto marinaio lo stesso Antonello che varca lo Stretto di Messina[12]. E non è Consolo stesso a confermare, in quell’Autoritratto, forma di poesia visiva, significativamente messo a clausola del libro, con l’immagine dell’uovo e del limone la parentela con i volti geometrici ma intelligenti e pensosi di Antonello? Come a dire che tout se tient.

 

[1] V. Consolo, L’ora sospesa, Le Farfalle, Valverde 2018, p. 42.

[2] Ibidem.

[3] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1990 p. 179.

[4] V. Consolo, L’ora sospesa, cit., p. 70.

[5] Ivi, pp. 68, 69.

[6] Ivi, pp. 121-122.

[7] Ivi, p. 103.

[8] Ivi, p. 108.

[9] Ivi, p. 109.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 117.

[12] Cfr. E. Bilardello, Bruno Caruso, Flaccovio, Palermo 1986, p. 159.

Gli scritti sull’arte di Vincenzo Consolo

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente…

recensione di Sergio Spadaro – critico letterario

Sabato 05 Maggio 2018 

Immagine Principale

Immagine Principale

 Immagine in copertina: quadro “Marina a Tindari” di Michele Spadaro, 1972. 2) Vincenzo Consolo

 Miguel Angel Cuevas, italianista de l’Universitat de Sevilla, ha raccolto e curato gli scritti che Vincenzo Consolo ha via via dedicato agli artisti (non solo pittori o scultori, ma anche fotografi e architetti) in L’ora sospesa (Le Farfalle Ed., Valverde [CT], 2018). Giustamente dice il curatore che “abbiamo forse qui l’archetipo di una strategia di ambiguazione  da annoverare fra le più cospicue della scrittura consoliana”[…] Attraverso “passaggi in cui l’impiego di alcune risorse stilistiche (quali la frase nominale, l’elencazione, la ritmicità della prosa, la rima interna, ecc.) […] L’ora sospesa rivela l’intimo legame tra l’occasione figurativa e la stesura di pagine dominate (per dirla pasoliniamente) da ‘l’immediatezza allucinatoria della poesia che fissa le figure in un loro momento assoluto’. […] Tutti questi tratti distintivi della scrittura consoliana, di un narrare che contamina finzione e dizione (romanzo e poesia, cunto e  canto), trovano una loro cifra, una loro matrice nella dimensione ecfrastica del testo, sia essa velata o meno. […] I testi sull’arte e  sugli artisti […] si dimostrano tutt’altro che scritti d’occasione: […] bisognerebbe piuttosto parlare di occasioni alte e altre, se sono servite per mettere a fuoco le tensioni espressive di Consolo” (pp. 10/16).

   Queste “tensioni espressive” hanno momenti salienti e ricorrenti. Anziché fare pertanto una rassegna per riscontrare quanto dell’arte di ogni artista è penetrato nei testi consoliani, preferiamo indicare alcuni dei passaggi “tipici” della sua visione del mondo (tenendo presente che, in Consolo, il termine “visione”perde ogni statuto razionale e si veste, o si traveste,  invece della  sua particolare “sensibilità”). Citando L’infinito di Leopardi possiamo partire da quella Metafora (la maiuscola è nell’autore) dell’occhio, e dei portoni-occhi che si rintracciano nelle architetture di Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, nella quale Consolo vede “quale pietoso, consolatorio argine, quinta, quale parete dipinta contro lo smarrimento, l’ansia dell’indistinto, dell’infinito spazio”. Linguaggio che nasce dalla paura, dal “bisogno di esorcizzare lo smarrimento di fronte all’infinito e al silenzio” (L’occhio e la memoria, pp. 63/65).

   Questo della metafora è un passaggio centrale in Consolo, che arriva anche a teorizzare una differenza fondamentale fra narrare e scrivere. “Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico. […] Il narratore procede sempre con la testa rivolta indietro […].   Ha però il narratore […] una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo sposta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, sì, figli della natura, ma siamo anche – direi soprattutto – figli della cultura. […] Lo scrivere, invece, al contrario del narrare, può fare a meno della memoria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica” (Fotografia e/o racconto, p. 70). E ritorna ancora a Leopardi, citando stavolta il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Tristi nenie […] suscitano dunque il deserto e la notte, lo smarrimento davanti al vuoto, all’infinito, e nel pastore leopardiano domande che […] denunciano [..] sfiducia nella vita, malinconia per la condizione umana. L’insopportabilità di un orizzonte sconfinato, d’uno scenario uniforme e vuoto aveva forse indotto i Segestani a costruire sul ciglio di un abisso, tra l’eminente loro città e la nuda vastità dintorno, il colossale tempio che mai vollero finire, che forse concepirono come segno sospensivo, schermo, come sosta o soglia verso ‘l’infinito seren’, la ‘solitudine immensa’ “ (Faber audace, pp. 87/88). E poiché Consolo procede sempre per opposizioni e contrasti, cita persino la dialettica nietzschiana fra apollineo e dionisiaco che, in Andalusia, si trasforma nel lorchiano Duende: “Avveniva nell’animo di questi nomadi […] la caduta […] dello spirito socratico e l’irrompere dello spirito dionisiaco: avveniva in essi il prevalere del sentimento sul ragionamento, dell’espressione sulla comunicazione, del canto, del movimento sulla prosa razionale” (p. 88). Per concludere: “Dai luoghi estremi, dai deserti, lontano dai segni della storia, della realtà apparente, vinto lo sgomento, si può partire per un’avventura in cui si scoprono alfabeti ignoti, forme e movimenti sconosciuti, si può approdare a una nuova conoscenza, a una fantasia che reinventi il mondo, dia di esso ragione e poesia” (p. 94).

   Questo del “vincere lo sgomento” richiama subito la prosa di Marina a Tindari (poi confluita ne Il sorriso dell’ignoto marinaio), che nella dialettica fra storia e natura, indica l’operazione coraggiosa compiuta dal pittore: “Ma per certo su la tremula landa sconfinata navigò qualcun altro puntiglioso, scoraggiando la perdita, il malessere: di quel luogo tremendo ne riportò i segni, l’idea” (p. 27).

    La metafora può diventare in Consolo persino simbolo generale di ascensione verso l’alto, una di quelle sue figure di ?nghelos, come lo stesso Empedocle (in Catarsi e in Oratorio ne fa quasi un santo che s’immola per il bene dell’umanità). Oppure come il personaggio melvilliano di Billy Budd che, essendo radicalmente buono non può integrarsi nella società umana e, di fronte alla ingiustizia, non può parlare, ma solo agire. Consolo dirà a proposito; “L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze” (p. 76, ma anche in Preludi e naufragi, p. 35).

   Anche la figura di Antonello da Messina è, per Consolo, un prodotto della dialettica fra storia e natura “Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa, enorme sedimentazione di memoria. […] Giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria. […] E’ l’immagine nostalgica e struggente di una città, un’epoca, di ricca umanità che era nel luogo dove l’ottusa violenza della natura tende sempre a tutto cancellare, tutto smemorare” (p. 103). E in Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia, aggiunge, con tipica immedesimazione personale: “Avrebbe potuto, Antonello, come altri siciliani, come altri messinesi, perdersi, annullarsi nel mare dell’esistenza, essere sopraffatto dalla oggettività fino a perderne coscienza, sprofondare in vortici, chiudersi in labirinti di paura  e incomprensione se non fosse fuggito via in tempo dalla sua città” (pp. 107/108).

   Ricordiamo che, persino nel Ritratto d’ignoto di Antonello del Museo Mandralisca, Consolo   vede “il suo sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (p. 116).

   Un esempio infine della metaforizzazione manieristica di Consolo si ha in Autoritratto , dove il  suo volto viene descritto come un uovo, anzi un limone spremuto e la facies così assomiglia a quella mortuaria:”Nella metafora manieristica, si sa, appare assai debole la somiglianza fra gli oggetti posti a confronto: il paragone viene istituito, non tanto con un altro oggetto, quanto con il poeta e la metafora nulla rispecchia fedelmente come il poeta stesso” (Amedeo Quondam, Problemi del manierismo, Guida, NA, 1975, p. 181).

   Gli artisti che appaiono in questo libro sono rispettivamente: i pittori Pippo Spinoccia, Luciano Gussoni, Michele Spadaro, Mario Bardi, Franco Mulas, Marcello Lo Giudice, Ruggero Savinio, Fabio Zanzotto, OttavioSgubin, Rino Scognamiglio, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici   (che in Retablo era un personaggio della narrazione), Antonello da Messina, Enrico Muscetra; gli architetti: Bruno Reichlin e  Fabio Reinhart; lo scultore Nino Franchina; i fotografi: Enzo Sellerio, Giuseppe Leone e Stefano Baroni. A questo punto ci chiediamo perché non sia stato riportato lo scritto che Consolo aveva dedicato al pittore Togo. E siccome il curatore ci avverte che la selezione dei testi è autoriale (p. 132), si tratta evidentemente di una dimenticanza. Per questo – essendo in grado di farlo – saniamo appresso la lacuna (il catalogo si riferisce alla mostra tenuta da Togo allo Studio d’Arte  Grafica di Milano, dal 26 gen. al 23 febbr. 1995). Oltretutto il testo, come direbbe il curatore, è un esempio di ékphrasis, cioé di descrizione della sua pittura dai colori fauves e dall’ambientazione messinese:

Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzurro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, lo squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’intreccio impietoso, nelle latebre profonde, nel segreto germinare.

Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria. In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi,in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna  instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore.

In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza,come l’incanto d’una strada chiara,d’una fata morgana  tra il cielo e il mare dello Stretto.

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente… Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura. 

VINCENZO CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, Le farfalle, Valverde [CT], 2018. € 13,00.

da Paese Italia press.it