La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo

a cura di Annagrazia D’Oria

La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?

In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.

C’è una soluzione per continuare a scrivere?

Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.

Che cosa intende per “spirito socratico”?

Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.

  Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.

Parlaci di Catarsi…

E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o  suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.

Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.

Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.

C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”

, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.

E la Sicilia di Pirandello?

Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?

La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di

Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).

E Sciascia?

Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al  potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non  vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?

Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.

Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.

Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.

Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.

Vincenzo Consolo

Prologo

Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
 senza scampo, l’abisso smisurato;
 è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
 gli estremi: le forze naturali
 il deserto di ceneri, di lave
 e la parola che squarcia ogni velame,
 valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
 vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
 ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
 per la dura sordità del mondo,
 la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
 e di Memoria, alle Muse trapassate,
 chiediamo aiuto a tanti, a molti,
 poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
 necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
 e il rimorso è un segno oscuro
 o chiaro che in questa notte spessa
 tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
 il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
 la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia,  l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.

1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002

Isole Dolci Del Dio.

Vincenzo Consolo


Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande
via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo. E anelito e
approdo, l’isola, remissione d’ogni incertezza, ansia,
superamento, scoperta, inizio della conoscenza, progetto
della storia, disegno della convivenza.
Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto,
il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi mondi.
E metafora di questo nostro mondo: scoglio nella vastità del mare, granello nell’infinito spazio;
grembo materno, schermo, siepe oltre la quale si fingono <<interminati spazi e sovrumani silenzi>>. In isole e per isole si svolse la prima e più fascinosa avventura,
il primo poetico viaggio della nostra civiltà.

Per isole di minaccia andò vagando Ulisse, per luoghi di mostruosità e violenza fermi in un tempo precivile; approdò in isole d’incanto e di oblio, di perdita di sé, d’ogni memoria; giunse in isole d’utopia,
di compiuta civiltà. Il regno di Alcinoo nella terra dei Feaci è per Ulisse il luogo di salvezza e insieme di rinascita. Qui, l’ignoto naufrago, rivela il suo nome e narra la sua avventura, opera lo scarto dall’utopia alla storia, dall’idealità alla realtà, dalla dimensione mitica a quella umana.

Dice:

        Itaca è bassa, è l’ultima che in mare
        giace (…)
        rocciosa, aspra, ma buona ad allevare
        giovani forti. Non conosco un’altra
        cosa più dolce della propria terra!
Da isole del mito e insieme della realtà è circondata la più grande isola, la Sicilia,
l’estremo lembo di terra che il furioso Nettuno, lo Scuotiterra, separò con il suo tridente dalla penisola, creando il canale ribollente dello Stretto, dominato, da una parte e dall’altra,
dalle funeste Scilla e Cariddi.

Le Eolie, le Egadi, le Pelagie sono pianeti di quella Trinacria dove, come scrisse Goethe, si sono incrociati tutti i raggi del mondo. Dalla costa tirrenica di Sicilia, si ha davanti dispiegato, fisso e di continuo cangiante, 1o spettacolo delle Eolie. E dal teatro greco sul promontorio del Tindari si gode meglio lo straordinario spettacolo. Per il loro fantasmatico apparire e disparire, per il loro ritrarsi e avanzare, per il mutare loro continuo di forma e di colore, i naviganti preomerici, fenici soprattutto, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi,

le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda. Questo mito raccolse Omero – quel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda.

In Eolia l’eroe è ospite per un mese e riceve in dono, alla partenza, un otre ben sigillato, che gli stolti compagni aprono liberando i venti dell’atroce tempesta che li allontana dalla patria, allunga il tempo della peregrinazione e dell’espiazione.
E certo che la geografia poetica non corrisponde quasi mai alla geografia reale, ma è certo che quella dell’Odissea si può spesso collocare ad occidente della Grecia, nell’ignoto centro del Mediterraneo, che corrisponde alla geografia siciliana nella etnea terra dei Ciclopi, nello Stretto di Messina,
nella piana di Milazzo, dove pascolano gli armenti

del Sole, in Lipari e nelle Eolie, regno di Eolo .,. Il muro di bronzo che cinge Eolia, la liscia roccia a picco sul mare non può non far pensare alla roccia scoscesa della cittadella di Lipari, alle gran mura megalitiche che la circondano. Perché preomerica, antichissima è la civiltà di Lipari e delle altre isole nell’arcipelago, risale al neolitico, conta cinque millenni di storia. Una storia scritta e leggibile, come su un manuale, nei vari strati archeologici del Castello, della contrada Diana e Pianoconte di Lipari, in contrade di Filicudi, di Panarea, di Salina: un grande archivio, come quello grafico di Ebla,

un grande libro di pietre e di cocci di ceramica, di selci e di ossidiana, di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili e di pietre, di crateri e di statue, di monili e di maschere .,. Fin dalla seconda età della pietra sono state abitate le Eolie. Le quali diventano prospere per via del commercio dell’ossidiana. Poi i reperti ci dicono di una violenta distruzione, di incendi e di crolli, di abbandono delle isole, e poi di nuovo del loro risorgere con la colonizzazione greca. E Diodoro Siculo a narrarci nella sua Biblioteca storica la colonizzazione greca delle Eolie. Ci fa conoscere, lo storico, una società di

contadini e di guerrieri, in una netta divisione di ruoli, in una comunione di beni e di consumi da primitivo socialismo; una Lipari prospera e bella, con porti accoglienti e bagni d’acqua salutari. Finisce questa età felice degli eoliani con i saccheggi subiti da parte dei Siracusani e dei Romani. Dopo, in età cristiana, bizantina, araba e quindi normanna, le Eolie vivono una loro lunga epoca di civiltà appartata e autosufficiente. Sospinti dal grecale, navighiamo ora verso occidente, verso le altre isole che coronano la Sicilia. Ustica è la prima che incontriamo (Lustrica, in siciliano, Egina ed Egitta è chiamata da Tolomeo, Strabone e Plinio).

Aspra, inospitale, formata da lave basaltiche e rufi, era in antico disabitata, rifugio ideale di pirati barbareschi. A metà del Settecento i Borboni la popolarono concedendo ai nuovi abitanti franchigie d’ogni sorta, fortificando l’isola, munendola sulle coste di torri di guardia. L’isola allora risorse, venne rimboschita e coltivata. Sospinti ancora da un benefico vento, doppiato il Capo San Vito, incontriamo le isole dello Stagnone, fra Trapani e il Lilibeo, e per prima Levanzo, la più piccola delle Egadi, calcarea, montuosa, che denuncia il suo tempo profondo, i segni primi dell’uomo, nella Grotta del Genovese,

con i disegni e i graffiti preistorici sulla parete dell’ampia caverna. Ma a Favignana però, isola più vasta, ospitale, gli uomini del neolitico escono dalle grotte marine, costruiscono capanni, cacciano e lavorano forse anche la terra, seppelliscono i loro morti in grotticelle a forno scavate nella roccia calcarea. Il tonno propiziatorio dipinto nella grotta di Levanzo qui a Favignana dà il frutto più copioso e duraturo. La tonnara di Favignana, ancora oggi operante, ha scritto la storia più importante della pesca nel Mediterraneo. Marettimo << ultima che in mare giace, rocciosa, aspra>>, è stata da sempre,

come l’Itaca di Ulisse, buona per allevare forte gente di mare. Lo Stagnone ancora contiene, protetta dall’Isola Grande, la gemma più rara: l’isola di Mozia. Stazione degli avventurosi Fenici, ha mantenuto nei millenni intatti le sue mura, i suoi edifici, il suo porto, il suo tofet o necropoli. I Siracusani sconfiggendo i Fenici di Sicilia nella battaglia di Imera, imposero nel trattato di pace di mai più sacrificare i bambini ai loro déi, alla gran madre Tànit o Astante e al gran padre Baal Hammon. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, esultava (<< Chose admirable! >>) per quel salto di civiltà e di

umanità che Gelone di Siracusa aveva fatto compiere a quei Fenici. Un vento leggero e propizio gonfi ora le nostre vele per portarci più a sud, nel mezzo del canale di Sicilia, farci approdare a Pantelleria. È stato da sempre il ponte, quest’isola, tra la vicina lfriqia, oggi Tunisia, e la Sicilia. Ponte per ogni scambio di cultura fra il mondo cristiano e quello musulmano, ponte per scorrerie piratesche, di conquiste, d’emigrazione, nell’uno e nell’altro senso, di lavoratori in cerca di fortuna. Bassa, nera, rocciosa, sferzata dal vento, l’antica Cossira fa pensare alla Tàuride, alla terra d’esilio di Ifigenia.

<<Giace vicina alla steril Cossira / Malta feconda .,.>> ha scritto Ovidio. Ha un lago salato nel centro e soffioni solfiferi, acque termali sparse dovunque. Ma pur così aspra, l’isola è stata da sempre contesa dai Saraceni e dai Cristiani. E’ stato Ruggero il normanno a restituire l’isola alla cristianità. Ma toponomastica, onomastica e lingua sono nell’isola ancora un incrocio di siciliano e di arabo. Ancora più a sud, più vicina alla Libia è Lampedusa. un isolotto di pescatori che la fantasia dell’Ariosto ha innalzato nel cielo della poesia. A Lampedusa l’autore dell’Orlando furioso fa svolgere il celebre duello di tre contro tre, dei saraceni Agramante, Sobrino e Gradasso e dei paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero.   
      Una isoletta è questa, che dal mare
        medesmo che la cinge è circonfusa.
Dice di Libadusa o Lampedusa Ariosto. <<I passi dei nostri eroi che finora hanno spaziato sulla mappa dei continenti, adesso (.,.) fanno perno sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo>> commenta Italo Calvino. E sembra di tornare, in quest’ultima parte del poema ariostesco, agli spazi, alle isole omeriche delI’ Odissea, a quel primo poema, a quei miti da cui siamo partiti.



Note

pag. 11 “Itaca è bassa, ecc.” Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro IX versi 25 -26-27 -28 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 15 “Quindi all’isola Eolia ecc.”Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro X versi l-2-3-+-5 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 35 “Una isoletta è questa, ecc.” Ludovico Ariosto, Orlando Furioso canto XL versi 57-58 Einaudi, Torino 1962 “I passi dei nostri eroi ecc.” Italo alvino, Racconta l’Orlando Furioso capitolo XXI Einaudi Scuola, Torino 1997

I quindici disegni di Giorgio Bertelli (tutti del formato di 14 x 20,5 cm), realizzati a penna su carta uso mano, sono stati ultimati nell’agosto 2000.

Il prodigio

*


Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale dei limoni, granato di mezzelune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.

Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.

“Il prodigio” Con una Considerazione sulla forma racconto , prefazione
di Ambrogio Borsani.
in copertina: disegno di Manuela Bertoli.


Il prodigio

Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale di limoni, granato di mezze lune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.



  
                                                                  Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.


Edizioni Libreria Dante & Descartes

Vincenzo Consolo: Le pietre di Pantalica

*

Di cose terribili e di perdite senza rimedio, o di riappropriazioni quasi miracolose, Vincenzo Consolo parla nel suo recente libro Le pietre di Pantalica, ma il senso generale che ne emana è quello di una strana, confidente dolcezza, di un respiro che permane giustamente ritmato, “sano”.

     Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati, da cui direttamente cresce la vitalità più intima dello “scrivente”, prima ancora che dello scrittore.

L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare; è incerto su quanto vi si può inserire, troppe altre cose premerebbero intorno, le voci degli altri si confondono con la sua stessa, in una continua (e seducente)  metamorfosi, “suggeriscono” da chissà che anfratti del tempo e dello spazio, pur sempre inesorabilmente caratterizzato e delimitato come siciliano. Ma non è questo un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano di una passione e di un’aura; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’ oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto.

     Ed è il permanere di una giustizia-fiducia insite nel fatto stesso dello scrivere, che colma, fa spazio e fa riapparire radici. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, tende a porsi quale parte del “libro” inconsumabile di un albero di tutti gli autentici viventi.  E invano qui si cercherebbero progetti di fuga dal vero nel surreale programmato, o in ingegnose e angosciose analisi destinate a bruciare, per la loro inutilità, i cervelli che le hanno generate, o in labirinti dei quali si sa e risà tutto, o nei referti antropologici “in quanto tali”, su una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia.

     Nemmeno è in primo piano qui il problema del linguaggio, delle sue tecniche, riguardo ai quali temi Consolo ha già dato prove della più acuta consapevolezza. Il linguaggio/lingua è quello che è, se ne può inventare uno ad ogni svolta di strada: ma, se si sta in questa sommessa assolutezza, è incessante e lieve litania nella quale le pulsioni espressive, i  soprassalti del dire, lessico o sintassi, non sono poi così importanti da dover costituire un’ansia, un corruccio pagati per una conquista. Gli spostamenti si verificano tempestivi e i passi s’infittiscono o cedono ad un trasognato riposo; così come il narrante, “io” o no che sia, e con i suoi diversi strati di esperienza (siciliana, ma pure milanese), entra ed esce dai personaggi o dai paesaggi, o dalle stratigrafie e dalle singolarità, sfiorando con noncuranza preteriti trattati, appunto, di narratologia.

     Si ritrovano allora temi quasi obbligatori della narrativa siciliana, dall’arrivo degli americani, alle già preistoriche occupazioni delle terre, fino alla grandiosa rēverie in cui si intrecciano, nella mancata identificazione della tomba di Eschilo, il più sottile pathos mistico e una quasi rabelaisiana, brutale comicità; mentre passano, entrati in una loro leggenda, personaggi “eponimi” come Leonardo Sciascia, o l’umile e amoroso antropologo Antonino Uccello, o il gran cantastorie Ignazio Buttitta, o, caro sopra tutti, Lucio Piccolo, lo straordinario poeta cugino del ben minore Lampedusa.  E come in Verga (o Vittorini), sempre all’orizzonte, compiono la loro bellissima parte quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. Altrettanto trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore di memoria, o perfino di necessario vuoto di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

     Ma il momento più alto del libro è quello in cui il bambino malato, in villeggiatura su verso i monti, incontra la selvatica fatina Amalia, una ragazzina che lo porta dietro porci e capre al pascolo nel bosco e rivela, anzi inventa, i nomi di ogni cosa in una sua lingua personale, “ma Amalia conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, illitterato con cui parlava alle bestie”, e poi tanti dialetti, e i nomi propri dei singoli animali. Varrebbe la pena di riportare tutto un campionario del fascinoso impero linguistico di Amalia: che sa essere anche dura con l’amico, che lo trascina a piedi scalzi per “zolle, sterpi, rovi, cespugli di spino agrifoglio ampelodesmo” e lo trasforma, iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto.

     Altrettanto sconvolgente, al punto opposto di tanta libertà ormai remota, è quello da cui si frana nell’oggi, in una Palermo che trasuda pus e disgregazione: “Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola”. E, in un incubo da Blade Runner, che pare proiettarsi sempre più dilatato dentro il futuro, la città appare come “febbre, schiuma velenosa di furia omicida, mentre ristagna su di essa un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo”.

     Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia sospeso il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, in cui si affacciano le violenze senza fine che vengono esercitate sul terzo mondo, sotto l’occhio di un giovane siciliano, marinaio per caso, che torna avvilito al paese. Ma non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere.

Andrea Zanzotto
“Scritti sulla letteratura “ pag.308
Aure e disincanti nel Novecento letterario.
Letteratura Oscar Saggi Mondadori
Ottobre 2001
nella Foto Andrea Zanzotto
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La peste a Catania – ricordo di Sebastiano Addamo di Vincenzo Consolo

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La peste a Catania – ricordo di Sebastiano Addamo
di  Vincenzo Consolo

Sarei tentato di chiedermi in poche frasi, se non nel silenzio, anche per la commozione in questa giornata in cui si commemora uno scrittore che mi è stato tanto caro, di cui sono stato amico, ho avuto l’onore di essere amico, e che ho tanto ammirato.

C’è una bellissima parola che usano i francesi per indicare i letterati, gli scrittori, cioè quelli che operano nel campo della narrativa, nel campo della letteratura; questa parola è, col!fìrèrès, che tradotta in italiano diventa confratelli, e prende una connotazione di tipo religioso, non più laico, perché i confratelli da noi sono gli appartenenti ad un ordine religioso. Ecco la parola francese confrère indica nel modo più laico e più bello quella che una volta era, ma adesso, ahimè, non più, una fratellanza fra quelli che facevano questo mestiere; mestiere di scrivere arduo, difficile, di grande responsabilità, che forse è difficile come quello del vivere, come diceva Pavese. Io sono stato doppiamente confrère di Sebastiano Addamo, perché assieme a lui ho cominciato questa strada, quest’ avventura della scrittura, della narrativa e della saggistica.

Siamo stati amici; ci siamo conosciuti in anni lontani insieme agli altri scrittori siciliani, insieme a Leonardo SciascÌa, e poi in seguito assieme a Bufalino, a Ignazio Buttitta, Padre Antonio Corsaro…. E Sebastiano si distingueva per il suo rigore, rigore morale, per la sua, diciamo, non condiscendenza nei confronti di quelli che erano i principi etici, i principi ideologici, per essere esigente prima di tutto con se stesso e poi nei confronti degli altri. Questo lo rendeva un personaggio difficile, spinoso; soltanto i poveri di spirito, soltanto gli ingenui non capivano che, dietro questa sua spinosità, questa sua difficoltà nel tratto, si mascherava un uomo di estremo e nobile sentimento, e di grande tenerezza.

Io  Sebastiano Addamo lo chiamavo scherzosamente  “Zì Dima”.

Zì Dima è un personaggio della Giara di Pirandello; quel concia brocche che era rimasto chiuso dentro la giara di don Lolò, il proprietario terriero. E questa giara è una specie di onfalo, una sorta di utero, una sorta di grembo materno, ma anche una sorta di tomba, è un principio e una fine. Perché i ‘Siculi, (o i Sicani?), come abbiamo visto nei musei, (soprattutto nel museo di Lipari), usavano seppellire i morti in questi grandi gironi.

Dicevo, dunque, che Zì Dima, rimanendo prigioniero dentro la giara di Santo Stefano di Camastra, che aveva conciato, ad un certo punto stabilisce un dialogo, una diatriba con don Lolò, proprietario della giara stessa; e Zì Dima era il personaggio dialettico caustico che smontava di volta in volta quello che era il codice di don Lolò, suggerito dall’ avvocato.

Quindi era la dialettica per eccellenza ( quella dialettica di cui parlava Mazzamuuto); era quello che i Greci chiamano

dissoi logoi  quello che i latini chiamano diverbia.

Ecco, tutta l’opera di Sebastiano Addamo è proprio un’ opera di dissoi logoi di diverbia, un’ opera di dialettica; dialettica perché filosofia, perché opera di pensiero leopardiano, perché quello di Sebastiano Addamo era un pensiero poetante o pensiero narrante, che dir si voglia.

Io credo che ogni generazione, (ed io appartengo alla generazione di Addamo) ha avuto sempre il senso della fine, e che colla fine della generazione finisse un tempo, una stagione, finisse una civiltà. Questo è vero in generale, ma credo sia una sensazione psicologica: pur tuttavia sono convinto, parlando della letteratura siciliana, che realmente in questo nostro tempo con la fine di scrittori come Sciascia, come Bufalino, D’Arrigo, Angelo Fiore, Antonino Uccello, Antonio Castelli, (e potrei nominarvi altri), con la morte di Sebastiano Addamo sia finita un’epoca, sia finita una civiltà, sia finita una cultura. E questo non solo in Sicilia. In Sicilia questo si sente di più, perché la Sicilia, voi sapete, ha avuto una grande tradizione letterati a, almeno nella storia moderna: da Verga in poi c’è stata una letteratura altissima con una concatenazione, con una consequenzialità che difficilmente si può riscontrare in altre Regioni.

Qualcosa di simile si trova forse nella nordica Irlanda: una letteratura così alta, così concatenata, con i grandi nomi di scrittori con1e Bemard Shaw, come Joyce, come Oscar Wilde, come Beckett, come tantissimi altri.

Ecco io credo che quello che è avvenuto in Sicilia si possa dire di questo.

nostro Paese Cl ‘Italia), ma più in generale, si possa dire di questo nostro contesto occidentale. lo penso che in Italia, dopo la morte di scrittori come Calvino, Moravia, Morante e tanti altri, ci sia stato uno iato, una frattura, credo ci sia stata proprio una rottura. E cerco dispiegare brevemente perché.

Gli scrittori della mia generazione, della generazione di Sebatstiano Addamo, della generazione di Sciascia, quando hanno incominciato a muovere i primi passi sapevano chi erano, da dove partivano; sapevano che cosa li aveva preceduti, quale era stata la letteratura, quali erano stati i segni poetici e letterari sui quali si collocavano, e sapevano, soprattutto quello che si stava svolgendo in quel momento attorno a loro. E allora da parte nostra, quando si incominciava a scrivere, (ma sono certo che questo avvenga anche in pittura, così come in musica), ecco quando si incominciava a scrivere, si aveva consapevolezza di dove e come collocarsi, dove – in quale linea, in quale tradizione; e come – in quale forma, in quale maniera scrivere, quale stile scegliere.

C’è in Federico Nietzsche, nel libro ‘La nascita della tragedia’: una bellissima osservazione: Nietzsche spiega che il passaggio dalla tragedia antica (Eschilo, Sofoc1e…) alla tragedia moderna, (da Euripide in poi), avviene con l’irruzione in Euripide, appunto, dello spirito socratico, cioè della filosofia, del ragionamento. .            .

Infatti, mentre in Eschilo e in Sofocle non c’era stato lo spirito socratico, ma c’era stato piuttosto lo spirito dionisiaco, lo spirito apollineo, nel senso che c’era il canto, c’era il coro, c’erano i personaggi che agivano e insieme dicevano in tono poetico alto, non si ponevano domande, non si ponevano quesiti, non avevano dei dubbi, in Euripide invece incominciano i dubbi, incomincia il ragionamento e quindi comincia la moderna tragedia.

Io credo che in letteratura, volendo fare una metafora, nella scelta letteraria nel nostro mondo, mondo moderno, ci sia o la scelta dell’irruzione nella narrazione dello spirito socratico, cioè del pensiero della filosofia, oppure la ritrazione verso la zona del canto, verso la zona corale. Sebastiano Addamo, naturalmente, da quel filosofo che era, da quel pensatore che era, aveva scelto la forma moderna, la forma socratica, la forma del pensiero. In lui c’era proprio la filosofia narrante, cioè la narrazione era come una sorta di dimostrazione di paradigma di quello che lui voleva dimostrare, di quello che era il pensiero filosofico.

In me, naturalmente, la scelta è stata diversa: sarebbe lungo spiegare la ragione di queste scelte. lo ho scelto la ritrazione verso la forma del canto, verso l’ accostamento alla forma della poesia, e quindi, la scomparsa di quella che è la riflessione dell’ azione narrativa.

Sebastiano Addamo si trova molto vicino alle teorie del romanzo di uno scrittore moderno, quale Milan Kundera, il quale dice le stesse cose che ha narrato Sebastiano Addamo. Ci sono altri scrittori che hanno scelto la forma poematica, la forma antica di questo nostro tempo ormai, di scompenso di schemi, di lacerazioni; in questo nostro tempo in cui quello che era il personaggio della tragedia, l’ anghelos, (che si può assimilare allo scrittore), non appare più sulla scena, perché non c’è più il referente, non c’è più il pubblico della cavea e quindi lo scrittore non può più dialogare; dialoga in questa nostra civiltà di massa con un interlocutore oscuro, sconosciuto e inconoscibile. Proprio per questa assenza è costretto a fare questa incredibile, a volte pericolosa, scelta: di andare verso la fdosofia o andare verso la poesia.

Ma Sebastiano Addamo, pur in questa sua scrittura estremamente logica, estremamente comunicativa, (che era, per intenderci, la linea che partiva da Manzoni e passava, soprattutto in Sicilia attraverso De Roberto, Brancati, Sciascia, quella che immediatamente non sembra la linea cosiddetta espressiva o linea barocca), ecco in Sebastiano Addamo c’era un  barocco connaturato a questa terra, alla Sicilia; penso che non si possa essere scrittori siciliani se non si è barocchi.

In lui non c’era un barocco della forma ma un barocco del pensiero; c’era in lui un continuo rimando ad un filosofo, alla citazione, esplicita o implicita, o nascosta, dell’idea di un altro, di un pensatore, e, quindi, in questo rimando c’era un sottofondo di barocco.

C’è un bellissimo saggio di Brancati a proposito della costante barocca nella letteratura siciliana; in questo saggio, parlando di Borgese, Brancati afferma che il barocco non è altro che una linea retta che, uscendo da un ghirigoro, entra in un altro ghirigoro. Il barocco non è capriccio, non è rococò; il barocco sottindente una razionalità e una misura ma posta in secondo piano nei confronti della linea retta.

Un grande pensatore spagnolo, Eugenio D’Ors (1882-1954, Il barocco, 1942), parlando del pittore Goya, paragona la scrittura barocca alla musica, (e proprio di musica si parlava poco fa), e la scrittura di tipo logico all’architettura. Credo che Sebastiano Addamo sia stato uno scrittore architetto, di grande architettura.

Dicevo degli esordi, degli inizi: Addamo ha esordito nel 1962 in una collana sperimentale della casa editrice Mondadori, diretta da un poeta, Vittorio Sereni (1913-1983), e da un critico, Niccolò Gallo, collana che . voleva continuare l’esperienza vittoriniana conc1usasi proprio in quegli anni de “I gettoni”; erano collane di ricerca letteraria che in quegli anni gli editori si permettevano come le grandi fabbriche si permettono di tenere laboratori di ricerca. Oggi tutto questo è sparito; oggi gli editori tendono immediatamente al profitto e, quindi, i giovani autori, (che loro intercettano per motivi a volte extraletterari, o perché cantanti o perché personaggi della ribalta televisiva), vengono presi e immessi immediatamente nel mercato, dove vengono molte volte bruciati e messi da parte. Allora le case editrici, appunto perché facevano un lavoro culturale, un lavoro serio, si permettevano di tenere queste collane che non erano destinate al profitto immediato ma erano autentica ricerca letteraria.

L’esordio di Addamo avviene nel 1962 con un libro stupendo, bellissimo, !/ioletta, dove sono inclusi due racconti: il primo è “Violetta” e il secondo “Il mostro”. Violetta è la storia di una bambina apparentemente schizofrenica, diversa, una bambina “disturbata”, emarginata, che non vuole avere contatti con il resto dell’umanità, (soprattutto con il genitore vivo naturale, il padre, e la matrigna), che gira per la campagna sempre nascondendosi e tenendo al guinzaglio un rospo, animale un po’ repellente. Una bambina che alla fine arriva al suicidio! E’ uno dei racconti più belli della letteratura italiana che mi è capitato di leggere. Questa Violetta credo che rappresenti un po’ l’angelo annunciatore di quello che sarebbe stata la nostra apocalisse di oggi, il nostro disastro, la nostra caduta, la nostra sconfitta.

I successivi libri di Sebastiano Addamo sono Il giudizio della sera e Un uomo fidato e tanti altri che qui non cito. Dopo Violetta, dopo il mostro, Addamo incomincia a narrare la nostra storia di questi anni, dalla guerra ai giorni nostri; la guerra storica sì, ma la guerra continua della dignità contro la barbarie, della civiltà contro il degrado, la ribellione contro la violenza.

Il primo di questi libri, Il giudizio della sera, è una sorta di telemachia, il libro di iniziazione e di formazione: narra la storia di ragazzi che per studiare capitano a Catania in quel fatidico quartiere di San Berillo dove subiscono le violenze di ogni tipo, le violenze della società, le violenze della miseria, della povertà, della guerra, del degrado. Questo quartiere, che è il simbolo della peste, della peste del nostro tempo, e ricorda moltissimo, (anzi credo che Addamo l’avesse presente), la Peste di Camus.

Per tale motivo ho intitolato questo mio intervento, La peste di Catania, ossia la peste di San Berillo, che è insieme la peste di Grano, la peste  di Atene, di Palermo, la peste di Milano o la peste di Londra: è la peste della civiltà. La peste della civiltà è il processo di imbarbarimento del nostro tempo.                                           .

Un uomo fidato è più direttamente storicizzato perché parla degli anni 1975-1976, gli anni della nostra storia politica in cui si svolgono nel nostro paese il primo referendum sul divorzio, (che segna una svolta di progresso civile), e quindi le elezioni del 197 6 per cui la sinistra raggiunge la maggioranza.

Addamo ci racconta quello che è l’eterno trasformismo italiano; di un povero piccolo borghese, un impiegato, che per ragioni di sopravvivenza abdica alla sua coscienza, alla sua ideologia, ed è costretto a diventare democristiano; va in ufficio leggendo “L’Unità” e il suo capoufficio non lo tratta bene per questa sua scelta ideologica; si fa democristiano, ma si accorge poi che il suo capoufficio per ragioni di opportunismo da democristiano diventa comunista. Questa vicenda di Sebastiano Addamo si conclude alla maniera di Todo Modo di Sciascia: è tale l’odio, il furore, verso questi trasformisti del potere politico italiano che alla fine il protagonista, Marco, arriva all’ omicidio, si fa giustiziere e conclude con la frase: “li ucciderò tutti.”  Naturalmente non nel senso vero ma in quello traslato! A proposito dell’eterno fascismo italiano, dell’ eterno trasformismo italiano e delle cadute di differenza fra quelle che sono le posizioni ideologiche in questo momento nel nostro paese, in cui assistiamo a un processo di omologazione di idee, (sembra che non ci siano più ideologie ma un’unica ideologia, sia pure articolata in forme diverse), volevo leggervi una frase di Carlo Levi, il quale, già nel 1943 (nel suo esilio, durante la guerra, ancora imperante il fascismo ), aveva previsto tutto questo e detto in termini molto chiari nelle ultime pagine di quello straordinario libro che è Cristo si è fermato ad Eboli: “Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparano per il futuro; ma in un paese di piccola borghesia, come l’Italia, nel quale le ideologie piccolo borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno il fascismo, o per evoluzione lenta o per opera di violenze, anche le più estreme, appartenenze rivoluzionarie, saranno portate a riaffermare in modi diversi quelle ideologie; creeranno uno Stato, altrettanto o forse più lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nomi nuovi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano. . .”.

Addamo ci parla appunto di questa piccola borghesia italiana nel L’uomo fidato, dove la peste dell’anima invade tutti gli individui, tutti gli uomini. Parallelamente alla frase di Levi, voglio leggervi una frase del

L’uomo fidato. Egli scrive: “La giovinezza di Trigilio si era svolta in quegli anni che avevano visto l’Italia troppo rapidamente trapassare da una società agricola ad una caratteristicamente industriale”.

Sempre su questa linea della peste, della corruzione degli animi e dell’eterno fascismo italiano, (di cui tanto soffrì Sebastiano Addamo e che lo rese forse uomo non capito e quindi uomo che è stato costretto a ritrarsi nella sua dignità e nella sua libertà), voglio ricordarvi il libro di Addamo Non si fa mai giorno, con il racconto straordinario La mano tagliata.

Racconto che termina con la frase “E nel principio è la mia fine”, un verso di T. S. Eliot, da lui mascherato ( “In my beginning is my end”).

Nello stesso libro vi è il racconto La noia a Catania, che ricorda un po’ Brancati; una noia come categoria filosofica, la noia anche di Moravia, oltre che di Brancati.

Vi dicevo del “fascismo eterno italiano” che Sebastiano Addamo ha sentito molto e di cui ha sofferto molto. In questo racconto una frase dice ( come la frase di Splenger) “È il fascismo la fine  della loro civiltà”.

 Sono partito da questo, dalla fine di una civiltà e voglio concludere con questo.

Io spero che una civiltà ritorni in questo nostro paese, in questo nostro contesto occidentale. Spero che il tempo, “grande giustiziere e grande scultore”, come dice Marguerite Yourcenar; restituisca a Sebastiano Addamo quel che a Sebastiano Addamo in vita non è stato dato e non è , stato riconosciuto.

E voglio concludere con le parole di Mallarmée:

   “Tel que en lui mème l’eternitè l’echange ».
addamo

L’anarchia dei villani in Serafino Amabile Guastella – Vincenzo Consolo

“Come gioco di specchio, mercurio su una lastra”

Letto al Convegno su S.A.Guastella a Chiaramonte Gulfi il 3.6.2000

“Corre l’antica Fama per le capitali, l’ingiusta Dea dalle lunghi ali e dalle cento bocche ripete che stolidi, folli, incomprensibili sono gli abitatori delle ville, i terragni che rivoltano zolle, spetrano, scassano, terrazzano, in capri con le capre si trasformano, in ape acqua vento con i fiori, dalla terra risorgono sagome di mota e di sudore; che nelle soste, lustrate lingua e braccia, sciolto l’affanno all’acque virginali delle fonti, nelle notti di Luna, nelle cadenze dell’anno, sulle tavole d’un Lunario immaginario, di motti fole diri sapienze – Aprile, Sole in Toro: zappa il frumento tra le file, zappa l’orzo l’avena le lenticchie i ceci le cicerchie, strappa dalle fave la lupa o succiamele – muovono arie canti danze, in note movenze accenti sibillini, stravaganti. E nelle capitali, accademici illustri, dottori rinomati, in oscuri dammusi, catoi affumicati, scaffali scricchiolanti, teche impolverate, ammassano cretosi materiali, la lingua glossa, la memoria, la vita agreste; con lenti spilloni mirre olii, con lessici rimarii codici, studian di catturare cadenze ritmi strutture. Ma l’anima irriducibile, finch’è viva, guizza, sfugge, s’invola, come gioco di specchio, mercurio su una lastra.” (da Lunaria di Vincenzo Consolo)

Nel novembre del 1997, l’inglese John Berger rispondeva su Le Monde Diplomatique con una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli del Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà, la globalizzazione dello sfruttamento, l’internazionalizzazione finanziaria e la globalizzazione del crimine e della corruzione, il problema dell’immigrazione, le forme, legittimate di violenza praticate da regimi illegittimi e, infine le zone o sacche di resistenza, tra cui naturalmente, quella rappresentata dall’esercito Zapatista di Liberazione.

Berger, a proposito di zone o sacche di resistenza avanzava un esempio storico, un luogo del Mediterraneo dal profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di quest’isola, l’entroterra intorno a Ghilarza, il paese dove è cresciuto Antonio Gramsci. “Là” scrive Berger “ogni tanca, ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre […] Queste pietre sono state accumulate e messe insieme in modo che il suolo, benché secco e povero, potesse essere lavorato  […]. I muretti infiniti e senza tempo di pietra secca separano le tanche, fiancheggiando le strade di ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai caduti dopo secoli di usura, suggeriscono l’idea di labirinti in rovina”. E aggiunge ancora, Berger, che la Sardegna è un paese megalitico, non nel senso di preistorico, ma nel senso che la sua anima è roccia e sua madre è pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi nell’isola e le domus de janas, le grotti celle per ospitare i morti. Ricorda la diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (-Chiunque venga dal mare è un ladro, dicono), della loro ritrazione nell’interno montuoso e inaccessibile e l’essere stati chiamati per questo dagli invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla sua conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e la speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero politico.

Ho voluto riportare questo scritto di Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci che illumina il mondo nostro d’oggi, perché simile alla situazione sarda – situazione fisica, orografica, e umana, storica, sociale – mi sembra il mondo della Contea di Modica restituitoci da Serafino Amabile Guastella. Pietroso è l’altipiano Ibleo, aspro il tavolato tagliato da profonde cave, duro è il terreno scandito dai muretti a secco che nei secoli i villani hanno abitato, in grotte hanno seppellito i loro morti. Guastella non è certo Gramsci, non è un filosofo, un politico, è un illuminato uomo di lettere, uno studioso di usi e costumi, tradizioni, linguaggi, un’analista di caratteri, ma, nel dirci dell’inferno dei villani della sua Contea, della loro “titurìa”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà, furbizia, illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli uomini, della condizione modicana pre e postunitaria, di un’estremità sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un “antivangelo” le Parità e le storie morali, come dice Sciascia, un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza rimedio, senza mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non c’è, nel mondo di Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli contro cui andarono a cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al Salomone Marino, in mezzo a cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni: il suo sicilianismo a oltranza lo portò ad aderire al Felibrismo di Frédéric Mistral, il movimento etno-linguistico finito nel fascismo di Pétain. Si legga il racconto dell’incontro a Modica di Di Giovanni con Guastella, della profonda delusione che il poeta di Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire l’impressione che ne ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via senz’altro, mogio mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella rovina d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista così fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la mitizzazione è la madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella, all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più in là siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimì di Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale, in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni di libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo di quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si trova, l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti critici: nel 1837, durante l’imperversare del colera, in cui il padre dello scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di Siracusa assieme all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un tal Giovanni Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di Monterosso dalla plebe. Ribellioni ci sono state, nel ‘93/94, durante i fasci siciliani; nel 1919 e 1920 in cui il partito socialista conquistò i comuni di Vittoria, Comiso, Scicli, Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini, Spaccaforno, e che provocò lo squadrismo fascista degli agrari. Rispunta ancora l’anarchia e ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini, nel ‘43/44. Nel Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries alla vera e propria insurrezione armata. A Ragusa e a Comiso si proclamò la repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse; non fasciste dunque e neppure separatiste, e si sa anche che a proclamarle furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da dirigenti locali, a volte essi stessi contadini” Scrive Francesco Renda.

Dalla rivolta di Ragusa ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di Ragusa.

La profonda anima di pietra dei villani della Contea di Modica, quella indagata e rappresentata da Serafino Amabile Guastella, mandava nel Secondo Dopoguerra i suoi ultimi bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta cultura, illuminista e liberale democratico, con citazioni d’autori, esempi, dava segni del suo modo di vedere e di sentire quel mondo di pietra, del suo giudizio sulla condizione dei villani. “Vivendo a stecchetto dal primo all’ultimo giorno dell’anno, il nostro villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella teoria che la proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il legittimo padrone della terra dovrebbe essere lui, che la coltiva e la feconda, non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore degli altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto qui per inciso, quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza di riforma agraria in Tunisia nel 1885, ch’era detta “Diritto di vivificazione del suolo”.

E quindi, più avanti, parlando del concetto e pratica del furto dei villani, scappa, al nostro barone, una parola marxiana, “proletario”. “…perocchè è conseguenza logica e immediata dei compensi escogitata dal proletario” scrive. Nel capitolo VI, illustrando ancora la pratica del furto, scrive: “Le idee del furto nel villano non essendo determinate dal concetto legale della proprietà di fatto, ma da quello speculativo della proprietà naturale, che ha per norma il lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in direzione opposta delle precisazioni dei codici. Il capitolo X delle Parità attacca così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O’Connel, la definì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la formula, l’hanno però messa in pratica molto tempo prima di O’Connel, e del padre Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel O’Connel, detto il grande Agitatore, capo de la rivolta contro gli inglesi e padre dell’indipendenza dell’Irlanda; l’O’Connel lodato dal filosofo e teologo palermitano padre Gioacchino Ventura. Fin qui l’intellettuale Guastella. Ma occorre soprattutto dire dello scrittore, di quello che si colloca, afferma Sciascia, tra Pitré e Verga.

“Se fossi un romanziere non parlerei certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle, perché in questo racconto ha una parte secondarissima, ma non essendo uno scrittore!…” scrive Guastella in Padre Leonardo. Credo che questa frase sia la chiave di lettura di tutta l’opera del barone di Chiaramonte. Uno scrittore, il Guastella, diviso tra la vocazione, la passione del narrare e l’impegno, il dovere quasi, culturale e civile, dell’etnologia; diviso tra la poesia e la scienza, l’espressione e l’informazione, l’obiettività e la partecipazione, la rappresentazione e la didascalia. Ma è già, in quel racconto, un po’ più vicino alla narrazione e un po’ più lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia, là, è come inclusa e sciolta nella narrazione, implicitamente dispiegata, e meno esemplificata e scandita, come al contrario avviene nelle Parità. In quel racconto, l’autore, consapevole dello slittamento verso la narrazione, mette subito in campo nel preambolo una mordace autoironia facendo parlare il protagonista: ”Io, fra Leonardo di Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il giorno 7 marzo 1847, […] senza saper come, nel marzo del 1875 mi trovai risuscitato per opera di un imbrattacarta, il quale non ebbe ribrezzo di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e in anno di Giubileo […]”. E con questa bricconata d’intento […] il mio persecutore mi ha costretto ad andare per il mondo […] O Gesù mio benedetto, datemi la forza di perdonarlo!”

Il padre Leonardo si muove tra Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come Petruska nel balletto di Stravinskij, altri personaggi: fra Liborio, padre Zaccaria, don Cola, mastro Vincenzo…

Ognuno d’essi suscita ancora altri personaggi, illumina luoghi, ambienti, storie,istituzioni, usi, costumi, linguaggi… Attraverso loro conosciamo conventi, chiese, confessori e bizzocche, giudici e sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e dominati, cavalieri grassi e villani dannati in abissi di miseria. Attraverso quel don Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria, costretto a fare un viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce violenza del governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del Carretto. E non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “architetture magnifiche e il mobilio stomachevole”.

Quando è sciolto, Guastella, da preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando sopra la testa di cavalieri e villani, capedda e burritta, osserva il cielo, la natura, scrive allora pagine alte di letteratura, di poesia: “Dalle montagne sovrapposte a Roccanormanna scendea una nebbia fittissima, che prima invadeva le colline, poscia il paesello, indi un tratto della montagna, mentre dalla parte opposta, in cielo tra grigio e nerastro correvano nuvole gigantesche a forma di draghi, di navi, di piramidi, di diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle diavolerie il sole ora si nascondeva, ora riapparia come un bimbo pauroso dietro le vesti materne. Finalmente privo di splendore e di raggi come una lanterna appannata, andò a tuffarsi in mare…” Questo brano, ecco, è speculare a quello ipogeo profondo, a quell’onfalo d’orrore, a quel Cottolengo, cronicario o Spasimo asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della fiera di Palazzolo.

Ma torno, per finire, a quel Berger da cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla Ghilarza di Gramsci quale metafora storica delle sacche di resistenza nella globalizzazione economica di oggi.

A Ghilarza, appunto, c’è un piccolo Museo Gramsci: fotografie, libri,lettere; in una teca, due pietre intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si esercitava a sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e correggere la malformazione della colonna vertebrale. Sono un simbolo, quelle due pietre, simbolo che, cancellato in questo contesto sviluppato, affluente e imponente, riappare nei luoghi più pietrosi e disperati del mondo.

Nel Museo dell’olio di questo paese, di Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico: uno scranno, una poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è fissato alla spalliera con un lucchetto. Su quello scranno poteva sedere soltanto il cavaliere, il proprietario del frantoio, che deteneva la chiave del lucchetto, giammai il villano. Il simbolo mi dice, ci dice questo: da noi, nel mondo sviluppato, la partita è chiusa col lucchetto, la chiave la tiene il gran potere economico che governa il mondo. Ma quel potere, e noi con lui, dovrà fare i conti con le pietre di Ghilarza, con i pesi di Gramsci.

Noi, se non vogliamo essere dominati, essere espropriati di memoria, conoscenza, essere relegati nelle grotte degradanti e alienanti della produzione e del consumo delle merci, se vogliamo essere liberi, non possiamo che anarchicamente ribellarci, resistere e difendere il nostro più alto patrimonio: la cultura, la letteratura, la poesia.

Claude Ambroise, presentando insieme a Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle opere più significative della cultura siciliana tra il Sette e l’Ottocento, pubblicata dalla Regione Siciliana, ebbe a dire che senza la conoscenza, senza il possesso di quel substrato, di quel patrimonio morale, avremmo rischiato di camminare, di procedere nel vuoto. In quella collana era stato ristampato Le parità e le storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino.

Guastella, ecco, è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale.

Vincenzo Consolo

Milano, 2 giugno 2000

30.6.2010 per progetto Minimum Fax
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Il segreto della scrittura di Vincenzo Consolo

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“Il sorriso dell’ignoto marinaio” è certamente il più significativo contributo di Vincenzo Consolo alla letteratura italiana contemporanea. Questo romanzo ha il raro requisito, che è dei classici, di poter essere letto ad apertura di pagina. Come per i veri grandi scrittori la vicenda non è che l’occasione su cui si articola la forma e questa può e deve essere gustata a prescindere dall’intreccio se l’autore ha raggiunto, nella forma, il livello dell’arte.
Ad un orecchio attento la scrittura di Consolo manifesta una profonda musicalità che sconfina palesemente nel verso. Lo spettacolo atroce del massacro di Alcara Li Fusi del 1860, coi cadaveri squartati nella fonte a cui gli asini rifiutavano di abbeverarsi, viene così descritto, in un testo di apparente prosa, qui artificialmente segmentato negli endecasillabi mascherati che ne compongono la struttura profonda: “A la fontana del perenne canto / di sette bocche fresche d’acqua chiara / persin gli scecchi volsero la testa, / e i muli schifiltosi per natura, / [omesse 12 sillabe di un verso irregolare] / immondo di carogne pregne a galla / nella vasca, macelleria di quarti / ventri, polmoni e di corami sparsi / sui pantani e rigagnoli d’intorno / non sai se di vaccina, becchi, porci / [cani o cristiani] / lo stesso al lavatoio un po’ più sotto / fra mezzo a ruote, palle, rocchi bianchi / di rustico calcare; e dal mulino /…”
Ed ecco il lamento delle donne raffrenato, al contrario, nella sua drammaticità, e stilizzato negli schemi classici del compianto: “Madri, sorelle, spose in fitto gruppo / nero di scialli e mantelline, apparso / per incanto prope alla catasta / ondeggia con la testa e con le spalle / sulla cadenza della melopèa. / Il primo assòlo è quello di una donna / che invoca in vece stridula, di testa, / il figlioletto con la gola aperta.”
Vediamo ancora la descrizione dell’arrivo della nave: “Guardò la vaporiera lì di fronte: / lance e gozzi, partiti dalla riva, / s’erano fatti sotto alla fiancata / per lo scarco di merci e passeggeri / e tutti i terrazzani, a la marina, / vociavano festosi e salutavano.
Si tratta di straordinarie sequenze di endecasillabi ed è questo il metro di gran lunga prevalente e quasi esclusivo. È interessante notare che Consolo ha poi ammesso, con sorpresa, che le strutture formali che abbiamo rilevato erano uscite inconsapevolmente dalla sua penna. La musica l’aveva dentro e le parole vi si adattavano!
In un’epoca in cui sembra perduta la sensibilità metrica ed è in disuso da tempo perfino la retorica, la parola anzi ha assunto una connotazione negativa, e molta “poesia” appare null’altro che prosa tagliata a pezzi senza criteri riconoscibili per cui segmenti di frasi vengono semplicemente disposti in righe successive, un autore che, in una elegantissima scrittura, esprime tale sensibilità musicale appare come una manifestazione di cultura classica profondamente assimilata. Leggere Consolo non è come leggere Sciascia, Bufalino o Camilleri che spesso gli vengono comparati. E’ vero che spesso Consolo impasta al contesto termini siciliani, ma non ne abusa, per quanto si affermi che questa è una caratteristica del suo linguaggio letterario. Nei testi citati troviamo solo l’asinello che diventa ”scecco”, ma lo diventa per ragioni metriche, non per vacuo esibizionismo. Semplicemente lì ci stava bene.
E così pure Consolo usa mirabilmente la paratassi. In un discorso senza subordinate il quadro viene dipinto con efficacia attraverso immagini che si succedono e si sovrappongono in quella che viene indicata di salito come “enumerazione caotica”, ma di caotico rende solo l’impressione perché il quadro, in tal modo, viene dipinto con pennellate veloci, quando non tollererebbe il ritmo lento e contorto dell’ipotassi. Se ne ha un esempio se esaminiamo in questa luce il primo dei passi riportati.
Avevo rilevato questi aspetti formali in un saggio apparso sulla rivista “Linguistica e Letteratura” già nel lontano 1978, quando da poco il romanzo di Consolo era apparso come una meteora luminosa nel cielo della nostra letteratura e credo che questi aspetti di originalità che rendono così interessante e piacevole la lettura, e marginale la vicenda rispetto alla forma, meritino un posto più ragguardevole di quanto mi sembra voglia stabilire la critica.
Da fanatico formalista ho contato e comparato i versi presenti in alcuni capitoli. Forse il lettore troverà interesse queste insolite annotazioni: nel primo capitolo sono presenti, in media, ben 33 versi ogni cento righe di testo, ma nel settimo capitolo si sale all’incredibile frequenza del 74% per discendere al 50%, che è sempre un livello assolutamente straordinario, nell’ultimo capitolo. D’altra parte è abbastanza facile porre in evidenza la presenza di numerose forme lessicali tipiche del linguaggio poetico come: “ Crescean, avea, cattivitate, vorria, narrator, cogliea, spirto, scendea, giugnea, ecc”, e utilizzate chiaramente per ragioni metriche.
Il saggio mi ha consentito di diventare amico di Consolo. La sua scrittura mi ha certamente arricchito, gli sono grato per questo e mi piace ricordarlo nella sua casa di Milano dove, insieme a Caterina, sua devota, simpatica e intelligente consorte, mi ha più volte ricevuto per parlare di letteratura e anche, amichevolmente, di politica, pur essendo noi, in questo campo, culturalmente piuttosto lontani. Ma il cuore era dato all’arte e lui sapeva che lo ammiravo sinceramente e suppongo apprezzasse l’impegno e il notevole tempo che avevo impiegato per studiare il suo stile. Vincenzo capiva tutto e guardava il mondo con occhi comprensivi. Per questo forse il suo sguardo ricordava quello benevolo e un po’ ironico del ritratto di Antonella da Messina, conservato nel museo Mandralisca, quello ricordato nel titolo del suo maggiore romanzo, titolo anch’esso incastonato nell’endecasillabo del “sorriso dell’ignoto marinaio”.
Alessandro Finzi
del 2000

La luce di Cefalù



E’ un sorprendente teatro Cefalù, una scena abbagliante, una scatola magica in cui s’incrociano tutti i raggi del mondo, è una ouverture, un preludio che allude a ogni Palermo, Granada. Toledo o Bagdad. E’ un cervantino retablo de las maravillas con giochi di specchi, riflessi di luci e figure. Nella sua trama serrata, nella sua conclusione murata – di mura possenti d’un tempo remoto – si stende la città dalle falde della gran Rocca paterna, fino al mare materno, la nobile strada d’ogni azzardo, travaglio. L’ha tutta volta la sorte verso Occidente, con quel roccioso, scosceso riparo del Capo che sembra voglia far obliare ogni alba perlacea, aurorali colori <<d’oriental zaffiro>>, immergendola nel fuoco d’un Magreb od Occaso, nello sprazzo perenne di porpora e oro, nel cerimoniale fastoso che prelude alla fine, alla notte. E un rosso corposo, radente la investe, incendia ogni piano, ogni spigolo – case, torri del Duomo, la tonda possanza coronata di mura del Capo – taglia in fulgore e in ombra porte sul mare, bastioni, cortili e terrazze, piazze, tappeti a losanghe di vicoli e strade.
Un pittore allora che in questa Cefalù pontificale stende colori sopra la tela, non può la forza di questo occidente, il corposo, fermo vibrante del suo bagliore. E così sono colori di Giuseppe Forte: accesi, scanditi con nettezza di taglio di lama, corposi, netti e vibranti nel tono loro primario. I neri i rossi gli azzurri i bianchi i verdi i gialli si presentano allora in tutta la loro perentorietà, in una festa squillante di accordi e stridori, di contrappunti e dissonanze. Ma c’è, sopra ogni bassa nota, sopra ogni peccato e squillante colore, un tono che tutto avvolge e compone: quello della dorata luce di Cefalù si vedono ad esempio le Case sotto la rocca, in quella scansione di piani, in quella verticale ascensione o fuga musicale; si vedano le due Natura morta con piastrelle siciliane; o il cielo e le onde schiumose di Cefalù: dietro le mura o altri scorci e <<vedute>> della città. Ma anche figure umane, le allegorie i simboli partecipano allo stesso concerto. Pittore perfettamente adeguato alla sua città, Forte, a Cefalù, alla sua straordinaria luce, alla magia del suo teatro, alla forza della sua natura e alla profondità della sua storia.

Milano, 22 ottobre 1999

Vincenzo Consolo




Prefazione al libro di poesie di Mokhtar Sakhri

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A Civitavecchia

Mentre la statuetta piangeva le lacrime del miracolo,
Che dal gesso faceva zampillare il sangue,
La speranza perse la fede cantata dagli oracoli
E l’Uomo si vide bandire dalla società e dal suo rango.

La folla in preda ad un paganesimo atavico,
Cerca Dio in sogni e visioni sublimi
Ove Egli si manifesta irreale e apatico,
Simile a quei demoni che abitano gli abissi:

Una volta guida attenta e loquace della sua Creatura,
Al punto di dettare il Corano e i Comandamenti,
Oggi l’abbandona, gettandola in pasto
Ai ciarlatani che non giurano che con i Testamenti.

Declassato, il debole senza più soffio né preghiera,
Trascurato dall’immagine specchio della sua somiglianza
E dai suoi simili dalla vita altera e fiera,
Si libera dalla solitudine e dalla sua sofferenza.

Prefazione

Nell’aprile del 1991 mi trovavo ad Algeri, invitato là per l’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto italiano di cultura. Ho potuto cosi assistere, in uno di quei giorni, alla grande greve, allo sciopero generale proclamato dal FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, che, vinte le elezioni amministrative dell’anno prima, cercava in questo modo di incalzare il governo per ottenere delle votazioni politiche nel volgere di breve tempo. C’era una terribile tensione in città. Ho visto il grande raduno degli integralisti, tutti con barba e candida palandrana, il Corano in mano,nella grande spianata di Place des Martyres,ai piedi della Casba, Tra il palazzo Jenina e le grandi Moschee. Ho visto, a una cert’ora , quella massa di dimostranti, inginocchiarsi e prostrarsi a terra per la preghiera, marciare poi compatti, agitando in aria il Corano, per le vie della città. Poliziotti, in assetto di guerra, precedevano e seguivano dimostranti,controllavano ogni loro movimento.
Un editore algerino mi faceva da guida nella bellissima Algeri. Mi guidò nei meandri della Casba, nella casa in cui s’erano asserragliati i patrioti durante la rivolta e dove erano stati uccisi il capo, Ali, e Alima, Mahmoud e un bambino innocente. In quella casa divenuta sede del FIS, mi tornava nitida alla memoria, la scena finale del film di Pontecorvo. Vidi ancora ad Algeri e nei dintorni, i luoghi di Camus, la spiaggia del delitto de Lo straniero e la Tipaza delle “nozze”. E mi spinsi pure nella Cabilia, nei poveri villaggi dell’interno. c’era in quei giorni in Algeria un’atmosfera tesa, una cupa sospensione, c’era come un’attesa di qualcosa di tragico che si stava abbattendo sul Paese. Venivano in albergo a trovarmi giovani poeti e scrittori per donarmi i loro libri e come per chiedere anche, a me italiano, tacitamente aiuto. La hall de El Djezair pullulava di poliziotti in borghese, di spie d’ogni sorta. Mi chiedevano ogni volta costoro chi erano e cosa volevano le persone che venivano un trovarmi. Negavo naturalmente loro ogni risposta. Riuscii poi miracolosamente a ripartire da Algeri.Da li a poco cominciarono in quel paese i massacri, le incursioni degli integralisti nelle periferie della città e nei villaggi, le violenze d’ogni sorta, gli orrori, gli obbrobri perpetrati nel nome di Dio, di una religione. L’empietà, la barbarie, il micidiale fanatismo d’Algeria diveniva il  prodromo, il segno primo e terribile d’altri scenari obbrobriosi che si sarebbero dispiegati di qua e di là nel Mediterraneo, in Africa, nei paesi più lontani. Certo alcuni  di quei giovani Intellettuali che incontrai ad Algeri furono poi, a causa della catastrofe algerina, costretti a lasciare la loro terra, e rifugiarsi in Europa. Lo scrittore Mokhtar Sakhri, il poeta di questo bel Viaggio Infinito, aveva anticipato di anni il destino dei suoi più giovani confréres, aveva abbandonato la sua paria nel tempo del regime di Boumedienne. Questo suo viaggio infinito dunque il fatale destino di ognuno che è stato costretto a sradicarsi dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, il che è stato condannato, tra “esilio ed asilo” come dice Matvejevic, ad una perenne erranza della memoria e dell’anima.
Nell’ esilio e nell’asilo allora, il poeta articola, nell’imprescindibilità bisogno di comunicare, il primo e sorgivo linguaggio, le parole e la sintassi che precedono la ragione, la storia, la logica della società e della politica, dispiega il linguaggio, sulla traccia dei grandi poeti arabi del passato come Abu Nawass, del sentimento, dell’amore. Come in un ricreato Stil Nuovo, la prima silloge di liriche, da Lettere di Natale fino a Bon a Parigi,è dedicata a nomi di donne: Maurine , Sylvana, Catherine, Monica, Jacqueline, Loredana… Donne tutte “Intorno al core” che danno pretesto al racconto, una tranches de vie, a felicità e inganni, incantamenti e repulsioni.
ll poema a Parigi è la declinazione di quell’assoluta capitale, di quel mondo da ogni distanza fantasticato e agognato,é la scansione, nell’impatto da parte dello “straniero”, di questo cuore della civiltà nostra europea. “Mi parve odiosa” dice il poeta, ” Mi parve crudele e quindi” ignobile “, inquietante”, per apparire Infine “eterna”, “felice”. Conclude, “Non ero più uno straniero/ solo nella notte e nella città./ Dell’amore facendo il suo messaggero,/ e offrendomi una tra le belle/ delle sue ragazze,/ mi aveva adottato/ questa Regina” .
Per sentieri sotterranei e incontrollati, per il linguaggio primigenio  dell’amore il poeta dunque si concilia con quest’altro mondo, approda al linguaggio formale questa civiltà. Nella seconda  parte quindi della silloge dà voce alla memoria del Paese abbandonato e insieme al nuovo paesaggio umano che gli si presenta davanti agli occhi, il paesaggio degli altri immigrati, di quelli che popolano ancora la triste zona dell’emarginazione: I senegalesi, I Ladri Il ladro musulmano. Infine, approdato alla storia,il poeta urla per quanto di atroce avviene nel paese abbandonato, per quanto si ripete in Europa: I profeti dell’odio, Gli sgozzatori, Ballata algerina, Paradiso perduto, Bosnia. Urla il poeta per la sua Itaca imbarbarita, Itaca perduta ormai per ogni Ulisse che lasciata l’isola, condannato all’erranza, al Viaggio infinito.

Vincenzo Consolo Milano, Settembre 1999