Rileggere Consolo in altre lingue


Il racconto di Irene Romera Pintor, studiosa e traduttrice dello scrittore.

La sua scrittura incartata con un senso etico fortissimo, il suo personale plurilinguismo, il suo restare un meridionale al Nord, pur lavorando alla Rai di Milano per una vita intera: difficile schedare un personaggio come Vincenzo Consolo dietro un’etichetta o contenere la sua opera dietro un solo appellativo.
E poi la lingua italiana a volte non basta a spiegare la propria letteratura.
Riguardare al lavoro dell’intellettuale siciliano dietro la diversa prospettiva delle sue opere nelle traduzioni, cinque anni dopo la sua scomparsa, è il senso del seminario “Rileggere Consolo in altre lingue” che si svolgerà questa mattina alle 12, presso Palazzo Codacci Pisanelli (Aula3). A parlarne sarà Irene Romera Pintor docente di filologia italiana presso l’Università spagnola di Valencia, studiosa (tra le altre cose) dell’opera di Vincenzo Consolo, del quale ha curato e tradotto “Lunaria” (2003) e “Filosofiana” (2008 e 2011). Premiata per il primo lavoro con il premio per la Traduzione di Opere Letterarie e Scientifiche del Ministero degli Affari esteri italiano, Irene Romera Pintor ha organizzato sullo scrittore italiano anche vari convegni di studio in Spagna, curandone i relativi atti.
“Rileggere Consolo in altre lingue” è il nuovo appuntamento di cicli di seminari “Con testo a fronte. Poeti e testi a confronto”, a cura del Centro di ricerca Pens (acronimo di Poesia Contemporanea e Nuove Scritture) recentemente nato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento e coordinato dal professor Antonio Lucio  Giannone, docente di Letteratura contemporanea dell’Università del Salento.
Irene Romera Pintor vaglierà, spiegherà e dimostrerà il valore di quest’opera poliedrica della letteratura italiana vista da un altro paese del contesto europeo, modulando quindi con un’altra lingua le operazioni linguistiche di Consolo, le sue caratteristiche e le sue scelte stilistiche in una più ampia visione artistica culturale.
Consolo è stato di recente anche inserito, con la sua opera omnia, nella collezione dei “Meridiani” di Mondadori. In quella occasione si è tenuta un’altra giornata di studi a Lecce, sempre organizzata dall’Università del Salento, sullo scrittore di Sant’Agata di Militello, acuto saggista e giornalista, per i rapporti che ebbe con il Salento e con l’università in relazione alla pubblicazione di due suoi volumi con l’editore pugliese Manni.  Si trattava di “Oratorio” del 2003 e di “La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo” del 2007 che vennero presentati in Puglia in entrambi i casi da Giannone  insieme a Consolo. Dedicare questo seminario nel calendario del Centro di ricerca Pens a Consolo, al di là dell’indubbio valore del personaggio, è anche una scelta nata dall’interno di un rapporto di particolare stima e di relazioni elettive che non si sono mai spezzate (in particolare con Giannone, che organizza anche questo evento con Pens).
Da “Di qua del faro” a “La ferita dell’aprile”, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, “Retablo”, “Le pietre di Pantalica”, “L’olivo e l’olivastro”, “Lo spasimo di Palermo” e a tanti altri lavori, merita riletture questo scrittore dalle ampie vedute, fortemente impegnato e attento alle tematiche di una certa letteratura meridionale, ad un sentire che profuma di vento di mare e di salsedine, alle passioni di terre tumultuose e violate dalla dimenticanza e dalle ingiustizie, con la loro storia irrisolta.
Consolo, classe 1933, vincitore del concorso alla Rai nel ’68, giornalista per L’Ora dal ’64, consulente editoriale di Einaudi con Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Premio Strega nel ’92 con “Nottetempo casa pere casa”, ha vissuto a Milano fino alla sua morte, nel gennaio del 2012. Ma pur avendo lavorato e abitato al Nord per la maggior parte della sua esistenza, restò un siciliano verace e si dedicò alla sua terra, anche come giornalista. Fu un autore proteso alla conservazione della memoria storica. Raggiunse la grande notorietà nel 1976 con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, considerato presto il suo capolavoro, una sua rivisitazione del romanzo storico sui moti rivoluzionari in Sicilia nel 1860.

di Claudia Presicce
(articolo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia – 16 marzo 2017)

Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello: vicinanze e lontananze di due scrittori del secondo Novecento

Giuliana Adamo

L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67

The Italianist (2012)

Filosofiana ( relato de Las piedras de Pantalica ) Vincenzo Consolo

FILOSOFIANA (relato de Las piedras de Pantálica) VINCENZO CONSOLO 2ª edición, revisada y ampliada Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor Este libro ha sido editado con la ayuda financiera de la Fundación Caja Murcia, gracias a la gestión cultural del Director de la Sucursal de Caja Murcia de Puerto Lumbreras (años 2009 y 2010). Colaboran asimismo en la presente edición el Instituto Italiano de Cultura de Barcelona y el Centro Giacomo Leopardi de Valencia De la presente edición, introducción, traducción y notas: © Irene Romera Pintor. Todos los derechos reservados. © Vincenzo Consolo. Todos los derechos reservados. En las contraportadas: © de la fotografía de Vincenzo Consolo: Jordi Pla. © de la fotografía de Irene Romera Pintor: Juan Carlos Comas. Queda rigurosamente prohibida, sin la autorización escrita de los titulares del copyright, bajo las sanciones establecidas por la ley, la reproducción total o parcial de esta obra por cualquier método o procedimiento, comprendidos la reprografía y el tratamiento informático. Fundación Updea Publicaciones Barceló 1º, 28004 Madrid www.updea.org Segunda edición, 2011 Depósito legal: M-40467-2011 ISBN: 978-84-615-4082-2 Impreso en España A Vincenzo Consolo, por sus 75 años, en el vigésimo aniversario de las Piedras de Pantálica. (1ª edición 2008) A la ciudad de Lorca, tierra de mi padre, como homenaje a su gente y a su habla. (2ª edición 2011) ÍNDICE Pág Prólogo a la segunda edición ………………………………………………………………….. 9 INTRODUCCIÓN I. Estudio de “Filosofiana” ……………………………………………………………………… 13 I. a.Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” ……………………………… 13 I. b.Los retos de la traducción de “Filosofiana” …………………………………… 19 II. Los regionalismos y su correspondencia ……………………………………………… 23 III. Referencias de citas bibliográficas ……………………………………………………… 27 IV. Recensiones sobre Le pietre di Pantalica …………………………………………….. 31 FILOSOFIANA I. Nota al Texto …………………………………………………………………………………….. 36 II. Nota a la Traducción …………………………………………………………………………. 37 III. “Filosofiana” ……………………………………………………………………………………. 39 IV. Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto …………… 64 APARATO BIBLIOGRÁFICO I. Obra de Vincenzo Consolo ………………………………………………………………… 93 II. Traducciones de la obra de Vincenzo Consolo …………………………………….. 97 III. Premios y Reconocimiento a la obra de Vincenzo Consolo …………………. 103 IV. Trabajos de investigación …………………………………………………………………. 105 V. Encuentros monográficos sobre Vincenzo Consolo ………………………………. 117 VI. Estudios críticos ………………………………………………………………………………. 125 ÍNDICE DE NOMBRES …………………………………………………………………….. 133 9 PRÓLOGO A LA SEGUNDA EDICIÓN Para esta segunda edición de “Filosofiana” no sólo se ha llevado a cabo una labor de revisión y ampliación de la primera, sino que se ha modificado el planteamiento mismo de la propia traducción, con lo que tanto el texto de la traducción, como consiguientemente el glosario de términos y regionalismos que aparecen en la misma, han sufrido una reforma sustancial. En lo referente al glosario de regionalismos y de otros matices relevantes de la traducción, dado que el número de entradas se ha visto incrementado considerablemente en relación con la primera edición, he preferido ofrecerlo por orden alfabético en esta segunda edición con objeto de facilitar y simplificar su manejo. Con ello también se evita la incómoda presencia de asteriscos, que en la primera edición destacaban –dentro del corpus de la traducción– cada uno de los términos comentados, con lo que no sólo se rompía la fluidez de la lectura, sino que también la hacían más dificultosa. Del mismo modo, el aparato bibliográfico ha sufrido una profunda transformación. Para esta segunda edición mi propósito ha sido ofrecer una relación bibliográfica lo más nutrida y completa posible. En este contexto, no puedo dejar de agradecer efusivamente a Cesare Segre la atenta lectura crítica –en Valencia– que otorgó a la primera edición (abril 2008) y el tiempo que me ha dedicado para la elaboración de la presente edición en octubre de 2008 y febrero de 2011, en Milán. He tenido muy presentes sus observaciones tanto en materia bibliográfica como en cuestiones lingüísticas. Por último agradezco muy sinceramente a Vincenzo y Caterina Consolo que me abrieron las puertas de su casa y de su archivo. Le estoy particularmente agradecida a Caterina Consolo por mi estancia en octubre de 2008 y por las sesiones de trabajo en septiembre, octubre y noviembre de 2010, así como febrero y junio de 2011. La consulta con el autor ha sido imprescindible para perfilar matices traductológicos y para elaborar el “Aparato Bibliográfico”. Valencia, septiembre de 2011. INTRODUCCIÓN 13 I. ESTUDIO DE “FILOSOFIANA” I. a. Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” “Filosofiana” es el séptimo de los quince relatos que componen el libro Le pietre di Pantalica (Las piedras de Pantálica), publicado en 1988. Consolo no era ya ciertamente un desconocido en los ambientes literarios italianos y europeos. El éxito de Il sorriso dell’ignoto marinaio, traducido inmediatamente a los principales idiomas, seguido unos años más tarde por Lunaria, en 1985, y por Retablo, en 1987, había creado un público expectante de lectores ávidos de saborear de nuevo una lengua de belleza, de recrearse con las resonancias, a la vez antiquísimas y nuevas, que despertaba en ellos el lenguaje consoliano, de recuperar una historia que creían sepultada y tomar conciencia de la necesidad de reaccionar contra el embrutecimiento material y moral que el mundo actual traía consigo, esa “distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini” (Le pietre…, p. 166). No quedarían defraudados. Una vez más, Consolo vuelve a reavivar lo que Segre llamó acertadamente “su nostalgia del teatro”. Esta profunda sensibilidad de dramaturgo se manifiesta en su libro Le pietre di Pantalica al ofrecer de un lado la escenografía, de otro los personajes y por último la acción. Así, delimita cuidadosamente los contenidos de esta obra estructurándolos en tres grandes apartados intitulados: teatro, personas, acontecimientos. La primera parte (teatro) consta de siete relatos que presentan otros tantos escenarios de 14 los alrededores de Pantálica, antiquísima necrópolis desde los tiempos prehistóricos, situada en el corazón de la Magna Grecia. La naturaleza en este caso brinda al autor una escenografía de singular belleza en su austera grandiosidad. El séptimo y último relato de esta primera parte es precisamente “Filosofiana”. Nada es casual en Consolo. Tampoco el hecho de que esta pequeña joya de concisión cumpla a la perfección la regla de las tres unidades del teatro clásico: se desarrolla en un espacio de 24 horas, desde el alba de un día al alba del día siguiente, en un mismo lugar, los altos de Filosofiana, y con una misma acción, la búsqueda inicial de un tesoro, material para Vito Parlagreco y glorioso para don Gregorio Nànfara, acción única hasta el final del relato en que los dos protagonistas se quedan frente a frente sin haber conseguido el uno el oro, el otro la fama. Y en esa región de Filosofiana, o Sofiana, como se la conoce popularmente en Sicilia, surcada por cerros, montañas, valles y villas, cuyos nombres griegos dulces de repetir se convierten en versos1 , es donde Consolo va a situar a sus dos protagonistas. Pero también aquí, como en dos de sus obras anteriores, Il sorriso dell’ignoto marinaio y Retablo, estructura la coherencia interna de su libro por medio de una tupida red de ecos y reencuentros. Y es que Consolo mantiene a lo largo de su trayectoria literaria un personalísimo y constante sentido de la construcción narrativa. Procede por fragmentos, mezclando vivencias históricas y personales con personajes ficticios y documentos auténticos en sus obras. Así, cada una de ellas configura realmente las páginas de un único libro, recorrido por vibraciones y resonancias que se corresponden entre sí para gozo y disfrute de los iniciados, esos felici pochi que –al igual que los happy few de Stendhal– Consolo quiere como lectores. 1 Refundición de los versos de Salvatore Quasimodo, citados en Le pietre…, p. 123: “… Il cui nome greco / è un verso a ridirlo, dolce”. 15 Con una técnica narrativa casi de cámara cinematográfica2 Consolo presenta un largo primer plano de un hombre solitario, un campesino, con su mula y sus avíos de trabajo, que llega desde el valle al altiplano de Sofiana. Se desconoce todavía su nombre; sólo la voz en off del narrador omnisciente descubre los sueños de este labrador: uno cumplido, el haber logrado un retal de tierra aún lleno de piedras; el otro aún por cumplir, el sueño –que le hace reír de placer– de crear una casa suya llena de belleza, copia en pequeño de la mansión y de los jardines del rico terrateniente para el que había trabajado. Es de señalar la delicadeza de sentimientos de este labriego aún sin nombre. No es un sentimiento de envidia el que lo embarga, sino de admiración por la belleza. Sólo cuando el personaje se dispone a descansar, después de haber trabajado y rastrillado en su árido terreno, se descubre su nombre: Vito Parlagreco. Es entonces cuando el lector reencuentra a un viejo conocido. Vito ya había aparecido en el relato inmediatamente anterior a “Filosofiana”, “Ratumemi”, en el mismo libro Le pietre di Pantalica. Este relato se encuentra dividido en dos partes, separadas por la inclusión de documentos auténticos sobre los latifundios y hábitos de contratación de braceros. En “Ratumemi” Consolo había presentado con pequeñas pinceladas algunos rasgos del carácter de Parlagreco. Por tanto, al descubrir el nombre del labriego, bien entrada la lectura de “Filosofiana”, el lector sabe ya que este labrador es extremadamente delgado y que su aspecto famélico esconde una voracidad poco común. También sabe de la finura espiritual que subyace bajo su aspecto rudo. No es casual, en este sentido, su nombre y apellido, cargados intencionadamente de simbolismo. Vito era el nombre que elegían los primeros cristianos para expresar su esperanza en la vida eterna, al tiempo que Parlagreco 2 En 1992 Pasquale Scimeca llevó a la gran pantalla “Filosofiana” en su película Un sogno perso, film que se articula en torno a tres relatos, siendo el primero éste de Consolo. 16 atestigua la huella de la lengua hablada por sus antepasados, el griego. La cámara de Consolo se acerca enfocando de cerca y pone en primer plano a Vito almorzando. Influido por el silencio impresionante y su cansancio físico, Parlagreco va desgranando su hastío y desconcierto ante el misterio de la existencia humana. Sin embargo, Vito, haciendo honor a su nombre y alimentado desde niño por relatos de hallazgos fabulosos, abriga en su corazón un sueño de vida mejor: encontrar un tesoro de doblones de oro con el que su “vida de pesambres y de miedo” se torne en una de alegría y de sosiego. Y lo encuentra, o cree haberlo encontrado, al descubrir una antiquísima tumba llena de vasijas. En su ingenuidad, está convencido de que sólo necesita de una fórmula mágica para que su hallazgo se convierta en oro. Aquí entra en juego el segundo protagonista, que –éste sí– resulta desconocido para el lector: don Gregorio Nànfara. Su nombre y apellido también han sido cuidadosamente seleccionados por Consolo. Gregorio en griego significa el que está en vela, preparado para cualquier acción, al tiempo que Nànfara es un nombre siciliano que alude a una voz de timbre nasal. Consolo presenta aquí con gruesos trazos un arquetipo del típico charlatán, que se podía encontrar en cualquier pueblo hasta mediados del siglo pasado. En realidad un pobre hombre, aunque simpático, que sobrevive gracias a toda clase de expedientes, explotando la credulidad e ignorancia de las gentes del campo. A pesar de su pobreza y desaliño, es sin embargo respetado y admirado por la sencilla gente del pueblo debido a su supuesto conocimiento del griego y del latín, al prestigio de haber estudiado en la ciudad en un seminario y sobre todo a su ciencia esotérica, casi mágica, como demuestra su capacidad de detectar corrientes subterráneas en un país en donde el agua es un bien escaso. A él acude Vito Parlagreco para que emplee sus conocimientos en materializar el tesoro que prometía aquella tumba. El pícaro Don Gregorio, a cambio, consigue que el labriego le pague por adelantado mil liras por sus servicios. 17 Pero Consolo tiene reservada una última sorpresa. En paralelo al desconcierto que experimenta don Gregorio ante la tumba descubierta, aquí también el drama se torna farsa, burla escatológica. Esta burla cruel, a la que Vito Parlagreco y Gregorio Nànfara son sometidos, quiere ser metáfora –según me confirmó el autor– de la que sufrieron los campesinos sicilianos después de que el partido Blocco del Popolo, tras obtener la victoria en 1946, les hubiese asegurado el reparto de tierras. Tuvieron que presionar para ocuparlas hasta que finalmente, en 1950-1, les repartieron las peores (“questa terra ch’era ’na ciaramitàra, una distesa rossigna in groppa all’altopiano di cocci e di frantumi, pance culi manici di scifi, lemmi, di bombole e di giare”). Estos hechos se relatan en “Ratumemi”. De igual modo, en el relato de “Filosofiana”, Don Gregorio Nànfara fracasa en su encargo de materializar el oro a partir de los restos encontrados en la tumba y se las agencia para encontrar una justificación que lo exime de toda responsabilidad culpabilizando a Vito, que se había encontrado con un misterioso cabrero poco antes de descubrir la tumba. Parlagreco, abrumado por el sentimiento de culpa al no haber reconocido al duende tutelar guardián del tesoro en aquel pastor mudo que le regalara una liebre muerta, se traga junto con el vino el ojo de cristal que don Gregorio había dejado en un vaso. Nànfara lo va a retener en su casa, purgándolo con sal inglesa, hasta que el desgraciado lo restituya. Consolo trenza todo el relato de “Filosofiana” con dos hilos conductores: su ironía de raíz ática y su inmensa ternura. Ternura hacia el pobre Vito Parlagreco, ingenuo y bondadoso, y ternura también hacia el trafulla de don Gregorio, granuja de medio pelo, que acaba creyéndose sus propias argucias. Uno y otro son perdedores. Nànfara, por quedar desposeído de su ilusión de haber encontrado la auténtica tumba de Esquilo, descubrimiento con el que esperaba haber alcanzado la gloria. Y Parlagreco, por ser despojado de mil liras y “secuestrado” hasta que restituya el ojo de cristal de don Gregorio. 18 Así termina, con una carcajada, un relato envuelto en meditaciones poéticas y ensoñaciones de tiempos remotos, en donde no falta un toque de realismo mágico, que se materializa en la figura del cabrero. En el nombre de este muchacho –Tanatu– resuena la voz griega de “thanatos”3 (muerte), esa muerte que planea tan a menudo en los relatos de Consolo acompañando los sueños, la vida. Lo mismo que Segre habla de la “nostalgia del teatro” de Consolo, se podría hablar no ya de su nostalgia, sino de su vivencia de la vida como sueño, muerte y representación, tan anclada en su personalidad por la impronta, quizá inconsciente, del Barroco español en Sicilia4 . Aquel cabrero misterioso que aparece de improviso y desaparece tan veloz como inesperadamente, al igual que la muerte, ¿será en verdad un pastor de carne y hueso o el genio todopoderoso del cual dependía que el fango de las vasijas se convirtiese en oro? Y aquella voz surgida del fondo de las entrañas de la tierra, declamando un verso de Esquilo, ¿sería la de don Gregorio o la del propio poeta griego, que pedía ser 3 Como observó agudamente el profesor Fausto Díaz Padilla [cf. «“Filosofiana” o Cuando las piedras hablan», en La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), ed. de I. Romera Pintor, Valencia, 2008, pp. 39-53 (véase en concreto la p. 40)], en el eco del diminutivo del nombre Gaetano, “Tanatu” –nombre del pastor–, resuena la palabra griega Thanatos que significa “muerte”, que es la sombra que planea en los altos de Filosofiana en este relato. Posteriormente, consultándolo con el propio autor, Consolo me confirmó que, en efecto, ésta había sido su idea para aureolar a este personaje del cabrero, algo misterioso, de un halo telúrico y arcano. 4 Cf. el prefacio a mi traducción de Lunaria, en la edición de 2003 (Madrid, Centro de Lingüística Aplicada Atenea) y Romera Pintor, I.: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, en La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006, pp. 161-176. Cf. asimismo Gianni Turchetta, introducción a Le pietre di Pantalica, “Oscar” Mondadori, Milán, 1990, pp. V-XIII. 19 honrado como hombre y no como dios? La respuesta queda abierta a cada lector. Pero lo que no deja lugar a dudas es la voz de Consolo que se hace paso a través de la de Parlagreco, una voz llena de belleza, que proclama los misterios arcanos y telúricos de una vieja tierra cargada de historia y, por ende, de memoria, para impregnar seres y paisajes de ese halo inconfundible, crisol de las civilizaciones que configuraron el Mare Nostrum y esencia de la esencia de Europa, que es la sicilianidad. I. b. Los retos de la traducción de “Filosofiana” Hasta la fecha sólo existen dos traducciones de Le pietre di Pantalica, obra de Vincenzo Consolo en la que se ubica el relato “Filosofiana”: en 1990 Maurice Darmon la tradujo al francés y en 1996 Anita Pichler lo hizo al alemán. Mi edición de “Filosofiana” de 2008 es, por consiguiente, la primera que ofrece la traducción del relato al español. Este hecho, con ser un privilegio, no deja de conllevar una enorme responsabilidad, tal y como se verá a continuación. A la hora de traducir “Filosofiana” he procurado respetar hasta el extremo la estructura lingüística, sintáctica y estilística del original. Conviene tener en cuenta que el uso del asíndeton, de la anáfora, de la yuxtaposición y de tantos otros recursos que recorren el texto de principio a fin tienen un alto valor estilístico y literario, y confieren al relato un sello de identidad propio del lenguaje de Vincenzo Consolo, que se caracteriza precisamente por su riqueza lingüística, por sus juegos de sonoridades y cadencias, por su léxico… por su belleza, en definitiva. Ha sido éste un tema que he consultado con el propio autor. La importancia de rendir en la traducción este sello de identidad consoliano me ha empujado a tratar el texto con el mayor respeto. No es fortuito el hecho de que, por ejemplo, haya conservado meticulosamente la misma puntuación. Ni son tampoco 20 fortuitas las construcciones sintácticas de la traducción, en las que he tratado de reproducir el mismo orden que en italiano. No cabe duda de que una traducción más libre y menos respetuosa con la lengua de origen habría optado en no pocas ocasiones por soluciones más asépticas y estandarizadas. Siguiendo en esta misma línea, y siempre con la idea de rendir la textura del original, he preferido siempre el vocablo más próximo por su sonoridad al del texto italiano, dentro del abanico de posibilidades que ofrecen las equivalencias al español. Este hecho responde una vez más a una voluntad consciente en el acto de traducir y no a una mera coincidencia lingüística. Así por ejemplo, no es fortuito el hecho de que haya optado por “candela” en lugar de “vela”, por “can” en lugar de “perro” o por “botijo” en vez de “cántaros” para traducir bombole. En definitiva, he elegido las voces más similares fonéticamente a las elegidas por Consolo, conservando las prioridades del regionalismo, así como el valor literario y culto de las mismas, pero privilegiando siempre la oralidad del discurso. No en vano la oralidad es un punto esencial en la escritura consoliana –quizá por aquella “nostalgia del teatro” a la que aludía Segre– y por consiguiente lo es también en su traducción. En definitiva, mi intención al traducir “Filosofiana” ha sido la de reproducir en la medida de lo posible el estilo, la sonoridad y la cadencia, así como las mismas construcciones lingüísticas y sintácticas del relato. Ahora bien, la decisión sin duda más arriesgada en mi trayectoria como traductora ha sido la de hacer corresponder los regionalismos sicilianos con los murcianos. La idea surgió al constatar las similitudes existentes entre las variantes lingüísticas de uno y otro. Este hecho no sorprende si se tiene en cuenta la proximidad geográfica del Levante español e Italia. La palabra que me llamó la atención en primer lugar –por su correspondencia casi exacta con su equivalente murciano– fue la de calipso, forma siciliana para “eucalipto”. La estructura del 21 término “eucalipto” se ha modificado en siciliano por medio de una metábole con aféresis, alteración que se recoge en el habla murciana casi literalmente (“calistro”). Todavía más significativo es el uso de algunos términos que desgraciadamente han caído en desuso tanto en España como en Italia, como “lampo” y “lastra”, pero que se siguen manteniendo vivos en los ambientes rurales de Sicilia y Murcia. Pero aún observé otras similitudes lingüísticas: el mismo rasgo que privilegia en ambas regiones el uso del pretérito simple sobre el compuesto, hecho que también se justifica por la proximidad geográfica del Levante español y Sicilia, así como por la identidad de sus raíces etimológicas, principalmente latinas con influencias árabes y también aragonesas en ambos casos. Sólo daré un ejemplo de la gratificante similitud e idéntica procedencia etimológica entre dos voces: “gebbia” y “aljibe”, que proceden del árabe clásico “gˇibb” y que comparten el mismo valor semántico. Estas equivalencias tan similares y llamativas me llevaron a estudiar la posibilidad de aplicar en todo el texto una correspondencia entre los regionalismos sicilianos y los murcianos. Aunque no fue la única razón porque, además de estas analogías lingüísticas, la narración transcurre en una región (Filosofiana) que me recordaba mucho a una tierra particularmente entrañable y querida para mí, la de Lorca, concretamente el “roalico” de Puerto Lumbreras, cuna de mi familia paterna, donde paso desde niña todos mis veranos y donde por consiguiente puedo vivir “in situ” sus gentes, sus sueños y empaparme de “viva voce” de su habla. Efectivamente, estas dos regiones, la siciliana y la murciana, se asemejan singularmente no sólo en su fisionomía física –altos planos que rodean pequeños valles– sino también en su historia. Ambas comparten civilizaciones sepultadas (fenicios, cartagineses, romanos, árabes…) y esconden en sus entrañas tumbas legendarias de personajes emblemáticos: la de Esquilo en Gela, la de los Escipiones en el Cabezo de la Jara. Ambas también mantuvieron vivas hasta mediados del siglo pasado la tradición de los “trovos”. 22 Fue así cómo finalmente –y tras una gratificante labor de investigación lingüística– me decidí a llevar a cabo la traducción de “Filosofiana” haciendo uso de los regionalismos murcianos. Con todo, en esta segunda edición he hecho un uso extensivo del habla murciana, aplicándola a todo el relato, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto original. Este nuevo planteamiento está más en consonancia con el espíritu y la dinámica global de la narración, así como con el ambiente rural que se describe y con el habla de los personajes. De este modo la presente edición recupera toda la plasticidad lingüística de las variantes regionales de esa lengua que en palabras de Vicente Medina “gana en dulzura y belleza conservando su tierno y delicado sabor local”, en estos momentos de depauperación cultural y lingüística donde los medios de comunicación están imponiendo una lengua estándar desprovista de color y sabor. Convenía, por tanto, recuperar estas voces ya olvidadas (“tanimientras”, “terretremo”, “escullir”, “lampo”, “lastra”, “pesambre”, etc.), imitando en eso a los franceses en la iniciativa seguida con entusiasmo por el gran público y lanzada por Bernard Pivot: “Sauvons un mot chaque jour”. En definitiva, a través del habla murciana, la presente traducción ofrece al lector español las mismas valencias cargadas de sorpresa y el mismo redescubrimiento de su propio idioma que Consolo brinda a su lector italiano. 23 II. LOS REGIONALISMOS Y SU CORRESPONDENCIA Conviene aclarar desde un principio que no existe una lengua murciana como tal. Existe desde luego una variedad de habla murciana o regionalismo murciano que se caracteriza precisamente por mantener rasgos morfo-sintácticos, fonéticos y léxicos del español antiguo, es decir del castellano, así como de otras lenguas con las que entraron en contacto, como el árabe (durante la dominación musulmana tras desmembrarse el reino visigodo), el aragonés (con la llegada de los religiosos aragoneses que predicaron en Murcia tras la Reconquista) y el catalán (la repoblación cristiana en Murcia era en su mayoría catalana). Pero la lengua de Murcia es hoy –y ha sido siempre– el español. En este sentido, resulta altamente significativo el hecho de que un buen número de vocablos que se recogen en los diccionarios de regionalismos murcianos o de hablas murcianas sean palabras españolas que con el tiempo han caído en desuso en casi toda España, pero que –muchas veces alteradas y modificadas– se conservan en Murcia, principalmente en las zonas rurales, así como en buena parte del Levante. Con ello ya queda señalado uno de los rasgos que mejor caracterizan este regionalismo: el de su conservadurismo lingüístico, su arcaísmo léxico, su sabor añejo. Es éste un rasgo que comparte el habla murciana con la siciliana y una de las razones que imprimen al texto de Consolo ese regusto de tiempos pretéritos evocado por el propio léxico, tan rico y sugerente, amalgama de voces actuales y vigentes, y a la vez de resonancias arcaicas, remotas, misteriosas. 24 Con todo, existe un gran número de alteraciones, principalmente fonéticas y morfológicas, propias del habla murciana. Lo que sin duda caracteriza la pronunciación de este regionalismo es la supresión de la “s” final (que viene a pronunciarse como una especie de “h” aspirada) y a menudo también de la “r” en final de palabra. En este contexto, conviene señalar que no he reflejado en la transcripción5 la aspiración de la “s” ni la pérdida de la “r” final con objeto de no perturbar la comprensión del relato, ya que una supresión gráfica sistemática de estas consonantes habría podido resultar desconcertante y provocar ambigüedades que pondrían en peligro la comprensión del texto. Sin embargo, no cabe duda de que ésta es la seña de identidad fonética del habla murciana. En cambio, sí que he reflejado en la traducción la supresión de la “d” intervocálica, tan extendida y tan típica del hablar murciano (“sío” por “sido”, “callaíco” por “calladico”, “comprendío” por “comprendido”, “parao” por “parado”, “múo” por “mudo”, etc.). También transcribo elisiones, como la de la “e” en la preposición “en” seguida de artículo (“n’el” por “en el”), la de “o” en “como”, o la de la “e” en la conjunción “que” y en la preposición “de” (“com’uno d’esos” por “como uno de esos”, “qu’era” por “que era”, etc.). Además de los vocablos que se consideran propiamente regionalismos, la inmensa mayoría del léxico que conforma el habla murciana está constituida por modificaciones o deformaciones de palabras vigentes en todo el territorio nacional. Son muchos los casos de aféresis, en que se suprime alguna letra o prefijo al inicio de la palabra («’tate» en lugar de “estate”), o bien aún en medio o al final de la palabra 5 Salvo en contadas ocasiones, como en «po’» y como en el poemilla, donde he suprimido gráficamente la “s” de “asponticos” y del verbo “es” para mejor transcribir el acento rural de la letrilla: (…) N’er Lanniri siet’aspontico’ / Sabucina e’ jarta d’oro (…). Por las mismas razones, sólo he transcrito la desaparición de la “r” final en contadas ocasiones, como “señó” por “señor”. 25 (“anque” por “aunque”, “custión” por “cuestión”, “señó” en lugar de “señor”). Son frecuentes asimismo la metátesis –en la que se altera el orden de los fonemas (“pedricar” por “predicar”, “naide” por “nadie”)– y otros metaplasmos en los que se alteran fonemas (“umbligo” por “ombligo”, “liopardos” por “leopardos”, “cimiterio” por “cementerio”, “nusotros” por “nosotros”, “semos” por “somos”, “dicir” por “decir, “mesmo” por “mismo”, ”uíste” por “oíste”), o en los que se contraen palabras (“ande” en lugar de “a dónde”). También son habituales las apócopes, que en ocasiones van acompañadas de mutaciones vocálicas («po’» en lugar de “pues”, «pa’» en lugar de “para”, «ca’» por “cada”, «to’» por “todo”, “quié” por “quiere”, “casá” por “casada”, “tiés” por “tienes”), así como todo tipo de añadidos fonéticos: prótesis al inicio de la palabra (“ajuntar”, “abajar”, “asentarse”), epéntesis en el interior (“muncho” por “mucho”, “lenjos” por “lejos”) y paragoges al final de la misma (“asín” por “así”, “sín” por “sí”). Muy típicos del habla murciana son igualmente dos sufijos que provienen del aragonés, “ico” (“puentecico”) y “uco” (“Vituco”), así como el sufijo “ujo-a” (“cosujas”). Finalmente, es muy frecuente también la mutación de la “l” por la “r” en los artículos seguidos de consonante (“er día” por “el día”, “ar cielo” por “al cielo”) y en no pocas palabras (“farta” por “falta”, “argo” por “algo”, “vorver” por “volver”, “curpa” por culpa”, etc.). Similares mutaciones se encuentran en el regionalismo siciliano: sufijo “uzzo” (“Vituzzo”), alteraciones de fonemas y letras (“cimiterio” en lugar de “cimitero”, “liopardo” en lugar de “leopardo”), contracciones y metaplasmos por supresión de fonemas (“vossi” en lugar de “vossignorìa”, «’gnorsì» en lugar de “signorsì”, “sto” en lugar de “questo”), etc. Por todo ello, el resultado de este uso del habla murciana en la traducción permite de un lado reflejar la compleja variedad lingüística del texto original y de otro enriquecer la versión española del relato a través de una variedad de matices, si no idénticos, cuando menos similares a los que el autor ha querido infundir a su obra. 27 III. REFERENCIAS DE CITAS BIBLIOGRÁFICAS 1. Diccionarios de regionalismos: Grosschmid, Pablo y Echegoyen, Christinna (1998): Diccionario de regionalismos, Barcelona, Editorial Juventud. Mortillaro, Vincenzo (1876): Nuovo Dizionario siciliano-italiano, Palermo [rist. anast. Palermo 1871, Vittorietti]. García Soriano, Justo (1980): Vocabulario del dialecto murciano, Murcia [facsímil de la 1ª edición de 1932]. Gómez Ortin, Francisco (1991): Vocabulario del Noroeste murciano, Murcia, Editora Regional. Ruiz Marín, Diego (2007): Vocabulario de las hablas murcianas. El español hablado de Murcia, Murcia, DM librero-editor. Vocabolario siciliano, vol. I (A-E) a cargo de G. Piccitto, CataniaPalermo 1977; vol. II (F-M) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1985; vol. III (N-Q), a cargo de Giovanni Tropea, Catania-Palermo 1990; vol. IV (R-Sgu-) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1997; vol V (Si-Z) a cargo de S. C. Trovato, Catania-Palermo 2002, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani. 28 2. Diccionarios de consulta general: Barcia, Roque (1881-83): Primer diccionario general etimológico de la lengua española, Establecimiento tipográfico de Álvarez hermanos, Madrid. Battaglia, Salvatore, Grande Dizionario della lengua italiana, Turín, UTET, 1961 y ss. Corominas, Joan y Pascual, José Antonio, Diccionario crítico etimológico castellano e hispánico, Madrid, Gredos, 1980 y ss. DRAE = Diccionario de la Real Academia Española de la Lengua, 22ª edición (2001). De Mauro, Tullio (2005): Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia. Lo Zingarelli (2002): Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli. MM = Moliner, María (2007): Diccionario del uso del español, Gredos. Sabatini-Coletti (2003): Il Sabatini-Coletti. Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli-Larousse. 3. Bibliografía general: Alvino, Gualberto (1998): Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino. Introduzione di Rosalba Galvagno. Fondazione Antonio Pizzuto, Quaderni pizzutiani, Palermo. 29 García de Diego, Vicente (1964): Etimologías españolas, Aguilar. Ibarra Lario, Antonia (1996): Materiales para el conocimiento del habla de Lorca y su comarca, Universidad de Murcia, Murcia. Muñoz Garrigós, José (2008): Las hablas murcianas. Trabajos de dialectología. Edit.um, Murcia. Pitré, Giuseppe (2000): Grammatica siciliana. “Biblioteca delle tradizioni popolari”, Brancato Editore. Steiger, Arnold (1932): Contribución a la fonética del hispano árabe y de los arabismos en el ibero-románico y el siciliano, Madrid. 31 IV. RECENSIONES SOBRE LE PIETRE DI PANTALICA AÑO 1988 • Vico Faggi, “Dalla Sicilia con rimpianto”, Il Secolo XIX, 11-10-1988. • Sebastiano Addamo, “L’eterno ritorno di Consolo”, La Sicilia, 13-10-1988. • Francesco Mannoni, “Una Sicilia contadina magica e struggente”, Libertà, 15-10-1988. • Oreste Del Buono, “Sicilia con furore”, Panorama, 16-10-1988, pp. 134-7. • Guido Gerosa, “In magiche pietre scavate il paese dei sogni e della memoria di poeta”, Il Giorno, 16-10-1988. • Raffaeli Crovi, “Echi di Verga e Vittorini nella Sicilia necropoli di Consolo”, Italia oggi, 17-10-1988. • Giuseppe Amoroso, “La memoria che vagabonda dalla nobiltà alla barbarie”, La Gazzetta del Sud, 18-10-1988. • Renato Minore, “Care memorie”, Il Messaggero, 22-10-1988. • Giovanni Giudici, “Pietre di nostalgia”, L’Unità, 26-10-1988. • Maurizio Cucchi, “Consolo racconta una Sicilia ferita a morte”, La Stampa, 29-10-1988. • Natale Tedesco, “Viaggio tra felicità e orrore”, L’Ora, 29-10-1988. • Giovanni Giudici, “Consolazione in Sicilia”, L’Espresso, 30-10-1988. • Silvia Sereni, “Parole, immagini, colori di Sicilia”, Marie Claire, novembre, 1988. • Stefano Giovanardi, “Imbroglio siciliano”, La Repubblica, 02-11- 1988. • Giuseppe Bonura, “Com’è annebbiato il mito di Sicilia”, Avvenire, 05-11-1988. 32 • Natale Tedesco, “Scrivere è sogno e fuggire dalla vita”, Il Mattino, 08-11-1988. • Salvatore Nigro, “Un album siciliano sottratto alla rovina”, La Sicilia, 15-11-1988. • Giovanni Raboni, “Le pietre di Pantalica”, L’Europeo, nº 47, 18-11- 1988. • Ermanno Paccagnini, “Le pietre di Pantalica, frammenti di una civiltà”, Il Sole 24 Ore, 20-11-1988. • Mauro Bersani, “Le pietre perdute”, Corriere del Ticino, 03-12- 1988. • Claudio Marabini, “Un pasticciaccio alla siciliana”, Il resto del Carlino, 10-12-1988. • Eugène Mannoni, “L’ île mysterieuse”, L’Express, 21-12-1988. AÑO 1989 • R. Carbone, “L’ombra delle rovine”, L’Indice, nº 1, enero 1989, pp. 6-7. • Maria Sebregondi, “Le pietre di Pantalica”, Leggere, enero, 1989. • Gianni Turchetta, “Consolo: pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori”, Linea d’ombra, nº 34, enero 1989, pp. 11-12. • Antonio Di Grado, “Amarezza e speranze”, La Sicilia, 6-01-1989. • Carmelo Depetro, “Parlando di Sicilia”, Ragusa sera, 28-01-1989. • Paolo Pogliani, “Le pietre di Pantalica”, Letture, febrero, 1989. • Andrea Zanzotto, “Consolo sospeso tra due Sicilie”, Corriere della Sera, 13-02-1989 (se publica también en Francia “Consolo entre deux Siciles”, Le Monde, 30-11-1990). 33 • Carlo Sgorlon, “Pietre che dicono cos’è la Sicilia”, Gazzettino di Venezia, 15-02-1989. • Romano Luperini, “Coniugando Verga e Gadda”, L’immaginazione, enero-marzo 1989. • Idolina Landolfi, “Sicilia patria perduta”, Il Giornale, 12-03-1989. • Luciano Satta, “Fra queste pietre il sussurro di un canto”, Il Giornale, 23-03-1989. AÑO 1990 • Nicola Di Gerolamo, “Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo”, Arenaria, agosto-septiembre 1990. • Evelyne Pieiller, “Le roman d’un peuple, de son histoire, de ses langues”, La Quinzaine littéraire, 16-10-1990. AÑO 1991 • Jean Baptiste Marongiu, “Blessure sicilienne”, Liberation – Special livres, marzo 1991. • Louis Soler, “Les deux Siciles”, L’Ane, magazine freudien, nº 47, julio-agosto 1991. FILOSOFIANA 36 I. NOTA AL TEXTO 1. El relato de “Filosofiana” aparece recogido dentro del libro Le pietre di Pantalica, publicado por primera vez en octubre de 1988 por la editorial Mondadori de Milán, “Collezione Scrittori italiani e stranieri”. 2. La misma editorial sacará a la luz una nueva edición para la colección “Oscar Scrittori del Novecento”, en septiembre de 1990. En esta colección existen varias reediciones, desde la primera de 1990 hasta la última de 2007. Las diferentes reediciones, de esta colección van acompañadas siempre de una introducción de Gianni Turchetta. Todas ellas conservan el mismo formato. Son exactas entre sí, con la salvedad de las siguientes diferencias: • Cada reedición presenta una imagen diferente en las portadas de los libros. • En la edición más reciente de septiembre de 2007 se ha añadido el apartado “Bibliografía” (pp. XIV-XVIII). 3. Por lo que respecta a esta segunda edición de la traducción al español de “Filosofiana”, al igual que hiciera en la primera, me he basado en el texto original de la edición Princeps (Mondadori, 1988), que es la considerada definitiva por el autor (“Filosofiana”: pp. 75-97). 37 II. NOTA A LA TRADUCCIÓN 1. Las cuestiones lingüísticas y terminológicas relativas a las opciones de traducción para la presente edición en español de “Filosofiana” se analizan a continuación del relato de “Filosofiana”, en el capítulo IV (Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto). La secuencia de los términos comentados en dicho apartado sigue un orden alfabético. En esta segunda edición, por tanto, los vocablos analizados dejan de estar señalados en el corpus de la traducción por medio de un asterisco junto a la palabra o grupo de palabras objeto de comentario, tal y como sucedía en la primera edición. 2. Por su parte, las notas que acompañan el corpus de la traducción están únicamente destinadas al comentario, aclaración o explicación de aquellas referencias literarias y culturales recogidas en el propio texto que puedan ser de utilidad para el lector. 39 FILOSOFIANA Al alba había llegado a Sofiana, a la fanega y media y algún que otro bancal que había mercao empeñando hasta la camisa, tras irse al traste las cooperativas y su esperanza de obtener la concesión d’un roalico de tierra en Ratumemi, Rigiulfo, Gibilemme o n’er mesmo infierno. Una tierra qu’era una cascajera, una llanura rojiza a lomos d’un cerro de tiestos y cascotes, culos panzudos de botellas, asas d’ánforas, lebrillas, botijos y jarrones. Como si en este campo hubiese habido hornos d’alfarería. Abandonados, cerrados y enterrados, dejando sobre el terreno como seña este cimiterio de cinabrio, lo mismo que la masa amarillenta d’escorias y cenizas al reor de las bocas de los pozos de Bubbonìa o de Pazienza eran las señas d’azufrales muertos (reino de cal, de sisca y de acíbara; refugio de sombras y vientos, cucalas, lagartijas, leros; lugar de desolación y de acoramiento). Y encomedias d’estos casquijos, crecían espárragos, cardos, alcaciles silvestres, calistros y robinias. Lió la mula a un tronco y se asentó sobre un murete de arenisca que asomaba to’ tieso, cuasi como seña de linde o cimientos de casa. El cielo aclaraba, las estrellas se apagaban, desaparecían, y la luna, una luna de tres cuartos, perdía su luz, palidecía, volviéndose papel de seda, vitela. Se veía, más allá del valle, más allá del Dessuèri y del Dittàino, más allá del Adrano, Jùdica y Centùripe, sobre un fondo de cielo violeta y luminiscente, la cumbre nevada y la humareda del volcán. 40 Miraba a su tierra, la suya, la escudriñaba. Sopesaba si debía empezar por roturar, plantar barbados y esquejes americanos, resistentes al mal tiempo, a la filoxera; y olivos, almendreros, pistacheros; y árboles de capricho como higueras, acerolos, jinjoleros, serbales, membrillos, granados; y plantas de olor y de belleza, rosas, claveros, jazmines, cidronelas, alrededor de la casita que habría hecho aquí, en lo más alto, la fachada cara al levante, quizá sobre estos mismos gruesos cimientos en los que se asentaba, la terraza, el parral y el pozo en la parte delantera. Se la figuraba en pequeño, pero copia de la gran masía de la Favara, donde había trabajado varios meses bajo las órdenes del amo llamado Saavedra6 , regia mansión, maravilla con cúpulas, terrazas, balconcitos, patios con columnas, suelos con azulejos de Valencia; aljibes, albercas, cenia, paseos con parras encomedio de campos de algodón y cañadú, jardín con plantas y flores de las más variadas, garullos y pavos en libertad por el jardín, y todos los pájaros del arca en las pajareras. Rió, rió de su sueño, se dio dos manotazos en los muslos y se levantó para tomar el legón y el pico. Tajo parejo comenzó por despedrar, librar el terreno de cualquier resto de barro roto. Rastrillaba y formaba aquí y allá en los bordes caballones rojizos, y a poco a poco aparecía, ahí donde no había hierbajos, chicoria o hinojo silvestre, una tierra negra y feraz, tierra de virginidad inmaculada, que jamás había conocido reja de arado, golpe 6 Nombre de la familia propietaria de las fincas y del palacio de la Favara desde el siglo XVI. Apellido de rancio abolengo español, perteneciente también a la nobleza del Reino de las Dos Sicilias. Por sus estrechas relaciones tanto con Murcia como con Sicilia, señalaré a uno de sus más ilustres representantes: el político y literato murciano Diego de Saavedra Fajardo (1584-1648), que fue secretario del Cardenal Gaspar de Borja, primero embajador en Roma y después Virrey de Nápoles residiendo por algún tiempo tanto en Nápoles como en Sicilia. 41 de azadón, jamás había alimentado semilla de haba, cebada o trigo. Y cuando fue justo mediodía, con el sol perpendicular sobre el follaje del bosquecillo de Alzacuda, quiso enderezar el lomo7 pero se quedó derrengao. Se llevó las dos manos a los riñones e hizo fuerza, crujiendo y quejándose, hasta lograr ponerse derecho como un hombre. Imprecó su mala suerte, santos y diablejos, caminando hacia la mula, donde tenía liado el hato de la fiambrera con el empedrao, el vino, el pan y el queso frito que su mujer le había preparao. Se asentó de nuevo sobre el murete, cuadrado y pulido como un poyo delante del molino de Caldai o de la trituradora de la Providencia, extendió el paño de cocina, puso encima los avíos para comer. Y mientras comía miraba toda la faena hecha durante la mañana, la tierra negra libre de herbajo y de tiestos, parecía desnúa, después de inseculorum sécula a la luz der sol y d’estremecerse ante la ligera brisa otoñal. Lo que le turbaba era el silencio. Acompasado por el pisoteo de la mula, los cascabeles de las ovejas lejanas y algún que otro grito de un pájaro de paso. Y la montaña inmensa al fondo, una masa de negro y de blanco, con la humareda que salía de su cumbre expandiéndose por el azul de la bóveda. Cercanas se veían las casas de Caltagirone, de Adrano y de Piazza (contaban que en el Casal, en el vallecico del Nociara, habían descubierto bajo tierra una gran villa, el suelo de cuadradicos minúsculos que formaban frisos con guirnaldas de frutas y flores, escenas de caza con animales salvajes y fieros, leones tigres liopardos; pesca con redes de peces moteados, plata y oro, nenes que jugaban a coscoletas sobre cabras y palomas, luchas de gigantes heridos por flechas, un hombre con tres ojos. Pero la maravilla de la que se platicaba abonico era la 7 Según me hizo observar Segre, al emplear la palabra groppa (“lomo”) Consolo quiso subrayar la animalidad que conlleva el duro trabajo de la tierra (cf. la entrada “enderezar el lomo” en el capítulo siguiente). 42 sala de las zagalicas, tan apañás, en cueros, que bailaban y jugaban graciosas con la pelota, la sombrilla, er tamboril. De seguro la villa d’un rico caprichoso, muncho más rico qu’er rico Saavedra de la villa Pastorana en Favara). “Pero ¿qué semos nusotros, qué semos?” se preguntaba Vito Parlagreco8 , masticando su pan y queso de cabra con pimienta. “Hormiguicas que se matan a faenar n’esta vida breve como er día, un lampo. En fila dalante atrás sin parar n’esta era redonda que se llama mundo, llenos de granos, pajas, trigo, en pro de uno o dos más afortunaos. ¿Y qué? Er tiempo pasa, amontona fango, tierra sobre un gran escombro d’añicos de huesos. Y queda, como seña de la vida qu’ha transcurrío, argún que otro fuste de piedra acanalá, argo escrito en una lastra, arguna escena o figura como las desenterrás n’er valle de Piazza. Un cimiterio queda, de piedra y casquijos encomedio der cual crece, ca’ espuntar de primavera, l’alhelí, l’asfódelo”. Y miró los bancales de cascotes delante de él, las terracotas, algunas patinadas de musgo y otras pintadas de negro, rojo, unas lisas y otras grabadas con figuras mutiladas. “Qué caprichos, qué caprichos se daban los antiguos” se dijo Parlagreco. Y se dijo también que dejase ya de pensar en la vida que fue, que es, como lo hacía siempre en los altos de la faena, n’er silencio y en la soledad, de pensar com’un viejo, com’uno d’esos jubilaos asentaos dende la mañana dasta la tarde de cháchara a la puerta de la Liga. Pa’ irse a luego a luego de la tierra ar cielo, ar sol, a la luna, a las estrellas. Entonces, entonces era preso de vértigo, 8 Sólo aquí, después de tres largas páginas, se descubre el nombre del misterioso labrador. Consolo ya lo había presentado anteriormente en este mismo libro Le pietre di Pantalica. Había aparecido en concreto en las dos partes que componen el relato “Ratumeni”. Con unas cuantas pinceladas Consolo ofrece en “Ratumemi” un retrato tanto físico como psicológico del futuro protagonista de “Filosofiana”. Por lo tanto, su lector, puede ahora proyectar perfectamente su imagen mental y entender mejor sus reacciones (cf. la introducción). 43 le parecía escullir dentro d’un pozo sin fin. Y fue en ese punto, en esa quietud de desierto o eremitorio cuando, desde la lontananza de sus pensamientos, se sintió llamar, volver a llamar: «¡Ohu, ohu!» y le salió al encuentro, desde el fondo de su campo, seguido de ovejas y corderos, un cabrerico alegre, risueño, arremolinando en lo alto su cayado. Cuando estuvo delante, se plantó, poniéndose rojo rojo. Reía, reía, sin estarse quieto un momento, balanceándose de un lado a otro sobre sus piernas arqueadas, los pies envueltos en trapos. Era un zagal d’unos quince años, crecío de cabeza y tórax, con pelusa en la barbilla y sobre los labios, pero que s’había quedao corto d’estatura. Miraba fijamente con los ojos de par en par al labrador. «Eh» le dijo Parlagreco masticando «¿qu’haces? ¿Ande vas?» Mas el cabrero reía y no hablaba. Cortó entonces el labrador una tajada de pan con el cuchillo, colocó encima un trozo de queso y se lo ofreció al zagal. Éste, riendo, retrocedió, denegando con la cabeza. Probó con el vino, tendiéndole la botella. Y de nuevo el no de aquél. Pero ahí quedaba mirándolo fijamente, espiando su cara, sus gestos. Vito entonces fingió no darle importancia, no verlo, continuando distraído su comida, siguiendo con la mirada al rebaño disperso, un can9 blanco de pelo enmarañao que ladraba y corría tras las ovejas que s’alejaban a lo lenjos. Después Vito se encendió un pitillo, miró al muchacho que seguía ahí plantao 9 Góngora se negaba a utilizar el término “perro”, que consideraba un barbarismo –de hecho tiene un origen incierto–, y sólo consentía en emplear la palabra “can”, de procedencia latina. Con todo, el Roque Barcia recoge la etimología de Covarrubias, para quien el vocablo “perro” viene del griego Pyr, “que significa fuego, por ser estos animales de un temperamento seco y fogoso. Otros quieren se dijese á rodendo pede” (cf. Primer Diccionario General Etimológico de la Lengua Española, Roque Barcia, Tomo cuatro, Francisco Seix, editor. Barcelona, 1879). 44 todavía sonriendo, echó las piernas sobre el murete, se dio la vuelta y se dispuso enseguida a reposar, el hato bajo la nuca a guisa de almohada. Tras el humo del pitillo, miraba el cielo terso e inmutable, mudo, vacío, como la tierra sobre la que se encontraba. Y pensó n’er zagal dentro der vacío, quién sabe desde hacía cuántos años en soledad, solo con sus ovejicas, encomedio de las hierbas, en los altos de Filosofiana, expuesto al agua y ar viento, bajo er sol, bajo la luna, bajando a Dessuèri, y más allá a través de los campos de Gela, vagando hasta Morgantina, hasta Licodia Eubea. Vida sola, sola, tanto que se le había olvidao, si arguna vez la tuvo, la palabra. Giró apenas la cabeza para mirar de reojo a ese pastor esquivo, y lo vio acucunaíco n’er suelo, er cayado entre las piernas, el rostro feliz por estar en compañía d’un cristiano. Pensó en sus tres zagalicos allá en Mazzarino, Michele, Maria, Bastiano, que iban a la escuela, jugaban en la calle, hablaban, gritaban, dormían por la noche bajo techo10. Y en estos pensares, aspeao como estaba por la cansera de la mañana, esculló a poco a poco en el sueño. Lo despertaron de golpe los alaridos, los ladridos del can. Se irguió, y vio al muchacho que saltaba, tomaba piedras del suelo y disparaba con su honda contra una bandada de airones que volaba en formación de ángulo, de flecha, como las dos alas desplegadas de un único pájaro grande. Se veía cada cuanto al airón timonel, en el ápice del ángulo, que con el pico y su largo cuello hendía el aire, ceder su puesto a otro que lo alcanzaba desde el extremo del ala. Y 10 Son los mismos sentimientos de ternura compasiva que expresa José María Gabriel y Galán (1870-1901) en su entrañable poesía “Mi vaquerillo”, que para un lector actual no deja de ser encantadoramente afectiva: “(…) / Pero el niño ¡qué solo vivía! / ¡Me daba una lástima / (…) / tan solo pasaba / las noches de junio / (…) / y las húmedas noches de octubre, / (…) / y las noches del turbio febrero, / (…) / con vientos y aguas!… / (…) / Yo tenía un hijito pequeño / (…) / que jamás te dejé si tu madre / sobre ti no tendía sus alas”. 45 así avanzaban, con sincronía y consonancia, emigraban, ahora que se aproximaba la ivernada, hacia lugares cálidos, Linosa, Lampedusa, Gerba, quizá después de un alto en el lago Dessuèri, en el estanque de los Pàlici o Vendìcari. Saltó del murete y corrió hacia el muchacho, lo agarró por los brazos y se los retorció detrás de la espalda, haciéndole caer la honda de las manos. Éste, tomado a traición, pataleaba y se revolvía. Lo arrastró hacia el muro, lo hizo girar sujetándolo con fuerza por las muñecas. «Basta» le gritó «¡basta!». El muchacho lo miró espantao. Después las lágrimas le llenaron los ojos. Vito aflojó su presión. «Ai-ro-n» dijo, señalando al cielo «ai-ro». «¡Pero tú hablas, hablas!» exclamó Vito. El muchacho se enjugó los ojos con el dorso de la mano. «¿Quién eres? ¿Cómo te llamas, eh?» le preguntó. El otro lo miró con ojos muy abiertos. «Uno, Vito» dijo Parlagreco apuntando el índice sobre el pecho. «¿Y tú?». «Ta-na-tu, Ta…» silabeó el muchacho, y se rió, descubriendo unos dientes agudos. «¿Tanu? ¿Tanu?» preguntó Parlagreco. El otro dijo que sí con la cabeza. «Los airones no se matan. ¿Comprendío?» remachó. El muchacho reía, y no decía ni si ni no. «Abora se van lenjos, qu’aquí llega el ivierno… ¿Tú, ande vas?». Pero Tanu no respondió, siguió riéndose. Luego de golpe giró, fue a recoger del suelo su honda, volvió y se la entregó a Parlagreco. «No, no» le dijo Parlagreco «tenla. ¿Qu’hago yo con ella?» Y fue a retomar su azadón. Tanu abrió el zurrón que llevaba en bandolera, puso dentro la honda y sacó un liebro muerto, con la cabeza corgando encostrá de sangre. Se lo llevó a Parlagreco. 46 «No, no, cómelo tú». Pero el muchacho insistía. «¡No!» dijo decidido Vito, y se echó a andar. Entonces Tanu dejó rápidamente el liebro sobre el muro, se llevó dos dedos a la boca, silbó para llamar al can y partió dando saltos y haciendo molinillos con su cayado. Vito lo persiguió, pero el otro corría veloz sobre sus piernas zambas, desapareció pronto, seguido del can y de las ovejas, en el follaje del bosquecillo de Alzacùda. Vito se quedó plantao mirando er punto por donde había desaparecío aquel zagal, la sendica encomedio de los troncos de calistro. Sintió despecho, luego algo parecido a pena, pena por ese zagal que quizá nunca más volvería a ver, lo que semeja a la muerte, como los airones que se ven migrar, esfumarse en la lejanía. Pena aún por él, que retornaba a estar solo, solo con su faena n’er campo de Filosofiana. Miró el liebro muerto sobre el murete, le dio la espalda y tornó decidido al punto donde había interrumpido su faena. De pronto, después de unos pocos golpes de pico, oyó resonar la tierra como si estuviese hueca, hubiese una cueva o una vasija enterrá. Excavó despacico despacico, amontonando tierra hacia los lados, y apareció a poco a poco una lastra alargá como la lápida d’una tumba. Fue preso de ansia, pensares; recuerdos acudían en tropel a su mente, de fábulas, encantamientos, tesoros escondidos por moros o por bandoleros. Le parecía estar soñando. Y este sueño que tenía por la noche con frecuencia, cuando s’echaba en la cama lleno de cansera, era er de cavar con las manos n’er polvo, n’er fango, y encontrar por fin una perola o cuarterola cormá de peluconas11. ¿Pero era sueño o 11 En el texto original marenghi (p. 82). Se trata de las monedas de oro acuñadas por Napoleón con motivo de la victoria de éste sobre los Austro-Húngaros en Marengo (1800). Por extensión cualquier moneda de oro macizo. Para rendir la misma equivalencia a un lector español elegimos la palabra “pelucona”, moneda 47 recuerdo lejano de cuentos, como er der Castillo d’Entella o er de la Gruta der Caballo en Sabucina, d’ese pastorcico que fue a la feria embrujá ande compra naranjas que se vuerven oro? Y recordaba siempre esta letra qu’abora s’había puesto a recitar: Una fuente n’er puentecico N’er Lanniri siet’aspontico Sabucina e’ jarta d’oro Testa de lumbre, Testa d’ oro… Sólo que sueño o fábula poca es la diferencia. ¿No es acaso sueño todo cuanto se cuenta, se inventa o se relata, por medio de la voz, de la escritura o de cualquier otro modo, de una vivencia de ayer, de hoy o de mañana, de una vivencia posible o fantástica? Es siempre sueño la empresa del narrar, un desligarse de la vida real y vivir en otra. Sueño o quizá aún locura, porque es propio de la locura la vida que se desliga y prosigue, como sombra, fantasma, ilusión, al lado de esta otra vida que nosotros llamamos real. ¿O de la muerte? Vito Parlagreco hizo palanca con la cuña del pico y alzó con esfuerzo la pesada lastra. Apareció una fosa, tallá dentro de la toba y bien cuadraíca. Una fosa repleta d’un terrero oscuro, blando como la de los hormigueros. Y del terrero afloraba un cráneo, el color amarillo de la frente, el negro de las órbitas, el marfil de la dentadura, y los huesos, sutiles como alas de pájaros, de las manos. Parecía el esqueleto de un hombre desplomado dentro del fango y que se esfuerza por salirse o de uno que, vuelto a despertar en su tumba después de milenios por la luz roja del sol poniente, hace ademán de incorporarse. de oro acuñada por los reyes Borbones españoles hasta Carlos IV inclusive. Esta moneda tenía en una de sus caras el perfil del rey vigente que ostentaba una peluca. De ahí su apelación popular. 48 Vito no tuvo sobresalto ni miedo, más bien notó la misma alegría como cuando en sueños descubría sus peluconas. Alegría sobre todo porque al reor al reor d’aquel antiguo muerto afloraban ánforas, orzas, platos, luminos, semienterraos también n’er terrero, como si flotasen sobre el agua cenagosa d’un aljibe. Estaba seguro abora d’encontrar en las vasijas de barro un tesoro escondío n’er tiempo de fábulas y d’encantos, y el único temor que sintió fue er de no saber la fórmula mágica, la frase, la palabra arcana que debía decir n’el instante de rozar el oro con los dedos. Temía que de un momento a otro todo pudiese desaparecer como nube errante, cenizas al viento, esfumarse como un sueño al despertar. Rezó entonces en su corazón a su madre a su padre, al niño que se le había muerto al nacer, a amigos y a conocidos. “Oh mis mortichuelos” rezó “difuntos qu’amé y que conocí, ayudarme, cambiarme al fin esta dura vida mía, esta vida de pesambres y de miedo”. «Amén, amén» concluyó en voz alta, la única palabra sacra que sabía y recordaba. A gatas se puso a rascar con los dedos la tierra que apresaba la loza, con un ansia y un deseo, una delicadeza12, iguales a los que sintió cuando había tocado por primera vez las carnes de su mujer. Liberó así la primera orza panzuda y más amplia, la apretó contra el pecho, echó una ojeada al interior: negror. Estaba negro como la noche ahí dentro. Esculló la mano y tocó una materia incrustá, rascó con las uñas y sacó fuera un grumo d’una substancia que parecía carbonilla grasienta. Estuvo seguro, seguro de qu’aquel carbón había sío hasta 12 Consolo ya había destacado esta delicadeza de espíritu de Parlagreco, que contrasta con el rasgo de rudeza casi animal en su duro bregar con la tierra, en el relato “Ratumemi”, que precede a “Filosofiana”. En él presenta a un Vito que, saciado tras haber comido, acepta todo lo que le ofrece su compañero para no herir sus sentimientos: “E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro, faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bomobolo del vino” (cf. Le pietre di Pantalica…, p. 53). 49 ese momento oro fino, monedas resplandecientes a la par der sol, y que por magia malvá, por no saber la fórmula secreta necesaria para consolidar para siempre el oro en su estado, encontraba abora este tanino en su mano, este puñao de mierda der diablo. Miró decepcionado la orza, el ánfora panzuda y barnizada. Nunca había visto nada más hermoso. La frotó con la mano, sopló para quitarle el polvo y aparecieron figuras de color rojo: un hombre desnudo por delante con una manteleta que le caía por detrás, la mano apoyada en una lanza; una mujer con vestido liviano, las alas desplegadas en la espalda, los brazos abiertos, como un ángel que revolotease por delante; otra mujer con yelmo en la cabeza y coraza habla con un zagalico que lleva en la mano un bastoncillo con dos aros; un gato moteado de cola ondulada brinca entre dos portadores de lanzas; en la cara opuesta, un hombre envuelto en un lienzo, una cinta al reor de la cabeza, ofrece a una joven, en túnica transparente hasta los pies, una bonica taza colmada quizá de ambrosía o de malvasía. Eran figuras que Vito no entendía, escenas de hechos oscuros y de misterios, enigmas que nunca en toda su vida resolvería. ¿Y si estuviese ahí, pintao n’aquella orza, er dicho mágico, la llave para romper el encanto13? Pensó entonces, pensó qu’el único que tenía er poder como tó er mundo sabía para romper o echar conjuros, predecir er tiempo, sentir corrientes d’agua soterrás, leer er pasao y la buena ventura era en Mazzarino don Gregorio Nànfara, hombre de ley y sabio, que de mozo había estao n’er seminario, frecuentaba iglesias, conventos y monasterios, sabeor d’historia, poesía, d’astros n’er cielo, de griego y de latín. Decidió pues no tocar na’ más no fuese a echar a perder el 13 Como en el resto de Europa, y sobre todo en ambientes rurales, el imaginario colectivo siciliano cultiva leyendas de tesoros ocultos en las entrañas de la tierra. Todo campesino sueña con encontrarlo bajo su azada, pero hay que conocer la fórmula secreta para que el tesoro se vuelva real y la materia que lo reviste desaparezca, dejando paso a monedas de oro macizo o piedras preciosas. 50 encanto, dejarlo to’ com’estaba y regresarse con don Gregorio. Pero se llevó consigo la orza ya cachifollá, como prueba tangible de qu’este tesoro escondío qu’él había encontrao no era un sueño, una visión. Volvió a colocar raudo y veloz sobre la tumba la pesada lastra, esparció tierra encima para enmascarar su descubrimiento. Al llegar a la mula, su mirada cayó sobre el liebro que Tanu había abandonado en el murete: una nube de moscas le comía los ojos y la herida, una cuadrilla de hormigas le entraba por la boca. «Baaah…» hizo Vito con una mueca sintiendo angustia. Pero a la par no pudo dejar de volver a pensar n’el extraño cabrero, er zagal desaparecío n’er bosque, creatura de mudez, de solitud. Espoleó la mula y bajó corriendo hacia Mazzarino como si cabalgase un gallardo alazán, llegó a las primeras casas de Cicoria cuando ya había descendido la tarde violeta. Fue flechado al Borgo, a la vieja casa de don Gregorio Nànfara. «Chisss, chisss…» le dijo don Gregorio con el dedo sobre los labios después del relato anhelante de Vito Parlagreco. «Por amor de Dios… ¿Platicaste con arguno?». «¡Quia! Osté es er primero con quien platico. Vine de Sofiana to’ p’alante hast’acá». «Bien hecho» dijo don Gregorio. «Si jamás, de arguien que no fuese yo, la nueva traspasase la impura aurícula, se disiparía to’ encantamiento, la esperanza se tornaría desesperanza». Vito lo escuchaba atónito, perdido en pos de aquel lenguaje alado. «Chisss… Quieto parao» le ordenó don Gregorio, y se levantó de la silla detrás de la mesa para encaminarse hacia la ventana. La cerró, y entonces se dirigió a la puerta, se agachó para mirar por la cerradura por si acaso alguien estaba a la escucha. Tranquilizado, encendió la lamparilla llena de cagarrutas de moscas que colgaba en medio del cuarto, volvió a sentarse. A su paso, la habitación parecía sacudida por un terretremo, crujían bajo sus zapatos las losetas sueltas. Era un hombrón corpulento, calvo y con el cráneo reluciente, un ojo 51 bien colocado en su sitio, azul y fogoso, y el otro, de cristal, inmerso dentro del agua del vaso sobre la mesita. «Nos» continuó Nànfara «nos qu’es sólo er que te habla, nos estamos más allá de toda impureza y de toda curpa. Nos que alcanzamos a escudriñar, gracias ar saber, a la sabiduría» y señaló con amplio gesto todos los libros viejos y enmohecidos a sus espaldas «er punto imperscrutable donde la Noche y er Día se conjugan, la estrella Austral con la Polar, er viento Griego con er Garbino14, er Bien con er Mal… Parlagreco, Parlagreco, son cosas difíciles d’entender, d’explicar…» suspiró, «Parlagreco… Tú que de la lengua griega, ay de mí, perdiste la sapiencia… Es la historia, la historia, er tiempo qu’arrolla y trastorna… ¡Parlagreco!» lo interpeló más fuerte. «¡¿Sí?!» respondió al instante Vito levantando la cabeza. «¿No será qu’en Sofiana t’adormilaste, no t’habrás pasao con er tinto de Favara?». «Eh, eh…» dijo Vito con una ligera sonrisa de compasión. «Esto me lo aguardaba, don Gregorio» se agachó, tomó del zurrón que había dejado en el suelo el cántaro pintado y se lo puso delante sobre la mesa. «¿Eh?» dijo «¿Conque sueño, engañifa d’achispao? ¿Eh?». Don Gregorio alargó los brazos y pegó su único ojo sobre aquella maravilla. «¡Qué belleza! ¡Qué belleza!» exclamó con arrobamiento. «Y aún hay dos más igualicas, que yo no he tocao, y platos, orcillas y luminos pequeños». Don Gregorio tuvo una sonrisa taimada, después una risita como el que saborea la dulzura del placer. Tomó la lupa de mango largo, de las que usan los señorones para leer el periódico delante del Círculo, y se puso atentamente a estudiar las figuras dibujadas sobre 14 El “viento Griego” es el viento del Noreste, es decir el de Levante. El “Garbino” es el viento del Suroeste, también llamado viento de África, es decir el de Poniente. 52 la orza. Murmuraba palabras incomprensibles, su ojo azul tras la lupa, agrandado como el que estaba en el agua del vaso. «Don Gregorio…» lo llamó Vito al cabo de un rato. «¿Ah?… Voy, voy…» respondió, sin levantar la cabeza de su estudio. Se puso después a recitar, como si declamase un papel teatral: «Es una crátera magnífica… Un deinos15 pa’ más precisión… Representa una escena funeraria. Este hombre que s’apoya en la lanza mira tristemente a su propia muerte, personificá por la jovencica alada qu’es una Harpía; siguen los parientes, con cintas y ofrendas pa’ la ceremonia; luego Atenea ordena a Hermes que guíe ar muerto abajo n’el Hades… ¡Qué belleza, qué belleza!» concluyó. Y se levantó, se puso a pasear por el cuarto atestado y maloliente que era toda su casa, hablando y gesticulando como un abogado en el tribunal. «¡Ésta es una prueba, otra prueba más, Parlagreco, de que Grecia no existe, no ha existío jamás!… Grecia es un invento de los ingleses y de los alemanes, d’estos protestantes… To’ tuvo lugar aquí, en tierra de Sicilia… ¡Qué Troya ni Micenas, Atenas, Las Termópilas ni Salamina!… ¡Aquí, fue aquí ande to’ ha ocurrío!» golpeaba con el pie las losetas y temblaba el suelo. «Debe acabar este cuento, esta impostura enorme que dura desde hace demasiaos siglos…». Se detuvo, agarró su ojo de cristal del vaso, y rápido se lo plantó dentro de la órbita. Se irguió, miró fijamente con sus dos ojos a Parlagreco. «¡Esquilo!» bramó con todo su vozarrón. «Esquilo está sepultao aquí, en nuestro territorio al reor de Gela…». Se sobresaltó, como si de repente algo lo hubiese golpeado16. 15 Esta cerámica griega también se conoce como dinos. Se trata de una crátera o vasija grande y panzuda que suele estar montada sobre un pie o peana. 16 Plutarco relata que Esquilo, disgustado al haber sido vencido por Sófocles en una competición dramática, abandonó Atenas y se trasladó a Sicilia, donde murió hacia el año 455 a. C. Según una creencia arraigada, Esquilo estaría enterrado en los alrededores de Gela. Don Gregorio de repente, se dio cuenta de que 53 «¡San Liberador!» exclamó. «¡¿Si fuese ésta la tumba, si fuese ésta?!…» Se acercó a Vito. «¡Parlagreco!». «¿Qué?» respondió Vito intimidado, mirándolo de abajo a arriba. «¿Notaste dentro lastras con inscripciones, máscaras trágicas, estatuas menúas de comediantes?». «No, no, mesmamente no…». «¡Ah, veremos, veremos!…». «Don Gregorio…» lo volvió a llamar Vito. «¿Ah?». «¿Pero este, es un tesoro o no lo es?». «¡Lo es, lo es, sín que lo es!». «¿Y a luego qué?». «¡A luego salimos esta noche, a las tres debemos estar en Sofiana! Yyy… ¡Callaíco! ¡Que no se t’escape una palabra, tan siquiera con tu sombra o con el alma de tu padre!». «¡Sín Señó!» juró Vito llevándose la mano al pecho. «Parlagreco…». «¿Qué?». «Mil liras. No t’ofendas…». «¿Enantes?». aquel muerto desconocido bien pudiese ser el dramaturgo griego. Destaquemos otra analogía entre la Comarca de Filosofiana y el campo lorquino. También en el Cabezo de la Jara, que es la colina más alta de Puerto Lumbreras, la tradición quiere que se encuentre la tumba de los Escipiones –Cneo Cornelio y Publio Cornelio Escipión, tío y padre respectivamente de Escipión el Africano, vencedor de Aníbal–. Estos generales romanos detuvieron el avance de los cartaginenses Asdrúbal y Magón por esos entornos, pero sucumbieron en la lucha siendo enterrados en la zona. En algunos mapas antiguos de España hasta bien entrado el siglo XX aparece señalizada la zona de la supuesta sepultura. 54 «Enantes, sín. Es la costumbre. Porque si a luego a luego, Dios nos libre, la desencantadura falla, por accidente o por influjo maligno, sin ser en verdad curpa mía, adiós, si t’he visto no m’acuerdo…». Vito, resignao, se quitó la boina de la cabeza y de dentro del dobladillo interior, enrollaícos, sacó dos billetes y se los entregó, tragando saliva, a don Gregorio. «Vito, Vito, Vituco, por la Virgen de Màzzaro, ¿qué pasa? Dímelo, habla, no me dejes penando…» le imploró su mujer, pegada a la puerta, todavía con el calor de la cama, descalza, el pecho jadeante bajo su camisa de tela, cuando Vito iba a salir. «Chisss, chisss…» le dijo Vito. «Na’, na’ malo, ’tate tranquilica. A luego a luego te platico. A naide, comprendío, a naide debes dicir que salí en mitá de la noche. ¡Ojo!» y Vito le hizo una caricia, desde la nuca hasta el pecho rosado, cerró la puerta a sus espaldas y se encontró en la calle. Don Gregorio esperaba ya delante de su casa, capazo en mano, sombrero en la cabeza y un mugriento guardapolvo gris de gabardina. Vito le ayudó con gran esfuerzo a montar sobre la mula, el hombrón se asentó a mujeretas, el culo sobre el basto y las dos piernas colgando de un lado. «¿Es mansa, es mansa esta bestia?» preguntó aprehensivo don Gregorio. «Como una recién casá, una miel. Osté no esté rígido, déjese acunar como en una cuna». Vito tomó la mula por el cabestro y se pusieron en marcha, camino abajo hacia la calle Minoldo, calle Galizia, dejando atrás las casas del pueblo, carretera arriba hacia Cannavera. Llegaron a Sofiana, al lugar de la tumba, hacia las tres, con una luna casi llena, un blanco lechoso que clareaba todo el campo, y unas pocas estrellas en los márgenes del cielo. 55 Don Gregorio se dejó caer de la mula, bufando se quitó el gabanillo que relucía de grasa, abrió el capazo y empezó a sacar fuera y a disponer sobre el murete de arenisca libros, cirios, una vara, una granada, pez griega y una estola de iglesia de un brillante color escarlata. Vito se puso a rastrillar la tierra que había esparcido sobre la lastra. La limpió a fondo, como un horno antes de colocar los panes, y volvió cerca de don Gregorio. «¿Está preparao, don Gregorio?». «Eh, carma. La priesa en estas cosas es enemiga de cuarquier éxito». Y entonces don Gregorio miró a Vito fijamente a la cara. «Desnúate» le ordenó. «¡¿Eh?!». « Desnúate. En cueros». «¿Osté está de guasa?». «Parlagreco, ¿es hora de guasa? Haz lo que te digo. ¿Es acaso capricho mío? ¡Está escrito aquí, n’estos libros arcanos, n’este der Cinquecento17, n’er Rutilio18, y n’este otro, er Gran Cuadrado Maltés19!». Y diciéndolo don Gregorio agitaba los dos libros ante las narices de Vito. Vito comprendió que no había na’ qu’hacer, agachó la cabeza y se fue tras un árbol. Se desnudó, no sin haber escudriñado el campo 17 El Cinquecento alude aquí a la época de publicación (siglo XVI) del libro de Rutilio Benincasa, Almanaque Perpetuo, del cual don Gregorio cita más adelante unos versos (ver nota siguiente). 18 Rutilio Benincasa (1555-1626?). Filósofo, matemático y astrónomo. Tuvo un gran prestigio y renombre entre los seguidores de las ciencias esotéricas y cabalísticas en toda Italia, pero sobre todo en Sicilia. Su libro Almanaque Perpetuo, publicado en 1593, abarca todos los ámbitos del saber, incluyendo conocimientos botánicos y agrícolas. 19 El Gran Cuadrado Maltés es también una obra de cabalística muy apreciada por los cultivadores del esoterismo y las artes mágicas. 56 por todo el horizonte. Volvió mortificado delante de don Gregorio, sólo con los calzoncillos puestos. Don Gregorio, tanimientras, había endosado la estola roja y encendido los dos cirios colocados rectos sobre el murete. Miró a Vito que se le acercaba con sus calzoncillos largos de tela blanca sobre la piel aún quizá más blanca, menos la cabeza que destacaba negra hasta el cuello. «Parlagreco, ¿Acaso estamos en la playa de Manfria o Falconara? ¿Qué?, ¿te vas a bañar? ¡Los calzoncillos, los calzoncillos!» bramó don Gregorio. Vito, resignado, sufrió esta última afrenta de presentarse desnúo com’un gusano ante otro hombre, anque éste tuviera un solo ojo, anque fuera n’er negror de la noche. Don Gregorio le tendió las dos candelas encendidas. «Ten» le dijo «sujétalas bien a l’artura der pecho». Pero Vito no se decidía a apartar las manos de sus partes nobles. «Aaah…» dijo don Gregorio impacientado. «Vusotros los perullos estáis siempre llenos de remilgos. Mira a los azufraores, van siempre desnúos, quizá incluso ante Su Majestad». Vito se convenció y tomó en mano las dos candelas. «Vamos» dijo don Gregorio «empecemos. Desd’este momento, cuidaíco, no debes decir ni mú, tan siquiera respirar. Haz sólo lo que t’ordeno». Don Gregorio abrió delante de las candelas el primer libro, que era el Almanaque perpetuo20 y, hundida la cabeza en las páginas, se puso a recitar estas sentencias: 20 El Almanaque Perpetuo (ver notas 17 y 18) incluye unas tablas aritméticas perpetuas que supuestamente proporcionan la manera segura de acertar los números ganadores de la ruleta, la lotería, etc. Todavía hoy en día siguen circulando por Internet para beneficio de los adictos a esos juegos. 57 «Orbis nemo sua contentus sorte videtur, Mille tenensque urbes plus cumulare cupit. Cuncta perire vides; sola est virtusque perennis Quae facit aeternos nobilitatque viros. Quid juvant miser heu argentum, et aurum cumulabis Si post tartaneis tu crucieris aquis. Quisquis per mare, vel per terram acquiserit, aurum, Stultus erit, coeli cum male inquit opes» 21. Don Gregorio, con su corpachón imponente, esa voz suya cavernosa, su cabezón calvo, le semejaba a Vito el arcipreste, el obispo de Piazza o de Caltagirone. Vito temblaba de frío o de emoción, y tenía a la vez la frente llena de sudor. «Procedamus, procedamus…» dijo don Gregorio. «Vayamos a la tumba». Volvió a poner raudo en el capazo todos los pertrechos que había traído, se puso a caminar tras Vito, que alumbraba con las dos candelas. Pero el brillo de la luna era más fuerte que el de las dos llamitas, tanto que las sombras de los dos hombres caían justo a sus pies y se movían con ellos. El grito de una lechuza se oyó en aquel momento llegar desde la cima de un árbol cercano. Don Gregorio murmuró alguna palabra que era sin duda un conjuro contra aquel pájaro nocturno de mal agüero. Vito se detuvo delante de la lápida. Entonces don Gregorio, con su manera de obispo tonante, volvió a leer en otro libro: palabras oscuras, nunca oídas antes, y, aún si se llegasen a oír, palabras por su propia naturaleza irrepetibles, por mí que escribo, por ti que lees, por nosotros pobres hombres cargados de culpas, nosotros que nos movemos ciegamente en este mundo, 21 Consolo me pidió que no tradujera estos versos en latín algo macarrónico, para mantener el aura esotérica en torno a D. Gregorio. 58 ignorantes de todo lo sacro, todo lo arcano. Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre. «Pimpinela» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…». Y sin dejar de leer, empezó a trazar con la vara sobre la lastra círculos, triángulos, cuadrados. Después colocó con respeto el grumo ambarino de pez griega. «Dame una candela» dijo a Vito. Con la llama, prendió fuego a la resina, que se inflamó y se derritió dejando sobre el barro cocido una hermosa mancha como una meada. Don Gregorio mojó ahí el pulgar, se acercó a Vito y le hizo la señal de la cruz en la frente, los labios, la barbilla, el corazón, el umbligo… pronunciando a cada vez esta palabra: «Labis, labis, labis, labis, labis…» Vito lo dejó hacer, ahora ya impasible y frío como una estatua. Tomó por último don Gregorio del capazo la granada y se la llevó a Vito. «Parlagreco» le dijo «ésta es la parte más difícil: to’ depende de ti. Tienes que comer esta graná sin dejar caer ar suelo un solo grano». Vito dijo que sí con la cabeza y tragó aire haciendo correr a lo largo del cuello su nuez que era puntiaguda como el esternón de un pájaro. Abrió lo más grande que pudo la boca de su horno, embocó la granada, le hincó los dientazos, masticó y deglutió. Sólo una gota de jugo le resbaló por la barbilla, y fue raudo en recogerla con la lengua antes de que le cayese sobre el pecho22. «¡Bravo! ¡Bravo!» casi gritó don Gregorio que lo observaba atento con la candela en la mano. «¡Extraordinario!». 22 La capacidad de deglución de Vito Parlagreco ya la había señalado anteriormente Consolo en el relato “Ratumemi”, que precede al de “Filosofiana”. Cf. Le pietre di Pantalica…, p. 51: “Vito Parlagreco, ch’era magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di pasta con il sugo (…)”. 59 Vito esbozó una apagada sonrisa de satisfacción, sonrisa que se trocó rápidamente en una mueca de eructo. «¡Levantemos abora esta lápida!» ordenó solemne don Gregorio. Y esta vez Vito no necesitó la palanca del azadón, sino que levantó a pulso la pesada lastra con las manos. Lo primero que les saltó a la vista, aún más blanco por la luna que lo inundaba todo, fue el esqueleto que afloraba del antiguo muerto. Don Gregorio quedó deslumbrado, estupefacto. A poco a poco abajó a la tumba, y solemne, como hablando con el muerto, declamó: «¿Eres tú er trágico sumo que dio palabra ar dolor inexpresable der mundo? ¿Eres tú er divino23 Esquilo?». En el silencio que siguió a la pregunta, se oyó más fuerte la risa burlona del pájaro en lo alto del árbol. Y a luego una voz, como si viniese del cielo o de las profundidades de la tierra: “Légo kat’andra, mè theón, sèbein emé…” 24 Don Gregorio se convirtió en estatua de sal, miró a Vito que permanecía inmóvil en el bordillo con la candela en la mano. «Parlagreco» le dijo con voz trémula «¿tú hablaste en griego?». Vito, fiel a la consigna de no proferir palabra, sacudió la cabeza para decir que no. «¿Pero uíste, uíste un verso griego?». 23 El autor me confirmó que el verso de Esquilo que cita a continuación (cf. la traducción en la nota siguiente) es la contestación al calificativo de “divino” que Don Gregorio aplica al dramaturgo griego. De esta manera Esquilo quiere refutar cualquier connotación divina que sus admiradores le atribuyen para ser única y exclusivamente honrado en su condición humana. 24 “Quiero que como a un hombre, no como a un dios, me honres”. Esquilo, Agamemnón (Nota del Autor). 60 Vito sacudió de nuevo la cabeza. «Ah» dijo cabizbajo don Gregorio «ésta es una noche mesmamente rara, noche de misterios impenetrables… Vamos, Parlagreco, desenterremos esta vajilla». Vito, que esperaba con ansia esta orden, saltó al foso, se puso a cuatro patas y empezó a rascar la tierra con las uñas, como un can que busca trufas25. Liberó la primera vasija y se la llevó a don Gregorio. Nànfara, asentado en el suelo, la apretó entre sus muslos. Jadeaba. También la respiración de Vito, acucunado a su lado, era intensa. El busca tesoros esculló la mano, no sin haber dirigido primero al cielo, a la luna, su mirada tuerta suplicante murmujeando entre dientes sus letanías. Na’. También esa gran vasija resultó estar vacía, llena d’aire, con sólo una masa grumosa y carbonosa n’er fondo. Y con la segunda fue lo mesmo. Los dos hombres se quedaron como embobados. Don Gregorio, sin mirar a Parlagreco, fue después hasta la mula y volvió con una azadilla. Con ella, se puso a revolver el fondo de la tumba, a desenterrar tiestos, platos, lamparillas, que iba amontonando en el bordillo del foso a medida que los sacaba. Embistió a lo último contra los huesos del muerto que, apenas tocados, se deshicieron como si fuesen de azúcar. Sólo el cráneo resistió, con la dentadura de reluciente marfil intacta. Y bajo la cabeza de aquel muerto don Gregorio descubrió el mascarón de un hombre grotesco de pelo ensortijado en la frente, orejas como abanicos, ojos grandes y boca risueña que dejaba colgar la lengua fuera. “¿Pero qué quié decir esto, qué quié decir?” se preguntó don Gregorio. “¿Es una cochina guasa, nos la dan por culo? ¿En lugar 25 Consolo subraya de nuevo el paralelismo entre el labrador y los animales, ya sean bestias de carga (como en la expresión “enderezar el lomo”) o domésticos, como en este ejemplo (un perro de caza). 61 d’Esquilo estaría aquí Aristófanes? ¿La tragedia s’ha trastocao en farsa?” Y, jodío como estaba por el chasco de no haber encontrao una señal, una inscripción qu’indicase n’aquella tumba la presencia d’Esquilo, descubrimiento qu’habría confirmao sus tesis, l’habría dao fama en to’ er mundo, tomó la terracota injuriosa y la estampó estrellándola contra la pared de la tumba. El Parlagreco, cabizbajo, había ido a vestirse. La luna tramontaba, cuasi redonda, burlona como el mascarón, don Gregorio le lanzó una última mirada. “Luna, quasi Lucina, oh Reina gobernaora de las cosas naturales interiores…” repitió para sí. Y después, citando a Trismegisto26: “Detrimentum Lunae est detrimentum totius naturae…”. «Pero es creciente, creciente, ¡cochino demonio!» prorrumpió. Desde oriente ahora, del lado de Piazza y de la gran montaña que humeaba, se expandía un claror color rosa. «Don Gregorio, ¿vamos? Dentro d’una miaja tengo que vorver aquí a la faena…» le dijo Parlagreco. «Vamos, vamos» respondió don Gregorio, haciéndose ayudar para salir de la tumba. «Antes debemos recoger estas cosas… Estas vasijas me las llevo a casa, las quiero estudiar, quiero entender, entender por qué…». «¿Qu’hay qu’entender abora?…». «Po’ hay que, hay que…». Y el Parlagreco, para poner priesa, poner en marcha a ese fulero, recogió vasijas, platos, jícaras, luminos, los echó todos dentro del saco. 26 La identidad y datación de Hermes Trismegisto (cuyo nombre designa al dios mitológico tres veces grande) son inciertas y legendarias. Se le atribuye la autoría del Kybalion y del Corpus Hermeticum, un compendio de ideas filosóficas y religiosas de origen egipcio y griego. En todo caso, Hermes Trismegisto es considerado el primer alquimista, es decir el primero en buscar la piedra filosofal que trasmute la materia en oro. 62 Llegaron a la entrada del pueblo cuando los otros labradores salían, sobre sus mulas, asnos, yeguas. Saludaron, al cruzarse, al Parlagreco, y con respeto también a don Gregorio asentado sobre la mula, con el saco de vasijas apretado contra la barriga. Parecían así, los tres, una Huída a Egipto. Liada la mula a una argolla de la pared, Vito descargó las cosas de Nànfara y subió con él a su casa para ayudarlo. «Asiéntate» le dijo don Gregorio. «Hago café». «Tengo qu’irme. La paya está en peso…». «Dos minutos…». Don Gregorio, se quitó el ojo de cristal y echándolo en el vaso, se puso a trajinar con la cafetera napolitana. Bebieron el café, fumaron, escudriñándose mutuamente pa’ averiguar por dónde iba a salir ca’ cual. Vito temía que le fuese a pedir aún más perras. «¿Tiés hambre, Parlagreco? Yo desde ayer a mediodía no he catao bocao». «¡Ande que yo!». «Tengo magra…». Y al instante puso sobre la mesa pan, queso y una botella de vino de Favara. «Tú quizá pienses» empezó a decir don Gregorio masticando «qu’ha sío curpa mía… Yo estoy en paz, en conciencia, he hecho to’ según las leyes rituales… ¿Qué te crees? Pasé to’ er tiempo, desde que te fuiste, leyendo, consultando libros… Pero argo ha pasao, que ni yo, ni tú, ni tan siquiera los libros han previsto… Es esto lo que m’esfuerzo por entender… Dime: ¿tuviste sueños, señas, viste cosas raras enantes de dar con esta tumba?». «Boh… Sueños, naíca. Señas, cosujas sin importancia… Ayer pasó por Sofiana un cabrerico con las ovejas, un zagal múo… Luego, una bandá d’airones que migraba… Y er cabrerico, Tanu, me dejó como regalo un liebro qu’había matao con su honda». 63 «Ah, ¡cochino demonio!» tonó don Gregorio dando un puñetazo sobre la mesita. «¡¿Y no m’has dicho na’ enantes?!». «Osté no me preguntó na’…». «¿Y hacía farta?… Parlagreco, aquel no era un cabrerico de verdá, un zagal humano, era un visivilo disfrazao, un martinico… Y er liebro, er liebro, ¿qu’hiciste con él?». «Lo dejé allá, sobre er poyete… No me gusta na’. Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza…». «¡Desgraciao! ¡Debías habértelo comío, haberlo comío, anque crúo!». Vito se sintió humillado por esta acusación que lo culpaba del fracaso. Tomó, para animarse, la botella de vino y llenó con furia el vaso. Se lo tragó de golpe. Pero, al beber, ingirió también algo sólido y liso. «Don Gregorio» preguntó, dejando el vaso sobre la mesita «¿qu’había n’er vino?». «¿Qu’había?» y don Gregorio miró en transparencia la botella, miró después el vaso vacío. «¡ Desgraciao!» bramó «¡Mi ojo! ¡T’has tragao mi ojo!». «¡Ah!» dijo Parlagreco escupiendo en el suelo con angustia. Enseguida, con la calor de la cara subiéndole a las cejas: «¡Pero cegato asqueroso!… ¿Pero es que se mete el ojo n’er vaso?». «¿Y ande lo meto, eh? ¿N’er culo me lo meto? Es una custión d’higiene, d’higiene… Claro, que vusotros perullos qué vais a entender…». «Yo me largo». Don Gregorio, de un brinco, alcanzó la puerta de la habitación. «¡Tú no te mueves d’aquí si enantes no me cagas el ojo!» le intimó «Es más, voy enseguía a mercar sal inglesa» y diciendo esto, salió, cerrando la puerta a sus espaldas acerrojándola con todas las llaves. 64 IV. RELACIÓN COMENTADA DE REGIONALISMOS Y OTROS MATICES DEL TEXTO El estudio de los regionalismos y de otros matices relevantes a la hora de traducir “Filosofiana”, tal y como se llevará a cabo en este apartado, se centra en el comentario de aquellos vocablos por los que he optado para la traducción al español. Según queda señalado en la Introducción, en esta segunda edición he hecho extensivo a todo el relato el habla murciana, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto italiano. Con todo, dentro del discurso narrativo he procurado limitarlo a aquellos pasajes en los que –detrás de la voz del narrador– se percibe el pensamiento o la cosmovisión del personaje, y no en los meramente descriptivos o en aquellos otros, mucho más poéticos en los que claramente habla Consolo. Naturalmente los regionalismos y las singularidades del habla murciana se encuentran presentes en los diálogos y, al igual que en la primera edición, en los casos en que aparece un sicilianismo en el texto original. Como ya he anticipado en el prólogo a la presente edición, la secuencia de los términos comentados en el glosario sigue en esta segunda edición un orden alfabético que permitirá localizarlos de manera rápida y efectiva, en lugar de seguir el orden de aparición en el texto traducido, tal y como sucedía en la primera edición. Tampoco quedan señalados los términos comentados en el corpus de la traducción mediante asteriscos, pues se hace innecesario gracias a la nueva ordenación alfabética. 65 Por último, las equivalencias al italiano de los términos comentados en el presente glosario corresponden únicamente a las de su primera aparición en el relato de “Filosofiana”. Conviene tener presente, sin embargo, que a menudo estos mismos términos vuelven a aparecer en otros contextos a lo largo de la narración. a luego a luego: poi (Le pietre…, p. 79) La locución adverbial “a luego a luego” ha caído en desuso en España hasta el punto de que el diccionario de uso de María Moliner (2007) la omite, a pesar de que el DRAE (2001) la sigue recogiendo. En la región murciana y más concretamente en el campo lorquino sigue siendo una expresión habitual y de uso corriente. Me ha parecido oportuno emplearla aquí, durante la intervención de Parlagreco, porque sin ser regionalismo (como tampoco lo es poi) rinde el valor arcaico propio del habla rural. En otro pasaje posterior del relato, esta misma locución permitirá reflejar en su propia estructura formal la repetición presente en el original: Dappoi, dappoi (Le pietre…, p. 89). a mujeretas: a modo femminino (Le pietre…, p. 89) Aún cuando este regionalismo murciano se utilice en singular con el sentido de “hombre afeminado”, la locución plural “a mujeretas” empleada para hacer alusión a la forma de montar (a caballo, mula, etc.) significa simplemente montar sentado en amazona, con las dos piernas de un lado. a poco a poco: a mano a mano (Le pietre…, p. 76) Expresión murciana con prótesis de la “a” inicial en lugar de “poco a poco”, que rinde la estructura de la locución a mano a mano. abora: ora (Le pietre…, p. 81) Regionalismo propio del habla murciana, que alterna con las variantes “aboa”, y “agora”, equivalentes todas de “ahora”. 66 acucunaíco: accovacciato (Le pietre…, p. 79) Regionalismo propio del habla murciana, de uso corriente. Significa “acurrucado”, “encogido”, “arrinconado”. achispao: imbriaco (Le pietre…, p. 86) Esta voz (“achisparse”) es un regionalismo popular con el sentido de “excederse con la bebida, emborracharse”, valor que se corresponde con el término siciliano imbriaco. al reor de las: torno alle (Le pietre…, p. 75) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “alrededor de”. alcaciles silvestres: carciofi di ventura (Le pietre…, p. 75) El vocablo “alcacil” es una forma popular para designar la alcachofa, aunque no se circunscribe únicamente a la región murciana, ya que también se emplea en otras regiones. aljibes: gèbbie (Le pietre…, p. 76) A pesar de que no se trata de un regionalismo propiamente dicho puesto que este término se utiliza en toda España con distintos matices, en Murcia la valencia semántica de este vocablo se corresponde exactamente con la gèbbia siciliana. Ambos comparten la misma etimología. En Sicilia, el término “gèbbie” deriva del árabe clásico “gˇibb”, al tiempo que en Murcia la palabra “aljibe” proviene del árabe hispánico “algˇibb”. ¿Ande vas?: Dove vai? (Le pietre…, p. 79) Modificación fonética mediante contracción, propia del habla murciana. Equivale a “a dónde (vas)”. angustia: con smorfia di sconcerto (Le pietre…, p. 85) Regionalismo semántico del habla murciana, que limita el término a 67 una sola de las múltiples acepciones recogidas por el DRAE: (“náuseas” o “ganas de vomitar”), con idéntica valencia a la del vocablo siciliano scuncirtatu (estar con náuseas). De ahí que “tener o sentir angustia” en el sentido de “tener náuseas” se pueda considerar un regionalismo semántico del habla murciana. Bien es verdad que en italiano la palabra italiana sconcerto significa “estar confuso o desconcertado”, y que también en el resto de España la palabra “angustia” se utiliza extensivamente en su primera acepción de “congoja” o “ansiedad”. Con todo el uso de sconcerto en la narración de Consolo se corresponde con la acepción semántica del vocablo siciliano, por lo que la forma murciana utilizada en la traducción es la que mejor rinde esta valencia regional. Aparecerá de nuevo al final del relato: sputando a terra sconcertato (Le Pietre…, p. 97), traducido como “escupiendo en el suelo con angustia”. anque: sia pure (Le pietre…, p. 90) Modificación fonética por supresión de una vocal, propia del habla murciana (“anque” por “aunque”). apañás: bellissime (Le pietre…, p. 77) El término lumbrerense “apañada” (aquí con la supresión de la “d” intervocálica para rendir mejor la fonética regional) alude sobre todo al aspecto físico y viene a ser sinónimo de “guapo” o “de buen ver”. argo: qualcosa (Le pietre…, p. 96) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. (se) asentó: sedé (Le pietre…, p. 75) La forma “asentarse” proviene de la modificación mediante prótesis de la “a” del término “sentarse”. Se trata de un uso propio del campo murciano. Aunque en realidad, el término existe como tal. De hecho viene recogido en el DRAE. Con todo, ya no se emplea con esta acepción 68 de “sentarse”, como no sea en el habla regional. Idéntica forma aparecerá más adelante en el texto original, asséttati (Le pietre…, p. 95), ajustándose perfectamente al vocablo “asentarse”. Esta voz, habiendo caído también en desuso en italiano, permanece en vigor como regionalismo. arguien: alcuno (Le pietre…, p. 85) Mutación de la “l” por “r” (“arguien” por “alguien”), propia del habla murciana. argún: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argún” por “algún”), propia del habla murciana. Lo mismo sucederá con la forma femenina: “arguna” por “alguna”. argo: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. artura: altezza (Le pietre…, p. 90) Mutación de la “l” por “r” (“artura” por “altura”), propia del habla murciana. aspeao: stanco (Le pietre…, p. 80) Regionalismo propio del habla murciana, que significa “cansado”, “agotado”, con la pérdida intervocálica de la “d”. avíos: cose per mangiare (Le pietre…, p. 77) El término “avíos” se utiliza en el campo para aludir a la “provisión que se lleva al hato para alimentarse”. En otros contextos puede significar un conjunto de utensilios o herramientas, así como de otra clase de enseres. No me ha parecido oportuno en este caso optar en español por una traducción literal (“las cosas para comer”) porque rompe el carácter rural del discurso. 69 ayudarme, cambiarme: aiutatemi, cangiate (Le pietre…, p. 83) El uso del infinitivo en lugar del imperativo es propio del habla regional y se emplea de forma habitual en el campo murciano. bancal: tumulo di terra (Le pietre…, p. 75) Esta medida, la del tumulo, corresponde aproximadamente a la de un bancal en la zona murciana. boca de su horno: bocca del suo forno (Le pietre…, p. 92) En los ámbitos populares el “horno” se utiliza como expresión burlona para calificar las bocas grandes (“tienes la boca como un horno”). botijos: bombole (Le pietre…, p. 75) En Sicilia el término bombola indica más que una bombona, un recipiente de barro para mantener el agua fresca. Corresponde por tanto a nuestros botijos y cántaros. ca’ espuntar: a ogni rispuntar (Le pietre…, p. 78) Alteración fonética propia del habla rural murciana en la que el término “cada” se reduce por apócope. Equivale a “cada despuntar”. caballones: montarozzi (Le pietre…, p. 76) Regionalismo utilizado en todo el campo murciano y, en particular, en el de Lorca. Designa los montículos de tierra o de otros materiales que se acumulan entre surco y surco o también en los lindes de los terrenos y bancales. cabrerico: garzoncello (Le pietre…, p. 78) En español existe la palabra “garzón” pero con el significado de “joven mancebo”, ayudante de Guardia de Corps. Otra de sus acepciones es la de “joven sodomita”. Ninguna de ellas, por supuesto, se asemeja al sentido de garzone, a pesar de que se trata obviamente 70 del mismo vocablo. Por esta razón no he podido utilizar “garzón” en la traducción. Con todo, para rendir el matiz aportado por la forma siciliana garzoncello he recurrido una vez más al sufijo “ico”, propio del habla murciana. cachifollá: fallita (Le pietre…, p. 84) No se trata de un regionalismo propiamente dicho. De hecho, el término “cachifollar” aparece recogido en el DRAE. Ha caído en desuso pero sigue vigente en el habla de la región lorquina. Aquí “cachifollá” significa “estropeada”. calistros: calipso (Le pietre…, p. 75) Regionalismo de Lorca y Puerto Lumbreras. Tanto en Sicilia como en la región murciana, la deformación de la palabra culta “eucalipto” se produjo de la misma manera mediante aféresis del diptongo “eu” y alteración de consonantes. (la) calor de la cara subiéndole a las cejas: facendosi paonazzo (Le pietre…, p. 97) En el campo murciano la palabra murciana “calor” se utiliza mayoritariamente en femenino. Toda esta perífrasis no es un regionalismo propiamente dicho, pero sí una expresión con un grafismo típicamente popular para indicar el enrojecimiento de la cara producido por una cólera o indignación súbita muy violenta. El poeta y escritor de Cuevas de Almanzor, José María Martínez Álvarez de Sotomayor, recurre frecuentemente a ella. cansera: fatica (Le pietre…, p. 80) Preciosa palabra anticuada pero que volvió a tomar un nuevo vigor a raíz del poema “Cansera” –escrito en regionalismo murciano– del poeta murciano Vicente Medina (1866-1937), siendo actualmente la que se utiliza corrientemente en todo el campo de Murcia para 71 indicar a la vez el cansancio físico y el moral. Adopta en otras regiones españolas distintos significados (en Andalucía, por ejemplo, “tener una cansera” es el eufemismo para “estar tuberculoso”). cañadú: cannamèle (Le pietre…, p. 76) El término “caña de azúcar” es el empleado mayoritariamente en España con preferencia a los de “cañaduz” y “cañamiel” siendo sinónimos entre sí (DRAE y MM). Sin embargo, tanto en el campo murciano como en el de la zona de Levante, los labriegos utilizan la voz “cañadú” con apócope del fonema “z” final convirtiéndolo así en un regionalismo, que corresponde a cannamèle, si bien no alude exclusivamente a la caña de azúcar. En la zona de Águilas este término se utiliza para referirse a una clase de naranjas especialmente dulces. También existe el vocablo “palodú”, que designa cualquier planta de sustancias dulces, como el regaliz o el orozuz, y que en algunos ámbitos rurales se confunde con la caña de azúcar. Por su parte, el regionalismo “cañadú”, al ser menos usual, consigue evocar en un lector de otras regiones de España las mismas valencias que la palabra “cannamèle” en italiano. carma: calma (Le pietre…, p. 89) Mutación consonántica de la “l” por la “r” (“carma” por “calma”), propia del habla murciana. cascajera: ciaramitàra (Le pietre…, p. 75) Regionalismo ampliamente utilizado en todo el campo murciano que significa un terreno en donde se echa toda clase de desperdicios y, sobre todo, tiestos y trozos rotos de barro. casquijos: ciaramìte (Le pietre…, p. 75) El regionalismo murciano “casquijos” indica toda clase de guijarros y pedazos, principalmente piedras pequeñas y restos de vasijas de barro. 72 cenia: sènia (Le pietre…, p. 76) El término sènia ya no es propiamente un sicilianismo porque se ha incorporado al vocabulario italiano (cf. Mortillaro). Tampoco “cenia” es un regionalismo propiamente dicho, si bien se utiliza sobre todo en Valencia y en algunas zonas del Levante en lugar de “noria”. Tanto “cenia” como sènia son en todo caso menos usuales que “noria” y su correspondiente italiano noria, al tiempo que comparten idéntico sabor añejo. cimiterio: cimiterio (Le pietre…, p. 75) Se trata de la alteración fonética de la palabra “cementerio”, propia de los ambientes rurales de la región murciana. También la palabra cimiterio del original presenta una ligera modificación regional. corgando: pendula (Le pietre…, p. 81) Mutación de la “l” por “r” (“corgando” por “colgando”), propia del habla murciana. cormá: ricolma (Le pietre…, p. 82) Mutación de la “l” por “r” (“cormá” por “colmada”), propia del habla murciana. En este caso, también se ha contraído la terminación en “-ada”. creatura de mudez, de solitud: creatura mùtola, solinga (Le pietre…, p. 85) En español los adjetivos “mudo” y “solitario” no rinden el valor literario, lleno de resonancias arcaicas, que encierran las voces italianas mùtola y solinga. Por esta razón he preferido recurrir a los sustantivos “mudez” y “solitud”, anticuados y también literarios, para conservar el sabor añejo que ha querido transmitir Consolo, sin traicionar por ello el sentido del original. De igual modo y por idénticas razones, he optado por la forma “creatura”, que ha perdido cierta vigencia en el español de hoy en favor de “criatura”. 73 cuarterola: quartàra (Le pietre…, p. 82) Palabra en desuso pero que se corresponde exactamente con la voz siciliana quartàra. Se trata de la cuarta parte de un barril u otro recipiente. cucalas: ciàule (Le pietre…, p. 75) En Murcia, sobre todo en el campo de Lorca, se utiliza el término “cucala” para toda especie de pájaros negros, desde los cuervos hasta las cornejas. curpa: colpa (Le pietre…, p. 86) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. chicoria: cicorie (Le pietre…, p. 76) Término que alterna con el de “achicoria” en español. Al igual que cicorie, no se trata de un regionalismo. He optado por la forma “chicoria” por ser la que mejor se corresponde con la italiana y por tratarse además de la variante regional murciana. dalante atrás: avant’arriere (Le pietre…, p. 78) Regionalismo murciano. Equivalente exacto del avant’arriere siciliano, trasunto de los dos adverbios franceses avant y arrière: delante y detrás. dende la mañana dasta la tarde: da mane a sera (Le pietre…, p. 78) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “desde la mañana hasta la tarde”. desencantadura: spegnatura (Le pietre…, p. 88) Se trata de un neologismo consoliano. Para mantener el mismo valor lingüístico y literario de spegnatura he reproducido su creación con otro neologismo. 74 empedrao: macco (Le pietre…, p. 77) Forma popular de la palabra “empedrado”, con pérdida de la “d” intervocálica. Es el típico guiso del campo murciano, hecho a base de habas y de arroz, semejante pues al macco siciliano. enantes: avanti (Le pietre…, p. 88) Forma propia del habla campesina de Murcia, en la que se combina la preposición “en” con la locución “antes de”, probablemente por la elisión de un gerundio (como por ejemplo “en llegando antes de”), y que se usa con el sentido de “antes de”. encomedias de: fra mezzo a (Le pietre…, p. 75) Esta preciosa locución preposicional lorquina, “encomedias de”, significa exactamente “en medio de”. También existe la forma masculina singular “encomedio de” con el mismo valor. Ambas locuciones rinden el sabor del original. enderezar el lomo: rizzare la sua groppa (Le pietre…, p. 76) Tanto el término italiano groppa, como el español “lomo” se utilizan principalmente para aludir a la espalda de los animales. Según me hizo observar pertinentemente Segre, Consolo lo emplea de manera consciente para subrayar la animalidad del duro trabajo en el campo del labrador, por lo que en la presente edición he querido rendir la misma valencia conservando la literalidad del original por medio del término “lomo”. De esta manera también se subraya el contraste con la expresión posterior “ponerse derecho como un hombre”. er día: il giorno (Le pietre…, p. 78) La forma “er” es una deformación fonética propia del campo murciano en la que se ha producido la mutación consonántica de la “l” por la “r”. Se trata de una constante fonética típica del habla rural de esta región y se encuentra presente no sólo en los artículos seguidos de consonante 75 (“er” por “el”, “ar” por “al”), sino también en muchas otras palabras (“argo” por “algo”, “farta” por “falta”, etc.). escullir: scivolare (Le pietre…, p. 78) Regionalismo semántico propio del habla murciana, que significa “resbalar”, “deslizar”, “caer” (aunque viene recogido en el DRAE). Este mismo verbo (“esculló”) se hará corresponder también con infilò (Le pietre…, p. 83), que aparecerá más adelante en el texto. faena: travaglio (Le pietre…, p. 77) El término “faena” no es propiamente un regionalismo, como tampoco lo es en puridad travaglio. Con todo, uno y otro aluden a un trabajo laborioso. Por su parte, la palabra “faena” es la que se usa en toda la zona del Levante para aludir de forma habitual y popular a toda clase de trabajo duro, pero sobre todo al agrícola. fanega y media: mezza salma (Le pietre…, p. 75) La palabra “fanega” es la medida de tierra que se utiliza en todo el Levante. Existen dos clases de fanega: la grande y la pequeña. En el campo murciano se utiliza más la grande, que equivale casi a una hectárea. Para ofrecer la equivalencia que más se aproxima a la medida de tierra del original he traducido mezza salma por “fanega y media”, ya que la salma tiene una medida superior a dos hectáreas. El término español “salma”, tomado del italiano, se sigue utilizando en la zona Mediterránea pero como medida de capacidad equivalente a una tonelada. farta: bisogno (Le pietre…, p. 96) Mutación consonántica en la que se intercambia la “l” por la “r” (“farta” por “falta”), propia del habla murciana. fieros: foresti (Le pietre…, p. 77) En algunas zonas de España el adjetivo “fiero” ha caído algo en desuso con el valor semántico de “feroz”, aunque en la zona lorquina se sigue 76 empleando de forma habitual con esta misma valencia. Se podría considerar por lo mismo un regionalismo. garullos y pavos: ciurri e pavoni (Le pietre…, p. 76) Puesto que no existe un regionalismo específico para nombrar al pavo, he elegido la palabra “garullo”, relativamente poco conocida, para mantener el mismo efecto de sorpresa lingüística en un lector español que Consolo consigue en italiano con la palabra ciurri. hato: trùscia (Le pietre…, p. 77) Término manchego muy utilizado en el campo lorquino. Se trata de una tela gruesa dentro de la cual se lía la comida que se lleva el trabajador para el día. hombrón: omone (Le pietre…, p. 86) He optado por “hombrón” en lugar de “hombretón”, que es sin embargo más usual, por su similitud fonética con el original omone. Pirandello fue el primero en Italia en utilizar literariamente este aumentativo, que a partir de él se divulgaría ampliamente. hormiguicas: formicole (Le pietre…, p. 78) Aunque formicole no sea un diminutivo, se trata de una forma propia del siciliano (en lugar de formiche). En este caso he optado por el diminutivo del término “hormiga”, empleando el sufijo regional de origen aragonés “-ico”, que es habitual en el habla murciana. Con ello, se rinde el mismo empleo del regionalismo que en el original. imperscrutable: imperscrutabile (Le pietre…, p. 86) He conservado el mismo tono culto, algo rebuscado, del término imperscrutabile, optando por el vocablo español “imperscrutable” (en lugar de “inescrutable”), que rinde el carácter literario del vocablo italiano. 77 inseculorum sécula: seculi e seculorum (Le pietre…, p. 77) España, como Italia, sigue manteniendo vivas en la lengua expresiones latinas, ya sean éstas clásicas o eclesiásticas. En los ámbitos rurales dichas expresiones padecen una lógica deformación fonética. ivernada: invernata (Le pietre…, p. 80) Arcaísmo que sigue vigente en el habla murciana. Al igual que sucede con el término “ivierno” (“invierno”), este tipo de regionalismos permanece más fiel a su etimología latina. jinjolero: zìzzole (Le pietre…, p. 76) El autor no eligió esta vez un regionalismo, sino que empleó el clásico término zìzzole (“azufaifos”). En la región murciana se utiliza la palabra “jinjolero” para designar dicho árbol frutal, siendo este vocablo más conocido que su sinónimo “azufaifo”. Aunque en la primera edición, por razones de similitud fonética con el original, había optado por “azufaifo”, para esta segunda edición he preferido emplear el término con mayor sabor regional. jugaban a coscoletas: giocavano in groppa (Le pietre…, p. 77) La expresión habitual murciana que se corresponde con la española estándar “a caballito” es “a coscoletas”. Aún cuando Consolo haya prescindido de un regionalismo siciliano, también en esta ocasión he preferido privilegiar la forma regional. lampo: lampo (Le pietre…, p. 78) Ambos términos, el italiano y el español, comparten idéntica etimología, del bajo latín “lampare” (brillar). La palabra española “lampo” ha caído en desuso en buena parte de España, aunque se sigue utilizando en la región murciana, donde se conserva también en algunas localidades la variante “llampo”. En Puerto Lumbreras el empleo de “lampo” sigue vigente y significa “relámpago”, así como “rapidez” y “fugacidad” en su acepción metafórica. 78 lebrillas: lemmi (Le pietre…, p. 75) En Murcia se emplea la forma femenina “lebrilla” para indicar un cuenco más pequeño que el “lebrillo”. lenjos: lontano (Le pietre…, p. 79) La incorporación de una “n” después de la vocal en muchas palabras es típica del habla murciana. Se trata de una alteración fonética de uso muy extendido en las zonas rurales (“lenjos” por “lejos”, “muncho” por “mucho”, etc.). lero: tarantole (Le pietre…, p. 75) El nombre que se da a la tarántula en Lorca y Puerto Lumbreras es “lero”, término que no se recoge en el DRAE por ser propiamente un regionalismo. liebro: lepre (Le pietre…, p. 81) La forma “liebro” viene recogida en el DRAE y se usa para hacer referencia al macho de la liebre. Con todo, en la zona murciana es el término que los cazadores utilizan habitualmente para referirse en general a las liebres. liopardos: liopardi (Le pietre…, p. 77) Idéntica alteración fonética en las dos zonas, la siciliana y la levantina, con el mismo cambio de vocal. luminos: lumere (Le pietre…, p. 83) Regionalismo murciano que significa “lamparilla de aceite”. martinico: monachino (Le pietre…, p. 96) Tanto el DRAE como el MM dan únicamente a este término la valencia de “duende” o “fantasma”, sin mayor especificación. En cambio, en la región murciana (principalmente en la ciudad de Murcia donde se 79 sigue utilizando corrientemente) se identifica al “martinico” con el duende juguetón que reside principalmente en las casas. Se puede por lo tanto considerar este término (enriquecido con esta acepción) como un regionalismo característico de la zona. El valor semántico de esta palabra se identifica plenamente con la del monachino siciliano. mercao: accattata (Le pietre…, p. 75) En italiano accattare significa “pedir, adquirir con esfuerzo”, al tiempo que en siciliano es simplemente “comprar” (cf. Mortillaro). Sin embargo, Consolo me aclaró que eligió este verbo para indicar que Parlagreco había comprado “con muchos sacrificios” su terreno. Para rendir este regionalismo al habla murciana, he elegido el término “mercar”, que también significa “comprar”. Este vocablo, que ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional, viene recogido en el DRAE y se sigue utilizando en la región murciana. mesmamente: veramente (Le pietre…, p. 88) Regionalismo murciano, muy en uso todavía hoy en día en ámbitos rurales. Se trata de una modificación fonética mediante el cambio vocálico de “mismamente”. Significa “precisamente”, “cabalmente”. mis mortichuelos: morticelli miei (Le pietre…, p. 83) Regionalismo específico de la zona murciana en donde alterna también con la forma “mortisuelo”. Este término se emplea sobre todo para aludir a los niños que mueren al nacer. Por afinidad se extiende afectivamente a los muertos más íntimos. Por razones fonéticas he preferido la forma “mortichuelo” que conserva el fonema “ch”, presente en el regionalismo siciliano. moros o por bandoleros: saracini o da briganti (Le pietre…, p. 82) En puridad, el término saracini corresponde a “sarracenos”, al tiempo que briganti equivale a “bandidos”. Con todo, si bien en Sicilia el 80 término saracini se impuso en el habla popular después de que los tradicionales puppi siciliani y los canta storie divulgaran el Orlando furioso, en el sur de España el vocablo de uso equivalente es “moros”. De igual forma, la forma “bandoleros” corresponde a la designación más extendida para aludir a los “bandidos” no sólo en Andalucía, sino también en las regiones colindantes, como es el caso del campo lorquino. murmujeando: mormorando (Le pietre…, p. 94) Regionalismo semántico murciano que significa “murmurar”. naíca: niente (Le pietre…, p. 96) Se trata de la forma diminutiva de «na’» (contracción de “nada”), profusamente utilizada en la región murciana. nenes: infanti (Le pietre…, p. 77) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo. Ambos términos poseen valencias semánticas similares. El término italiano ha caído en desuso en mayor o menor grado en su primera acepción (la que designa a un niño menor de siete años), siendo precisamente éste el valor que Consolo le otorga en su relato. En español, la palabra “nene” se emplea también para aludir a un niño de corta edad siendo su uso especialmente extendido en la región de Murcia. Osté: Vossia (Le pietre…, p. 85) Regionalismo rústico murciano, que consiste en la modificación fonética de “usted”. paya: moglie (Le pietre…, p. 96) Aún cuando el término “payo-a” se encuentre recogido en el DRAE con el significado de “aldeano”, sin embargo en el campo de Lorca y en general en los ambientes rústicos de la región murciana se emplea 81 como equivalente de “mujer”. En compañía del artículo (“la paya”) este vocablo alude a la esposa del que habla. perola: pignatta (Le pietre…, p. 82) El término “perola” no es un regionalismo propiamente dicho, pero se trata de la palabra que se utiliza comúnmente en la región murciana para designar un recipiente en forma de olla. Observemos que el siciliano pignatta ha dado “piñata” en español con otra connotación. De hecho, la “piñata” se reserva casi exclusivamente para las fiestas infantiles. perras: soldi (Le pietre…, p. 96) Las voces “cuartos” y “perras” (siempre en plural) son familiares o populares, como lo es soldi, y coexisten en toda España. No se trata por tanto de regionalismos, como tampoco soldi es un sicilianismo. Con todo, en algunas regiones se utiliza una de las dos con preferencia a la otra. Dado que en la zona murciana prevalece “perras” y con objeto de dar uniformidad a la traducción he optado por esta última. perullos: villani (Le pietre…, p. 90) En el texto original el término villani aparece alternando con la palabra contadini. Don Gregorio utiliza despectivamente la palabra antigua villani para indicar a Parlagreco que es un ignorante palurdo, incapaz de entender su alto razonamiento. Este matiz está perfectamente encerrado en el regionalismo murciano “perullo”, empleado despectivamente por el murciano de ciudad para burlarse del murciano de campo, de su falta de educación y de su lenguaje popular. No procedía hacer uso de la voz “villano”, porque una de sus valencias semánticas se deriva de la evolución de su significado, que con el tiempo ha llegado a significar “ruin, indigno, indecoroso” (DRAE). El vocablo italiano, en cambio, no presenta esta segunda acepción de descalificación moral que se encuentra en “villano”. 82 pesambres: stenti (Le pietre…, p. 83) En Murcia existe el regionalismo “pesambres”, contracción de “pesadumbre”, que cubre un amplio espectro semántico para expresar precisamente estos sentimientos de dolor, de pena y de penurias que forman el tejido de toda vida humana pero quizá más especialmente la de los labradores. Petrosela: Petrosella (Le pietre…, p. 92) El término petrosella alude al perejil. Procede del griego “petrosélinon” (apio que crece entre las hierbas), compuesto de “pétra” (piedra) y de “sélinon” (apio). La antigua ciudad griega de Sicilia, Selinonte, tomó su nombre de esta palabra. Por razones de estilo y para rendir el valor lingüístico y literario del original he mantenido el mismo vocablo. Po’ hay que: Eh, c´è (Le pietre…, p. 95) La forma «po’» presenta una mutación fonética mediante la reducción del diptongo y la característica pérdida de la “s” final. Significa “pues”. poyo: scaricatore (Le pietre…, p. 77) Aunque la palabra “poyo” no sea un regionalismo murciano propiamente dicho, ha caído en desuso en el resto de España. Con todo, se sigue utilizando habitualmente en la zona de Murcia y es por lo mismo el término que mejor se corresponde con el vocablo siciliano scaricatore. priesa: prescia (Le pietre…, p. 89) Aunque existen en español bellísimos términos que expresan esta misma idea (como “presura” o “premura”), he preferido el vocablo “priesa”, de resonancias arcaicas, en el que se produce una epéntesis de la vocal “e” (en lugar de “prisa”). Esta voz en desuso subsiste todavía en algunos ámbitos rurales y regionales, como en la zona de Puerto Lumbreras. Además, la elección de “priesa” rinde mejor que ninguna la cadencia fonética de la voz regional prescia. 83 protestantes: protestanti (Le pietre…, p. 87) El término “protestante” tenía en España las mismas connotaciones que en Italia. Se empleaba para designar a los ingleses y alemanes, haciendo un uso extensivo del término “protestante” por ser ésta la religión que profesaban mayoritariamente. A nivel popular este valor se siguió conservando hasta hace relativamente poco tiempo. queso de cabra con pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78) Composición del queso tomazzo. queso frito: tomazzo (Le pietre…, p. 77) Comida típica de los labradores en toda la zona del Levante que consiste en queso de cabra frito con tomate y pimienta. Consolo más adelante indica en el relato que el queso de cabra que come Parlagreco lleva pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78). Se puede deducir, por tanto, que se trata de un queso de cabra similar al que come Parlagreco dentro de las muchas variedades del queso de cabra típico del ámbito Mediterráneo. ¡Quia!: Mai (Le pietre…, p. 85) Interjección coloquial y popular muy utilizada en las zonas rurales de Puerto Lumbreras. Viene recogida en el DRAE, aunque ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional. Deriva de “qué ha [de ser]” y viene a significar lo mismo que otra interjección de uso vigente en toda España: “¡Qué va!”. Con todo “quia” tiene un valor aún más enfático por pertenecer al habla rural. Quieto parao: Statti sodo (Le pietre…, p. 85) Locución adverbial empleada en la región murciana y que goza actualmente de gran popularidad en toda España gracias al influjo de un personaje televisivo. Se trata de una expresión con gran poder conminativo, que exhorta a permanecer inmóvil allá donde se esté. 84 roalico de tierra: fazzoletto (Le pietre…, p. 75) Regionalismo murciano, utilizado sobre todo en el campo lorquino, para indicar un trozo pequeño de tierra. El término se corresponde semánticamente con el fazzoletto utilizado por Consolo en el original. ¡San Liberador!: Santo Liberante! (Le pietre…, p. 87) Exclamación popular siciliana utilizada para invocar a un santo imaginario que “libera” y protege de todo mal al que lo invoca. Se trata por consiguiente de un santo “liberador” de males. se platicaba abonico: si contava sottovoce (Le pietre…, p. 77) El verbo “platicar” es un vocablo popular típico de todo el Sur de España, especialmente en las zonas rurales. No sólo tiene el valor semántico de transmitir información sino también de comentar aquello que se está diciendo, acepción que se corresponde con la del verbo contare. Por lo que respecta a sottovoce, existe el regionalismo “abonico”, que significa “en voz baja, despaciosamente, lentamente” y es el que se emplea en el campo lorquino. Literalmente significa “de manera bonita, con voz dulce y suave”. sendica: viòlo (Le pietre…, p. 81) El diminutivo en “-ico” se utiliza profusamente en la región murciana, donde “senda” se emplea en su acepción de camino estrecho en el campo o en la sierra. ¡Sín Señó!: ’Gnorsì! (Le pietre…, p. 88) Esta modificación fonética en la que se añade una “n” final a la partícula de afirmación “sí” es propia del habla rural murciana y se encuentra en otras palabras con la misma terminación en “i”, como “asín” por “así”. Por lo que respecta a “señó”, para rendir la aféresis regional del original (’gnorsì en lugar de signorsì) he optado por la típica fonética murciana 85 en la que se produce la pérdida de la “s” y la “r” en final de palabra. Equivale, pues, a “señor”. sisca: disa (Le pietre…, p. 75) En la región murciana se utiliza la palabra “sisca” (recogida en el DRAE) para aludir a una hierba que nace en las viñas y que sirve para hacer los mantos con que se cubren las barracas. En botánica, el término técnico italiano es ampelodesma, del griego ampelos (viña) y desmos (ligadura). Parece lógico deducir que el italiano disa sea la deformación popular de la palabra culta. Según el Roque Barcia, “ampelodesmo” en español significa “una especie de hierba semejante al esparto con que los sicilianos ataban las vides”. t’adormilaste: t’addormentasti (Le pietre…, p. 86) En la región murciana existe el regionalismo “endormiscarse” con el significado de quedarse involuntariamente dormido debido al cansancio u otro motivo, aunque de uso poco frecuente. Sin embargo, en este caso he preferido “adormilarse” porque rinde mejor la textura fonética del término italiano, que de hecho tampoco es un regionalismo. También transcribo la alteración regional del original en el pronombre “te”. Tajo parejo: Cominciò il suo lavoro (Le pietre…, p. 76) Aun cuando no aparezca ningún término en el texto original que se corresponda con esta locución, tan típicamente lorquina y al mismo tiempo tan propia del habla rural murciana, la idea que se desprende de este pasaje en italiano conviene plenamente con el uso de la expresión “tajo parejo”, empleada precisamente para hacer referencia al trabajo uniforme y metódico, en el que nada queda sin hacer. Esta locución, que tantas veces oí durante la recogida de la almendra en el campo lumbrerense, aporta también el matiz de una perseverancia sistemática en el incansable faenar y en el duro bregar con la tierra. 86 tanimientras: intanto (Le pietre…, p. 90) Precioso regionalismo, empleado con profusión por poetas y escritores murcianos desde Saavedra Fajardo hasta Martínez Álvarez de Sotomayor, que he querido rescatar aquí por su belleza. Significa “entretanto”. ’tate tranquilica: sta’ tranquilla (Le pietre…, p. 89) La forma «’tate» es la alteración por aféresis de “estate” en el campo murciano, que se corresponde perfectamente con sta’. terretremo: tremuoto (Le pietre…, p. 85) Arcaísmo utilizado en la huerta murciana que alterna con “terretiemblo” (por “terremoto”). tesoro escondío: trovatura (Le pietre…, p. 84) Al no existir en español una única palabra que rinda el sentido exacto del vocablo trovatura –regionalismo siciliano que se utiliza sólo cuando se encuentra un tesoro oculto (principalmente monedas de oro)– se hacía necesario traducirlo acompañado de un adjetivo que recogiera esta valencia añadida. tiestos: cocci (Le pietre…, p. 75) En Lorca, el “tiesto” –además de significar “maceta”– alude principalmente a trozos rotos de cualquier vasija de barro, aunque pueden ser de otro material. to’ p’alante hast’acá: diritto fino a qua (Le pietre…, p. 85) Regionalismo del campo de Lorca, en el que se suprimen varias sílabas. Se trata de la contracción de “todo para adelante hasta acá”, con el sentido de seguir un camino “todo recto hasta aquí”. 87 to’ tieso: diritto (Le pietre…, p. 75) Contracción propia del habla rural murciana en la que se suprime la última sílaba. “To’ tieso” equivale a “erguido”. umbligo: bellìco (Le pietre…, p. 92) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo, sino de una alteración popular de los términos “ombligo” y ombelico. Una fuente n’er puentecico /N’er Lanniri siet’aspontico’/ Sabucina e’ jarta d’oro /Testa de lumbre, Testa d’oro…: A lu ponti ci n’è un fonti,/A li Lànniri setti mànniri,/ Sabucina d’oru è china,/Capudarsu, Capu d’oru… (Le pietre…, p. 82) He traducido la cancioncilla que rememora el personaje del relato mediante los siguientes regionalismos: añadiendo algún sufijo en “ico” que me ha permitido hacer la rima; suprimiendo la “s” final de “asponticos” y del verbo “es”, según se pronuncia en la región murciana, así como mediante la elisión de la “e” en la preposición “de” ante vocal. “Asponte” es un regionalismo aragonés que significa “aprisco”, “redil”, utilizado todavía hoy en algunas zonas rurales murcianas. También he empleado la forma contracta y alterada “n’er” por “en el”. Asimismo, he optado por la expresión murciana “jarta de”, deformación regional de la española “harta de”, con el sentido de “llena”, equivalente de la voz siciliana china. Finalmente, he elegido el término “testa” para capu (“cabeza”). Se trata de un vocablo que ha caído en desuso pero que se sigue utilizando en zonas rurales del Levante. Lo mismo sucede con la palabra “lumbre” por “fuego”, igualmente en desuso pero muy vigente en la región murciana a día de hoy. No me ha sido posible conservar las rimas internas que aparecen en el original en los tres primeros versos (ponti-fonti/Lànniri-mànniri/ Sabucina-china), aunque he conseguido darle ese aire rimado al conjunto. La traducción literal de la letrilla viene a ser: “En el puente hay una fuente/En Lànniri siete rediles/ Sabucina está llena de oro /Cabeza de fuego, Cabeza de oro…”. 88 «Uno, Vito»: «Jeu,Vitu» (Le pietre…, p. 80) Regionalismo del campo murciano y andaluz, donde en lugar del pronombre personal “yo” se usa el indefinido “uno”, uso que se corresponde con el regionalismo siciliano jeu. visivilo: scavuzzo (Le pietre…, p. 96) Alteración del fonema “e” por “i”, de la voz “vesivilo” (DRAE: “fantasma, visión” y MM: “fantasma, aparición”). Esta forma alterada se utiliza corrientemente en toda la región murciana, si bien abarca un mayor espectro semántico pues el término sirve para nombrar al duende que habita en un lugar y que de vez en cuando se aparece a los lugareños adoptando distintas formas. En Murcia coexisten las dos formas: “visivilo” y “vesivilo”. El vocablo elegido se corresponde bien con el término siciliano del texto original. (se) vuerven: (si) cangiano (Le pietre…, p. 82) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. zagal: caruso (Le pietre…, p. 78) Según el diccionario Battaglia, el término siciliano caruso alude a un joven empleado en labores agrícolas u otras. Tiene el sentido originario de “cabeza rapada o sin pelo”, porque era así como se debían asear los jóvenes que trabajaban en el campo o en las minas, de ahí que esta palabra se utilice en Sicilia para designar precisamente a estos jóvenes y por extensión a todo muchacho joven. Por su parte, el español posee una amplia gama de voces para cubrir el campo semántico de “muchacho”: zagal, mozo, chaval, rapaz, mancebo, etc. (con sus también variadísimos diminutivos correspondientes). Todas estas voces pueden ser intercambiadas a lo largo y ancho de España y no existe en ninguna zona un regionalismo específico, como es el caso de la palabra caruso en Sicilia. Bien es verdad que algunas regiones 89 españolas utilizan con preferencia un vocablo a otro. Así, por ejemplo, en Galicia se ha generalizado “rapaz”. He optado por “zagal” por ser el término (con su diminutivo “zagalico” y aumentativo “zagalón”) más extendido en la región murciana. También he recurrido a “zagal” en otros pasajes del relato: cuando lo utiliza Vito para referirse a sus hijos, haciendo un uso propio del habla murciana (como en “Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza” que vendría a significar “Tampoco a mi mujer, ni a mis hijos les gusta la caza”), así como, en general, para aludir a muchachos-as muy jóvenes. APARATO BIBLIOGRÁFICO 93 I. OBRA DE VINCENZO CONSOLO27 I. 1. NARRATIVA (Romanzi) • La ferita dell’aprile, Mondadori, Milán, 1963. Reediciones: · “Nuovi Coralli, 181”, Einaudi, Turín, 1977. · “Oscar Oro, 23”, Mondadori, Milán, 1989. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2008, 2010. • Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Turín, 1976. Reediciones: · “Oscar Oro, 9”, Mondadori, Milán, 1987. · Einaudi “Nuovi Coralli,” Turín, 1992. · Einaudi “Scuola”, Turín, 1995. · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1997. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2002. · “Oscar classici moderni, 123”, Mondadori, Milán, 2004. • Lunaria, Einaudi, Turín, 1985. Reediciones: · Mondadori, Milán, 1996. 27 Tan sólo reseño sus libros debido al gran número de artículos publicados en periódicos, revistas, prólogos o introducciones a libros. 94 · “Oscar” Mondadori, Milán, 2003. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Retablo, 1987. La editorial Sellerio publica tres ediciones: · Primera edición: Sellerio, Palermo, colección “La memoria”, 1987. · Segunda edición: Sellerio, Palermo, colección “Il Castello”, 1990. · Tercera edición: Sellerio, Palermo, colección “La rosa dei venti”, 2009. Reediciones: · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1992. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar” Mondadori, Milán, 2009. • Retablo (versione teatrale di Ugo Ronfani), La Cantinella, Catania, 2001. • Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milán, 1988. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1990. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • La Sicilia passeggiata, Eri, Turín, 1991. • Nottetempo, casa per casa, 1992. En 1992 aparecen tres ediciones: · Primera edición: Mondadori, Milán, 1992. · Segunda edición: Edizione CDE spa, Milán, 1992. · Tercera edición: Edizione CDE premi Strega, Milán, 1992. 95 Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 1994. · Collezione “Premio Strega: i cento capolavori”, UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2006/7. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma, 1993. • L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milán, 1994. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1999. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milán, 1998. Reediciones: · Oscar Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Di qua dal faro, Mondadori, Milán, 1999. Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2001. • Amor sacro: en preparación. 96 I. 2. TEATRO (Opere Teatrali) • Catarsi: en Trittico, SanFilippo, Catania, 1989. en Oratorio, Manni, Lecce, 2002. • Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (Atto Unico), Centro di Studi ed iniziative culturali, Palermo, 2009. • L’attesa, Bompiani, Milán, 2010. I. 3. NOVELAS (Racconti) • Neró Metallicó: Il Melangolo, Genova, 1994. Un racconto con 12 finali28, Gremese, Roma, 2009. • Il teatro del sole, racconti di Natale, Interlinea, Novara, 1999. • Isole dolci del Dio29, L’Obliquo, Brescia, 2002. • Siracusa come un incanto, Artestudio, Siracusa, 2003. • Il Corteo di Dioniso30, La Lepre, Roma, 2009. 28 Además de los doce finales diferentes realizados por diversas personas, incluye uno especial diferente del propio Consolo. 29 Incluye quince ilustraciones de Giorgio Bertelli. 30 Se trata de una reciente edición –con ilustraciones de Cecilia Capuana– que reedita Neró Metallicó y Il Teatro del Sole. 97 II. TRADUCCIONES DE LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. LA FERITA DELL’APRILE 1. 1. AL ALEMÁN: • Die Wunde im April (por Bettina Kienlechner y Ulrich Hartmann), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1990. 1. 2. AL ESPAÑOL: • La herida del abril (por Miguel Ángel Cuevas), en preparación para la editorial Barataria. 1. 3. AL FRANCÉS: • La Blessure d’Avril (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 2. IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO 2. 1. AL ALEMÁN: • Das lächeln des unbekannten Matrosen (por Arianna Giachi), Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1984. 2ª y 3ª edición: Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1990 y 1996. 98 2. 2. AL ÁRABE: • (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto), 2009. 2. 3. AL CATALÁN: • El somrís del mariner inconegut (por Alexis Eudald Solà), Ed. Proa, Barcelona, 2006. 2. 4. AL ESPAÑOL: • La sonrisa del ignoto marinero (por Esther Benítez), Alfaguara, Madrid, 1981. • La sonrisa del ignoto marinero (por Giovanni Barone y Mirta Vignatti), Laborde Editor, Rosario (Argentina), 2001. 2. 5. AL FRANCÉS: • Le Sourire du marin inconnu (por Mario Fusco y Michel Sager), prólogo de Leonardo Sciascia, Bernard Grasset, París, 1980 (2ª edición: para la colección “Les Cahiers rouges”, Bernard Grasset, París, 1980). 2. 6. AL INGLÉS: • The Smile of the Unknown Mariner (por Joseph Farrell), Carcanet, Manchester, 1994. 3. LUNARIA 3. 1. AL ESPAÑOL: • Lunaria (por Irene Romera Pintor), Centro de Lingüística Aplicada Atenea, Madrid, 2003. Premio Internacional a la Traducción de Obras literarias y científicas 2004, otorgado por el Ministerio de Asuntos Exteriores Italiano. 99 3. 2. AL FRANCÉS: • Lunaria (por Brigitte Pérol y Christian Paoloni), Le Promeneur, París, 1988. 4. RETABLO 4. 1. AL ALEMÁN: • Retablo (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien / Bozen, 2005. 4. 2. AL ÁRABE: • En preparación (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto). 4. 3. AL CATALÁN: • Retaule (por Assumpta Camps), Edicions de la Magrana, Edicions 62, Barcelona, 1989. 4. 4. AL ESPAÑOL: • Retablo (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik, Barcelona, 1995. 4. 5. AL FRANCÉS: • Le Retable (por Soula Aghion y Brigitte Pérol), Le Promeneur, París, 1988. 4. 6. AL HOLANDÉS: • Retabel. Siciliaanse passies (por Pietha de Voogd), Wereldbibliotheek, Amsterdam, 1992. 4. 7. AL PORTUGUÉS: • Retábulo (por José Colaço Barreiros), Difel, Lisboa, 1990. • Retábulo (por Roberta Barni), Berlendis & Vertecchia Editores, Sao Paulo (Brasil), 2002. 100 5. LE PIETRE DI PANTALICA 5. 1. AL ALEMÁN: • Die Steine von Pantalica (por Anita Pichler), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996. 5. 2. AL ESPAÑOL: • La presente edición y traducción de “Filosofiana”, relato de Las piedras de Pantálica (por Irene Romera Pintor), Fundación Updea, Madrid, 2008 (2ª edición de 2011, revisada y ampliada para la misma editorial). En preparación la traducción del libro completo. 5. 3. AL FRANCÉS: • Les Pierres de Pantalica (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 5. 4. AL GALLEGO: • “Ratumeni” y “Comiso” (As pedras de Pantalica) relato de Las piedras de Pantálica (por Cándido Pazó y Dolores Vilavedra), en Seis narradores italianos, edición de Danilo Manera y Dolores Vilavedra, Edicións Positivas, Santiago de Compostela, 1993. 6. NOTTETEMPO, CASA PER CASA 6. 1. AL ALEMÁN: • Bei Nacht, von Haus zu Haus (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Viena-Bozen, 2003. 6. 2. AL ESPAÑOL: • De noche, casa por casa (por Ana Poljak), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1993. 101 • De noche, casa por casa (por Eloy-José Santos Domínguez), Primera edición en español para América Latina, Editorial Norma, Bogotá, 1996. 6. 3. AL FRANCÉS: • D’une maison l’autre, la nuit durant (por Louis Bonalumi), Gallimard, París, 1994. 6. 4. AL INGLÉS: • Night-Time, House by House (por Daragh O’ Connell), en preparación. 6. 5. AL PORTUGUÉS: • De Noite casa por casa (por José Colaço Barreiros), ed. Teorema, Lisboa, 1996. 7. L’OLIVO E L’OLIVASTRO 7. 1. AL ESPAÑOL: • El olivo y el acebuche (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1997. 7. 2. AL FRANCÉS: • Ruine immortelle (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 1996. 8. LO SPASIMO DI PALERMO 8. 1. AL ALEMÁN: • Palermo. Der Schmerz (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien/Bozen, 2008. 102 8. 2. AL ESPAÑOL: • El pasmo de Palermo (por Pilar González Rodríguez), Debate, Madrid, 2001. 2ª Edición: para la colección “Las mejores novelas de la literatura universal contemporánea” (por Pilar González Rodríguez), prólogo de Constantino Bértolo, Biblioteca El Mundo, Madrid, 2003. 8. 3. AL FRANCÉS: • Le Palmier de Palerme (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2000. 9. DI QUA DAL FARO 9. 1. AL ESPAÑOL: • De este lado del faro (por Miguel Ángel Cuevas), Parténope, 2008. 9. 2. AL FRANCÉS: • De ce côté du phare (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2005. 10. Antología de ensayos y artículos sobre el tema del mundo mediterráneo, escritos todos ellos por Vincenzo Consolo y traducidos al inglés: • Reading and Writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo Consolo, edición de Massimo Lollini & Norma Bouchard, Toronto, University of Toronto Press, 2006. 103 III. PREMIOS Y RECONOCIMIENTO A LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. Premio letterario CITTÀ DI SOVERATO, por La ferita dell’aprile, en 1964. 2. Premio PIRANDELLO, por Lunaria, en 1985. 3. Premio GRINZANE CAVOUR, por Retablo, en 1988. 4. Premio RACALMARE, por Retablo, en 1988. 5. Premio CITTÀ DI PENNE, por Le pietre di Pantalica, en 1989. 6. Premio STREGA, por Nottetempo, casa per casa, en 1992. 7. Premio INTERNAZIONALE UNIONE LATINA, por L’olivo e l’olivastro, en 1994. 8. Premio di Cultura CITTÀ DI MONREALE, por Lo spasimo di Palermo, en 1998. 9. Premio CASATO PRIME DONNE, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 10. Premio BRANCATI-ZAFFERANA, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 11. Premio NINO MARTOGLIO, por Di qua dal faro, en 1999. 12. Premio FERONIA, por Di qua dal faro, en 2000. 13. Premio PALMI, por el conjunto de su obra, en 2007. 14. Premio GIACOMO LEOPARDI, por el conjunto de su obra, en 2008. 104 Además, Vincenzo Consolo ha recibido el Título de Doctor Honoris Causa en dos ocasiones hasta la fecha: 1. por la Universidad “Tor Vergata” de Roma el 18 de febrero de 2003. Lectio Magistralis: “La Metrica della Memoria”. Laudatio de los Profesores Andrea Gareffi y Enrico Guaraldo. 2. por la Universidad de Palermo, el 20 de junio de 2007. Lectio Magistralis: “Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano”. Laudatio del Profesor Natale Tedesco. 105 IV. TRABAJOS DE INVESTIGACIÓN El presente capítulo bibliográfico recoge todos los trabajos de investigación relativos a la figura y la obra de Vincenzo Consolo. El material bibliográfico se ordena en torno a las tesinas (“Tesi di Laurea” y “Mémoire de Maîtrise”) y a las Tesis Doctorales. Los trabajos de investigación se ordenan por sus países de origen. La relación de países sigue un orden determinado por el volumen de trabajos de investigación. Con objeto de ordenar el material bibliográfico dentro de cada país he considerado oportuno presentarlos por universidades, en orden alfabético, y dentro de cada universidad por orden cronológico. De esta manera, atendiendo al volumen de trabajos de investigación, la relación de países seguirá el siguiente orden: Italia, Francia, Alemania, España, Bélgica, Escocia, Inglaterra y Estados Unidos. IV. 1. ITALIA31: Tesi di Laurea Università degli studi di BARI 1999-2000: 31 Toda “Tesi di Laurea” (tesina) y Tesis Doctoral viene reseñada en Italia en el “Atlante Linguistico Italiano”. Para algunas de las tesinas aquí citadas, véase 106 • Dario Pignone: “La letteratura avvilita. Vincenzo Consolo” (dirección de Giuseppe Lasala). Università Alma Mater Studiorum di BOLONIA 2005-2006: • Maria Letizia Fiocchetti: “La Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Fabrizio Frasnedi; codirección de Matteo Ghirardelli). Università degli studi della CALABRIA 1994-1995: • Rosaria Larussa: “Pastiche linguistico e denuncia sociale nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicola Merola). Università degli studi di CATANIA 1989-1990: • Carmela Gandolfo: “Per leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio” (dirección de A. Di Grado). 1991-1992: • Giuseppa Mazzola: “Umori civili e scatto fantastico nella prosa di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicolò Mineo). 1992-1993: • Agata Cardillo: “L’italiano regionale di Sicilia nella Ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). en concreto: “Tesi di Laurea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. Cattedra di Geografia linguistica”, a cargo de I. M. B. Valenti, en «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano», III Serie, Turín, 2001, pp. 223-38. 107 • Federica Spampinato: “L’italiano regionale di Sicilia nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1994-1995: • Giovanni Pastaro: “Il dibattito critico su Vincenzo Consolo” (dirección de Guido Nicastro). • Maria Elena La Rosa: “L’italiano regionale e letterario in Retablo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1995-1996: • Valeria Benanti: “L’italiano regionale di Sicilia in Lunaria di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1997-1998: • Giusi Burgaretta: “Teatro e teatralità nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Sarah Zappulla Muscarà). Contiene varios Apéndices: “Appendice I: intervista a Vincenzo Consolo [Sant’Agata, 10-IX-98 (pp. 155-64)]; Appendice II: viene riportato il testo della rappresentazione di «Fuochi Freddi» (pp. 165-87), tratto da Lunaria e messo in scena nel 1991 a Monreale, nell’elaborazione drammaturgica di Ola Cavagna, dal regista Mauro Avogadro. Alla generosità del regista Mauro Avogadro si deve anche la disponibilità del testo di «Minima Lunaria» (pp. 188-246)”. • Gabriella Maria Concetta Giuliana: “L’italiano regionale nelle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Laura Di Trapani: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo spagnolo (E. Benítez, 1981) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Michele Mangione: “L’italiano regionale della Sicilia e altre lingue in L’olivo e l’olivastro e Nerò metallicò di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 108 1999-2000: • Vanessa Di Salvo: “L’italiano regionale di Sicilia nello Spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Arianna Tiralongo: “L’italiano regionale di Sicilia in Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Lorella Spinello: “Vincenzo Consolo. Una «figura in fuga», nello specchio dei suoi scritti” (dirección de A. Di Grado). Contiene en Apéndice: “Incontro con lo scrittore [Catania, 13-XII-98 (pp. 155- 82); Milano, 22-IV-99 (pp. 183-214)]”. 2000-2001: • Loreto Bongiovanni: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo inglese (J. Farrell, 1994) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 2001-2002: • Alessia Saraceno: “Vincenzo Consolo: un Odisseo tra i mari della scrittura” (dirección de Rosalba Galvagno). • Maria Giuseppina Catalano: “Figure del dolore. Follia e melanconia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosa Maria Monastra). Contiene en Apéndice: “Intervista a Vincenzo Consolo [Agrigento, 30-IX-2001 (pp. I-XXIV)]”. 2003-2004: • Stefania Cipolla: “La traduzione spagnola di Retablo di Vincenzo Consolo. Regionalità linguistica e problemi traduttivi” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Cettina Cornelio: “La regionalità siciliana in Retablo di Vincenzo Consolo nella traduzione francese” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Debora La Rosa: “Problemi di traduzione dell’italiano regionale nella versione francese (M. Fusco e M. Sager) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 109 2004-2005: • Glenda Dollo: “La sfida al labirinto di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). 2007-2008: • Andreina Litrico: “L’ekfrasis della Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). Università degli studi di MESSINA 1998-1999: • Eros Salonia: “Il teatro di Vincenzo Consolo: Catarsi. Il gioco dell’impossibile” (dirección de Giuseppe Rando). Università degli studi di MILANO (Bicocca) 2005-2006: • Lisa Rustico: “Il paesaggio siciliano in Vincenzo Consolo: Retablo” (dirección de Elena Dell’Agnese). Contiene en Apéndice: “Conversazione con Vincenzo Consolo [Milano, 11-V-2006 (pp. 159-68)]”. Università degli studi di PALERMO 2000-2001: • Daniela Giambanco: “La poetica di Vincenzo Consolo tra storia e mito” (dirección de Salvatore Lo Bue). Contiene una entrevista inédita a Vincenzo Consolo. 2003-2004: • Giovanna Tobia: “Memoria e ragione del paesaggio: V. Consolo e A. Castelli” (dirección de D. Perrone). Università degli studi di PAVIA 2004-2005: • Alessandra Morini: “Per Catarsi di Vincenzo Consolo: un esempio di tragico moderno. Ricostruzione filologica e critica. Con un’intervista 110 inedita a Vincenzo Consolo [Milano, 3-3-06 (pp. 182-9)]” (dirección de Clelia Martignoni; codirección de Anna Beltrametti y Federico Francucci). A parte de la entrevista en Apéndice, también reproduce tres conversaciones radiofónicas “tratte dalla trasmissione Damasco di «Radio tre», in cui Consolo si sofferma in particolare su tre grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e sul rapporto con loro (pp. 189-210): 14-12-05: Elio Vittorini (p.190); 15-12-05: Lucio Piccolo (p. 197); 16-12-05: Leonardo Sciascia (p. 203)”. Università degli studi di PISA 1995-1996: • Chiara Savettieri: “Antonello da Messina: un percorso critico” (dirección de Antonino Caleca). Véase sobre todo el capítulo XIII: “Due scrittori siciliani ed Antonello “[cf. en particular: “13. 3. Vincenzo Consolo: il linguaggio come rivolta e come memoria” (pp. 455-77)]. 1996-1997: • Chiara Pellegrini: “La contaminazione linguistica in Vincenzo Consolo. Con un glossario dei primi tre volumi (1963, 1976, 1985)” (dirección de Livio Petrucci). ROMA 1990-1991: • Fabiola Paterniti Martello: “Vincenzo Consolo e l’esperienza della scrittura”, Università di Tor Vergata-Roma II (dirección de Emerico Giachery; codirección de Rino Caputo). 111 1994-1995: • Attilio Scuderi: “Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Bianca Maria Frabotta). 1999-2000: • Paola Casciani: “Vincenzo Consolo: l’utopia e la città”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Stefano Giovanardi; codirección de Giovanna De Angelis). 2001-2002: • Linda Di Mauro: “Le arti visive nella narrativa di Sciascia e Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Antonella Sbrilli; codirección de Manuela Annibali). Università degli studi di SIENA 1993-1994: • Barbara Dragoni: “Vincenzo Consolo” (dirección de Alfio Vecchio). Contiene en Apéndice “Intervista a Vincenzo Consolo (pp. 525-39)”. 2005-2006: • Gabriele Vitello: «Il romanzo del ritorno» in Elio Vittorini e Vincenzo Consolo” (dirección de Daniela Brogi). Università degli studi di TORINO 1989-1990: • Massimo Catti: “Nuclei tematici nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Marco Cerruti). 112 Università degli studi di TRIESTE 1991-1992: • Lorenza Cucchiani: “Anche la mia penna è intinta nello zolfo: la narrativa di Vincenzo Consolo tra razionalità e barocco” (dirección de Elvio Guagnini). Università degli studi di VENEZIA Ca’ Foscari 1998-1999: • Nicoletta Santangelo: “Vincenzo Consolo. Una voce tragica oltre la scena del teatro” (dirección de Ricciarda Ricorda). IV. 2. FRANCIA IV. 2. a. Mémoires de maîtrise Universidad d’AIX-MARSEILLE I 1989-1990: • Patricia Racine: “Immagini del Risorgimento nel romanzo siciliano” (dirección de Rubat du Merac). Contiene un Apéndice en dónde transcribe la conversación telefónica con Vincenzo Consolo (10-VI- 1990: pp. 150-57). Universidad de Stendhal GRENOBLE III 1992-1993: • Demetrio Trunfio: “Alle radici della scrittura: infanzia e lingua materna nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de G. Bosetti). Universidad de NICE SOPHIA ANTIPOLIS 2001-2002: • Eleonora Gellini: “La Sicilia contadina attraverso lo sguardo di Vincenzo Consolo (Le pietre di Pantalica) e di Maria Occhipinti 113 (Una donna di Ragusa e Il Carrubo e altri racconti)” (dirección de Arnaldo Moroldo; codirección de Monica Mocca). PARÍS 1996-1997: • Elisabetta Brucoli: “Vincenzo Consolo e la Sicilia nella sua opera romanzesca”, Universidad de Paris-IV “La Sorbonne” (dirección de J. M. Gardair). 1999-2000: • Anne Parniere: “Sicile et sicilitude dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire de maîtrise d’italien, Langues, Littératures et civilisations étrangères”. 2000-2001: • Anne Parniere: “L’écriture palimpseste: étude de l’oeuvre de Vincenzo Consolo à partir de l’analyse de Retable (1987), de D’une maison l’autre, la nuit durant (1992) et de Ruine immortelle (1994)”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire d’études approfondies. Culture et société en Italie du Moyen Âge au XXème siècle: langue, littérature, et civilisation”. Fecha: 18 de julio de 2001. Universidad de SAINT-DENIS 1989-1990: • Valérie Vita: “ Vincenzo Consolo, écrivain de la memoire” (dirección de Giuditta Isotti-Rosowsky). 114 IV. 2. b. Tesis Doctorales TESIS DOCTORAL de Maryvonne Briand Director de la Tesis: Mariella Colin. Universidad de Caen/ Basse -Normandie Título: “Poétique de l’espace et du temps dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”. Fecha: 19 de junio de 2004. IV. 3. ALEMANIA ERLANGEN-NÜRNBERG 1989-1990: • Christine Dauner: “Vincenzo Consolo: Literatur als Geschichtsschreibung oder als Dokumentation” [Magisterarbeit in der Philosophischen Fakultät II (Sprach- und Literaturwissenschaften) der Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg vorgelegt von Christine Dauner aus Rosenheim; contiene en Apéndice: “Interview mit Vincenzo Consolo (pp. I-XXVII)”]. FRANKFURT AM MAIN 1988-1989: • Agnes Denschlag: “Die Sicilianità Vincenzo Consolo” (dirección de Gerhard Goebel-Schilling); [Abschlussarbeit zuz Erlangung des Magister Artium im Fachbereich Neuere Philologien (Johann Wolfgang Goethe Universität Frankfurt am Main)]. 115 IV. 4. ESPAÑA MADRID TESIS DOCTORAL de Miguel Gabriel Ochoa Santos. Director de la Tesis: Antonio Ubach Medina Universidad Complutense de Madrid. Título: “Historia, memoria y polifonía mítica en De noche, casa por casa de Vincenzo Consolo”. Fecha: 2005. TESIS DOCTORAL de Nicolò Messina. Director de la Tesis: Manuel Gil Esteve. Universidad Complutense de Madrid. Título: “Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Fecha: 4 de julio de 2007. La presente Tesis Doctoral (ISBN: 978-84-669-3196-0) se puede consultar online en: http://eprints.ucm.es/8090/ IV. 5. BÉLGICA AMBERES 1993: • Annemieke Van Orshoven: “La verità del romanzo: Retablo (Vincenzo Consolo)” (dirección de Walter Geerts); [Eindverhandeling ingediend tot het behalen van de graad van Licentiaat in de Letteren en Wijsbegeerte (Universitaire Instelling Antwerpen)]. 116 IV. 6. ESCOCIA STRATHCLYDE TESIS DOCTORAL de Daragh O’Connell. Director de la Tesis: Joseph Farrell. Universidad: University of Strathclyde (Escocia). Título: “The Trinacria Trilogy: Polyphony and Palimpsests in the Narrative of Vincenzo Consolo”. Fecha: 17 de septiembre de 2008. IV. 7. INGLATERRA LONDRES 1995: • Maria Cristina Cataldo: “Vincenzo Consolo: un viaggio nella letteratura e nella storia della Sicilia”, University College of London; [Se trata de una tesina del “Master in Arts” (60pp.)]. IV. 8. ESTADOS UNIDOS NUEVA YORK TESIS DOCTORAL de Vincenzo Pascale. Director de la Tesis: Robert S. Dombroski y Eugenia Paulicelli. Universidad: Graduate Center de la City University de Nueva York. Título: “Lo sguardo e la storia: Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”. Publicada con el mismo título en la editorial Vecchiarelli, Roma, 2006. 117 V. ENCUENTROS MONOGRÁFICOS SOBRE VINCENZO CONSOLO Además de las cada vez más frecuentes ponencias y comunicaciones que se presentan en los distintos congresos sobre la obra de Vincenzo Consolo, caben destacar los siguientes encuentros monográficos, dedicados por entero al autor, y que contaron con su presencia en los mismos: V. 1. Coloquio Internacional: “Vincenzo Consolo, éthique et écriture”, organizado por Dominique Budor y celebrado en París, los días 25 y 26 de octubre de 2002. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: DOMINIQUE BUDOR (ed.), Vincenzo Consolo, éthique et écriture, Presse Sorbonne Nouvelle, París, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: • D. BUDOR, Pourquoi lire Consolo, «notre» classique32. • V. CONSOLO, La metrica della memoria33. 32 Véase también el aparato bibliográfico que adjunta. 33 Traducido en paralelo por Jean-Paul Manganaro: “Pour une métrique de la mémoire”. 118 L’être-dans-l’Histoire: • A. RECUPERO, Sicile 1943-2000: entre la pétrification de l’histoire et l’orageux changement de la société. • G. FERRONI, Une éthique de la parole. Le temps, la mémoire, le retour: • Mª P. DE PAULIS-DALEMBERT, Mémoire individuelle- mémoire de l’histoire: le palimpseste narratif. • D. FERRARIS, La syntaxe narrative de Consolo: pour une orientation du désastre. • C. IMBERTY, Vincenzo Consolo, ou le roman entre mémoire et mémoire historique. • J. P. MANGANARO, Tradition et Traduction: dans l’eau du Détroit. Les modulations du récit: • V. GIANNETTI, L’anghelos et le choeur: récit et narration chez Vincenzo Consolo. • W. GEERTS, Consolo ou les derniers replis de la fiction. • C. SEGRE, Temps et narration dans l’oeuvre de Vincenzo Consolo. Voix et mythes de la Sicile: • R. GALVAGNO, «Male catubbo». Les avatars d’une métamorphose dans le roman Nottetempo, casa per casa. • Mª F. RENARD, Paysage d’amour et de mémoire. • G. DAVICO BONINO, Consolo e il teatro. Enriquece dichas Actas el soporte informático (CD-rom) que se adjunta al final de las mismas. 119 V. 2. Jornadas de estudio: “Giornate di Studio in onore di Vincenzo Consolo”, organizadas por Enzo Papa y celebradas en Siracusa, los días 2 y 3 de mayo de 2003. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: ENZO PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, Manni («Studi, 54»), San Cesario di Lecce, 2004. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Come una lastra memoriale. • P. CARILE, Testimonianza. • Mª R. CUTRUFELLI, Un severo, familiare maestro. • R. GALVAGNO, Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. • M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale. • S. PAUTASSO, Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa. • C. RICCARDI, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo. • G. TRAINA, Rilettura di Retablo. Véase también: “L’appendice bibliografica” (pp. 135-41), al igual que la nota del editor (pp. 142-3). V. 3. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: per i suoi 70 (+1) anni”, organizadas por Miguel Ángel Cuevas y celebradas en Sevilla, los días 15 y 16 de octubre de 2004. No hubo Actas. Algunas comunicaciones fueron publicadas en el número 10 de la Revista “Quaderns d’Italià”, titulado: Leggere Vincenzo Consolo / Llegir Vincenzo Consolo, Barcelona, 2005. 120 Destacan los dos textos de creación de Vincenzo Consolo: “La grande vacanza orientale-occidentale” y “Il miracolo”. Artículos específicos sobre Vincenzo Consolo: • Mª. ATTANASIO, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo. • E. VILELLA, Nostos y laberinto. • P. CAPPONI, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo. • M. A. CUEVAS, Ut pictura: el imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo. • R. ARQUÉS, Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo. • G. ALBERTOCCHI, Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria». • N. MESSINA, Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo. V. 4. Jornadas Internacionales: “Lunaria vent’anni dopo”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 24 y 25 de octubre de 2005. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Lunaria vent’anni dopo, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2006. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Ma la luna, la luna. • M. GIL ESTEVE, Aún Lunaria. • S. C. TROVATO, Il coraggio di una traduzione. A proposito della traduzione spagnola di Lunaria (di Irene Romera Pintor). 121 • A. PANTALEONI, Morte e pianto rituale in Lunaria di Vincenzo Consolo. • P. CARILE, Una testimonianza e una riflessione su Vincenzo Consolo: dalla Sicilia all’Europa. • M. A. CUEVAS, Lunaria antes de Lunaria. • G. ALBERTOCCHI, La luna e dintorni. • N. MESSINA, Lunaria dietro le quinte. • I. ROMERA PINTOR, Claves para una ensoñación lunaria. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Mesa redonda, con la presencia y participación de Vincenzo Consolo, con ocasión de la presentación de la traducción al español de Lunaria (2003), con las intervenciones de Renzo Cremante, Joaquín Espinosa Carbonell, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Irene Romera Pintor y Matilde Rovira. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. V. 5. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de Il sorriso dell’ignoto marinaio”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 23 y 24 de octubre de 2006. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: Proemio: • V. GONZÁLEZ MARTÍN, Sicilianidad e hispanidad en la obra de Vincenzo Consolo. 122 Artículos monográficos sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio: • V. CONSOLO, Antonello da Messina. • R. CREMANTE, La sperimentazione di Vincenzo Consolo fra storia e invenzione. • G. FERRONI, Forme della visione nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • S. C. TROVATO, Regionalità e traduzione. Dalla Sonrisa spagnola a quella argentina. • G. ADAMO, Limina testuali nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • Mª. BAYARRI ROSSELLÓ, El ignoto marinero sonríe ante el árbol de las cuatro naranjas. • J. ESPINOSA CARBONELL, Sasà, Palamara, frate Nunzio y otros secundarios activos (Consideraciones en torno a los personajes secundarios de Il sorriso dell’ignoto marinaio). • N. MESSINA, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Vicissitudini di un progetto. Epílogo: • M. GIL ESTEVE, Dicen que Consolo. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Presentación del libro: Lunaria vent’anni dopo (2006), con las intervenciones de Leonardo Carbone, Fausto Díaz Padilla, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Vicente Navarro de Luján e Irene Romera Pintor. • Presentación del libro: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo (2006), con las intervenciones de Giuliana Adamo, Giulio Ferroni e Irene Romera Pintor. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. 123 V. 6. Jornada Internacional: “Vincenzo Consolo between Sicily and Europe”, organizada por Martin McLaughlin y Daragh O’Connell, celebrada en Oxford el 15 de octubre de 2007 (“University of Oxford in association with and hosted by the Maison Française d’Oxford”). Pendiente de la publicación de las Actas. Señalo la relación de los participantes (por orden de intervención): • D. ZANCANI, Consolo Abroad: Criticism and Translations. • N. MESSINA, Un testo in controluce: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Cronistoria di un’edizione. • R. GLYNN, Consolo: The Intellectual and the 1970s’. • C. O’RAWE, Consolo saggista e la Sicilia testuale. • D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore «palincestuoso». • J. FARRELL, Traducendo Consolo: la questione dello stile. Keynote Lecture Vincenzo Consolo: I muri d’Europa. V. 7. Jornadas Internacionales: “La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años)”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 14 y 15 de abril de 2008. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2008. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano. 124 • F. DÍAZ PADILLA, “Filosofiana” o Cuando las piedras hablan. • G. FERRONI, L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo. • J. FRACCHIOLLA, Storia e storie nell’opera di Vincenzo Consolo. • V. GONZÁLEZ MARTÍN, La Nuova Questione della Lingua en Vincenzo Consolo. • S. C. TROVATO, Vincenzo Consolo o della regionalità linguistica. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Entrevista a Vincenzo Consolo, por Jean Fracchiolla. • “Un sogno perso”, por Pasquale Scimeca. • Presentación del libro: Vincenzo Consolo, éthique et écriture (2007), con las intervenciones de Dominique Budor, Vincenzo Consolo, Renzo Cremante, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Presentación del libro: Filosofiana de Vincenzo Consolo (2008), con las intervenciones de Renzo Cremante, Giulio Ferroni, Manuel Gil Esteve, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. Tuvieron lugar los siguientes encuentros: • Mesa redonda, moderada por J. Inés Rodríguez Gómez, en la que Joaquín Espinosa Carbonell presentó a Pasquale Scimeca. El Director de cine comentó y proyectó “Un sogno perso” (1992), película estructurada en torno a tres relatos literarios. El primero de ellos es “Filosofiana” de Vincenzo Consolo. • Intervención de Ludovica Tortora de Falco, que relató su experiencia como directora y productora de una película documental sobre Vincenzo Consolo: “In viaggio con Vincenzo Consolo” (2008), proyectando parte de la misma. 125 VI. ESTUDIOS CRÍTICOS VI. 1. Obra de consulta imprescindible es el número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista palermitana «Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura», n. 29, VIII, (ed. Guida), dirigida por Antonino Buttitta, 1995/I. Número a cargo de Vincenzo Barbarotta y Gianfranco Marrone. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “29 aprile 1994: cronaca di una giornata”, pp. 4-7. • “Que farai, fra Iacovone?”, pp. 179-181. También se recogen los siguientes artículos: • Ferroni, Giulio: “Bestie trionfanti”, pp. 153-7. • Ferroni, Giulio: “Il calore della protesta”, pp. 173-6. • Marrone, Gianfranco y Montes, Stefano: “Una statua in fuga”, pp. 40-6. • Mazzarella, Salvatore: “Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore”, pp. 47-70. • Onofri, Massimo: “La luce della storia”, pp. 159-163. • Onofri, Massimo: “Uno stesso ceppo”, pp. 177-8. • Segre, Cesare: “Frammenti di luna”, pp. 30-9. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola”, pp. 96-100. • Segre, Cesare: “Una provvisoria catarsi”, pp. 150-1. • Trovato, Salvatore C.: “Forme e funzioni del linguaggio”, pp. 15-29. 126 Enumero por temas los autores de los estudios críticos (al margen de los artículos más extensos citados anteriormente): • La ferita…: Nino Palumbo, Mario Lunetta, Giovanni Raboni, Angelo Guglielmi, Nino Calabrò. • Il sorriso…: Paolo Milano, Enzo Siciliano, Vittorio Spinazzola, Giuliano Gramigna, Alfredo Giuliani, Gian Carlo Ferretti, Antonio Debenedetti, Lorenzo Mondo, Domenico Porzio, Marino Biondi, Jesús Fuentes Ródenas, Leopoldo Alzancot, Peter Hainswort, Hansjörg Graf. • Lunaria: Francesco Durante, Maurizio Cucchi, Giovanni Raboni, Gian Carlo Ferretti, Giuliano Gramigna, Giuseppe Saltini, Paolo Mauri, Antonio Prete, Hector Bianciotti. • Retablo: Fabrizia Ramondino, Severino Cesari, Geno Pampaloni, Lorenzo Mondo, Leonardo Sciascia, Lidia De Federicis, Goffredo Fofi, Luciano Satta, Gian Carlo Ferretti, Raffaelle Crovi, Remo Ceserani, Claude Ambroise. • Le pietre…: Oreste del Buono, Raffaele Crovi, Renato Minore, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici, Stefano Giovanardi, Giuseppe Bonura, Natale Tedesco, Salvatore Nigro, Antonio Di Grado, Gianni Turchetta, Romano Luperini, Andrea Zanzotto, Carlo Sgorlon, Louis Soler. • Nottetempo…: Lorenzo Mondo, Ermanno Paccagnini, Geno Pampaloni, Stefano Giovanardi, Silvio Perrella, Horacio Vázquez Rial, Mercedes Monmany, René de Ceccatty, Monique Bacelli. • Nerò…: Francesco Durante, Giuseppe Amoroso, Salvatore Claudio Sgroi, Renato Minore. • L’olivo…: Lorenzo Mondo, Giuliano Gramigna, Giuseppe Bonura, Stefano Giovanardi, Giuseppe Pederiali. Además de los estudios críticos y reseñas de prensa sobre su obra, dicho número monográfico recoge una entrevista al autor [realizada 127 por Roberto Andò (“Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura” (pp. 8-14)], así como una bibliografía detallada de la obra completa del autor (narrativa, ensayos, artículos, etc.) y de la crítica (pp. 182-5). Enriquecen el volumen los valiosos documentos fotográficos tanto de los paisajes emblemáticos de Sicilia, como de autores y críticos contemporáneos fotografiados junto con Vincenzo Consolo (Bufalino, Buttitta, Levi, Maraini, Montale, Pasolini, Piccolo, Rodari, Sciascia, Sellerio, Segre, Vázquez Montalbán…). VI. 2. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006. Véase la amplia ordenación bibliográfica, pp. 191-212. En esta obra destaca el texto de Vincenzo Consolo: • “La metrica della memoria”, pp. 177-189. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Ferroni, Giulio: “Prefazione”, pp. 7-10. • La Penna, Daniela: “Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo”, pp. 13-49. • Cuevas, Miguel Ángel: “Le tre edizioni de La ferita dell’aprile: le varianti”, pp. 49-69. • Adamo, Giuliana: “Sull’inizio del Sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 71-120. • Messina, Nicolò: “Nello scriptorium di Vincenzo Consolo. Il caso di “Morte Sacrata” (Il sorriso dell’ignoto marinaio, III), pp. 121-160. 128 • Romera Pintor, Irene: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, pp. 161-176. VI. 3. “Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo”. Se trata del número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista de «Microprovincia», n. 48, Nuova serie, Gennaio-Dicembre, 2010, Rosminiane Sodalitas, Stresa, dirigida por Franco Esposito. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “Frammento”, p. 5. • “La metrica della memoria”, pp. 161-8. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Esposito, Franco: “E dopo il ’68, anche nella «provincia di frontiera» tutto fu nausea”, pp. 1-4. • Budor, Dominique: “Perché leggere Consolo, «nostro» classico”34, pp. 6-12. • Turchetta, Gianni: “«Per toccare la vita che ci scorre per davanti»: Retablo e l’arte come nostalgia”, pp. 13-9. • Bárberi Squarotti, Giorgio: “Il fonosimbolismo fascinoso di Consolo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 20-38. • Segre, Cesare: “Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo”, pp. 39-41. • O’ Connell, Daragh: “Il palinsesto della memoria: Consolo fra narrare e scrivere”, pp. 42-66. 34 Traducción del francés de Claudia Azzola. 129 • Messina, Nicolò: “Tra Mandralisca e Crowley. Su alcuni quaderni dell’Archivio Consolo”, pp. 67-7335 y 82-4. • Baratter, Paola: “Lunaria: il mondo salvato dalla Luna”, pp. 85-93. • Mazzocchi, Federico: “Vincenzo Consolo e l’incessante ricerca: tra enumerazione metaforica e metafora dell’enumerazione”, pp. 94- 116. • Cinquegrani, Alessandro: “La volontà di individuazione nella letteratura di Vincenzo Consolo”, pp. 117-126. • Stajano, Corrado: “Vincenzo Consolo e gli amici della lava nera”, pp. 127-132. • Gaccione, Angelo: “Vincenzo Consolo come Verga”, pp. 133-5. • Maffia, Dante: “Vincenzo Consolo, una lingua carica di segni”, pp. 136-9. • Bruni, Pierfranco: “Vincenzo Consolo, lungo le rotte di Odisseo”, pp. 140-5. • Ferretti, Gian Carlo: “Lunaria, una favola teatrale”, pp. 146-736. • Di Stefano, Paolo: “Due incontri con Vincenzo Consolo”, pp. 151-7. VI. 4. Por lo que respecta a libros que recogen una bibliografía crítica detallada sobre la obra de Vincenzo Consolo, me limito a destacar la siguiente monografía: • Traina, G., Vincenzo Consolo, Cadmo («Scritture in corso, 4»), Fiesole (Florencia), 1998. Para una amplia ordenación bibliográfica, cf. pp. 111-122. 35 En las pp. 74-81, viene publicado como “Appendice” una parte de los cuadernos del Archivo Consolo. 36 Original publicación de la entrevista de Gian Carlo Ferretti, en abril de 1985, pues vienen reproducidas por entero las respuestas manuscritas del propio Consolo (pp. 148-50). 130 VI. 5. ARTÍCULOS: • Segre, Cesare: Introducción a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milán, 1987, pp. V-XVIII. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 71-86. • Segre, Cesare: “Teatro e racconto su frammenti di luna”, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 87-102. • Segre, Cesare: “Inserti storiografici e storiografia sotto accusa nel capolavoro di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”, en Tempo di bilanci, Einaudi, Turín, 2005, pp. 129-138. • Trovato, Salvatore, C.: cuatro artículos sobre la lengua de Vincenzo Consolo. Dichos artículos –publicados años atrás– se recogen ahora, revisados y corregidos, por capítulos en el libro: Italiano regionale, letteratura, traduzione. Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Euno Edizioni, Leonforte, 2010. Cap. I: Sulla regionalità letteraria in Italia: Pirandello, D’Arrigo, Consolo, pp. 11-27. Cap. IV: Tra dialetto, dialetti e italiano regionale in Consolo, pp. 89-122. Cap. V: L’elemento regionale in “Filosofiana”, un racconto delle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo, pp. 123-177. Cap. IX: Sulla traduzione della regionalità: Il sorriso dell’ignoto marinaio e Retablo in spagnolo, pp. 301-337. VI. 6. EN PREPARACIÓN: • El libro monográfico sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio de próxima aparición: Cochlías legere: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, approcci critici. Edición de Nicolò Messina y Daragh O’Connell, Cesati, Florencia. ÍNDICE DE NOMBRES 133 ÍNDICE DE NOMBRES A Adamo, Giuliana, 18n, 122, 127 Addamo, Sebastiano, 31 Aghion, Soula, 99 Albertocchi, Giovanni, 120, 121 Alvino, Gualberto, 28 Alzancot, Leopoldo, 126 Ambroise, Claude, 126 Arqués, Rossend, 120 Attanasio, Maria, 120 Atenea (diosa mitológica), 52 Amoroso, Giuseppe, 31, 126 Andò, Roberto, 127 Annibali, Manuela, 111 Aristófanes (comediógrafo griego), 61 Avogadro, Mauro, 107 Azzola, Claudia, 128n B Bacelli, Monique, 126 Baratter, Paola, 129 Barbarotta, Vincenzo, 125 Bárberi Squarotti, Giorgio, 128 Barca, Aníbal (general cartaginés), 53n Barca, Asdrúbal (general cartaginés), 53n Barca, Magón (general cartaginés), 53n 134 Barcia, Roque, 28, 43n, 85 Barone, Giovanni, 98 Barni, Roberta, 99 Battaglia, Salvatore, 28, 88 Bayarri Rosselló, María, 122 Bellonci, Goffredo, 95 Bellonci, Maria, 95 Beltrametti, Anna, 110 Benanti, Valeria, 107 Benincasa, Rutilio (filósofo), 55n Benítez, Esther, 98, 107 Bersani, Mauro, 32 Bertelli, Giorgio, 96n Bértolo, Constantino, 102 Bianciotti, Hector, 126 Biondi, Marino, 126 Bongiovanni, Loreto, 108 Bonalumi, Louis, 101 Bonura, Giuseppe, 31, 126 Borja, Gaspar de (Cardenal), 40n Bosetti, G., 112 Bouchard, Norma, 102 Budor, Dominique, 117, 124, 128 Bufalino, Gesualdo, 28, 127 Burgaretta, Giusi, 107 Buttitta, Antonino, 125 Buttitta, Ignazio, 127 Briand, Maryvonne, 114 Brogi, Daniela, 111 Brucoli, Elisabetta, 113 Brunner, Maria E., 99-101 Bruni, Pierfranco, 129 135 C Calabrò, Nino, 126 Caleca, Antonino, 110 Camps, Assumpta, 99 Capuana, Cecilia, 96n Caputo, Rino, 110 Capponi, Paola, 120 Carbone, Leonardo, 122 Carbone, R., 32 Cardillo, Agata, 106 Carile, Paolo, 119, 121 Carlos IV (rey), 47n Casciani, Paola, 111 Castelli, Antonio, 109 Catalano, Maria Giuseppina, 108 Cataldo, Maria Cristina, 116 Catti, Massimo, 111 Cavagna, Ola, 107 Cerruti, Marco, 111 Cervantes Saavedra, Miguel de, 104, 123 Cesari, Severino, 126 Ceserani, Remo, 126 Cinquegrani, Alessandro, 129 Cipolla, Stefania, 108 Colaço Barreiros, José, 99, 101 Colin, Mariella, 114 Consolo1 , Vincenzo, 2, 3, 5, 7, 9, 13-20, 15n, 18n, 22, 23, 28, 31-33, 41n, 42n, 48n, 57n, 58n, 60n, 64, 67, 72, 74, 76, 77, 79, 80, 83, 84, 93, 96n, 97, 102-125, 127-129, 129n, 130 1 Obra citada por orden cronológico. 136 La ferita dell’aprile (1963), 93, 97, 103, 106, 126, 127 Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), 13, 14, 93, 97, 106-108, 115, 116, 119-123, 126-128, 130 Lunaria (1985), 13, 18n, 93, 98, 99, 103, 107, 120-122, 126, 128, 129 Retablo (1987), 13, 14, 94, 99, 103, 107- 109, 115, 119, 120, 126, 128, 130 Le pietre di Pantalica (1988), 7, 13, 14n, 15, 18n, 19, 31, 32, 36, 42n, 48n, 58n, 65-88, 94, 100, 103, 107, 112, 126, 130 Catarsi (1989), 96, 109 La Sicilia passeggiata (1991), 94 Nottetempo, casa per casa (1992), 94, 100, 103, 108, 118-120, 126 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia (1993), 95 Nerò metallicò (1994), 96, 96n, 107, 126 L’olivo e l’olivastro (1994), 95, 101, 103, 107, 126 Lo spasimo di Palermo (1998), 95, 101, 103, 108 Di qua dal faro (1999), 95, 102, 103 Il teatro del sole (1999), 96, 96n Isole Dolci del Dio (2002), 96 Siracusa come un incanto (2003), 96 Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (2009), 96 Il Corteo di Dioniso (2009), 96 L’attesa (2010), 96 Cornelio, Cettina, 108 Corominas, Joan, 28 Covarrubias, Sebastián de, 43n Cremante, Renzo, 121, 122, 124 Crovi, Raffaele, 31, 126 Cucchi, Maurizio, 31, 126 137 Cucchiani, Lorenza, 112 Cuevas, Miguel Ángel, 97, 102, 119-121, 127 Cutrufelli, Maria Rosa, 119 D D’Arrigo, Stefano, 28, 130 Da Messina, Antonello, 110, 122 Darmon, Maurice, 19, 97, 100 Dauner, Christine, 114 Davico Bonino, Guido, 118 De Angelis, Giovanna, 111 Debenedetti, Antonio, 126 De Federicis, Lidia, 126 Dell’Agnese, Elena, 109 Del Buono, Oreste, 31, 126 De Mauro, Tullio, 28 De Paulis-Dalembert, Maria Pia, 118 De Voogd, Pietha, 99 Díaz Padilla, Fausto, 18n, 122, 124 Di Gerolamo, Nicola, 33 Di Grado, Antonio, 32, 106, 108, 126 Di Mauro, Linda, 111 Di Salvo, Vanessa, 108 Di Stefano, Paolo, 129 Di Trapani, Laura, 107 De Ceccatty, René, 126 Denschlag, Agnes, 114 Depetro, Carmelo, 32 Dollo, Glenda, 109 Dombroski, Robert S., 116 138 Dragoni, Barbara, 111 Du Merac, Rubat, 112 Durante, Francesco, 126 E Echegoyen, Christinna, 27 Escipión, Cneo Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, Africano Maior, 53n Esquilo (dramaturgo griego), 17, 18, 21, 52, 52n, 59, 59n, 61 Espinosa Carbonell, Joaquín, 121, 122, 124 Esposito, Franco, 128 F Faggi, Vico, 31 Farrell, Joseph, 98, 108, 116, 123 Ferraris, Denis, 113, 118 Ferretti, Gian Carlo, 126, 129, 129n Ferroni, Giulio, 18n, 118, 122, 124, 125, 127 Fiocchetti, Maria Letizia, 106 Fofi, Goffredo, 126 Frabotta, Bianca Maria, 111 Francucci, Federico, 110 Frasnedi, Fabrizio, 106 Fracchiolla, Jean, 124 Fuentes Ródenas, Jesús, 126 Fusco, Mario, 98, 108 139 G Gabriel y Galán, José María, 44n Gaccione, Angelo, 129 Galvagno, Rosalba, 28, 108, 109, 118, 119 Gandolfo, Carmela, 106 García de Diego, Vicente, 29 García Soriano, Justo, 27 Gardair, J. M., 113 Gareffi, Andrea, 104 Geerts, Walter, 115, 118 Gellini, Eleonora, 112 Gentile Vitale, Juan Carlos, 99, 101 Gerosa, Guido, 31 Ghirardelli, Matteo, 106 Giachery, Emerico, 110 Giachi, Arianna, 97 Giambanco, Daniela, 109 Giannetti, Valeria, 118 Gil Esteve, Manuel, 115, 120-122, 124 Giuliana, Gabriela Maria Concetta, 107 Giuliani, Alfredo, 126 Giudici, Giovanni, 31, 126 Giovanardi, Stefano, 31, 111, 126 Glynn, Ruth, 123 Goebel-Schilling, Gerhard, 114 Gómez Ortin, Francisco, 27 Góngora y Argote, Luis de, 43n González Fernández, Isabel, 121, 122 González Martín, Vicente, 121, 124 González Rodríguez, Pilar, 102 Graf, Hansjörg, 126 140 Gramigna, Giuliano, 126 Grasset, Bernard, 98 Grosschmid, Pablo, 27 Guagnini, Elvio, 112 Guaraldo, Enrico, 104 Guglielmi, Angelo, 126 H Hainswort, Peter, 126 Hartmann, Ulrich, 97 Hermes (dios mitológico), 52, 61n I Ibarra Lario, Antonia, 29 Imberty, Claude, 118 Isotti-Rosowsky, Giuditta, 113 K Kienlechner, Bettina, 97 L Landolfi, Idolina, 33 La Penna, Daniela, 127 La Rosa, Debora, 108 141 La Rosa, Mª Elena, 107 Larussa, Rosaria, 106 Lasala, Giuseppe, 106 Leopardi, Giacomo, 2, 103 Levi, Primo, 127 Litrico, Andreina, 109 Lo Bue, Salvatore, 109 Lollini, Massimo, 102 Lunetta, Mario, 126 Luperini, Romano, 33, 126 M Maffia, Dante, 129 Manera, Danilo, 100 Manganaro, Jean Paul, 101, 102, 117n, 118 Mangione, Michele, 107 Mannoni, Eugène, 32 Mannoni, Francesco, 31 Marabini, Claudio, 32 Maraini, Dacia, 127 Marongiu, Jean Baptiste, 33 Marrone, Gianfranco, 125 Martignoni, Clelia, 110 Martínez Álvarez de Sotomayor, Jose María, 70, 86 Martoglio, Nino, 103 Mauri, Paolo, 126 Mazzarella, Salvatore, 125 Mazzola, Giuseppa, 106 Mazzocchi, Federico, 129 McLaughlin, Martin, 123 142 Medina, Vicente (poeta murciano), 22, 70 Merola, Nicola, 106 Messina, Nicolò, 115, 120-123, 127, 129, 130 Milano, Paolo, 126 Mineo, Nicolò, 106 Minore, Renato, 31, 126 Mocca, Monica, 113 Monastra, Rosa Maria, 108 Mondo, Lorenzo, 126 Monmany, Mercedes, 126 Montale, Eugenio, 127 Montes, Stefano, 125 Morini, Alessandra, 109 Moroldo, Arnaldo, 113 Mortillaro, Vincenzo, 27, 72, 79 Moliner, María, 28, 65, 71, 78, 88 Muñoz Garrigós, José, 29 N Nànfara, Don Gregorio (personaje de “Filosofiana”), 14, 16-18, 49-63, 52n, 55n, 57n, 59n, 81 Napoleón (emperador), 46n Navarro de Luján, Vicente, 122 Nicastro, Guido, 107 Nigro, Salvatore, 32, 126 O Ochoa Santos, Miguel Gabriel, 115 143 Occhiato, Giuseppe, 130 Occhipinti, Maria, 112 Onofri, Massimo, 119, 125 O’Connell, Daragh, 101, 116, 123, 128, 130 O’Rawe, Catherine, 123 P Paccagnini, Ermanno, 32, 126 Palumbo, Nino, 126 Pampaloni, Geno, 126 Pantaleoni, Angelo, 121 Paoloni, Christian, 99 Papa, Enzo, 119 Parlagreco, Vito2 (personaje de “Filosofiana”), 14-17, 19, 25, 42, 43, 45-63, 48n, 58n, 65, 79, 81, 83, 88, 89 Parlagreco, Bastiano (hijo de Vito), 44 Parlagreco, Maria (hija de Vito), 44 Parlagreco, Michele (hijo de Vito), 44 Parniere, Anne, 113 Pascale, Vincenzo, 116 Pascual, José Antonio, 28 Pasolini, Pier Paolo, 127 Pastaro, Giovanni, 107 Paterniti Martello, Fabiola, 110 Paulicelli, Eugenia, 116 Pautasso, Sergio, 119 Pazó, Cándido, 100 Pederiali, Giuseppe, 126 2 (Vitu, Vituco, Vituzzo) 144 Pellegrini, Chiara, 110 Perrella, Silvio, 126 Pérol, Brigitte, 99 Perrone, D., 109 Petrucci, Livio, 110 Piccolo, Lucio, 110, 127 Piccitto, Giorgio, 27 Pichler, Anita, 19, 100 Pignone, Dario, 106 Pieiller, Evelyne, 33 Pirandello, Luigi, 76, 103, 130 Pitré, Giuseppe, 29 Pivot, Bernard, 22 Pizzuto, Antonio, 28 Plutarco (historiador griego), 52n Pogliani, Paolo, 32 Poljak, Ana, 100 Porzio, Domenico, 126 Prete, Antonio, 126 Q Quasimodo, Salvatore, 14n R Raboni, Giovanni, 32, 126 Racine, Patricia, 112 Ramondino, Fabrizia, 126 Rando, Giuseppe, 109 Renard, Marie-France, 118 145 Rodari, Gianni, 127 Rodríguez Gómez, J. Inés, 124 Romera Pintor, Irene, 2, 3, 18n, 98, 100, 120-124, 128 Recupero, Antonino, 118 Riccardi, Carla, 119 Ricorda, Ricciarda, 112 Ronfani, Ugo, 94 Rovira, Matilde, 121 Ruiz Marín, Diego, 27 Rustico, Lisa, 109 S Saavedra (personaje de “Filosofiana”), 40, 42 Saavedra Fajardo, Diego de, 40n, 86 Sager, Michel, 98, 108 Salonia, Eros, 109 Saltini, Giuseppe, 126 Santangelo, Nicoletta, 112 Santos Domínguez, Eloy-José, 101 Saraceno, Alessia, 108 Satta, Luciano, 33, 126 Savettieri, Chiara, 110 Sbrilli, Antonella, 111 Sciascia, Leonardo, 98, 110, 111, 126, 127 Scimeca, Pasquale, 15n, 124 Scuderi, Attilio, 111 Sebregondi, Maria, 32 Segre, Cesare, 9, 13, 18, 20, 41n, 74, 118, 124, 125, 127, 128, 130 Seix, Francisco (editor), 43n Sellerio, Enzo, 127 Sereni, Silvia, 31 146 Sgorlon, Carlo, 33, 126 Sgroi, Salvatore Claudio, 126 Siciliano, Enzo, 126 Sófocles (trágico griego), 52n Solà, Alexis Eudald, 98 Soler, Louis, 33, 126 Spampinato, Federica, 107 Spinazzola, Vittorio, 126 Spinello, Lorella, 108 Stajano, Corrado, 129 Steiger, Arnold, 29 Stendhal, 14 T Tanu (personaje de “Filosofiana”), 45, 46, 50, 62 Tedesco, Natale, 31, 32, 104, 126 Trismegisto, Hermes (alquimista y filósofo), 61, 61n Tiralongo, Arianna, 108 Tobia, Giovanna, 109 Tortora de Falco, Ludovica, 124 Traina, Giuseppe, 119, 129 Tropea, Giovanni, 27 Trovato, Salvatore C., 27, 106-108, 120, 122, 124, 125, 130 Trunfio, Demetrio, 112 Turchetta, Gianni, 18n, 32, 36, 126, 128 U Ubach Medina, Antonio, 115 147 V Valenti, I. M. B., 106n Van Orshoven, Annemieke, 115 Vázquez Montalbán, Manuel, 127 Vázquez Rial, Horacio, 126 Vecchio, Alfio, 111 Veneziano, Antonio, 104, 123 Verga, Giovanni, 31, 33, 129 Vignatti, Mirta, 98 Vilavedra, Dolores, 100 Vilella, Eduard, 120 Vita, Valérie, 113 Vitello, Gabriele, 111 Vittorini, Elio, 31, 110, 111 W Waly, Naglaa, 98, 99 Z Zancani, Diego, 123 Zanzotto, Andrea, 32, 126 Zappulla Muscarà, Sarah, 107

L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo



Giulio Ferroni
Università La Sapienza


Nel capitolo VI de Il sorriso dell’ignoto marinaio si svolge un’intensa interrogazione del senso della scrittura dei «cosiddetti illuminati», dei «privilegiati» che pure tentano di dar voce ai villani che si sono ribellati alle ingiustizie; se ne rileva il carattere di impostura, di fronte alla
difficoltà e impossibilità di far parlare le lingue “altre”, di trovare «la chiave, il cifrario dell’essere», lo strumento di accesso al mondo delle classi subalterne, alla loro espressione, al loro essere, al loro sentire e al loro risentimento. Entro questa insuperabile difficoltà viene chiamata più specificamente in causa l’insufficienza dei nomi, delle parole del codice politico, fatto di termini che restano estranei alle classi popolari; anche le grandi parole come «Rivoluzione, Libertà, Egualità, Democrazia» mostrano la loro incorreggibile parzialità. Di fronte a questa situazione, si delinea l’attesa di parole nuove, di nomi capaci di afferrare quella realtà che sfugge al linguaggio attualmente disponibile, conquistati dagli stessi soggetti che da quello sono esclusi: “Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose”1 . I nomi vengono ad essere, in effetti, nella loro evidenza, gli strumenti essenziali di un contatto con le cose, qui con una proiezione utopica (che risente ancora delle utopie sessantottesche) verso il sogno di un legame futuro, solidale, tra nomi e cose, verso una conciliazione che cancelli ogni scissione, ogni lacerazione tra il linguaggio e la realtà. 56 Ben presto però, nell’esperienza di Consolo, al di là di questa proiezione in avanti, si impone un movimento opposto che conduce la scrittura, nel confronto con l’evidenza dei nomi, a risalire all’origine, o comunque ad un perduto passato di conciliazione tra la realtà e il linguaggio. Essi si porranno allora come segni persistenti di ciò che è stato lacerato, segni che recano in sé le stigme del dolore, che manifestano la necessità e insieme l’impossibilità di un riconoscimento, di una risposta all’offesa del male e della violenza. Nel testo eponimo de Le pietre di Pantalica lo sguardo agli oltraggi subiti da Siracusa rinvia ad uno scritto di Alberto Savinio (Nivasio Dolcemare), Fame ad Atene, con il terribile ricordo di uno degli oltraggi subiti da Atene nella seconda guerra mondiale (la morte per fame di ottocento persone), e al modo in cui lo scrittore cercò di rievocare e difendere la memoria della città proprio affidandosi ai suoi nomi: “Allora lo scrittore, per quest’offesa all’umanità, per quest’oltraggio alla civiltà, fa una rievocazione della sua Atene servendosi dei nomi: di vie, di piazze, di bar, di ritrovi; di persone, di oggetti; e soprattutto di cibi, di dolci. Nomi scritti nella loro lingua, in greco. Roland Barthes ci ricorda che in latino sapere e sapore hanno la stessa etimologia. E anch’io allora, come Nivasio Dolcemare, vorrei, se ne fossi capace, rievocare la mia Siracusa perduta attraverso i nomi: di piazze, di vie, di luoghi … Ma soprattutto di cibi, di dolci, magari servendomi di un prezioso libretto, Del magiar siracusano, di Antonino Uccello. Ma, Antonino, ha senso oggi trascrivere quei nomi?”2 . La coscienza della divaricazione tra l’originario mondo della tragedia greca e l’uso delle contemporanee rappresentazioni in traduzione (proprio nella disastrata Siracusa) fa poi sorgere un’allocuzione ai mitici personaggi di Argo, città «ridotta a rovine», il cui ricordo può persistere, come quello di Siracusa o di Atene, solo nella parola originaria della poesia: “Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città”
3 . 2. 3 Ibidem. 57
Il rilievo del nome sostiene l’ampio uso che Consolo fa della enumerazione caotica e dell’elencazione seriale, che dà assoluta evidenza ai sostantivi nei loro diversi tipi, dai nomi propri (luoghi, persone, dati della storia e del mito, ecc.) a quelli comuni di cose materiali e concrete a quelli di cose astratte e ideali, ecc. Queste enumerazioni di nomi si collegano talvolta a scatti improvvisi della sintassi, tra inversioni e alterazioni ritmiche: il linguaggio viene così forzato in una doppia direzione, sia costringendolo ad immergersi verso un centro oscuro, verso l’intimità delle cose e dell’esperienza, verso il fondo più resistente e cieco della materia, il suo inarrivabile hic et nunc, sia allargandone l’orizzonte, dilatandone i connotati nello spazio e nel tempo, portandolo appunto a “vedere” la distesa più ampia dell’ambiente e a farsi carico della sua stessa densità storica, di quanto resta in esso di un lacerato passato e di faticoso proiettarsi verso il futuro. Nel IV capitolo di Nottetempo casa per casa il «maestricchio» Petro Marano, chiuso nella torre del vecchio mulino avuto in lascito, meditando sul dolore della propria famiglia, dopo essersi abbandonato ad un urlo indistinto e senza scampo, si aggrappa alla forza delle parole, che sono prima di tutto «nomi di cose vere, visibili, concrete», nomi che egli scandisce come isolandoli nel loro rilievo primigenio e assoluto e da cui ricava un impossibile sogno di un ritorno alle origini, di un rinominare capace di trarre alla luce una realtà non ancora contaminata dal dolore e dalla rovina. Nuovo inizio potrebbe essere dato appunto dalla trasparenza assoluta di nomi che designano una realtà senza pieghe dolorose, in un nuovo flusso sereno della vita e del tempo: “E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno …» scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento 58 in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”4 . Petro rinvia alla scaturigine dei nomi, che, quando designano cose concrete, sembrano mantenere ancora il nesso primigenio, la misura di quando nulla era ancora accaduto, di quando il male e il dolore non aveva ancora lacerato le possibilità dell’esperienza. E si noti come in questa elencazione, che la punteggiatura fissa in una sorta di forma pura, i vari nomi si succedano a gruppi, riferiti a diversi settori d’esperienza, secondo una progressione che va dalla solidità elementare della terra al richiamo aereo del volo e di uno spazio cosmico, fino alla colorata impalpabilità dell’arcobaleno. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio l’evidenza del nome si impone fi n dalle pagine iniziali, con lo sguardo del barone Mandralisca che si avvicina alla costa della Sicilia, la cui immagine si fissa nei nomi dei feudatari signori delle torri sormontate dai fani (si noti qui la quasi totale assenza degli aggettivi: c’è solo il generico grande e il numerale cinque). “Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo …”5 . Ai nomi dei feudatari che in quel momento dominano i luoghi succedono poi quelli delle città sepolte, evocate dalla sapienza archeologica del barone: “Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni”6 .  6 Ibidem. 59
Ecco poi più avanti un elenco dei pellegrini che procedono verso il santuario di Tindari e degli oggetti che recano con sé: “Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti con qua e là crescenze gonfi ori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano”7 . E si ricordino ancora più avanti i nomi elencati dal Mandralisca di fronte ai pazienti visitatori della sua casa- museo: “Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare ad una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli e valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma”8 . E del resto la figura stessa del Mandralisca, erudito e malacologo, raccoglitore e classificatore di oggetti, di dati e di date, è elettivamente disposta alla ricerca e alla sistemazione dei nomi, alla loro disposizione ed elencazione (e si può ricordare, sempre nel Capitolo primo, il sogno di farsi pirata per impadronirsi della «speronara» che sta trasportando chissà dove dei marmi: se potesse averli farebbe schiattare di rabbia altri collezionisti concorrenti, i cui nomi vengono anch’essi riportati in elenco)9 . Ma in tutta l’opera di Consolo si danno le più diverse variazioni, combinazioni, funzioni in questo uso dei nomi. Così nel racconto di cui qui presentiamo la traduzione di Irene Romera Pintor 7 Si noti qui la sottile scansione, con la successione dei tre membri introdotti nell’ordine da donne, vecchie, uomini, e poi il successivo elenco in cui risaltano i luoghi d’origine dei diversi prodotti, dove l’evidenza delle derrate alimentari è sottolineata dal complemento con il nome proprio, il tutto disposto in una sequenza di quattro settenari e di un endecasillabo: vino di Pianoconte,/ malvasia di Canneto,/ ricotte di Vulcano,/ frumento di Salina,/ capperi d’Acquacalda e Quattropani. 8  «Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina».
60 Pintor, Filosofiana, si può trovare una fitta presenza di nomi geografi ci e topografi ci, mentre fortissima suggestione ha l’elenco dei nomi delle erbe pronunciato dall’impostore don Gregorio: “E salmodiando, don Gregorio gettava sopra la balàta le erbe che prendeva a una a una dalla sporta, chiamandole per nome. «Pimpinella,» diceva «Petrosella, Buglossa, Scalogna, Navone, Sellerio, Pastinaca…»”10.
Ma vorrei insistere un po’ più diffusamente su Retablo, che prende avvio proprio da un nome, quello della donna amata da Isidoro, Rosalia, subito scomposto nelle sue due componenti, Rosa e Lia, poi ossessivamente ripetute. Ciascuna di queste due componenti dà avvio ad una serie di esaltate variazioni. La prima variazione scaturisce dal piano semantico di rosa, in un delirio floreale, carico di profumi e di colori, che dà luogo ad altre serie di termini moltiplicati. Dopo il nome e la sua scomposizione, rosa viene ripetuto quattro volte, ogni volta seguito da una relativa che ne specifica l’azione; poi si passa ad una negazione paradossale (Rosa che non è rosa) e a due nuove riprese di rosa, accompagnate ancora da relative, ma stavolta le relative danno luogo a predicati nominali, entro ciascuno dei quali si dispongono quattro termini con nomi di fiori (prima datura, gelsomino, bàlico e viola; poi pomelia, magnolia, zàgara e cardenia). A queste identificazioni della donna con i diversi fi ori succede l’immagine del tramonto, con il suo trascolorare (fissato nell’immagine della sfera d’opalina, cioè di un vetro traslucido e opalescente) e con l’addolcirsi dell’aria (forte l’espressività di sfervora, come se essa riducesse la sua febbre), seguita nel suo penetrare dentro il chiostro del convento e nel suo spandervi nuovi profumi (ancora con elencazioni seriali, prima dei predicati, coglie, coinvolge, spande, poi dei complementi aggettivati, odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi) che sembrano risultare da un’opera di

10 CONSOLO, V. (1988: 92). Vero tour de force quello della traduzione di Romera Pintor, in CONSOLO, V. (2008: 69): “Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre./ «Pimpinella» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…»”. 61

distillazione (e i balsami sono grommosi perché sembrano carichi di incrostazioni, di una sensuale impurità): “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ah!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”11. Sul secondo termine della scomposizione si svolge tutta una serie di variazioni foniche a partire dal significante lia, in un viluppo di termini che contengono la sillaba li o la sola labiale l (daliato a lumia a liana a libame, licore, letale, ecc., fi no a liquame). Dal nome Lia si svolge, come un vero e proprio denominale, il verbo liare (che indica un’azione simile a quella che fanno sui denti agrumi come il cedro e la lumia), a cui segue tutta una serie di sostantivi caratterizzati dalla posizione iniziale della sillaba li, da liana (che contiene in sé il nome Lia); si notino le voci dotte libame (latino libamen), «libagione» che agisce come una droga (oppioso), lilio per «giglio», angue per «serpente»; limaccia indica una «lumaca» che lo avvolge nei suoi vischiosi avvolgimenti, attassò, (siciliano da attassari, «assiderare, freddare»); lippo è il siciliano lippu, che indica il musco e in genere ogni pellicola viscosa che si attacca: “Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione”12. 12 Ibidem. 62 Ruotando sul nome e scomponendolo, in queste cascate di sostantivi che solo in pochi casi sono accompagnati da aggettivi, si svolge così un canto d’amore cieco e sensuale che si riavvolge su se stesso e che trova una figura esemplare, nel serpe che addenta la sua coda, del riavvolgersi di ogni esperienza su se stessa (è una figura, questa, molto cara a Consolo, come quella simile della chiocciola, riavvolta su di sé, in un percorso circolare che sempre torna al punto di partenza). Dopo questa scomposizione del nome della sua Rosalia, il frate ricorda di averla cercata nei luoghi più diversi di Palermo, fino ad identificarla in modo blasfemo con l’immagine della santa protettrice della città, Rosalia appunto, venerandone il corpo racchiuso nel sepolcro di cristallo nel celebre santuario del Monte Pellegrino: esasperata sensualità, erotismo, ossessione funebre, ritualità spettacolare, senso del peccato e della dannazione si fondono qui in un nesso inscindibile. Il nome di Rosalia viene ripetuto poi più volte, in diversi punti del libro; e al diario della peregrinazione del pittore Fabrizio Clerici si intreccia una confessione di Rosalia, che si scinde e si confonde in un’immagine singola e doppia, la Rosalia di don Vito Sammataro e la Rosalia di Isidoro che è in realtà «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»13. Nell’attraversare i luoghi della Sicilia, Fabrizio Clerici ne assapora i nomi propri, trae in luce i signifi cati che addensano in sé; e dalle più semplici etimologie può lasciar scaturire altre cascate di nomi, come qui, che dal nome di Salemi vengono fuori in successione altri nomi astratti, altri nomi geografi ci, altri nomi concreti: “Ma era certo insieme quel paese Salem e Alicia, luogo di sale e luogo di delizia, del rigoglio e del deserto, dell’accoglienza e dell’inospitale, della sterilità e del fico bìfero, ché subito, appena pochi passi oltre l’aridume, ove la terra veniva ristorata dalle fonti di Delia, Ràbisi, Gibèli, Rapicaldo, dal Gorgo della donna, la terra si faceva, come la Promessa, copiosa di frutti d’ogni sorta, e di pascoli, di vigne, d’olivi, di sommacco”14.. 63 Poco più avanti si ascolta don Carmelo Alòsi, esperto nell’arte «degli innesti e della potatura», elencare, come «un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini» che ha conosciuto e in cui ha lavorato: “di Francofonte o di Lentini, della Conca d’Oro o del Peloponneso, di Biserta o d’Orano, di Rabat o di Marrakech o di Valencia. Come pure i giardini di capriccio e d’ornamento, piccoli come quelli di Mokarta, del Patio de los Naranjos sotto la Giralda di Siviglia, del Generalife sopra all’Alhambra di Granada o quello delle latomìe del Paradiso in Siracusa”15. Ma la campionatura dei nomi di Retablo può agevolmente condurre dai nomi geografi ci e topografi ci a quelli mitici. Così da una epigrafe greca di Selinunte sgorga una serie di nomi di classiche divinità: “Vinciamo per Zeus, per Phobos, per Eracle, per Apollo, per Poseidon e per i Tindaridi, per Athena, per Malophoros, per Pasikrateia e per gli altri dèi, ma per Zeus massimamente…”16. Ci sono poi i nomi storici, come quelli delle famiglie nobili di Trapani di cui don Sciavèrio Burgio presenta le dimore, a cui seguono i nomi delle chiese: “- Del barone Xirinda –dicea– del duca Sàura, dei signori Scalabrino, del marchese Fardella, del barone Giardino, Piombo, della Cuddìa, di San Gioacchino, dei signori Pèpoli, Staìti; e ancora: Poma, Todaro, Reda, Milo, Salina, Bartalotta, Riccio, Pandolfina, Rapì, Arcudaci… Quindi le chiese, più belle, più imponenti: del Collegio, di san Lorenzo, di Santo Spirito, della Badia, del Monserrato…”17. In questo delirio dei nomi, quello del poeta Giovanni Meli, ricordato dal pastore Alàimo, dà luogo ad una serie di variazioni paronomastiche: 64 “D’un poeta di qua, mi disse dopo, da tutti conosciuto e frequentato, di nome Meli. Ma Mele dico ei doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male”18. Ecco poi gli elenchi di nomi di oggetti, come quelli che popolano la casa-museo del Soldano: “… mi parve d’entrare nel museo più stivato e vario. V’era per tutte le pareti, sopra mobili e mensole, capitelli e basi di colonne, dentro nicchie e stipi, pendenti fi nanco dal soffi tto, ogni più bello e prezioso o più orrido e peregrino oggetto. Integri e lucidi e con disegni limpidi, neri crateri sicoli e attici, anfore oriballi coppe pissidi lecane, teste e gambe e torsi di terre cotte e marmi, arcaici rilievi di frontoni, di corrose metopi, luminosi parii di dèe e divi e d’eroi mitici di grecanica, fattura nobilissima o nei rifacimenti de’ romani; tavole dorate bizantine, croci dipinte, pale dei Fiamminghi, e vaste tele delle scuole del Sanzio, del Merisi o del Vecellio; stemmi, pietre mischie, conche di porfido, retabli gagineschi, calici incensieri cantaglorie, teschi d’avorio o maiolica sopra le cartapecore di codici e messali; cereplaste di Vanitas, morbi, pesti, flagelli e di Memento mori…”19. Come sintesi esemplare di questa furia della nominazione che agisce in ogni momento di Retablo, che agisce allo stesso modo sul frate siciliano sfratato e sul viaggiatore milanese che attraversa la Sicilia (anche se questi mette in bocca molte di queste serie di nomi a siciliani, a ospitali personaggi incontrati durante il suo viaggio), si può ricordare la pagina seguente, che si svolge in accumuli successivi di nomi di ordini diversi, da nomi geografi ci a nomi di navi a nomi di merci di ogni sorta. Siamo davanti al porto di Trapani (come fatto riavvolgere su se stesso attraverso il gioco paronomastico porto/ porta, in più complicato dal superlativo importantissima), la cui immagine balena in tutta evidenza davanti al lettore grazie ad una sorta di litania, attribuita da quel don Sciavèrio che accoglie i viaggiatori (e proprio letàne viene chiamata, non senza una certa ironia, quasi un fuggevole. 65 do autoironico di Consolo alla propria così pervicace e suggestiva passione per i nomi): “In quel porto, ch’è porta importantissima d’ogni incrocio e scambio, d’ogni più vario mondo, d’ogni città di traffico e commercio d’infra e fuori Regno, del settentrione e del meridione, del levante e del ponente, d’ogni isola, costa o continente: di Cipro, Rodi, Candia, Malta e di Pantelleria, d’Amalfi , Procida, Livorno, Lucca, Pisa, Genoa e Milano, di Venezia e di Ragusa, di Barcellona, Malaga, Cadice, Minorca… Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffi co, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, poi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favignana, Scopello e Bonaglia, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolizia, sommacco, pelli, solfo, tufi , marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, fl anella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca… Queste letàne me le cantò orgoglioso un trapanese, cònsolo del Corpo dei naviganti, patrone di vascelli, don Sciavèrio Burgio…”20.
 20 CONSOLO, V. (1987b:132). 66 BIBLIOGRAFIA: CONSOLO, V. (1987a): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Introduzione di Cesare Segre, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1987b): Retablo, Palermo: Sellerio. CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (2006): Nottetempo casa per casa, Prefazione di Giulio Ferroni, Torino: UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci. CONSOLO, V. (2008): Filosofiana (relato de Las piedras de Pantálica), Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor, Madrid: Fundación Updea Publicaciones


La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


Presentazione del libro Filosofiana, di Vincenzo Consolo racconto tratto dal libro le “Pietre di Pantalica”. Madrid istituto Cervantes. Il 17 di aprile 2008 Presenta: Manuel Gil Esteve (Cattedratico de Filologia Italiana. Universidad Complutense. Partecipano: Renzo Cremante, Cattedratico de Filologia Italiana Director del Fond de Manuscritos de Autores Contemporaneos. Università di Pavia. Salvatore Trovato, Cattedratico de Linguistica Universidad de Catania. Irene Romera Pintor: Professora Titular de Filologia Italiana. Univesidad de Valencia.

Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Prima parte.
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Seconda parte
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Terza parte.

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano

VINCENZO CONSOLO

“Al Señor Antonio Veneziani. Señor mio: dichiaro alla Signoria Vostra, come cristiano, che sono tante le fantasticherie che mi affaticano, che non mi hanno permesso di portare a compimento come volevo questi versi che Le invio, in segno del desiderio che ho di servirla, già che questo mi ha indotto a far vedere così presto i difetti del mio ingegno, fiducioso che l’alto ingegno della Signoria vostra accoglierà le mie scuse e mi animerà affinché in tempi più tranquilli non tralasci di celebrare come potrò il cielo che così tristemente la trattiene su questa terra, dalla quale ci liberi Dio, e la porti in quella dove vive la vostra Celia.
Ad Algeri, il 6 Novembre del 1579 Della Signoria Vostra vero amico e servitore. Miguel de Cervantes”. Questa lettera e le ottave a Antonio Veneziano, che essa accompagna, furono scoperte nel 1914, nella Biblioteca Nazionale di Palermo, dal professore Eugenio Mele. Lettera e versi entrarono quindi nelle Obras completas di Cervantes, a cura di Rodolfo Schevill e Adolfo Bonilla (Madrid, 1914-31). Questi alcuni versi delle Ottave a Antonio Veneziano: “Il cielo, che contempla il vostro ingegno, ha voluto impiegarvi in queste cose, e segue i vostri passi perché aspira a innalzarvi, per Celia, sino al cielo: (…)
Mi sorprende veder che quel divino ciel di Celia nasconde un vero inferno, e che la forza della sua potenza vi abbia costretto a piangere e a pensare”. Chi era Antonio Veneziano a cui Cervantes indirizza quella lettera, piena di formale deferenza ma venata d’ironia, e le Ottave? el 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il 3º centenario della sua morte. Scrive il bibliotecario della Società Giuseppe Lodi: “Di Antonio Veneziano, l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI, ricorreva nell’Agosto del 1893 il terzo centenario della morte, avvenuta per lo scoppio di una polveriera, mentr’egli era detenuto entro il forte di Castellamare. La ricorrenza di questo avvenimento non potea lasciarsi passare inosservata da una Società, come la nostra, la quale (…) non trascura, all’occorrenza di tener desti con solenni commemorazioni l’amore e la riverenza per quanti hanno onorato con il loro ingegno e le loro opere questa non infima parte d’Italia, questa nostra prediletta Sicilia”. C’era spesso nei membri di quelle Società o Accademie un po’ di ampollosità, un po’ di retorica. Retorica non vi è invece in uno scienziato, un demopsicologo o etnologo: Giuseppe Pitré. Scrive nel fascicolo: “io imposi a me stesso l’assoluto silenzio sulla sua vita. Me lo imposi, non per manco di ammirazione per l’illustre poeta, ma per la ferma convinzione ch’ebbi sempre, ed ora più che mai ho, delle inesattezze e, lo dico senza reticenze, dei grossi errori che sono stati scritti su di lui”. Grossi errori, come afferma il Pitré, nati dalla leggenda popolare in cui il Veneziano era stato avvolto, a cui venivano attribuite vicende, spesso fantastiche o surreali, e rime che erano spesso di malaccorti epigoni. Un altro scritto del fascicolo è del monrealese canonico Gaetano Millunzi. Che stende la prima documentata biografi a del Veneziano. Il poeta nasce nel 1543 da una ricca famiglia di origine veneziana, come denuncia il cognome, ma che è ben assestata, già dal Quattrocento, in quel di Monreale, all’ombra della gran cattedrale dei re normanni. Il padre, Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, ebbe ben tre mogli, un figlio dalla prima moglie, uno dalla seconda, e ben sette dalla terza, di nome Allegranza Azolina. Antonello, detto Antonio dopo la morte del padre, era il terzo di quest’ultima nidiata. Ancora nella prima adolescenza fu mandato a Palermo per studiare nel collegio dei Gesuiti, quindi a Messina e infine a Roma. È un periodo, questo del Veneziano, di severi studi: di filosofia e teologia, di lingua e letteratura italiana, latina, greca, ebraica. Nel Collegio Romano ha come professore Francesco Toleto, il quale, oltre a insegnare la filosofi a tomista, inizia gli allievi agli studi di giurisprudenza. Studi che saranno utili al Veneziano quando, lasciata la Compagnia di Gesù, ritorna a Monreale e inizia tutta una serie di cause civili contro fratelli e parenti per la divisione della roba, dell’eredità paterna; e cause penali perché accusato non solo dell’omicidio di un tal Polizzi, ma anche del rapimento di Franceschella Porretta, serva della terziaria domenicana suor Eufrigenia Diana. Per questo rapimento la madre lo disereda perché “figlio disubbidiente”, come scrive nel testamento. “Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano”. Scrive del Veneziano Leonardo Sciascia1. E pensa Sciascia, che questo carattere, questo maledettismo del poeta siano stati una reazione alle costrizioni dell’educazione gesuitica. E, malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive, il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire anonime
affisse sui muri. Sospettato quale autore di una di queste satire, un cartello, “appizzato alla cantonera di don Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni”, contro il viceré conte di Albadeliste, definito uomo “fatale”, vale a dire jettatore, fi nisce nel carcere di Castellamare. Nell’educazione presso i Gesuiti, nell’accusa di omicidio, nella cultura e nelle composizioni poetiche per gli archi di trionfo, nel 1 Sciascia, L. (1967): “Introduzione a Antonio Veneziano”, Ottave, Einaudi: Milano. continuo assillo per le difficoltà economiche, nei disordini della famiglia paterna, nella varie incarcerazioni infine, non possiamo non vedere una curiosa specularità tra la vita di Cervantes e quella di Antonio Veneziano. Specularità che poi diviene immedesimazione nella comune condizione di schiavi nei bagni di Algeri. Il 1574 è l’anno in cui il Veneziano fa donazione di tutti i suoi beni ad Eufemia de Calogero, figlia di sua sorella Vincenza, la quale Eufemia è obbligata per contratto e rimanere nubile e a non farsi monaca. Questa donazione ha fatto sorgere il sospetto che ad Eufemia, la nipote, fossero indirizzate canzoni d’amore della Celia, che fosse insomma, quella di Veneziano, una passione disdicevole, vergognosa. Canta:

“Donna d’auti biddizzi fatta ‘n Celu,

mandata pri ricchezza e gloria in terra,

cu l’occhi toi lu diu di l’aureu telu

fa quasi all’universu ingiuria e guerra;

si sa quanta npi tia m’ardu e querelu,

tempra, si poi, st’arduri chi m’atterra,

ch’in tanta estrema dogghia, affannu e jelu

non dura lungamente omo di terra”.

Il 25 aprile 1578, Veneziano s’imbarca a Palermo sulla galea Sant’Angelo, al seguito di don Carlo d’Aragona, imbarcato a sua volta sulla galea detta Capitana. Al largo di Capri, vengono assalite, le due navi, da galee corsare. La Capitana riesce a fuggire, la Sant’Angelo viene bloccata dai corsari. “Gagliardamente si combatte con mortalità d’entrambe le parti, ma arrivate dopo l’altre da fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d’archibugiate, furono astretti li difensori a buttare l’armi, a rendersi vivi”. Scrive il monaco cassinese Giovanni Tornamira. Antonio Veneziano viene dunque preso, insieme ad altri, chierici e frati soprattutto, e portato schiavo in Algeri. “Cervantes si trovava schiavo in Algeri da tre anni. Può darsi avesse già conosciuto il Veneziano durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reciproca estimazione letteraria, se non di amicizia”. Scrive ancora Sciascia. Ne La nenia così lamenta il Veneziano: “…

l’alma in Sicilia,
già temp’è cattiva,
in manu de la diva,
cinta di forti amurusa catina,
… e lu corpu in Algeri,
fattu di genti barbara suggettu
chì, di lu gran rispettu
di stà partenza e di gran pinseri
acerbamente offi su
era lu cori esanimatu estisu”.

“Ai primi di settembre (1575) Cervantes, soldato aventajado (scelto), s’imbarca a Napoli sulla galera El Sol. Comandata da don Gaspar Pedro de Villena, questa era una delle quattro navi costituenti la piccola fl otta agli ordini di don Sancho de Leiva, che si disponevano a fare rotta per Barcellona (…) Assieme a Miguel, salgono a bordo, oltre al fratello Rodrigo e a qualche loro amico, diverse personalità di rilievo. (…) In capo a qualche giorno la tempesta disperde le galere. Tre di esse riusciranno infi ne ad arrivare in porto; ma l’ultima, El Sol, sarà sorpresa dai corsari barbareschi, e i suoi passeggeri condotti come prigionieri ad Algeri”. Così racconta Jean Canavaggio2 in Cervantes. In questo assalto dei corsari avrà provato, il futuro autore del Don Chisciotte, le stesse ansie, le stesse paure dell’archibugiere Miguel de Cervantes imbarcato sulla Marquesa in quel 7 ottobre del 1571; ma avrà dimostrato lo stesso coraggio, coraggio che allora, nella battaglia di Lepanto, gli costò la perdita della mano sinistra. Sulla mano perduta, così risponderà al falso Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa del Don Chisciotte, il quale l’accusa d’essere vecchio e monco e quindi incapace di scrivere la seconda parte del suo romanzo: “Ciò di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi si accusi d’esser vecchio e monco, come se fosse stato in mio po-
2 CANAVAGGIO, J. (1986): Cervantes, biographie, Mazarine: Paris.

tere fermare il tempo perché non passasse per me, o come se l’esser monco, mi fosse stato cagionato in qualche bettola e non nella più illustre battaglia che abbiano visto i secoli passati e i presenti…”. È il rinnegato albanese Arnaut Mami che porta schiavo in Algeri Cervantes e i suoi compagni. Miguel ha solo ventotto anni quando è portato in catene ai bagni. Ci dice, Cervantes, di questa sua cattività durata cinque anni, nel racconto del Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte, nelle commedie La vita ad Algeri e I bagni di Algeri. Ma una notizia della prigionia di Cervantes ce la dà l’inquisitore di Sicilia, e quindi arcivescovo di Palermo e presidente del Regno di Sicilia, Diego de Haedo, autore della Topographia e Historia general de Argel (Valladolid, 1612). L’Haedo, raccogliendo notizie dagli schiavi cristiani riscattati, ci racconta tutto su Algeri, sui corsari, sui cristiani là prigionieri. Nel Dialogo secundo, il prigioniero capitan Geronimo Ramirez racconta al dottor Sosa del fallito tentativo di fuga da Algeri di Cervantes per il tradimento di un rinnegato di Melilla soprannominato El Dorador, dice che i turchi presero tutti i cristiani che stavano per fuggire, “y particolarmente a Miguel Cervantes, un hidalgo principal de Halcalà Henares, que fuera el autor deste negozio y era portanto mas culpado…”. Avrebbe dovuto essere punito, il nostro don Miguel, ma, ci racconta ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Hassan Agà (il Saavedra) non lo bastonò mai, e neanche gli rivolse mai parole offensive; noi temevamo che sarebbe stato impalato ad ognuno dei suoi tentativi di fuga, cosa di cui lui stesso ebbe paura più di una volta”. E ci racconta ancora Diego de Haedo di Cervantes schiavo di Dali Mami, detto El Cojo, lo zoppo, quindi di Ramadan Pascià e infine del terribile Hassan Agà, un rinnegato veneziano che divenne re di Algeri. Nell’aprile del 1578, quando Antonio Veneziano finisce nel bagno di Algeri, Cervantes è appena uscito dal quarto fallimento di evasione dalla prigione per la delazione del prete rinnegato Juan Blasco. Si conoscono là i due, Cervantes e Veneziano, o si riconoscono dopo il loro primo incontro a Palermo? I due, in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni.

“Non rescatar, non fugir

Don Juan no venir

acà morir…”.

Cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutti e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda, “… il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello stesso colore”. Antonio Veneziano giunge in Algeri infiammato d’amore, pazzo d’amore: per la nipote Eufemia o per una bella e irraggiungibile signora? Signora che sarebbe stata, secondo gli studiosi Caterina e Giuseppe Sulli (Antonio Veneziano, Palermo, 1982), Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, il comandante della fl otta veneziana nella battaglia di Lepanto, allora viceré di Sicilia, al cui figlio, Ascanio, Cervantes, dedica La Galatea. Ad avanzare l’ipotesi della passione del Veneziano verso la viceregina c’è una ottava del poeta che così termina:

“Pirchi’ mi tratti comu li ‘nnimici?

Rimedia cu lu meghiu modu c’hai,

Filici, fi licissima, Filici”.

Là, nel bagno di Algeri, il Veneziano avrebbe scritto La Celia. E là, nel bagno, sembra che Cervantes abbia scritto Vita ad Algeri e incominciato la stesura de La Galatea. Inimmaginabili sono gli incroci della storia, nonché della poesia. Nel 1650, un gruppo di nobili siciliani congiurava contro il viceré don Giovanni d’Austria, vagheggiando di porre sul trono di un regno indipendente di Sicilia don Giuseppe Branciforti, conte di Mazarino e principe di Butera. La congiura falliva per la delazione del prete Simone Rao e per la confessione dello stesso Branciforti. Sei dei congiurati furono giustiziati. Il Branciforti lasciava quindi Palermo e si ritirava a Bagheria, tra la fenicia Sòlunto e la greca Imera, si faceva là costruire una villa e si chiudeva in quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Sull’arco d’ingresso della villa faceva incidere un emistichio del Tasso, O corte a Dio, e oltre, sopra un altro arco, questi versi in spagnolo:

“Ya la esperanza es perdida

Y un solo bien me consuela

Que el tiempo que pasa y buela

Lleverà presto la vida”.

E sono i versi questi che recita Teolinda nel Libro primo de La Galatea di Cervantes. Ma ritorniamo al bagno di Algeri, ai due poeti là rinchiusi, Cervantes e Veneziano. Il monrealese, preso com’è dal “vendaval erótico”, come lo defi nisce Américo Castro, dalla bufera d’amore per la nipote Eufemia o per Felice Orsini, scrive là La Celia, e Cervantes (anche lui forse in quel momento nella bufera d’amore, se nel personaggio di Lauso de La Galatea dobbiamo riconoscere lo stesso autore), e Cervantes scrive là le Ottave per Antonio Veneziano. Veneziano viene riscattato nel 1579, e il cronista Ortolani così scrive:

“Fu fatta festa in Palermu pillu ricattu e ritornu di lu celebri

poeta Veneziano”.

Morirà poi, il povero poeta, il 19 agosto 1593, come sappiamo, per l’incendio (doloso, sembra) e lo scoppio della polveriera nel carcere di Castellamare. E morirà, in quello scoppio, anche Egisto Giuffredi, l’autore di Avvertimenti cristiani. Cervantes, riscattato, lasciava Algeri il 24 ottobre 1580. Dice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”. E sarà, quella di Cervantes, una vita libera, ma, come quella di prima della prigionia in Algeri, una vita molto tribolata. Nulla però gli impedirà di concepire (nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio -1592) e di scrivere quindi le avventure dell’ingegnoso hidalgo, di don Alonso Quijana, ribattezzatosi Don Chisciotte della Mancia, e del suo fi do scudiero Sancio Panza. Don Chisciotte, il primo grande romanzo della storia letteraria, uno dei grandi capolavori dell’umanità. Nel 2005 ricorreva il quarto centenario della prima pubblicazione del romanzo. E, nell’aprile di quell’anno, ad Alcalà de Henares, nella casa natale-museo di Cervantes, si inaugurava la mostra delle prime edizioni del Quijote, in cui compariva l’edizione del 1610, stampata a Milano “por el Heredero de Pedromartir Locarni y Juan Bautista Bidello”, e dedicata dal Cervantes, questa edizione, non più al conte di Bejar, ma “All’Ill.mo Señor el Sig. Conde Vitaliano Vizconde”. Abbiamo voluto sin qui raccontare della prigionia in Algeri di due poeti, Cervantes e Veneziano. Ma abbiamo anche voluto signifi care, soprattutto attraverso Cervantes, la terribile vita che si svolgeva allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo, in questo spazio dove si svolge il grande poema omerico e dove sono nate le prime grandi civiltà della storia umana. Terribile vita allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo. E terribile di nuovo oggi, dopo cinque secoli, per le tragedie quasi quotidiane che tra queste sponde si consumano. Tragedie di poveri infelici che fuggono da luoghi di guerra, di malattia e di fame e che cercano salvezza in questo nostro mondo di opulenza e di alienazione. Infelici che spesso trovano la morte per acqua, come l’eliotiano Phlebas il Fenicio, naufragano presso le sponde di Sicilia e di Spagna. E con dolore dunque possiamo ripetere le parole di Fernand Braudel, riferite all’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari

03/11/2005 – La prigione dei destini incrociati: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano nei bagni di Algeri
Instituto Cervantes Napoli

14/04/2008 Universitat de Valencia. Spagna.La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO



Antonio Veneziano e Miguel de Cervantes



Consolo narratore e scrittore palincestuoso*

Daragh O’Connell

University College Cork, Ireland

Coláiste na hOllscoile Corcaigh, Éire

 

Il contributo tenta di delineare la poetica di Vincenzo Consolo attraverso i suoi interventi giornalistici e saggistici e attraverso momenti «testuali» della sua trilogia narrativa: Il sorriso dell’ignoto marinaio; Nottetempo, casa per casa; Lo Spasimo di Palermo. Introduzione Non c’è pagina in Consolo in cui egli non decida di entrare nel merito del maneggio delle parole e non si confermi ricercatore verbale e poeta di primaria destrezza. Per cominciare, è d’obbligo dire qualcosa sul titolo scelto per queste pagine, un titolo abbastanza ambiguo e forse troppo ambizioso: «Consolo narratore e scrittore», oppure avrei forse dovuto proporre «Consolo narratore o scrittore»? I due termini hanno, infatti, una funzione alquanto importante per il modo in cui il nostro autore cerca di delineare la sua poetica. In un racconto-chiave pubblicato per la prima volta nel 1981 e intitolato Un giorno come gli altri, Consolo fa una netta distinzione fra il narrare e lo scrivere. Vi si legge: * Un ringraziamento particolare a Caterina Pilenga Consolo per l’aiuto prestatomi e i materiali fornitimi, non certo di facile reperibilità. È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta  edimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia, arretrata, regressiva. Diverso è lo scrivere […] mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora.1 Qui Consolo trae spunto dalle idee di Walter Benjamin raccolte in Angelus Novus e, in particolare, dal saggio su Nicolaj Semënovicˇ Leskov.2 L’immagine del narratore «dalla testa stravolta» ci rimanda non soltanto alla famosa icona di Paul Klee, cara a Benjamin, ma anche al Tiresia dantesco condannato a camminare con la testa rivolta indietro proprio perché ha guardato troppo in avanti.3 Consolo si identifica nel ruolo di narratore, quindi di artefice non più di romanzi ma di narrazioni; laddove narrazione è da intendere nel senso più arcaico del termine, quello dei poemi narrativi, per cui dai suoi libri vengono bandite tutte quelle forme di intreccio, di plot, tutte quelle forme intrattenitorie vive nel romanzo, e si ha invece la restituzione di un’esperienza. Molto spesso quest’esperienza è un’esperienza di viaggio, il viaggio nella memoria, o il viaggio reale nello spazio o nel tempo.4 Tuttavia, sebbene Consolo si autodefinisca narratore prima che scrittore, è pure necessario entrare nel suo scriptorium, cioè mettere prima a fuoco il Consolo scrittore, se vogliamo intendere le procedure sottese alla gestazione dei suoi testi, al loro divenire «narrazioni». Adesso, è il caso di chiarire il terzo elemento del titolo: palincestuoso. Con la divulgazione dei lavori di Michail Bachtin sulla  lurivocità e la polifonia abbiamo tutti appreso che nel genere romanzesco s’intrecciano molte voci e molti linguaggi. Ci sono anzitutto, nella parte non dialogica, i vari linguaggi sociali, espressione di ideologie, classi, mestieri, ambienti: l’uso dei termini che vi afferiscono costituisce una concentrata allusione alla vicinanza e alle eventuali tensioni fra i vari strati. Cesare Segre nel suo famoso saggio sul Sorriso afferma che il plurilinguismo di Consolo è anche nettamente plurivocità e che l’autore siciliano va avvicinato all’altro grande del Novecento, Carlo Emilio Gadda.5 Ma nel caso di Consolo la definizione ha un ulteriore senso, se si considera che tra le «voci» della sua grande polifonia una, spesso dimenticata nel suo funzionamento, è proprio la voce «letteraria»: i rimandi alla tradizione che precede le sue opere. È questa la voce che mi interessa di piú nella complessiva polifonia di Consolo, perché porta alla sua poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura, cioè al carattere palinsestico della sua scrittura. Nel saggio Lo spazio in letteratura scrive Consolo: «Omeros in Greco antico significa ostaggio: il poeta vale a dire è ostaggio della tradizione, della memoria, e della memoria letteraria soprattutto», ed è proprio su questa «memoria letteraria» che vorrei soffermarmi in questo articolo.6 Questa duplicità d’oggetto può venir rappresentata, nel campo delle relazioni testuali, dall’antica immagine del palinsesto. Un palinsesto —si sa— è una pergamena che contiene due testi sovrapposti, e in cui l’originale non è del tutto cancellato ma rimane visibile in trasparenza.7 La loro relazione, volendo ricorrere a Gérard Genette, è ipertestuale: ipertesti derivati da ipotesti. Per Genette, nel campo della transtestualità, l’ipertesto è un testo B messo in relazione con un testo anteriore, testo A, da lui chiamato ipotesto. Perciò, ipertestuale è ogni relazione che unisca l’ipertesto all’ipotesto, ma nella quale il primo s’innesti sul secondo in una 5. Cesare Segre, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci: La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86. 6. Vincenzo CONSOLO, «Lo spazio in letteratura», in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 266. 7. Esiste un lunga tradizione sulla nozione di palinsesto (παλµψηστ ς) nel campo della letteratura e del pensiero occidentale. Il termine veniva usato da Plutarco nei Moralia (504D, 779C) per denotare metaforicamente il manifestarsi di un aspetto del carattere. Nelle speculazioni storiche dell’Ottocento il termine aveva un ruolo trascrittivo. Nel saggio «On History» [1830] Thomas Carlyle postula un’investigazione del passato, che sia capace d’illuminare sia il presente sia il futuro, e continua: «For though the whole meaning lies beyond our ken; yet in that complex Manuscript, covered over with formless inextricably-entangled unknown characters, —nay which is a Palimpsest, and had once prophetic writing, still dimly legible there, —some letters, some words, may be deciphered» (Thomas CARLYLE, Works, V, London: Chapman and Hall, 1906, p. 500). Da Thomas De Quincey il termine viene abbinato al cervello umano. Nel suo Suspira de Profundis [1845] scrive: «What else than a natural and mighty palimpsest is the human brain?… Everlasting layers of ideas, images, feelings, have fallen upon your brain softly as light. Each succession has seemed to bury all that went before. And yet, in reality, not one has been extinguished». De Quincey nota anche che nella vecchiaia in modo particolare gli «endless strata» della mente umana sono presenti, ma non come una successione «but as parts of coexistence». Cfr. T. DE QUINCEY, «The Palimpsest of the Human Brain», The Collected Writings of Thomas De Quincey, ed. David MASSON, Edinburgh: Adam & Charles Black, 1890, p. 346 e 348. Non dimentichiamo poi l’uso del termine adoperato da Niccolò Tommaseo per stigmatizzare lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, come peraltro ci ricorda Consolo: «Leopardi stesso, pur adottando il codice toscano, ha una «infinita» espressività interna, rimanda ai classici; c’è, nelle sue liriche, una continua citazione dei classici italiani, latini, greci, al punto che Tommaseo dice, e lo dice in senso critico, che la scrittura di Leopardi è un palinsesto mal cancellato» (Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria», Cuadernos de Filologia Italiana, 3, 1996, p. 252). maniera che non sia quella del commento.8 Questa è la base della scrittura palinsestica. Pastiche e parodia, è stato giustamente affermato, «designano la letteratura come palinsesto»; e ciò vale per qualunque ipertesto ed è quanto Borges già diceva del rapporto fra il testo e i suoi avantesti.9 Quindi, l’ipertesto ci invita a una lettura relazionale. Ed è pure interessante che in uno dei suoi ultimi interventi in Spagna Consolo così sintetizzava: La vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto.10 Consolo è certamente uno scrittore palinsestico, ma per ragioni che spero queste pagine chiariranno, possiamo anche andare oltre ed applicare un termine molto felice, e forse un po’ perverso, coniato da Philippe Lejeune nel suo Moi aussi: in un deliberato gioco di parole e di grafie, si potrebbe dire che, anzichè palinsestico, Consolo è invece uno scrittore palincestuoso, «palimpsestueuse», giacché il suo rapporto con i testi anteriori ci sembra molto più intenso e più stretto rispetto ad altri scrittori, ed è un rapporto quasi famigliare.11 Consolo ci pone costantemente di fronte a una poetica intensamente iperletteraria, un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni. Tale interesse per nozioni puramente letterarie, quali la tradizione e la ricerca di materializzazione di espressioni letterarie, può far pensare a un atteggiamento reazionario o fuori dal tempo da parte dell’autore e rischia di distoglierci dalla questione centrale: l’intera produzione narrativa di Consolo tende alla realizzazione della sintesi tra poetica ed etica e, nonostante le sue difficoltà, offre al lettore esempi letterari unici ben lontani dalle mode e dalle correnti culturali a lui contemporanee. Le procedure poetiche di Consolo, presenti all’interno di tutta la sua produzione narrativa, lo costringono a un innesto di intertesti, l’autore inoltre seleziona e pone gomito a gomito linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro, oscilla tra registro alto e basso e fonde forme metriche all’interno della sua prosa narrativa. 8. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. Raffaella Novità, Torino: Einaudi, 1997, p. 7-8. 9. Ruth Amossy e Elisheva Rosen, «La dame aux catleyas: fonction du pastiche et de la parodie dans A la Recherche du Temps Perdu», in Littérature, 14: maggio 1974, p. 55-64. Nel racconto «Pierre Menard, autor del Quijote» (El jardín de los senderos que se bifurcan, 1941) Borges scrive: «He reflexionado que es lícito ver en el Quijote «final» una especie de palimpsesto, en el que deben traslucirse los rastros —tenues pero no indescifrables— de la «previa» escritura de nuestro amigo [si tratta del Menard del titolo]». Cfr. Jorge L. Borges, Ficciones, in ID., Obras Completas I. 1923-1949, Buenos Aires: Emecé, 1996, p. 450. 10. Vincenzo Consolo, «Ma la luna, la luna…», in Irene Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport, 2006, p. 71-72. 11. Philippe Lejeune, Moi aussi, Paris: Editions du Seuil, 1986, p. 115. Il termine originale è quello tra virgolette. Cfr. inoltre Gérard Genette, Palinsesti, cit., p. 469. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 165 2. Il sorriso dell’ignoto marinaio. Tra letterarietà ed erudizione Per ovvie ragioni di spazio non mi dilungherò su Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma vorrei sottoporre all’attenzione critica almeno due esempi di intertestualità che nel libro mi sembrano rilevanti, non solo per quel che richiamano a livello testuale, ma anche perché costituiscono, diciamo, i due poli estremi dell’approccio intertestuale di Consolo. Gli esempi sono ambedue desumibili dal capitolo I del capolavoro consoliano. Il primo si può leggere nel paragrafo 3 del capitolo e costituisce una sorta di rottura narrativa, un movimento all’interno di un reame storico/immaginario. L’aver nominato, nel paragrafo precedente, la città di Brolo genera questa rottura o movimento: in effetti, fu proprio al castello di Brolo che, secondo la leggenda, Bianca Lancia fu l’amante dell’Imperatore Federico II di Svevia. Scrive Consolo: Al castello de’ Lancia, sul verone, Madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce.12 L’evidente rimando è a Dante, in cui il riferimento a Federico II è cosí contestualizzato: «Quest’è la luce de la gran Costanza/ che del secondo vento di Soave/ generò‘l terzo e l’ultima possanza» (Paradiso, III 118-120). Inoltre, l’uso della forma verbale «guata» rinvia direttamente alla prima similitudine della Commedia: «E come quei che con lena affannata,/ uscito fuor del pelago a la riva,/ si volge a l’acqua perigliosa e guata,/ così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/ si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva» (Inferno, I 22-27).13 Ma il «vento di Soave» consoliano è una forma doppia di intertestualità, perché allude anche a Lucio Piccolo e al suo modo di figurarsi poeticamente la costa tirrenica siciliana. Ne Le pietre di Pantalica, infatti, Consolo racconta la storia di Piccolo e riferisce il suo modo di parlare di questa zona: O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto»). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?».14 Questa forma di intertestualità suggerisce una sorta di tecnica di trapianto, per mezzo della quale elementi del testo precedente vengono innestati sul 12. Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio [1976], Milano: Mondadori, 1997, p. 12. Tutte le successive citazioni da quest’opera rimandano a questa edizione e saranno seguite dall’abbreviazione Sim. 13. Per una lettura del Sorriso in chiave dantesca cfr. Daragh O’Connell, «Consolo’s “trista conca”: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio», in Echi danteschi / Dantean Echoes, ed. R. Bertoni, Torino: Trauben, 2003, p. 85-105. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 145. Il corsivo è dell’originale. Insomma, Consolo e Piccolo «si incontrano sul sintagma dantesco», come glossa Nicolò MESSINA, «Lunaria dietro le quinte», in I. Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, cit., p. 188.166 nuovo, nel quale sono presenti sotto veste sia di aperta citazione, sia di dissimulata figurazione. In questo stadio iniziale del capitolo è chiaro che Consolo sta facendo uso di una struttura narrativa altamente stilizzata e complessa. Da un lato, ci sono testi all’interno dei testi, prestiti allusivi o citazioni dirette; dall’altro, viene utilizzata una tecnica del rinvio che non usa procedure narrative formali o stratagemmi d’intreccio, bensì opta per un sovraccarico semantico ed uno stile di prosa poeticizzata che gode del nominare le cose stesse. Il secondo esempio è riscontrabile nel paragrafo 19 dello stesso capitolo I ed spicca specialmente proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate da Consolo nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una situazione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo è riportata in corsivo è nel capitolo V, «Il Vespero», in cui il testo incastonato non in tondo è mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: è la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il «tempo» e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna.15 Nessuna indicazione, né note a pie’ di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano è interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che dice: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Sim, p. 20), poichè la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, però, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, è il frutto del pensare altrui, benchè sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si dà un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il Cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina (Sim, p. 20). Questo «forse il Landolina» è l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né è in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, è, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento del secolo scorso. La fonte è proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del XIX secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, che egli 15. Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840), ed. Salvatore Silvano Nigro, Milano: Mondadori, 2002, p. 409; e Vincenzo CONSOLO, Sim, p. 106. Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 167 fece nel 1803.16 Il testo in questione è da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti: Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare.17 Nel Sorriso leggiamo invece: Gli altri marmi dietro le statue erano due piedi con le gambe sino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vedeva la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distingueva una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita che si osserva in molte medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedevano tagliate. Le bulle erano figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro faceva sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti dai poeti in abito militare. Uh, ah, cazzo, le bellezze! […] Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina .18 Il brano di Landolina è citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali ed in quei 16. Dizionario dei Siciliani illustri, ristampa anastatica, Palermo: F. Ciuni Libraio Editore, 1939. 17. Giuseppe Agnello (ed.), Le antichità di Tindari nel carteggio inedito di Saverio e Mario Landolina, in Estratto dall’Archivio Storico Siciliano Serie III – Vol. XX, Palermo: Presso la Società Siciliana per la Storia Patria, 1972, p. 218-219. 18. Sim, p. 19-20. Il grassetto in entrambi i brani indica le varianti. segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità è abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rivelato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro i testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del XIX secolo. La citazione letteraria diretta può essere considerata ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo sia qui quello del Mandralisca, com’è peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico è più problematica. Al riguardo i commenti di Bachtin sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti «romanzi della seconda linea». Questo tipo di romanzo dimostra la tendenza all’enciclopedicità dei generi, ed anche l’uso dei generi inseriti. Il fine principale è introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i «generi extraletterari sono introdotti non per «nobilitarli» e «letteraturizzarli» ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo».19 Ed è proprio ciò che avviene nel secondo passo del Sorriso preso in esame. Nottetempo, casa per casa. Genesi e avantesti Spostiamo ora l’attenzione dal Sorriso a Nottetempo, casa per casa. Pubblicato nel 1992, questo romanzo è la seconda parte della trilogia consoliana: il libro ha sfondo storico ed è ambientato nei primi anni Venti, ossia il periodo dell’insorgere del fascismo, tra Cefalù e Palermo; il tutto è visto attraverso le vicende di una famiglia, i Marano. In realtà, Nottetempo parla dell’Italia degli anni Novanta, della caduta di tutte le tensioni sociali, dell’avvento della destra, della prima volta che in Italia i fascisti sono arrivati al governo dopo la loro condanna storica. Inoltre, Consolo collegava il mondo culturale di quegli anni Venti con il mondo culturale dei tempi recenti, e presenti: l’insorgere di nuove metafisiche, di misticismi, delle forme aberranti dei satanismi e delle sette misteriche. Messe da parte queste considerazioni generali, vorrei adesso incentrarmi sulla genesi testuale di Nottetempo e fare qualche riflessione sulla critica-genetica e su come questo tipo d’approccio può essere utile per meglio intendere il tormentato divenire del testo. L’opera letteraria non è un dato, ma un processo, non un’entità stabile, fissata una volta e per tutte, ma invece una variabile, o meglio un complesso dinamico di variabili in perpetuo divenire.20 19. Michail BACHTIN, «La parola nel romanzo», in ID., Estetica e romanzo, trad. Clara STRADA JANOVICˇ, Torino: Einaudi, 2001, p. 218. Esiste una vasta bibliografia sulla critica-genetica i cui i testi canonici sono: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: p. U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3, 1996, p. 63-90; Michel CONTAT e Daniel FERRER (ed.), Pourquoi la critique L’opera letteraria è, per dirla con il Contini della critica delle varianti, «un lavoro perennemente mobile e non finibile».21 Qui vorrei basarmi su quattro avantesti che vanno situati in quella zona grigia dell’ecdotica che è a metà fra l’emerso (edizioni a stampa) e il sommerso (manoscritti, dattiloscritti, abbozzi, appunti, ecc.).22 Questi quattro avantesti mi sembrano molto interessanti e dovrebbero rivelare qualcosa della gestazione di Nottetempo. Sedici anni separano Nottetempo dal Sorriso, ma la genesi di Nottetempo può essere collocata negli anni Settanta, ovvero proprio in quel periodo in cui Consolo andava scrivendo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il primo presagio del romanzo che sarebbe venuto può rintracciarsi in un testo che Consolo scrisse per il catalogo della mostra di Luciano Gussoni alla Villa Reale di Monza nel 1971. Il testo non è lungo, la prosa è fortemente poeticizzata, e sembra a prima vista una specie di abbozzo. Tuttavia, due elementi del testo sono decisivi per intendere i metodi di Consolo. Il primo è che successivamente esso viene ritoccato e in qualche modo rimodellato e infine incorporato nel Sorriso proprio in quella sequenza da incubo quasi alla fine del capitolo VII, «La memoria».23 Il secondo elemento è il titolo dato al testo del catalogo: Nottetempo, casa per casa. In qualche modo si può quindi affermare che Nottetempo, nel suo stato embrionale, faceva inizialmente parte del Sorriso. Sempre nel 1971, Consolo scrisse un articolo per Tempo Illustrato intitolato «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù».24 L’articolo tratta del soggiorno in Sicilia del mago-satanista inglese Aleister Crowley con i suoi seguaci negli anni Venti. Di solito la critica spiega Nottetempo, casa per casa nei termini di un libro che traeva spunto dal racconto «Apocrifi sul caso Crowley» pubblicato nel 1973 da Leonardo Sciascia nella raccolta Il mare colore del vino. 25 Ma la data del 1971 dimostra chiaramente che è stato Consolo con questo articolo a suggerire a Sciascia l’idea di Crowley. Nel romanzo consoliano Crowley funge da phármakon, una figura inquietante ed emblematica della decadenza perversa. Inoltre, l’articolo prova che Consolo aveva già iniziato la sue ricerche storiche sulle vicende cefaludesi degli anni Venti.26 génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. Inoltre, nel campo della critica-genetica applicata specificamente a Consolo, cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Madrid: Universidad Complutense, 2006. 21. Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino: Einaudi, 1970, p. 5. 22. La distinzione «emerso» e «sommerso» è stata adoperata da Messina nel suo saggio «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio»,  23. Vincenzo CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., Sim, p. 136-138. 24. Vincenzo CONSOLO, «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 25. Leonardo SCIASCIA, Il mare colore del vino, Torino: Einaudi, 1973. Cfr., inoltre Giuseppe QUATRIGLIO, «Il diavolo a Cefalù», in ID., L’uomo-orologio e altre storie, Palermo: Sellerio, 1995. 26. Appunti autografi, con dati raccolti dalla viva voce di cefaludesi che avevano conosciuto Crowley e la sua setta, addirittura una piantina della dimora da essi occupata a Cefalú e  Il terzo avantesto è ancora una volta un articolo giornalistico. Intitolato «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», è apparso nel Corriere della Sera nell’ottobre del 1977.27 Di spiccato interesse è il fatto che l’incipit del articolo anticipa, o almeno cosí sembra, la forma  imbrionale dell’incipit di Nottetempo, casa per casa. Entrambi descrivono una notte di luna piena e l’ululare dolente della figura simbolica e metaforica del lupo mannaro, ossia il licantropo. L’intertesto è la novella pirandelliana Male di luna. 28 In Consolo, tuttavia, a questa malattia viene dato il suo nome siciliano: male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino.29 Il quarto e più importante avantesto è la presentazione redatta da Consolo per il catalogo della mostra di Ruggero Savinio (Ex Convento di San Francesco, Sciacca 8 luglio-15 agosto 1989) e intitolata L’ora sospesa. Lo stesso testo viene fatto poi confluire in Nottetempo, casa per casa con alcune varianti.30 Riporto qui il testo di L’ora sospesa: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura d’ogni altro; dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete: al confine bevemmo il nostro lete). Ora, in questa luce nuova —privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi neliamo verso dimore perse, la fonte ove si bagna il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile. […] E in questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole inadeguate, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un nunzio lampante, una lama bianca, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quali paradisi? O risale prepotente da quali abissi? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai miracoli; si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. l’esergo del Cap. I di Nottetempo, si ritrovano nel quaderno Ms 2 che tramanda excerpta del Cap. I del Sorriso insieme ad altri materiali «allotri» risalenti agli anni 1968, 1969, 1970. Cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica, cit., p. 60-65. 27. Vincenzo Consolo, «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», Corriere della Sera, 19 ottobre 1977. 28. Pubblicato la prima volta con il titolo Quintadecima in Corriere della Sera, 22 settembre 1913, poi con il nuovo titolo nel 1925. Luigi Pirandello, «Male di luna», Novelle per un anno, ed. Mario Costanzo, vol. II, tomo I, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495. 29. Cfr. Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, rist., vol. IV, Catania: Clio, 1993, p. 237-243. 30. «L’ora sospesa» corrisponde a Vincenzo CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 64-67. «E un mattino d’aprile lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba città che s’alza sopra il fiume…» così racconta l’allievo del filosofo, del mago, dell’uomo venerato, così racconta il giovane «… Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti, giunsimo, dopo giorni e giorni, all’oriente estremo, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, alla scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia. E più che andavamo su per l’aspro suolo, per le impietrate lave, risonanti, oltre ogni verde, ogni ginestra lenta, su per le nere lande, le gelide tormente, più egli s’ammutiva, si staccava da me, da tutto il mondo. O profferiva entusiasta, come preso dal Dio e dalle Furie, frammenti dei poemi. —… Ánthropoi therés te kai ichthúes…— diceva —… Tutto alterna così, e così dura eternamente… Per la virtù d’amore si unisce, ed ora per la frattura dell’odio si separa…—». E infine lacrimando disse del nero delle sabbie, dei lapilli in cui lo scorse infine, disse dell’indicibile terrore, dei boati e dell’incandescenza, dell’immenso rosso che l’avvolse, bruciò e che dissolse. Ma da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da perenti scialbature, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, Johannes s’affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte e come il Libro poggiato sui ginocchi: rimemora e trascrive, con parole chiare e d’oro, una storia, la Storia unica, terribile e sublime. «—Tutto è compiuto!— disse». […] E oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri, delle vuote dimore dei vespertili, delle civette. Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu. Che non consu… […] Tentiamo intanto esili passaggi sopra gli abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri piedi. Tentiamo nella sera —ora calmi, arresi, stesi nel grembo tenero di Cuma, del Palatino— d’accendere il dialogo, la conversazione, sacra per il calore, raro, per i semi di luce, il polline, le lucciole che sparge sopra arbusti, foglie, il cielo che s’imbruna sopra noi. «Oh se per tutti un legame / un eros vago lontano…». Oh in questo silenzio assorto, in questo fresco di sera abbrividente vorrei sentire i vostri toni, accenti. «Che non consumi tu…». […] E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, agonici spettri, palpiti, aneliti, graffi indecifrati. Sussurro, parola fioca nel mare del silenzio.31 Tutto questo brano può essere letto in versi. Prevalgono endecasillabi e settenari. Ma non mancano versi brevi o medi (quinari, senari) o più lunghi (ottonari, novenari). Bisogna lasciarsi guidare dal ritmo accentuale, ma anche dalla scansione sintagmatica e semantica. Se prendiamo come esempio l’attacco, vi 31. Vincenzo CONSOLO, «L’ora sospesa», in Ruggero Savinio. Con uno scritto di Vincenzo Consolo e un testo dell’artista, Palermo: Sellerio, 1989, p. 9-10. Le frasi sottolineate indicano le parti del testo espunte da Nottetempo e le parole in corsivo delle leggere varianti. leggiamo la seguente sequenza metrica: 11+11+7+7+5+7+11+7+11, più l’explicit con rima – «ete»: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza la figura d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al confine bevemmo il nostro lete).32 Inoltre, il brano è anche uno squisito esempio di ekphrasis nella sua descrizione del «nunzio lampante», ovvero un rinvio alla Melancholia I (1514) di Albrecht Dürer.33 L’icona di Dürer ci rimanda di nuovo a Walter Benjamin e alle sue teorie sulla malinconia in Ursprung des deutschen Trauerspiel (1925).34 Intervistato sull’uso dell’arte figurativa e dell’ekphrasis come modalità narrativa che dimostra un’intensa immaginazione pittorica, Consolo ha affermato che c’è «un bisogno di bilanciare il suono, la parola con una concretezza di tipo visivo, di bilanciare l’orecchio con l’occhio. C’è sempre un riferimento ad un’icona, ad un’icona pittorica». E ha proseguito così: «Sempre ho avvertito l’esigenza di equilibrare la seduzione del suono, della musica, della parola con la visualità, con la visione di una concretezza visiva; di rendere meno sfuggente e dissolvente la parola nel silenzio, perché il suono fatalmente si dissolve nel silenzio».35 Questo modus componendi di Consolo, il suo pubblicare testi poetici in cataloghi d’arte prima della loro apparizione «integrata» nelle sue narrazioni, è un fatto interessante dal punto di vista della critica-genetica. Consolo stesso ci spiega anche le ragioni di questi fenomeni testuali e ci fornisce un termine alquanto peculiare per definirli: […] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli «a parte», la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano «cantica».36 32. Ringrazio il collega Nicolò Messina per l’aiuto prestatomi per questa «traduzione» in versi. 33. Non possiamo neanche dimenticare I cipressi, la pialla, il compasso di Fabrizio Clerici (1980 – olio su tela, collezione privata) che riprende e raffigura l’icona dell’angelo della malinconia di Dürer. 34. Walter Bemjamin, Il dramma barocco Tedesco, Torino: Einaudi, 1971. Daragh O’Connell, «Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo», cit., p. 251. Vincenzo Consolo, «Clausura de las jornadas», in Irene Romera Pintor (ed.), Lunaria vent’anni dopo, cit., p. 235. Come abbiamo visto con il testo «Nottetempo, casa per casa» del 1971, e vedremo con un altro esempio tratto da Lo Spasimo di Palermo, questi «a parte» rientrano cosí in una singolare categoria testuale. Nel testo del catalogo «L’ora sospesa» non mancano peraltro allusioni letterarie. Per esempio, «Oh se per tutti un legame/ un eros vago lontano…» è una citazione diretta da Fosfeni di Andrea Zanzotto: Oh se per tutti un legame Un eros vago lontano Come una stretta di mano Perenta in un’alba grigia… (Silicio, carbonio)37 Inoltre, «Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu… Che non consu…» suggerisce icasticamente il consumarsi delle parole stesse per effetto del passare del tempo. A detta dello scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi Paulatim lenta consumitis omnia morte! 4. Lo Spasimo di Palermo. Urlo e silenzio Lo Spasimo di Palermo, pannello finale del trittico siciliano di Vincenzo Consolo, è un’opera complessa, non facilmente categorizzabile: non è un romanzo nel senso tradizionale del termine, ma con la sua articolazione tratta criticamente questioni e interventi relativi al 174 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell All’interno del romanzo, il protagonista consoliano, Gioacchino Martinez, scrittore di romanzi difficili che sta invecchiando ed è, in ultima analisi, uno sconfitto, riflette sul suo lavoro e su dove esso l’ha condotto: Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.39 Il racconto dello Spasimo rappresenta al contempo la mediazione verso questa impasse e la risposta ad essa. Paradossalmente, le strategie adottate da Consolo sfiorano appena le forme popolari di espressione culturale, interrogandole criticamente e mettendo a nudo la loro natura «complice», poiché esse supportano e partecipano di quella che Consolo considera una situazione intollerabile per la società italiana contemporanea e per la funzione dell’arte. La scelta del linguaggio è per Consolo un tentativo di dare nuova sacralità alla parola, la sua narrativa è un esempio singolare di movimento verso la poesia, il suo messaggio etico è un messaggio di disperazione ma non di disfatta —non come il silenzio che affligge Gioacchino Martinez. Per Consolo, l’unico modo di contrapporsi a una crescente perdita di fiducia nelle possibilità comunicative del romanzo, è quello di poeticizzarne la forma.Nonostante i quattro anni che separano lo Spasimo da L’olivo e l’olivastro, Consolo era chiaramente impegnato a scriverlo già da molti anni. Com’era ormai suo modus componendi, momenti testuali dal futuro romanzo erano apparsi per la prima volta in altri testi brevi, in guise diverse. Come già per gli esempi estrapolati dal Sorriso e da Nottetempo, sono stati cataloghi e mostre d’arte a dare a Consolo l’occasione di dispiegare e meditare su queste digressioni liriche, quei passi da lui definiti «a parte». Riferendosi a questi testi scritti da Consolo per cataloghi o per libri di fotografie, Joseph Francese li considera come delle «investigazioni collaborative ed ecfrastiche delle vestigia civiche e naturali del passato siciliano».40 Sono d’accordo con lo studioso riguardo alla loro funzione, ma quel che ci interessa maggiormente è che tanti di questi testi —e Francese non lo nota— confluiscono successivamente nei romanzi come digressioni corali-poetiche, e quindi il loro status testuale è più problematico. Non si tratta di una forma di semplice autocitazione o auto-plagio, ma di uno spostamento radicale dei materiali testuali pieno di notevoli potenzialità poetiche. La poetica di Consolo implica anche l’accumulazione e l’espunzione di testi di provenienze diverse, siano essi scritti giornalistici, creativi o saggistici, generando uno spazio polifonico-palinsestico singolare. Ne abbiamo un impressionante esempio, sul versante giornalistico ed ecfrastico, in un testo intitolato I barboni scritto da Consolo nel 1995 per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin. Il dato significativo è che esso viene incorporato nello Spasimo in un 39. Vincenzo CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano: Mondadori, 1998, p. 105. Tutte le successive citazioni dal romanzo saranno seguite dall’abbreviazione SP. 40. Joseph FRANCESE, «Vincenzo Consolo’s Poetics of Memory», Italica, 82: 1, 2005, p. 44: «[…] collaborative ekphrastic investigations of the civic and natural vestiges of the Island’s past». punto cruciale.41 Di questo testo poi —altro dato da sottolineare— esistono, oltre a quella valorizzata nello Spasimo, altre sei versioni in vari articoli di giornali ed ulteriori mostre dell’opera di Sgubin fra il 1995 e il 2003.42 Stanno nel tempo loro, ell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, negli antri delle sibille, nelle celle dei vati, stanno come vessilli gravi sui confini, nel varco breve tra il conato e la stasi, la somma e infinita quiete metafisica. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, scale, piedistalli, sagome che in volute di drappi, spiegamento d’ali, torsioni, slanci, gonfiori e incavi, fantasie barocche, fingono o figurano il moto, l’estro della vita, sono masse ironiche contro le nostre illusioni, i nostri inganni, cumuli beffardi, monito fermo del destino umano, dell’esito fatale in fissità pietrosa, lento sfaldamento, dispersione in granuli, pulviscolo. E la luna, la tenera sorella delle statue, degli angeli, imbianca groppe, balze, intenebra pieghe, anfratti, scanalature, vortici, il tellurico gioco di vesti, manti. Da dove giungono questi pellegrini affranti, quale giorno li vide camminare, quale luce scoprì le crepe, le frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, segni bassi, sgradevoli del sembiante? Sono proiezioni, ombre, creature delle nostre paure, delle nostre angosce? Sono gli abitatori dei margini, le sentinelle dell’abisso, i testimoni del cedimento, gli assertori del rifiuto, del distacco. Sono, lontani muti assoluti, il richiamo costante della precarietà, dell’equilibrio instabile, dell’assurdo spasmo dell’esistere, del vivere cieco e affannoso, formicoloso moto, ottuso vagolare per cunicoli e tane, dimore grasse, labirinti d’isteria, d’oltraggio, nostro d’illusi dominanti su questa crosta procellosa, su questa landa del mondo, «su l’arida schiena/ del formidabil monte», su questo Vesuvio o Etna che in ogni istante, all’istante, per volere del Caso, stermina e pietrifica, vanifica ogni vita, cancella ogni memoria. Sono, questi profeti mesti, queste argillose statue, questa teoria antropomorfa di sarcofagi sepolti nella notte, il canto malioso o, ancor più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo. Ora affiora dal groviglio delle pieghe, dalla piramide brumosa dell’orbace il lampo chiaro d’una mano, l’accenno d’una fronte, sboccia il gesto di rifiuto o di difesa. II mucchio penoso del distacco e dell’oblio ha ora bave di colore, vermiglie striature, violacee, è bagnato dalla luce mercuriale, dalla livida lampa nell’immenso vano dell’assenza e del silenzio. Si disegna d’intorno la fredda geografia della storia, la quinta, il fondale inesorabile del teatro sociale, cantone di palazzo, incrocio di vie senza nome, griglia di vetrata, rampa di scala mobile, acciaio, plastica di deserte stazioni, anditi dei transiti sospesi. 41. Il passo in questione corrisponde a «Stanno nel tempo loro […] il tritume delle ossa», per cui cfr. SP. , p. 70-71. 42. Vincenzo CONSOLO, «Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo», Il Messaggero, 3 marzo 1996; ID., «Barboni e Natura morte», in Sgubin: Opere 1988-1997, ed. Marco Goldin, Venezia: Marsilio, 1997. Il testo viene riproposto dalla copertina del catalogo Ottavio Sgubin Mario Jerone, Centro Espositivo S. Agostino, 28 agosto – 30 ottobre 1999; ed è successivamente apparso col titolo «Barboni, segno dei nostri fallimenti», L’Unità, 29 Ottobre 2003, per segnalare un’altra mostra di Sgubin e ripubblicato infine come «I barboni di Ottavio Sgubin», in Ottavio Sgubin pittore, Museo Civico del Patriarcato, Aquileia Via Popone, 6-27 aprile 2003, p. 5. Vengono questi ribelli, questi dimissionari della convivenza, questi emarginati dalla ipocrita decenza, questi esiliati dal potere mercantile —la banale civiltà, l’angustia sociale che nomina barboni o in altri modi uguali questi che hanno abbandonato il campo, violato la dura legge dell’avere— vengono da lontano nella storia, da oscuri medioevi di carestie e pesti, d’empietà e di violenza, vengono dalle piazze di Londra o di Parigi, da sotto arcate di ponti, da corti dei miracoli, breugheliane quaresime, cortei di cenci, di cecità e di piaghe, da Alberghi di Carità, ghetti di decenza. Sono i barboni, nella trionfante storia nostra d’oggi, incongrue presenze, segno dei nostri ritardi, dei nostri fallimenti. Sono simbolo, nelle interne fratture, della più vasta, crudele frattura nel mondo, profezia inquietante d’un medioevo incombente.43 Il testo I barboni ha tutte le caratteristiche degli altri «a parte»: la prevalenza di endecasillabi, un registro alto, o meglio altamente poetico, ricercato, e inoltre la mancanza di una voce narrante identificabile. Esso sembra svolgere la funzione di quello che Norma Bouchard, in un altro contesto, chiama il «monologo lirico drammatico», specialmente nella sua condizione di unica voce possibile per il narratore, a un passo dal grido di disperazione e dagli abissi del silenzio.44 Inoltre, si scorgono nel testo diverse allusioni letterarie che ne fanno un testo ibrido. In primo luogo, la citazione diretta da La ginestra leopardiana (vv. 1-2): «[…] su l’arida schiena/ Del formidabil monte».45 Nel paragrafo successivo, un’allusione a Franz Kafka: il «canto malioso» è, infatti, il canto delle sirene, ma, come il narratore precisa, è il silenzio delle sirene ad attrarre di piú e a distruggere infine il moderno Ulisse, di cui la voce narrante è una delle ipostasi («noi»): «o ancora più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo». Il silenzio enfatizzato di queste figure mitiche rimanda al racconto Il silenzio delle sirene di Kafka pubblicato per la prima volta nel 1934.46 Nella traduzione italiana si legge: Ma le sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile che qualcuno si possa salvare dal loro canto, ma dal loro silenzio certo no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che tutto travolge, nessun mortale può resistere. 43. Vincenzo CONSOLO, I barboni, in Sgubin: Opere 1988-1995, Milano: Electa, 1995, p. 15-16. 44. Norma BOUCHARD, «Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy», Italica, 82: 1, 2005, p. 5. 45. Giacomo LEOPARDI, Poesie e prose, ed. Mario Andrea RIGONI, Milano: Mondadori, 1987, p. 124. 46. Il racconto apparve postumo in Beim Bau der Chinesischen Mauer. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlass, hrsg. Max BROD und Hans Joachim SCHOEPS, Berlin: Schocken Verlag, 1934. Consolo certamente conosceva il racconto kafkiano e, infatti, questo stesso brano serviva da epigrafe allo studio junghiano di Basilio Reale su Lighea di Tomasi di lampedusa, per il quale Consolo aveva scritto una prefazione assai rilevante, perché vi appare definita per la prima volta la sua concezione della tradizione letteraria siciliana.47 Nella sua trasposizione in forma narrativa nel capitolo VI dello Spasimo, il brano subisce dei ritocchi: viene abbreviato e odificato radicalmente. Espunge per esempio i riferimenti a Leopardi e Kafka, e invece, nel suo nuovo stato rientra in una lunga digressione poetica che finirà con una citazione aperta dall’Odissea: l’unica citazione diretta da Omero di tutta l’opera. Il passo omerico è riprodotto in italiano senza alcuna indicazione del numero del libro né dei versi,48 ma corrisponde al Libro 1, versi 577-578: ε

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L’importanza di questa citazione va misurata sulla base del contesto dell’Odissea da cui è stata mutuata e della funzione che essa svolge nello Spasimo. Nell’Odissea verso la fine del Libro VIII, al banchetto efferto in suo onore, Odisseo ascolta il racconto di Demodoco che canta il sacco di Troia. Il re Alcinoo si accorge del dolore del suo ospite ancora senza nome e gli chiede come si chiami e la ragione della sua sofferenza (VIII, 550 ss.). All’inizio del Libro IX Odisseo cede alle pressioni del re e si rivela a tutti i presenti con le parole: ε’µ’ ’)δυσε*ς Λαερτι,δης. (IX, 19: «Io sono Odisseo, figlio di Laerte»), e così comincia a raccontare le alterne vicissitudini che l’hanno sospinto fino alla terra dei Feaci, nell’isola di Scheria. In altre parole, questo momento segna, con tale anagnorisis, l’inizio della narrazione vera e propria. Infatti, ne L’olivo e l’olivastro Consolo cita questi stessi versi (Od. IX, 19-21; 34-35) e ne sottolinea l’importanza per lui in termini della narrazione pura, una forma, o meglio un genere a cui egli aspira: Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 177 47. Cfr. Vincenzo Consolo, «Prefazione» a Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo: Sellerio, 1986, p. 9-14. Il saggio di Reale e la prefazione di Consolo sono stati ripubblicati nel 2001 per i tipi della casa editrice Moretti & Vitali di Bergamo. Il brano riportato di Kafka è ripreso proprio da questa riedizione (p. 25). In una fase intermedia, il testo, con il titolo cambiato in «Sirene siciliane», era stato incluso in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 175-181. 48. Cfr. «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte» (SP, p. 72). Come dichiara nella postfazione, Consolo cita dalla versione di G. Aurelio Privitera («Fondazione Lorenzo Valla», Milano: Mondadori, 1986). Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per tutte le astuzie, la mia fama va fino al cielo. Abito ad Itaca chiara nel sole… Non so vedere altra cosa piú dolce, per uno, della sua terra. Narra, narra fluente la sua odissea, come avesse varcato la soglia magica, la bocca dell’ipogeo dell’anima. E diventa Ulisse, ahi!, l’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore di ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo terrore, delitto, rimorso.49 Consolo ha spiegato in varie occasioni la sua concezione della «narrazione poematica», una forma letteraria in opposizione al genere del romanzo, e non di rado l’ha fatta trapelare da diversi incisi delle sue opere.50 In questo, come ricordato all’inizio, Consolo trae spunto dal saggio del 1936 di Walter Benjamin, nel quale il filosofo si riferisce alla restituzione di un’esperienza come uno dei componenti fondamentali del raccontare —ovvero quella che egli definisce «la capacità di scambiare esperienze»: «L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori».51 Allora, per Benjamin, e Consolo lo segue, il raccontare va inteso in diretta opposizione al genere borghese del romanzo. Per Benjamin, alla «rimembranza» [Eingedenken] —il principio formale del romanzo— va aggiunta la memoria [Gedächtnis], «elemento musale» del racconto.52 La narrazione benjaminiana è per Consolo soprattutto la restituzione dell’esperienza di un viaggio, come si evince inequivocabilmente da questo passo del quasi leopardiano Dialogo di Consolo e Nicolao, prefato da Maria Corti: È, la narrazione, canto e incanto, rivelazione e occultamento, verità e menzogna, musa e sirena, memoria e oblio: ricreazione vale a dire di una verità altra, la verità della poesia. E la poesia —ricordiamolo—, nella forma più alta è anche entusiasmo, è en theò, vaticinio, perveggenza di una realtà a venire. Odisseo, con il suo racconto, melodioso come quello di un aedo, incanta gli ascoltatori.53 Adesso, tornando al citato Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte dello Spasimo, ciò che segue nella narrazione non è costituito dalle famose parole di auto-rivelazione di Odisseo che inaugurano il suo racconto, bensí da quelle pessimistiche di Consolo: «Io sono… no, no, l’aridità, la lingua 49. Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19. I versi sono sempre nella versione cit. di G. Aaurelia Privitera. 50. La forte vocazione metaletteraria di alcuni passi del corpus consoliano è studiata da Miguel Ángel Cuevas, «La constante metaficcional en la obra de Vincenzo Consolo», in Hans Felten & David Nelting (edd.), Una veritade ascosa sotto bella menzogna… Zur italienischen Erzählliteratur der Gegenwart, Frankfurt a. M.: Peter Lang, 2000, p. 129-35. 51. Walter. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 248. 52. Ibid., p. 262-263. 53. Vincenzo Consolo & Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, intr. Maria CORTI, Milano: Bompiani, 1999, p. 38. spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi» (SP,p. 72): ossia l’impossibilità della narrazione; l’esito estremo della poetica di Consolo. Ricorrendo alle riflessioni dello stesso Consolo, la simbologia è questa: il narratore, l’anghelos, il messaggero, non appare più nella narrazione. È rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.54 Per Massimo Onofri Lo Spasimo di Palermo è un’opera senza precedenti in Consolo. Il critico afferma che la narrazione contiene gli abbozzi di parecchi altri romanzi e di fatto ne conta ben cinque: un romanzo sul rapporto Italia-Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino/Chino e Chino); un secondo romanzo padre-figlio (Chino e Mauro); inoltre un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e infine, un romanzo di «oblìo e dimenticanza».55 A questi cinque pseudo-romanzi se ne potrebbero aggiungere anche altri, se non romanzi, almeno fili di possibili romanzi: per esempio, il romanzo sulla mafia; un giallo (ma qui giallo va inteso nel senso della critica severa fatta da Consolo alla letteratura di consumo, giallo incluso); e infine, un romanzo-nostos alla Vittorini. Una delle difficoltà della narrazione di Consolo risiede esattamente in questa molteplicità di fili romanzeschi, nessuno dei quali è predominante, ma che accoppiati producono una narrazione che ci sembra unica nell’attuale panorama letterario italiano. Tuttavia, quest’idea di Onofri dei tanti romanzi all’interno della narrazione è interessante anche per vari altri aspetti: innanzittutto, nessuno dei romanzi che elenca è completo; in secondo luogo, è altrettanto vero che lo Spasimo contiene in sé i momenti testuali di tutta l’opera consoliana. Quindi ci sembra che lo Spasimo costituisca quello che potremmo chiamare l’autobiografia estetica di Consolo, ovvero una sorta di autoritratto artistico di Consolo-autore: non nel senso che Consolo abbia scritto un’autobiografia tout court, ne siamo ben lontani, ma in quanto ha invece immaginato una narrativa che è fondata sui propri testi. La grandezza e l’importanza dello Spasimo si basano in parte sulla presenza delle altre narrazioni consoliane all’interno dell’opera, che proprio per il loro coabitarci offrono una specie di critica della poetica dell’autore e ne danno anche qualche spiegazione. Non è soltanto una forma ludica di autoplagio, né un riesame della sua poetica, ma una specie di summa, in cui le scelte ideologiche ed estetiche sono portate alla loro naturale conclusione. Quel che intendo dire è che la narrazione rivela tracce dei romanzi precedenti; il che ci suggerisce che lo Spasimo è sovra-scritto, un doveroso palinsesto che ci porta indietro nel tempo fino a La ferita dell’aprile del 1963. Quindi, se accettiamo che lo Spasimo è l’ultimo episodio della trilogia consoliana, dovremo ammettere che l’autore vi implica e problematizza anche tutta l’opera pubblicata fino a quella data. In breve, oltre alla solita presenza di altri poeti e autori, sia antichi che moderni, la presenza letteraria più forte nello Spasimo è Consolo stesso. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 179 54. Cfr. Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria» cit., p. 258. 55. Massimo ONOFRI, Il sospetto della realtà, cit., p. 183. Non mi soffermerò sui legami formali e tematici fra lo Spasimo e gli altri due romanzi storico-metaforici della trilogia: Il sorriso e Nottetempo. Vorrei qui segnalare, invece, come gli altri testi consoliani influiscano sulla poetica dello Spasimo e ne partecipino. Un interessante esempio ci è fornito dal primo romanzo consoliano: La ferita dell’aprile. In entrambe le opere, la prima e l’ultima, si evoca lo stesso mondo del secondo dopoguerra. Le nuove scelte per l’Italia appena liberata costituiscono una tematica importante nei due romanzi. Inoltre, in entrambi, questi eventi vengono visti attraverso gli occhi di due ragazzi irriverenti: nello Spasimo da Chino e nella Ferita dallo sparginchiostro», il giovane Scavone. Infine, i due ragazzi sono allevati dai loro zii, da zio Beppe nel caso di Scavone e nel caso di Chino, dopo la morte del padre per mano dei soldati tedeschi, da quella figura derobertiana e pirandelliana che è suo zio Mauro. Un altro importante avantesto è un racconto del 1981. Quel che importa è che in ben due occasioni nello Spasimo Consolo ci rimanda a questo racconto, ma adoperando un titolo diverso: La perquisizione. Il racconto va infatti identificato, per ragioni sia testuali che tematiche, con «Un giorno come gli altri» che, come dimostrato sopra, è uno dei testi chiave di Consolo, specialmente in quel suo distinguere fra lo «scrivere» e il «narrare». Ma nel racconto c’è inoltre un livello tematico che spazia tra gli «anni di piombo», le incursioni poliziesche nelle case, e anche i dibattiti ideologici più ampi del periodo e gli effetti reali della guerra fredda. Alla fine la casa dello scrittore è violata dalla polizia: Irrompono, mitra spianati, modi feroci; si dirigono subito nel mio studio. Mi appiattisco, mani in alto, contro la parete, sotto il disegno di San Gerolamo. Mentre uno mi sta a guardia, con l’arma contro il petto, gli altri si mettono a buttare giù i libri, loro vi passano sopra con gli scarponi. Nuvolette di polvere vengono su dai mucchi come da piccoli vulcani. Finita la perquisizione, sulla porta, il capo, ghignando, mi consegna il foglio. Lo afferro, leggo: «Procura della Repubblica in Milano. Il PM letto il rapporto … in data… della Tigos…». «Lo conosco, quest’ordine, lo conosco …» dico balbettando. «Lo sappiamo» risponde quello. «E sappiamo che tu scrivi, che narri di Milano … Mannaggia, ci mancano le prove!» e con la mano, scendendo le scale, mi fa capire di non dubitare, che prima o dopo le troveranno, le prove. Sul pianerottolo, affacciandomi, grido giù nella tromba delle scale: «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria …».56 Nello Spasimo il protagonista ricorda un racconto che aveva scritto su un glottologo che leggeva la storia di un re che narrava e governava: solo il Re che narra è un narratore perfetto perché lui non ha bisogno della metafora, lui governa, comanda e nello stesso momento scrive. Ma poi questo sogno letterario -archeologico si scioglie per via dell’«incubo dei colpi fragorosi dei poliziotti sulla porta, mitra spianati, che irrompono, sconvolgono la casa. […] Termi56. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1441-1442.  nato il racconto La perquisizione, aveva lasciato i fogli sopra il tavolo» (SP, p. 83-84). Un po’ prima Consolo aveva scritto: Ricordò il racconto La perquisizione che appena scritto aveva lasciato sopra il tavolo. Mentre i militi, venuti per il figlio, buttavano giù libri, rovistavano cassetti, armadi, il poliziotto lo leggeva. «Mi sembra di sognare» disse. A lui, privo di metafore, correlativi obbiettivi, puntelli di rovine. Il boemo dimesso, cupo, guardava intorno, dietro, traversava le rotaie, saltava il tram che dal Sempione portava verso l’Arco, il Parco, si credeva pedinato. «Lo Scherzo» disse, «la sua traduzione in Francia, in Italia…» Si sedette contro il muro, bevve il vino, assalì maldestro gli spaghetti, spiò l’uscio, la finestra. Signore in seriche casacche orientali andavano e venivano, il branzino sul piatto, rivolgevano domande a Saul Bellow, chiedevano di Singer, Malamud. L’ospite parlava solo di Cuba, della Bolivia, dell’amico Gabo, fra gli intellettuali la discussione s’era accesa sopra Praga, cosa pretendevano infine, e noi, le basi aree, le corazzate dentro i porti? «Merde, merde!» fece il boemo paonazzo, sbatté il piatto, uscì furioso dal salotto, da quella ricca casa. (SP, p. 66) La fonte di questo brano è ancora una volta «Un giorno come gli altri», in cui si racconta la storia di un’esperienza fatta da Consolo ad una festa organizzata nel 1969 a casa di un editore in onore di Saul Bellow. Nel passo si può inoltre ravvisare un’allusione a T.S. Eliot e in particolare a The Love Song of J. Alfred Prufrock. L’immagine delle «Signore in seriche casacche orientali» che «andavano e venivano» ricorda i versi: «In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo». Anche il riferimento ai «correlativi obbiettivi» rimanda decisamente a Eliot, che è senz’altro uno dei poeti preferiti di Consolo e tra quelli da lui piú spesso citati. Per esempio nell’incipit dello Spasimo Consolo rimaneggia i versi ormai canonici di Prufrock: «Let us go then you and I». Vi si legge difatti: Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, ndiamo» (SP, p. 9).57 Ma torniamo a «Un giorno come gli altri», al passo in cui si racconta: M’ero portato appresso un mite e dimesso poeta cecoslovacco, anche lui di passaggio in quei giorni a Milano. Si chiamava Vladimir … (il cognome lo taccio, non si sa mai… Anzi, si sa). […] Ci passavano davanti bellissime donne, eleganti, vestite alla russa, alla cinese. Ci scorse poi la padrona di casa, la moglie dell’editore […]. Poi fa, rivolta a me: «Lei è sudamericano?» «No» dico, e lei si allontana, delusa. Fu verso la mezzanotte che successe il fattaccio. Vladimir, 57. In corsivo nell’originale. 182 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell oltre ad avere mangiato, aveva anche molto bevuto. Ma egli era mite e mite rimaneva, triste anzi, anche con tutto l’alcool che aveva in corpo. Non fosse stato per quello scultore. Si siede vicino a noi e, quando scopre che Vladimir è cecoslovacco, si mette a dire che bene avevano fatto i russi ad arrivare a Praga coi carri armati: cosa voleva questo Svoboda, questo traditore di Dubcek? Vladimir diveniva una furia. Afferrò lo scultore per il petto, cominciò a scuoterlo, a picchiarlo, urlando nella sua lingua insultandolo. Tutti accorsero, si ammassarono attorno a quei due che si picchiavano e a me che cercavo di separarli. Poi, rosso di ergogna come fossi stato io la causa di tutto, riuscii a trascinare per la giacca il poeta praghese, a passare in mezzo a tutti nel grande salone (scorsi un attimo Bellow, roseo, bianco, le mani in tasca, che ci guardava e sorrideva divertito), a guadagnare la porta.58 Quindi, La perquisizione è una specie di doppio testo per lo Spasimo e rafforza sempre di più il binomio Consolo – Martinez. Retablo del 1987 è un altro romanzo consoliano che ha un ruolo notevole nello Spasimo, anche se ambientato nel Settecento. Il suo protagonista milanese, Fabrizio Clerici (l’ennesimo doppio nell’opera di Consolo), è in realtà una figura molto moderna e il suo presente va visto attraverso le lenti del passato. Ad un certo punto del romanzo Clerici scrive a Maria Teresa Blasco (la nonna di Alessandro Manzoni) implorandola di lasciare Milano tra un’imprecazione e l’altra contro la città: O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O Secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impara e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan!59 Questa è la stessa Milano che il narratore evoca all’inizio del capitolo VIII dello Spasimo. Una volta luogo di speranza, «approdo della fuga» in cui si concentravano le qualità della società civile —«orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore e tolleranza»— questa Milano è per il narratore un sogno diventato incubo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino 58. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1438-1439. Il nome del poeta ceco è Vladimir Mikesch. Nello Spasimo viene trasformato in Milan Kundera. 59. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 103-104. Al riguardo, cfr. inoltre ID., Fuga dall’Etna, Roma: Donzelli, 1993, p. 61-62. «Arrasso» significa «lontano». È un sicilianismo utilizzato da Consolo per la prima volta ne La ferita dell’aprile ([1963] Torino: Einaudi, 1977, p. 110): «arrasso di qua». Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 183 e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tennologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio. (SP, p. 91)60 Se in Retablo Milano era in realtà la Milano craxiana degli anni Ottanta, la Milano dello Spasimo è la Milano berlusconiana, la Milano della Lega Nord. Un’altra opera che al di fuori della trilogia è molto visibile nello Spasimo è la silloge Le pietre di Pantalica e in particolare il racconto eponimo. Nello Spasimo Gioacchino incontra un giudice dopo il suo ritorno in Sicilia: l’opera costituisce per certi versi un punto di rottura entro la tradizione siciliana, è uno dei primi esempi nella letteratura siciliana in cui un magistrato rappresenta valori positivi e diviene simbolo di una condizione eroica. Nella figura del «Giudice» di Consolo il personaggio rimane anonimo, ma risulta tratteggiata la persona di Paolo Borsellino, il cui assassinio alla fine del romanzo rappresenta la morte dello Stato italiano e segna il rifiuto stesso del genere romanzo. Questo giudice riconosce lo scrittore Martinez e l’accompagna a casa con la scorta. In macchina, il giudice sciolse un poco l’espressione rigida, sorrise appena sotto i baffi brizzolati. «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono. Di uno mi sono rimaste impresse frasi su Palermo» socchiuse gli occhi, recitò: «Palermo è fetida, infetta. In questo  luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino …» «Sono passati da allora un po’ di anni …» disse Gioacchino. «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale … o forse peggio.» (SP, p. 115) In realtà la personificazione di Borsellino sta citando da Le pietre di Pantalica e quindi l’intertestualità del brano è resa più  problematica, diviene una forma curiosa di auto-plagio: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. […] Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capret60. «tennologico» è un milanesismo che serviva a Consolo come ammiccamento al linguaggio berlusconiano. Secondo chi lo traduce in francese con «tennologique», è un termine «que renvoie aux logiques du tennis et, plus largement, à la banalisation inhérent aux choses: aussi tous les nom propres (Sesto, Cinisello, etc.) deviennent des noms communs, transcripts en caractères minuscules». Cfr. Vincenzo CONSOLO, La Palmier du Palerme, trad. Jean-Paul Manganaro, Paris: Éditions du Seuil, 2000, p. 108. 184 ti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta.61 Nello Spasimo il brano serve inoltre ad identificare sia Borsellino che Consolo come protagonisti di questa tragedia narrativa. Quindi, è proprio vero che l’opera costituisce una sorta di autobiografia intellettuale ed estetica dell’autore: in queste pagine confluiscono frammenti, stralci o estratti, temi, scelte ed esperienze delle precedenti narrazioni di Consolo, come attrattivi da una forza centripeta. Lo Spasimo è anzi un ipertesto, forse il lavoro più ipertestuale di Consolo, nel senso che si viene formando sui suoi tanti ipotesti autoriali. Di conseguenza, ci sembra un testo intensamente palinsestico, realizzato attraverso un meditato processo di riscrittura, o sovrascrittura, e autocitazioni d’autore. La narrazione che ne risulta è un’opera narrativa ibrida in cui le tante forme delle opere precedenti trovano spazio e per certi versi sono riviste, riscritte e re-iscritte. In breve, ribadendo la definizione già data, Lo Spasimo di Palermo è la summa della poetica consoliana. In ultima analisi, questi sono alcuni dei motivi per cui penso che sia giusto parlare di Consolo come di un narratore palincestuoso. 61. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 170. Il corsivo è dell’autore
Quaderns d’Italià 13, 2008 161-184

Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006