“AMOR SACRO”CRONACA DI UN ROMANZO MAI NATO

di Sergio Buonadonna
Dopo dieci anni di silenzio Vincenzo Consolo torna al romanzo. Considerato l’erede di Vittorini e Sciascia, ma dai più accostato a Gadda per la sua scrittura espressiva, il grande narratore siciliano (78 anni, più di quaranta vissuti a Milano, “il luogo dell’emigrazione come fu per Verga”) si ripropone con una metafora storico-sociale e una scrittura palinsestica (cioè scrittura su altre scritture) come nella sua famosa trilogia: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tema il Risorgimento, “Nottetempo casa per casa” (il fascismo), “Lo Spasimo di Palermo” (la contemporaneità fino alle stragi Falcone e Borsellino). Al grande ritorno sta accudendo da anni, ne è segno la fitta libreria d’epoca accumulata accanto al suo tavolo da lavoro che domina l’ampio studio carico di volumi, quadri e disegni tra cui quelli a lui carissimi di Guttuso e Pasolini. Racconta Consolo: “Il titolo di questo romanzo storico, lo dico con molto pudore, è Amor Sacro, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. Tuttavia non dico come Arbasino: sapesse signora mia la mia vita è un romanzo. I miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero”. Si parla del passato per dire del presente? “Sans doute, come dicono i francesi. Senza dubbio”. Sicché – pubblicato questo libro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – dovremmo vedere finalmente il Meridiano che raccoglierà la tua opera?“ Tutta l’opera completa, questo è l’accordo con Mondadori anche se devo chiarire che ho atteso a lungo perché il mio contratto iniziale era con Arnoldo Mondadori. Berlusconi è arrivato dopo e come si sa io non ho molto piacere di lavorare per il cavaliere. Ma rispetterò i patti. Nel Meridiano ci saranno anche i miei scritti giovanili. Giorni fa è venuto a trovarmi un professore dell’Università di Gerona, bravissimo, che sta curando tutti i miei racconti. Il primo risale al 1952”.È giusto definire un tuo libro romanzo o narrazione? Ne “Lo Spasimo di Palermo” appare infatti il tuo manifesto letterario quando avverti: ‘il romanzo è un genere scaduto, corrotto, impraticabile…’“Quando negli anni Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, ho visto cos’era accaduto nel nostro Paese soprattutto dal punto di vista linguistico, ma anche in campo letterario, politico, civile. C’era stata una forte mutazione, l’esodo dei contadini del sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé. La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata perciò il mio scrupolo è stato reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni, recuperare vocaboli immettendoli nel codice italiano. In Sicilia questi giacimenti linguistici significano greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno un dialettologo dell’Università di Catania mi chiese dove hai preso la parola “calasía” perché nei vocabolari siciliani non c’è? Gli risposi: viene dal greco kalós che vuol dire bello. Nella mia zona tra le province di Messina e Palermo, che è greco-bizantina si dice che calasía, che bellezza”. Insisto. Che cosa distingue il romanzo dalla narrazione? “È la distinzione che fa Walter Benjamin. Nella tragedia greca c’era l’anghelos, il messaggero che arrivava in scena, si rivolgeva al pubblico della cavea e narrava quello che era successo altrove in un altro momento. Oggi io dico che la cavea è vuota, non ci sono più i lettori. Quindi non sai a chi rivolgerti e perciò l’anghelos non appare in scena. Sono i lettori che scelgono l’autore”. Tu in Sicilia avevi scelto Lucio Piccolo e Sciascia. Come si collocano nella tua formazione? “Per me Piccolo e Sciascia erano due riferimenti fondamentali. Quando ho pubblicato “La ferita dell’aprile” l’ho mandato con una missiva a Leonardo Sciascia e lui mi ha risposto con una bellissima lettera invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta. È nato un rapporto di amicizia, quando ci incontravamo le nostre conversazioni sulla Sicilia erano davvero intense e avvincenti. Dall’altra parte c’era Lucio Piccolo, che era di Capo d’Orlando, stava nella villa in campagna con il fratello Casimiro, un esoterico, e la sorella Giovanna una botanica, Lucio poeta era cugino di Tomasi di Lampedusa col quale aveva un antagonismo incredibile. Quando andavo da Piccolo lui mi diceva salutami il caro Sciascia e quando andavo da Sciascia, Leonardo mi diceva salutami Piccolo. Poi ho fatto in modo di farli incontrare. Piccolo, che stava quasi sempre chiuso nella sua magione, quando arrivavano ospiti dava il meglio di sé. Era di una cultura infinita. Anni dopo Sciascia dichiarò che i due personaggi che più l’avevano colpito nella sua vita erano stati Borges e Lucio Piccolo. Poi è esploso il fenomeno del Gattopardo. In un’altra circostanza ho saputo che in un alberghetto di campagna vicino al mio paese c’era Salvatore Quasimodo con un’amica che presentava come figlia, sono andato a scovarlo e ho fatto in modo di accompagnarlo per fargli conoscere Lucio Piccolo, ma siccome questi era stato scoperto da Montale, acerrimo nemico di Quasimodo, allora il Nobel, uscendo dalla villa, mi fa: questo piccolo poeta”. Al nord stringi invece intensi rapporti con Pasolini e Calvino. Che cosa succede nella cultura italiana perché oggi sia così difficile trovare dei riferimenti che segnano veramente il tempo e la cultura? “Non voglio essere profeta di sventure ma credo che la letteratura italiana ormai sia al grado zero. Mi arrivano parecchi libri di esordienti. Leggo le prime pagine e rimango allibito dalla banalità della scrittura, delle storie, tutti che guardano il proprio ombelico, la propria infanzia, il papino, la mammina, le vicende personali, familiari, sessuali, non c’è uno sguardo nella storia nostra. La società è assente e ci si chiede ma ‘sta letteratura dov’è andata a finire? Negli anni Sessanta, dopo un’infelice esperienza alla Rai, che mi aveva cacciato perché mi ero rifiutato di mandare in onda un’autointervista su Cavour dell’allora direttore generale Italo De Feo (suocero di Emilio Fede), grazie a Calvino sono stato per più di dieci anni consulente della casa editrice Einaudi. Quando arrivavano i dattiloscritti, io dovevo essere il primo a leggerli, fare la relazione scritta e leggerla alla riunione del famoso mercoledì. Se io approvavo il libro, passava a Calvino. Quindi se lui l’approvava passava a Natalia Ginzburg per il giudizio conclusivo. Oggi basta andare alla televisione a sculettare o a fare il cantante, si scrive il romanzo e subito diventa best-seller. Questa è la letteratura italiana attuale”. La letteratura può far paura perché non è dominabile? “Senz’altro. La letteratura vera non è dominabile, se poi invece aspetti l’applauso e il successo sei dominabilissimo. Fai la volontà del padrone”. La Sicilia è sempre il cuore delle tue storie anche quando racconti il male di vivere, in certo modo l’inutilità di stare in Sicilia. “Diceva Verga che non ci si può mai allontanare dai luoghi della propria memoria. Lui l’ha fatto per parecchio tempo, i cosiddetti romanzi mondani quand’era a Milano, poi c’è stata la famosa conversione quando comincia il ciclo del verismo, ma anche Pirandello ha scritto che noi siamo i primi anni della nostra vita, cioè che quei segni sono incancellabili”. La distanza ti ha consentito una messa a fuoco migliore della realtà siciliana?“ Anche questo diceva Verga, e Capuana scriveva che la lontananza serviva a vedere più obiettivamente il luogo in cui si era nati e vissuti, il luogo della memoria”. E l’infinito presente del nostro tempo che cosa ci sta rubando? “Sia la memoria del passato che la visione di quel che può essere l’immediato futuro. Viviamo in questo infinito presente”.

La Sicilia è un’isola sequestrata

Vincenzo Consolo

«LA SICILIA è un’isola sequestrata: sotto il giogo del potere politico-mafioso che ha fatto strame del periodo eroico delle lotte contadine, dell’occupazione delle terre, dell’emigrazione e sotto quello della Regione, che tra favori, privilegi, assunzioni clientelari, stipendi d’oro, è qualcosa di vergognoso, indecente, incivile»: è rabbioso Vincenzo Consolo. I suoi 78 anni lo fanno sembrare più piccolo, stretto nelle spalle, ma forte nella voce, tra i suoi libri nello studio-rifugio di Milano, le carte con le quali sta attendendo al suo ritorno letterario atteso da dieci anni, e le incisioni e i disegni che gli sono cari: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Guttuso che illustrava la primissima edizione della sua opera più famosa, quella numerata fatta uscire da un illuminato bancarellaio siciliano emigrato anche lui, e “I due ragazzi” dedicatigli da Pasolini, compagno di idee negli anni della rivoluzione antropologica. Ma l’ira non sbolle. «Mi ha fatto sempre irritare la frase di Lampedusa: «Noi fummo leoni e gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli». Loro queste iene le conoscevano benissimo, erano i gabelloti che opprimevano i contadini, dove è nata poi la mafia e che portavano i frutti e i soldi nei loro palazzi di Palermo». Poi finalmente sorride: «Quando è uscito “L’ignoto marinaio” venne subito chiamato il Gattopardo di sinistra».

Tanto per capirsi, insomma.

Consolo, erede di Vittorini e Sciascia, non le mandaa dire. Come si sa nemmeno a Camilleri. Sferza: «Lui non si può toccare, è come Dante».

Lei è a Milano da oltre quarant’anni e c’era arrivato anche prima da studente universitario.

Da Sant’Agata di Militello con il treno del sole.

«Quand’ero studente abitavo in piazza Sant’Ambrogio nella pensione della signorina Colombo. Di fronte c’era il Centro orientamento immigrati. Vedevo arrivare i tram dalla stazione centrale che sbarcavano masse di immigrati – calabresi, siciliani – perché era finito il mondo contadino. Venivano sottoposti alle visite e smistati nei centri d’Europa. Quelli destinati in Belgio nelle miniere di carbone, li vedevo già equipaggiati con la mantellina, il casco e la lanterna. Alcuni sarebbero certamente poi morti nella tragedia di Marcinelle. Nella stessa piazza c’era la caserma della Celere, i poliziotti che andavano a reprimere gli scioperi con i manganelli.

E c’era l’Università Cattolica dove andavano a studiare i piccoli borghesi di tutta la provincia cattolica italiana, me compreso. Era la piazza dei destini incrociati».

Che ne è stato di questa sua patria immaginaria? «Si è dissolta. Perché la Milano che ho conosciuto – al contrario di Torino – era una città democratica, operaia, accogliente, non c’era razzismo, non c’erano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”. Quando è apparsa all’orizzonte la famosa Lega, scrissi un duro articolo sul Corsera: avevo vissuto l’esperienza del Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile, quindi sapevo che era una forma di regressione culturalee politica. In Sicilia si era tramutato in mafia, in Lombardia cancellavano le scritte in italiano sostituendole in dialetto, ma da Giorgio Bocca a Maria Corti mi hanno dato tutti addosso. Poi dopo hanno capito. Per me Milano era la città dov’erano stati Verga e Vittorini, il luogo in cui io pensavo di emigrare. Ma non tutto è perduto, ora con Pisapia cheè una persona perbene, le cose possono cambiare. E ho fiducia anche per Napoli». Non per la Sicilia dunque? «La Sicilia è la metafora dell’Italia. Come diceva Ignazio Buttitta “a Sicilia puoitta a banniera “».

La sua scrittura è narrazione, come avverte ne “Lo Spasimo di Palermo” il suo manifesto: «il romanzo è genere scaduto, corrotto, impraticabile…»? «Quando agli inizi dei Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, avevo già visto cos’era accaduto nel Paese soprattutto dal punto di vista linguistico. Leggevo molto,i miei viaggi eranoa Palermo da Flaccovioea Messina da D’Anna per recuperare libri che a Sant’Agata non c’erano. Sapevo cosa accadeva in campo letterario, politico, civile: la mutazione che c’era stata, l’esodo dei contadini del Sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé.

La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata e quindi il mio scrupolo scrivendo è stato quello di reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni.

Nell’Isola questi giacimenti contengono greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola “calasìa” che nei vocabolari siciliani non esiste? Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello, Calasìa significa bellezza come si dice nella mia zona che è greco-bizantina». Ed è questa la Sicilia che si porta dentro? «È la Sicilia della mia memoria con i suoi segni indelebili».

Cosa la unisce a Guttuso per il cui centenario ha scritto un breve saggio su Kalós? «Il realismo estremo, l’occhio, che era anche quello di Ignazio Buttitta, privo di qualsiasi velo di illusione, emblema di una realtà oggettiva forte come erano forti loro entrambi di Bagheria. A Bagheria ci sono le ville con le mura, i nobili dentro le ville,e quelli fuori dalla villa. Guttuso e Buttitta erano fuori dalla villa come lo è oggi Tornatore.

Dentro le ville non si è espresso niente se non i mostri, fuori la realtà di questa Sicilia fatta di eroi prigionieri come Falcone e Borsellino».

SERGIO BUONADONNA

Lampedusa

scansione0008scansione0010
Lampedusa, Lepidusa, isola pietrosa, aspra, dove, ci racconta l’Ariosto nel suo grande poema Orlando Furioso, si conclude la guerra tra cristiani e infedeli con lo scontro dei “tre contro tre”. Ma altri scontri, sappiamo, avvengono oggi in Lampedusa, di poveri migranti che li affrontano, migranti che non sono morti come migliaia d’altri, inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia. Migranti approdati fortunosamente a Lampedusa contro i quali si scontra il nostro feroce egoismo di italiani, di europei ben pasciuti, sazi. Egoismo quando non è xenofobia, razzismo. Ma siamo stati noi per primi, noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e ad approdare nel Maghreb, in Tunisia. Nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani e lì si sono impegnati, facendo i pescatori, i contadini, o gli operai nelle miniere di Sfax. La storia del mondo è storia di emigrazione da un paese all’altro, da un continente all’altro. Più di venti milioni di italiani sono emigrati  nei vari paesi del mondo negli anni passati. Ma, rimanendo nel Mediterraneo, vogliamo qui riportare quel che ha scritto Fernand Braudel in Civiltà ed imperi nel Mediterrano nell’età di Filippo II: “Su tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ ”.
Sant’Agata di Militello, 10 maggio 2011
Vincenzo Consolo

Pietha de Woogd ,traduttrice di Retablo in lingua olandese. Intervista Vincenzo Consolo Il 3 marzo 2011.

“Regioni e testimonianze d’Italia”, nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia


Pubblicato il 03 feb 2014

Il testo che segue è la trascrizione
dell’intervento registrato a Milano nel
marzo 2011, quale contributo introduttivo
alla sezione siciliana della
mostra “Regioni e testimonianze
d’Italia”, nell’ambito delle celebrazioni
del 150° anniversario dell’Unità
d’Italia, a Roma — Isola espositiva di
Castel Sant’Angelo – 31 marzo / 3 luglio
2011.
Alle Regioni era stato chiesto di
scegliere un testimonial cui affidare
la propria presentazione. La Regione
Siciliana ha proposto a Vincenzo
Consolo, che ha accettato
con la consueta disponibilità, di raccontare
la sua Sicilia.

Bibliografia Essenziale
– La ferita dell’aprile, romanzo, Milano, Mondadori, 1963; Torino, Einaudi, 1977; Mondadori 1989 (con introduzione di Gian Carlo Ferretti).
– Il sorriso dell’ignoto marinaio, romanzo, Torino, Einaudi, 1976; Milano, Mondadori, 1987 (introduzione di Cesare Segre).
– Lunaria, racconto, Torino, Einaudi, 1985; Milano, Mondadori, 1996.
– Retablo, romanzo, Palermo, Sellerio, 1987; Milano, Mondadori, 2000.
– Le pietre di Pantalica, racconti, Milano, Mondadori, 1988; 1990 (con introduzione di Gianni Turchetta).
– Catarsi, racconto, in Trittico, a cura di Antonio Di Grado e Giuseppe Lazzaro Danzuso Catania, Sanfilippo, 1989.
– Nottetempo, casa per casa, romanzo, Milano, Mondadori, 1992 Premio Strega; 199 (con introduzione di Antonio Franchini); Torino, Utet, 2006 (con prefazione di Giulio Ferroni).
– Lo spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998.
– Di qua dal faro, saggio, Milano, Mondadori, 1999.
– Il corteo di Dioniso, tre racconti, Roma, La Lepre edizioni, 2009.
– La mia isola è Las Vegas,racconti, Milano, Mondadori, 2012.

Guttuso. Pittura e letteratura (di Vincenzo Consolo)

gutnotte

Renato Guttuso, La notte di Gibellina

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, ’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta. Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione. Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato deLa zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo L’enorme realtà in “asud’europa”, Anno V, n.5, 14 febbraio 2011 – rivista del Centro Studi Pio La Torre

Pubblicato da Salvatore Lo Leggio

Trivelle e cemento, Sicilia da basso impero

TRIVELLE  E CEMENTO, SICILIA DA BASSO IMPERO

pubblicato il 3.11.2010  IL MANIFEST0

 

“E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo, ma per nascente solfo,…”

(Dante, Paradiso,VIII)

 

Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.

Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che  con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.

E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatori?

Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?

Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.

E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:

Calava a Siracusa senza luna

La notte e l’acqua plumbea

E ferma nel suo fosso appariva,

Soli andavamo dentro la rovina…

Si, dentro la rovina del cemento!

Vincenzo Consolo

2/11/2010

TRIVELLE  E CEMENTO, SICILIA DA BASSO IMPERO                                   

 

 

“E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo, ma per nascente solfo,…”

(Dante, Paradiso,VIII)

 

Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.

Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che  con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.

E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatoriu?

Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?

Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.

E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:

Calava a Siracusa senza luna

La notte e l’acqua plumbea

E ferma nel suo fosso appariva,

Soli andavamo dentro la rovina…

Si, dentro la rovina del cemento!

Vincenzo Consolo

2/11/2010

pubblicato il 3.11.2010  IL MANIFEST0

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010