- 2 Novembre 2025
È una delle metafore più belle della scrittura dell’autore di Sant’Agata di Militello. Una di quelle che conferisce presenza visiva, carnale alle parole. E che ritrae il movimento millenario degli uomini, divisi tra passato e futuro, tra gli attimi di rovina e il coraggio di ricominciare. Soli nel deserto di un’isola sconosciuta, ma mai privati della capacità di aggrapparsi alle luci in lontananza. Perché naufragare è spesso drammatico: ma può anche essere necessario
Vorremmo, talvolta, che le nostre parole si tramutassero in cartolina. Che esistesse un condensatore d’emozioni, un modo per plasmare delle immagini che siano cariche di tutto il senso che il linguaggio, inevitabilmente, finisce per diluire. Vorremmo saperle tratteggiare, quelle immagini. Tirarle fuori all’occorrenza dallo scrigno della memoria o inventarle come abili maghi. Accostarci, anche solo per qualche istante, alla sensazione di poter somigliare ad un pittore di idee, ad uno scultore di sentimenti. Ma il compito, di frequente, risulta proibitivo. Ed è allora che finiamo costantemente per affidarci agli scrittori. Alle loro intuizioni, alla astratta carnalità del loro comporre. Alla sintesi di pensiero e di anima che contraddistingue il loro fascinoso dettato. Ed ecco che la molteplicità del sentire, la confusione che deriva dall’ansia di definizione, si muta in autenticità. Nell’univocità dell’umano sentire, nel riflesso di generazioni che, alternandosi, sono spesso finite a ricalcare le medesime orme, le medesime pagine. Ci affidiamo a qualcun altro, insomma, per spiegare noi stessi. Per scovare in tempi e luoghi disparati quell’icona, quel monumento di carta che altrimenti non avremmo saputo erigere. Ed è forse in accordo a questo bisogno immaginifico che diversi grandi nomi della letteratura hanno affidato ad efficaci metafore l’espressione dei loro concetti più alti. Vengono in mente, tra gli altri, Petrarca e Leopardi, con l’immagine del vecchietto canuto e vestito di stracci che si affatica per districarsi tra le sue miserie esistenziali. O Jack Kerouac, con l’immortale ed efficacissima simbologia della strada da percorrere. Ed è forse per rispondere alla stessa esigenza che, a più riprese, le parole degli scrittori siano scaturite dalla contemplazione di un’opera d’arte. Esattamente come accaduto a Vincenzo Consolo, che dinanzi ad un dipinto del compianto Franco Mulas, elaborò una delle sue più suggestive metafore. Incluso poi nel volume L’ora sospesa (2018), curato da Migel Àngel Cuevas, il brano si sofferma su quanto la nostra vita sia assimilabile ad un naufragio. Con le sue accezioni negative, naturalmente. Ma anche, sorprendentemente, in quelle positive.
Perché il naufragio, di per sé, dovrebbe rimandare alla rovina. Alla solitudine, al travaglio. Ai capricci della sorte che sospinge verso la deriva. Alle domande che apparentemente non conoscono risposta, se non quella di proseguire a tentoni verso il disvelamento della verità. Ed è proprio questo il punto di partenza assunto dallo scrittore originaria di Sant’Agata di Militello: «Ora avanziamo per pianure acquitrinose, fra balzi, rigagnoli, pozzanghere, ristagni, fra muschi e filamenti, sterpaglie macere, gromme, viscidumi: scivola, schizza la grassa mota sotto il piede o si gonfia e cresce, avvolge, preclude il movimento. Forse siamo fermi, forse sprofondiamo. E dietro è la notte senza scampo, il fitto oblìo: nulla sappiamo ormai dei luoghi consistenti, dei solidi sentieri, del cammino che ci portò nelle maremme. Avanti è la luce. Una frigida luce di riverbero, d’un alba immota, d’una stagione ignota. E avanti s’erge la barriera, il velario d’acque, la perenne cascata ch’erode e che cancella: in quali lontananze, in quale tempo cominciò questo diluvio?». Ma anche quando lo sprofondo si fa imminente, minaccioso, prossimo, il naufrago sa anche protendersi. Sa gettare lo sguardo sull’orizzonte dell’attesa, sul crinale della speranza. Compiange il proprio stato, ma ne articola mentalmente il ribaltamento. È trattenuto, come imprigionato dalla risacca, ma anche intrinsecamente libero di sognare l’impossibile, il mistero. «Labili, sfuggenti immagini riaffiorano dalle liquide arche, parole tronche, àtone, echi di vaste, deserte scalinate, di balaustre, di monche statue, precipiti, d’inseguimenti e fughe e guizzi di metalli: quale mai tragedia s’è consumata sopra quegli spalti? E ancora e altrove brani di praterie solarizzate, sfocature, riflessi, traiettorie, immobili sequenze: notturno è il mondo o d’una luce traslucida che abbacina e consuma. Ma se appena ci volgiamo, castigo di sale, siamo spinti ancora, per lo scarto d’un riquadro, più dentro alla cascata, più presso alla montagna: e troveremo un varco, un passaggio, e cosa ci attende dietro quel sipario?».
È sogno e supplizio, la parabola del naufrago. O, fuor di metafora, la vita degli uomini. È alternanza ineludibile, filo invisibile tra ricordo e futuro. Altezza d’intento e sprofondo d’illusione. È la storia stessa ad essere intessuta di naufragi. Di orme depositate sulla sabbia, che ciclicamente finiamo per ri-formare, per ri-disegnare. Millenari, come le nostre voci, ci sovrapponiamo, ci intrecciamo ai naufraghi che furono e a quelli che saranno. Spesso al di là della nostra consapevolezza: «Ma animo, antichi e ricorrenti sono i naufragi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi, naufraghi d’una storia infranta, simboli d’un epilogo, involontarie comparse, attoniti spettatori di questa metafisica. Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo, incauti, il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili». A quelle luci il naufrago deve aggrapparsi. Anche quando, in lontananza, sembrano ignorare la sua richiesta di soccorso. Anche quando il suono ovattato di una vitalità sconosciuta tornerà a ricordargli il suo isolamento. Per non lasciare che il desiderio di evasione sprofondi insieme al relitto che lo ha condotto su quel lido d’attesa. Per credere che si possa ancora esplorare oltre il confine. Oltre l’immobilismo di un’isola deserta.
(Franco Mulas)

About Author / Joshua Nicolosi
Giornalista, laureato in Lettere all’Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale “Sicilitudine”, che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano “La Sicilia” di Catania.

