SOLITARI COME NUVOLE

Giuseppe Frazzetto

Arte e artisti in Sicilia nel ‘900

Con scritti di Vincenzo Consolo / Giuseppe Giarrizzo / Filiberto Menna

     Nel febbraio del 1921, veniva pubblicato a Catania il primo numero della rivista Haschisch, che così si presentava: “Fu nel salotto rosso di Simonella che nacque questa rivista di raffinati, di intellettuali baudelairiani e futuristi…”.  E vorremmo continuare, se il brano non fosse interamente riportato in questo puntuale libro di Frazzetto. Brano che è fra i più esilaranti in cui ci è capitato di imbatterci; che sembra scritto, con toni più comici, spassosi, se è possibile – per rimanere nell’ambito degli effetti delle novità, delle mode artistiche nella provincia, del dannunzianesimo nel caso – dal Brancati del racconto Singolare avventura di Francesco Maria (“Amo l’Amore, l’Amore perdizione ed esaltazione, spasimo e miele. Non so come dire: avete mai veduto qualcosa di velluto che ferisce?… “). Ma già prima di Haschisch, sempre a Catania, c’era stata la rivista Pickwick, che si dichiarava “l’unico giornale che lasci dormire in pace Mario Rapisardi e che rinunzi ad occuparsi dell’annoso problema meridionale”  ( “È facile” scrive l’autore di questo libro “per il letterato piccolo-borghese mettere alla berlina il “passatismo” di Rapisardi, il suo umanitarismo defeliciano; ben altra cosa, naturalmente, fare i conti con le implicazioni ideologiche dei due maggiori romanzi verghiani”).   Liquidato dunque facilmente Rapisardi, cercano, i futuristi siciliani, l’adesione al loro movimento di Capuana (“mi sento commosso di ammirazione e invidia. Se fossi giovane come i futuristi, m’imbarcherei con loro” dichiarerà lo scrittore di Mineo) e s’inventano un patetico incontro a Catania tra Verga e Marinetti  ( “Un nobile vecchio niveo, magro, asciutto, piuttosto alto, con occhio appannato, s’alzò lasciando la sua bibita:  — Marinetti! – Verga!  Come state? !

— Eh…come un passatista – sorrise modestamente il grande scrittore” racconta in Le serate futuriste il poeta napoletano Cangiullo).

     E, ancora a Catania, escono le riviste La Fonte, La Scalata, La Spirale, Alba d’oro, L’Ascesa; e a Messina esce La Balza, A Palermo Simun, Ci siamo …  Nemmeno oggi, oggi che Stato, Regione, Provincia, Comune, Banche, Assicurazioni, imprese e altri enti e istituzioni largamente ed allegramente elargiscono soldi per ogni minima e spesso peregrina iniziativa culturale, nemmeno oggi si ha un tale fermento di cultura, un tale pullulare di riviste.  “Nel Mezzogiorno d’Italia, particolarmente in Sicilia, si pubblicano numerosi giornaletti futuristi, ai quali Marinetti invia articoli; ma questi foglietti sono pubblicati da studenti che scambiano per futurismo l’ignoranza della grammatica italiana” stigmatizzerà Gramsci.

     Ci siamo soffermati su un movimento d’avanguardia artistica, letteraria e pittorica, come il Futurismo, sui suoi effetti in Sicilia, per dire come in una situazione artistica di periferia, di emarginazione, di ricerca artistica stagnante, dopo il placido vedutismo, ritrattismo, “storicismo”, verismo della fine dell’800, dopo gli Sciuti, i Lo Jacono, I Leto, i Tomaselli; dopo la conclusione della felice stagione dei Basile, dei suoi pittori e decoratori liberty come il De Maria Bergler, stagione in cui il primato spetta all’architettura, che è promossa, determinata da quella rivoluzione economica in Sicilia che porta un solo e favoloso nome, quello dei Florio, un movimento d’avanguardia come il Futurismo che spazzava via di colpo retaggi storici e ipoteche culturali, che aveva la pretesa di coniugare la rivoluzione tecnologica e industriale con le energie primitive della natura, in Sicilia viene accolto ed esaltato come unica possibilità di uscire dall’arretratezza e dall’isolamento, di possibilità di colmare ogni iato o carenza, eludere soprattutto ogni dovere di testimonianza sociale.

Contemporaneamente, il Futurismo, cadeva, per così dire, su un fertile terreno di spontaneismo e di vitalismo.  Lo stesso Marinetti, poi “sentiva” con la Sicilia una consonanza privilegiata.  “Voi mi somigliate, Saraceni d’Italia / dal naso possente e ricurvo sulla preda afferrata / con forti denti futuristi!”  (sic!)  scriverà ne Le monoplane du pape.  E così il Futurismo siciliano trova nei Rizzo, Corona, Varvaro, Lazzaro i suoi Boccioni, Balla, Carrà, Severini.

     Dopo questa esplosione vitalistica, l’arte muore nella sindacalizzazione, nella burocratizzazione, nell’Accademia, nel Novecentismo. Muore nel fascismo.   “L’avvento del fascismo smorza o risucchia il ribellismo avanguardistico”  scrive Frazzetto.  Col fascismo cala sul Paese, sull’Isola, sulla cultura, sull’arte una cappa grigia di piombo, o nera, come le camicie che allora si indossavano.

“Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave esperienza che forse non potrà avere mai più, nemmeno nei suoi discendenti, perché è difficile che si ripetino nel mondo quelle singolari condizioni”.  La noia che uccide, come nel memorabile racconto di Brancati.

Altrimenti, la noia e l’attesa. E, nell’attesa, a Palermo, il giovane pittore Renato Guttuso andava in giro con una sacra reliquia nel portafogli: la riproduzione di Guernica.  Guttuso, Pasqualino Noto, Franchina, Barbara: i due pittori e i due scultori che formano il famoso Gruppo dei Quattro, che staccatosi dal Sindacato, fa la storica mostra del ’34 al Milione di Milano.

Pietro Mignosi, presentando la mostra, dice che il gruppo è accomunato da una “fisionomia dello slancio”.  Slancio certo vitale, oppositivo, innovatore contro una generale situazione stagnante, morta, negativa, che solo è stato reso possibile da una marginalità, eccentricità geografica, sociale, culturale come quella siciliana.  “Questi giovani, guardano dentro disperatamente”  scriverà Leonardi Sinisgalli su L’Italia letteraria.  E: “Questi ragazzi, stiamo attenti, hanno forse il diavolo in corpo”.  Certo, solo con uno sguardo “interno” e “disperato”, solo con la “diabolicità” si poteva giungere alla scandalosa, provocatoria Crocifissione guttusiana, o alla Fuga dall’Etna o alla Fucilazione in campagna. La storia di Guttuso dalla fine della guerra e per anni dopo diventa la storia dell’arte siciliana, dell’arte italiana.  Il suo dominio nella pittura, nella cultura e nella politica o nella pittura politica, è quasi totale.  Ma nella mostra, ancora al Milione di Milano, del ’60, Vittorini, in catalogo, dirà che Guttuso era più rivoluzionario nelle nature morte degli anni ’30 – ’40  che nei quadri “politici”, “popolari”  degli anni ’50 – ’60; che la rivoluzione vera era quella dentro il linguaggio pittorico e non del dipingere le bandiere o le camicie rosse.

      È dall’opposizione linguistica, formale che nasce quel movimento, non più in Sicilia, ma di siciliani

Altrove emigrati e di altri, quel movimento rilevante nella storia dell’arte siciliana, e non siciliana,

che va sotto il nome di Forma 1.  Sono, dei siciliani, Accardi, Attardi, Consagra, Maugeri, Sanfilippo, che scriveranno un’altra storia, divergente e parallela a quella di Guttuso e dei guttusisti. Ma a questo punto, il parallelismo o contrapposizione fra i due linguaggi, oltre ad essere acceso, non sarà più relegato a una storia dell’arte siciliana, non sarà più circoscritto nell’ambito specifico dell’arte. Il dibattito sarà più ampiamente politico o più angustamente partitico.

      Abbiamo voluto fin qui con nostre parole ritratteggiare sunteggiando, negli episodi più rilevanti e significativi, il libro di Frazzetto. Che è, fino ad ora, e a nostra conoscenza, la prima storia organica dell’arte siciliana dalla fine dell’800 fino ai nostri anni ’80.  Una storia scritta con grande scrupolo storiografico, documentata fin negli accadimenti più più marginali ma non insignificanti.  Una storia dell’arte che è storia culturale, storia civile. O, se si vuole, immagine di una precisa, autentica realtà che Americo Castro chiama storicizzabile.

Vincenzo Consolo

Maimone editore 1988

UNA BALLATA PER LA BELLA ROSALIA

Meno elegiaco-ironico di La ferita dell’aprile (1963), meno espressionistico-allegorico di Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), meno visionario-filosofico di Lunaria (1985), Retablo (pagine 164, L. 8.000. Sellerio), quarta opera narrativa di Vincenzo Consolo, risottolinea alcuni dei caratteri dello scrittore siciliano: l’esercizio mimetico-parodico (di matrice gaddiana), l’andante affabulato-rio-rapsodico (di matrice calviniana), il simbolismo lirico (di matrice vittoriniana). Tutti questi elementi di una scrittura colta, raffinata, poliedrica, mistilingue, in Retablo sono messi al servizio di una ballata-pastiche che combina slanci romantici e illuministici interrogativi. Retablo, rappresentazione a tre voci di vicende amorose e di viaggi, ha per sfondo la Sicilia del 1760-1761: ne sono protagonisti il pittore lombardo Fabrizio Clerici (in viaggio per dimenticare Teresa Blasco che sposerà Cesare Beccaria), il giovane frate questuante Isidoro che lascia il convento della Gancia per amore della bella Rosalia e Rosalia Guarnaccia che lascia Ciccio Paolo Cricchio (ex frate Isidoro) in un certo senso per restargli fedele, perché sposa un vecchio marchese senza più desideri carnali e che la fa debuttare come cantante in un’opera di Cimarosa. L’amore è, in Retablo, orficamente rivelazione e follia, mentre il viaggio è conoscenza, iniziazione, educazione, ritrovamento. Le sequenze più belle della ballata di Consolo sono quelle dedicate alla visione notturna di Palermo, alla festa di santa Rosalia di Alcamo, alla sosta nelle terme di Segesta, alla scoperta della necropoli di Mozia; o quelle dedicate a variazioni su nomi o emozioni: Consolo è, al meglio, scrittore di incantevole virtuosismo linguistico-musicale. “Rosalia, Rosa e lia Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello si è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia zàgara e cardenia… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento… Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?”. Così si apre il cantare (l’operina per sontuosi pupi) di Consolo; ed ecco il visivo movimento del primo fondale, Palermo: “mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte, in oscillio lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillio di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglio di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade”. Consolo sa rappresentare molto bene l’amore che si incarna e disincarna “in beatitudine o in ebetudine” e gli itinerari che portano a scoprire lo “svariare e colorirsi della vita”. ‘. Più impacciati sono, invece, i risvolti del pastiche in cui la mimesi del conte philosophique settecentesco lo porta a ragionare di vita/storia (Sfinge, Medusa e Persefone come la donna amata) nel tentativo di darne una decifrazione: come a dire che lo scrittore si lascia accendere più dell’imprevisto della fantasia che dal mobile o nobile codice della ragione. La trasgressione fantastica permette a Consolo di presentarci Fabrizio Clerici che dialoga con lo scultore barocco Serpotta (in realtà è morto nel 1732) o di ipotizzare un abate-poeta Meli che palpa sospirando ormai vecchio Rosalia (mentre nel 1761 Meli aveva appena vent’anni); così come la libertà fantastica permette allo scrittore di presentarci il rapporto tra un cavaliere lombardo del Settecento e un frate palermitano della Gancia come una medianica reincarnazione della coppia cervantesiana formata da un rozzo contadino e un hidalgo della Mancia con Teresa Blasco e Rosalia che sono la duplicazione dell’inafferrabile Dulcinea).

Raffaele Crovi
Vincenzo Consolo Retablo
Sellerio editore Palermo
Gran Milan n.17 Un libro al mese

L’ignoto marinaio

Non c’è turista che viaggiando per la Sicilia – minimo che sia il suo interesse alle cose dell’arte – tra Palermo e Messina non si senta obbligato o desideroso di fermarsi a Cefalù: e dopo averne ammirato il Duomo e sostato nella piazza luminosa che lo inquadra, non imbocchi la stradetta di fronte e a destra per visitare, fatti pochi passi, il Museo di Mandralisca. Dove sono tante cose – libri, conchiglie e quadri – legati, per testamento del barone Enrico Mandralisca di Pirajno, al Comune di Cefalù: ma soprattutto vi è, splendidamente isolato, folgorante, quel ritratto virile che, tra quelli di Antonello da Messina che conosciamo, è forse il più vigoroso e certamente il più misterioso e inquietante.

E’un piccolo dipinto ad olio su tavola (misura 30 centimetri per 25), non firmato e non sicuramente databile (si presume sia stato eseguito intorno al 1470). Fu acquistato a Lipari, nella prima metà del secolo scorso, dal barone Mandralisca: e glielo vendette un farmacista che se lo teneva in bottega, e con effetti – è leggenda, ma del tutto verosimile – che potevano anch’essere fatali: per il ritratto, per noi che tanto lo amiamo. Pare che, turbata da quello sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo, la figlia del farmacista l’abbia un giorno furiosamente sfregiato. La leggenda può essere vera, lo sfregio c’è di certo: ed è stato per due volte accettabilmente restaurato.
Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso, per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno di possesso: e chi lo ha inferto non è meno «posseduto» di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il ritratto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A meno che non si sia semplicemente ribellata – stupita – all’intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa.

Proveniente dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai, all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone, e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei temi «di genere» (il che non esclude fosse un marinaio facoltoso: armatore e capitano di vascello); o che si trattasse di un autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il Nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli, Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo?

Comunque, una tradizione si è stabilita a denominare il ritratto come dell’ignoto marinaio: e da questa denominazione, a inventarne la ragione e il senso, muove il racconto di Vincenzo Consolo che s’intitola Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la ragione e il senso del racconto non stanno nella felice fantasia filologica e fisionomica da cui prende avvio e che come una frase musicale, più o meno in sottofondo, ritorna e svaria. La vera ragione, il senso profondo del racconto, direi che stanno – a volerli approssimativamente chiudere in una formula – nella ricerca di un riscatto a una cultura, quale quella siciliana, splendidamente isolata nelle sovrastrutture, nei vertici: così come quelle cime di montagne, nitide nell’azzurro, splendide di sole, che dominano paesaggi di nebbia.

Ma prima di parlare del libro, qualcosa bisogna dire del suo autore. Siciliano di Sant’Agata Militello, paese a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare, Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle), Consolo – tranne gli anni dell’università e quelli del recente trasferimento, passati a Milano – è vissuto nel suo paese e muovendosi, per conoscerli profondamente nella vita, nel modo di essere, nel dialetto, nei paesi a monte del suo, nell’interno: che sono paesi lombardi, della «Lombardia siciliana» di Vittorini – sorti cioè dalle antiche migrazioni di popolazioni dette genericamente lombarde. Solo che Consolo, a misura di come li conosce, oltre che per temperamento e formazione, è ben lontano dal mitizzarli e favoleggiarne, come invece Vittorini in Conversazione in Sicilia e più – non conclusa apoteosi – ne Le città del mondo. Quel che più attrae Consolo è, di questi paesi, forse l’impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare. Perché Consolo è scrittore che s’appartiene alla linea di Gadda (sempre tenendo presente che un Verga e un Brancati non sono lontani): ma naturalmente, non per quel volontaristico arteficiato gaddismo – che peraltro ambisce a riconoscersi più in Joyce che in Gadda – che ha prodotto in Italia (e forse, senza Gadda, anche altrove) libri senza lettori e testi, proprio dal punto linguistico, di assoluta gratuità e improbabilità.

Altro elemento da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio che Consolo ha intrattenuto per anni con Lucio Piccolo. E qui bisognerebbe parlare di questo straordinario e poco conosciuto poeta siciliano: ma rimandiamo il lettore ad altro nostro scritto, pubblicato nel volume La corda pazza.

Tutto, in come è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva – di «degnificazione» per Piccolo, di «indegnificazione» per Consolo – non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini. (Il termine «degnificazione» lo si usa qui nel senso di Pedro Salinas quando parla di Jorge Guillén: e quindi anche il suo opposto, «indegnificazione»).
Il primo libro di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963 e ora ristampato da Einaudi, non ricordo abbia suscitato allora attenzione né ho seguito quel che ora, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ne hanno detto i critici: probabilmente, chi allora l’ha letto ha avuto qualche perplessità a classificarlo tra i neorealisti in via d’estinzione; e chi l’ha letto ora, difficilmente riuscirà a trattarlo come un libro scritto prima. Il che è ingiusto, ma tutto sommato meglio che l’intrupparlo tra i neorealisti.
Tra il primo e il secondo son corsi bel tredici anni (e speriamo non ci faccia aspettare tanto per il terzo): ma c’è tra l’uno e l’altro un preciso, continuo, coerente rapporto; un processo di sviluppo e di arricchimento che è arrivato alla piena, consapevolmente piene, padronanza del mezzo espressivo (e dunque del mondo da esprimere).
Anni, dunque, passati non invano, ma intensamente e fervidamente: a pensare questo libro, a scriverlo, a costruirlo; in margine, si capisce, ad altro lavoro, anche giornalistico (di cui restano memorabili cose: non ultimi gli scritti sul Gattopardo e su Lucio Piccolo).
A costruire questo libro, si è detto. E lo ribadisco polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, negativamente, che è un libro costruito. Certo che lo è: ed è impensabile i buoni libri non lo siano (senza dire dei grandi), come è impensabile non lo sia una casa. L’abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e – appunto – a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti; e oggi sono proprio tanti.
Un libro ben costruito, dunque, questo di Consolo: con dei fatti dentro che sono per il protagonista «cose viste», e «cose viste» che quasi naturalmente assumono qualità, taglio e luce di pittura ma che non si fermano lì, alla pittura: provocano un interno sommovimento, in colui che vede, una inquietudine, un travaglio; sicché infine Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, descrittore e classificatore di molluschi terrestri e fluviali, si ritrova dalla parte dei contadini che hanno massacrato i baroni come lui. E facilmente viene da pensare – almeno a me che so del rapporto che legava Consolo al barone Lucio Piccolo di Calanovella, che ho letto tutto ciò che Consolo ha scritto di questo difficile e affascinante rapporto – che nel personaggio del barone di Mandralisca lo scrittore abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell’uomo che aveva «letto tutti i libri» e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha scritti di versi: la coscienza della realtà siciliana. Il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano.
 «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change».

Leonardo Sciascia

brano tratto da “Cruciverba” einaudiana collana “Gli struzzi” 1983




Nel centro della terra

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Nel centro della terra

“ Dove avete trovato Una storia cosi inverosimile?
Nel centro della terra, signore.

Questa l’epigrafe a  La ragazza del vicolo scuro  (Editori Riuniti, 1977) che l’autore, Mario La Cava, attribuisce a un anonimo calabrese.
Sgombrando subito il campo da quell’aggettivo ‘inverosimile’ che ci porterebbe lontano e di cui tanto s’è scritto – scritto  di cosa è verosimile e non nelle storie narrate, in letteratura, e ricordando fra tutte la dissertazione che ne fa Pirandello in appendice a un suo romanzo, quel che ci interessa qui è la frase ‘ nel centro della terra ‘. La quale, parafrasata, potrebbe suonare: ‘ nel cuore dell’umanità ‘, suono che è, lo sappiamo, fortemente sospetto ed esposto, quanto meno, alla taccia di retorico. Ma quant’è. E che ci serve per spiegare un nostro concetto su questo romanzo, sulla narrativa di Mario La Cava.
Esistevano fino a poco tempo fa –  e parliamo di venti, trent’anni addietro, prima cioè del grande terremoto di cui tutti sappiamo, quel terremoto che quanto stava sotto e sopra la crosta ha distrutto e portato allo stesso livello, reso uniforme – esistevano nel mondo, in questo nostro Paese, nel nostro Sud in Calabria, delle comunità, dei tessuti sociali, delle realtà umane che il tempo e la storia avevano profondamente stratificato e finemente tramato. Erano piccoli paesi che si chiamavano Acri, San Luca a Bovalino; si chiamavano Vizzini, Aci Trezza o Mineo. Non è Il caso di analizzare qui ancora una volta le ragioni per cui le realtà umane del nostro Sud fossero cosi stratificate, fossero cosi verticalmente incrostate e orizzontalmente compatte Fatto è che risultavano “singolari ‘, che avevano un loro parti colare modo d’essere, una loro particolare cultura.
Modo d’essere e cultura che facevano accendere l’interesse di ognuno per l’altro, di conoscere di ognuno la storia, le storie lui, della sua famiglia, dei suoi antenati ; di provare disprezzo per i suoi vizi o pietà per le sue sventure. Questo intrecciarsi o di Interessi, questa attenzione di ognuno per l’altro, l’odio o la compassione facevano crescere sempre più in sé quelle realtà, le chiudevano e, nello stesso tempo, sempre più le “ umanizzavano” (mettendo tra virgolette questo verbo). E allora era da qui, da questa attenzione e da questo interesse, che nasceva il racconto. Racconto orale, naturalmente. Era quello che veniva fatto nelle piazze, nel chiuso delle case, sulle aie e nelle botteghe. Più volte ripetuto, veniva modificato , levigato, portato alla sua cadenza al suo ritmo migliore e alla sua essenzialità. Era, questo, il racconto che sgorgava da quel “centro della terra “di cui dice l’anonimo calabrese, o dal “cuore dell’umanità “ di cui noi abbiamo detto e nel senso che abbiamo cercato di precisare. Racconto interrotto,storie, dove le generazioni si saldavano e facevano storia. Dove le prime sensazioni, le prime espressioni, la vita di una bambina di pochi anni,  Antonuzza,si saldano alla vita e alle esperienze di un maresciallo di novantasei anni che ha visto briganti, terremoti e colera. E cosi ci è chiaro perché,detto per inciso, Vittorini mise assieme in un unico volume dei Gettoni ‘ Dialoghi  con Antonuzza’ e ‘Le memorie del vecchio maresciallo’.
Ma, seguendo il nostro discorso, diciamo che La Cava appartiene alla razza di quei narratori orali, di quelli che ricevevano le storie e le trasmettevano. E chi conosce, del resto, lo scrittore fuori dalla pagina scritta, di persona, sa che a La Cava sempre il parlare si trasforma in racconto, prende il tono dell’affabulazione. Ma La Cava, è chiaro, al contrario di quei narratori orali ai quali per un verso appartiene, è anche scrittore. Il che vuol dire uscire da quelle realtà umane chiuse in se stesse verso l’universo, vuol dire dare significato a ciò che si racconta:  e vuol dire altro.
E’ scrittore, La Cava, ed è specificatamente romanziere. Venne subito conosciuto e da allora rimase famoso per i Caratteri: brevissimi racconti, annotazioni, moralità; in una parola, frammenti. Come frammentista quasi è stato etichettato, con quanto di epigono vociano aveva la definizione. O come pseudoframmentista, nel senso, questo, in cui venne usato da Giacomo Debe nedetti  a proposito di Tozzi del primo libro Intitolato “Bestie “… quel libro, in apparenza devoto alla moda e al gusto frammentistico, è viceversa Il libro di un vero narratore, che riesce a far passare attraverso quei  frammenti, il suo animus narrativo, il suo bisogno di narrare’. La stessa cosa si può dire per il la Cava dei Caratteri, ma non appoggiandosi soltanto ai mezzi della critica letteraria, ma anche alle date, alla storia. E’ uscito ora, quasi contemporaneamente a La ragazza del vicolo scuro, un altro romanzo di La Cava dal titolo Il matrimonio di Caterina, edito da Scheiwiller. E’ sorprendente il racconto di questo racconto che il La Cava fa in una lettera all’editore stampata come prefazione. Dice subito che Il matrimonio di Caterina è il suo primo racconto, che è stato scritto nel 1932 ( prima dunque dei Caratteri), quando egli aveva 24 anni, e che viene pubblicato oggi, dopo 45 anni. Sorprendente la freschezza, la modernità e, nel contempo, la classicità di questa  prima prova narrativa di Mario La Cava. Il matrimonio di Caterina, del 1932, per argomento e tematica è stranamente imparentato al romanzo di oggi, a La ragazza del vicolo scuro. Storia, nell’uno e l’altro, di una violenza, di una  illusione, di una amara e terribile delusione, di una sconfitta: su una donna, di una donna; Caterina in quel libro Elena in questo. Ma La ragazza del vicolo più complesso e articolato dell’altro, più che in chiave esistenziale, in chiave di fatale sconfitta verghiana (Elena la fanciulla protagonista, ha la dignità e la nobiltà dell’offesa e nel dolore di una Nedda o Mena), può essere letto in chiave storicistica, meridionalistica come una metafora della sconfitta del Meridione, del fallimento – ormai crediamo definitivo, dato il fallimento generale di oggi – della soluzione del problema meridionale. E tutti gli elementi della vicenda concorrono a farci leggere in questa metafora il libro: Il vicolo irrimediabilmente senza luce e pieno di cocci di bottiglia dove i bimbi giocando si tagliano i tendini; la condizione di Sebastiano, padre di Elena,ultimo lavoratore della terra, privo di coscienza di classe disponibile per il padrone fino all’ultimo residuo di forze; che affoga nel vino la fatica la pena; la prima esperienza di sfruttata di Elena Nella casa della maestra Bononio, fascista, paranoica e ambigua; La seconda, in casa del segretario Giuffone, piccolo borghese fascista e corrotto, e della sua famiglia, avida, volgare  e violenta; e l’amore di Giulio, l’italo-americano, l’illusione del matrimonio con questo e la speranza di uscire definitivamente da una condizione di povertà e di umiliazione. E poi il viaggio  Roma, alla stazione di Roma, appena nell’anticamera di questa città – simbolo, la scomparsa vigliacca  di Giulio e Il ritorno in paese di Elena, nella casa del vicolo scuro, che Giulio l’americano e i suoi dollari non avrebbero potuto non unirsi una a quella classe – ossatura del fascismo, la classe della maestra Bononio e del segretario Giuffone, che, caduto il fascismo e passata la guerra, sarebbe stata, oltre che scheletro, anche polpa e sangue del nuovo regime. Ed Elena, che aveva preso una prima volta e inutilmente, il treno per Roma, dove sta il governo e si decidono le sorti (e quali sorti oggi lo sappiamo tutti, al Sud e al Nord), Elena prenderà una seconda volta il treno per trasferirsi alla periferia di Milano o di Stoccarda.
Il terremoto livellatore di cui dicevamo ha portato in superficie dunque i centri della terra da cui venivano fuori le storie, i racconti. Altro verrà da questa superficie uniforme o  è già venuto, non sappiamo se di meglio o di peggio, certo di diverso. E intanto, mentre qui rendiamo omaggio a un narratore vero e di razza come  Mario La Cava, ci sembra di compiere un rito, sia pure familiarmente, sia pure dimessamente, di una fede che appartiene al passato.
Vincenzo Consolo
estratto dal n.340 della rivista Paragone/ Letteratura
Giugno 1978  Sansoni Editore Firenze

 

Saggio introduttivo per il libro “Gli Arabi paesani, inchiesta sui giovani di oggi.

“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!” declamava alla prima seduta dell’Assemblea regionale il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nel- la sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Velasquez che raccontano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e viceré, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici: a sinistra i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro democristiani e separatisti; a destra monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, quel cardinale Ernesto Ruffini che implorerà “di cuore sul nuovo Parlamento siciliano l’abbondanza delle celesti benedizioni». (Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà di lì a poco solo su quel gruppo democristiano che col cardinal Ruffini intreccerà unita d’ intenti e di voleri), Cosa voleva dire quella implorata “concordia sacra” “tregua di Dio” del presidente Lo Presti? Era che sala d’ Ercole, tra gli scranni, un profondo fossato era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, un fossato entro cui scorreva la paura del centro e della destra per i seicentomila voti ottenuti dal Blocco del popolo. Paura che alcuni avevano cercato di fugare armando la mano d’un bandito, Giuliano, contro gli inermi lavoratori festeggianti il I° maggio a Portella delle Ginestre. «N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e cerano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò riversi sulle pietre una rosa maligna/nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancora un’illusione. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: – Femmine, che sono ‘sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca? Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso!” Ora il sangue delle undici vittime e dei feriti di Portella rigava quel fossato, ancora a demarcare, ancora a dividere le due Sicilie di sempre: quella proletaria dei contadini e dei braccianti e l’altra dei principi, dei sedara, dei gabelloti, dei campieri, dei mandanti e dei sicari. Sono, questi ultimi, i siciliani che si sentono eredi della storia illustre dell’Isola, che ne difendono l’antica civiltà e l’onore, sono questi che si riconosceranno nei “perfetti dei? del Gattopardo: d’un olimpo disumano, violento e sopraffattore, mafioso e “democristiano”. E mettiamo democristiano tra virgolette volendo dire che, messa da parte la componente popolare e sociale di quel partito, prevalendo l’altra, quella borghese delle clientele e delle cosche, niente ci sembra più siciliano del partito democristiano (come niente è stato in origine più padano, più lombardo del fascismo agrario e cattolico), di pratica politica cioè intesa in senso familiare e tribale, in senso mafioso e clientelare. Trent’anni sono passati da quel 25 maggio del ’47. Cosa è successo da allora lo sappiamo. Quella Sicilia di là dal fossato, la Sicilia che, dopo ottant’anni di unità sabauda, per non parlare di prima, dopo i vent’anni di fascismo con gli ultimi quattro anni di guerra, accesasi per l’ultima volta nella speranza di una nuova storia, di fare essa la nuova storia dell’Isola, è costretta a emigrare, a spargersi per l’Italia e l’Europa. E non erano, questi siciliani dell’emigrazione, solo contadini e braccianti, erano anche intellettuali. Restava nell’Isola, sequestrata dal potere, stretta nella morsa della promessa del favore e del ricatto, quella classe intermedia che riempiva uffici, riceveva assistenza, sovvenzioni, emolumenti. E in quei contadini e in quegli intellettuali emigrati, oltre la rabbia, era sempre dentro la speranza che nell’Isola prima o dopo qualcosa potesse cambiare, che prima o dopo fosse possibile il ritorno. Anche uno scrittore come Vittorini, che sempre respinse l’idea-sentimento di una patria-Sicilia, creandosi una dimensione ideologico-poetica di Sicilia-Lombardia, anche il Vittorini delle “‘tensioni” europee, nutrì per un momento la speranza di un cambia- mento. Si era intorno al ’50, e lo scrittore degli astratti furori di Conversazione, del notturno viaggio nel dolore e nella rassegnazione, tornato in Sicilia, assiste al grande movimento per la scoperta del petrolio: erano gli anni di Gela e di Mattei. Rapportò, o innestò, questa speranza dell’Isola a quella del Nord per l’industria “umana” e olivettiana, la speranza della nascita di una nuova società. Scrisse allora Le città del mondo, libro diurno e di grande movimento, di personaggi in lingua dalle rassegnazione dalle stasi di camionisti per le strade, di contadini a cavallo convergenti in una valle per una grande assemblea) Hai, quando la poesia si fa illusione e utopia, quando la storia taglia il filo che l’aggancia alla realtà. Nel maggio di quest’anno si è celebrato il trentennale dell’Autonomia siciliana. In quella sala d’Ercole del palazzo dei Normanni, accanto a Pancrazio De Pasquale, il primo, dopo trent’anni, presidente comunista del ‘Assemblea, cerano Andreotti, Ingrao e Murmura (quest’ultimo in rappresentanza di Fanfani). Ha parlato De Pasquale, ha risposto Andreotti, e da una parte c’era la richiesta di attuazione completa dello statuto e dall’altra la promessa, data la convinzione che è proprio dal rilancio della autonomia locale che può e deve scaturire a livello civile, culturale, umano il primo elemento di ricomposizione della società? e data la speranza che “dal Meridione e dalla Sicilia potrebbe emergere oggi, invertendo l’itinerario del secolo scorso, la riaggregazione a più alto livello dell’attuale società nazionale tanto turbata”. Il clima di ricorrenza e di celebrazione, chiaro, permette di eludere le analisi, i processi e le imputazioni, ché allora ci sarebbe stato davvero da sghignazzare, se non da gridare, alle parole di un presidente del Consiglio di quel partito della maggioranza che da trent’anni detiene il potere nel Paese, responsabile quindi delle condizioni di oggi della Sicilia, del Meridione, che appunta le speranze nelle autonomie locali di una ricomposizione- a livello, civile, culturale, umano della nostra società disgregata, di un nuovo risorgimento nazionale che parta dal Sud. E solo quest’ironia allora ci permettiamo menti avvertiti come siamo in fatto di risorgi i chi è che lascia oggi Pisacane per Cavour e i Savoia? Chi baratta la rivoluzione per il risorgimento, chi sono oggi questi nuovi Garibaldi del Sud? Intanto, quel fossato apertosi tra i banchi di sala d’Ercole, quello rigato di sangue, di cui si parlava all’inizio di questo scritto, è stato riempito. Il I° maggio di quest’anno s’è anche commemorata per la prima volta all’Assemblea regionale la strage di Portella delle Ginestre. Un’altra commemorazione a Piana degli Albanesi, sul luogo della strage, l’hanno fatta i sindacati unitari. Ma domenica 5 giugno a Palermo, mentre Pajetta commemorava da una parte Girolamo Li Causi, il grande capitano delle lotte del ’47, dall’altra parte il Centro Siciliano di documentazione svolgeva un convegno di studi sul tema: 1947- 1977. Portella delle Ginestre: una strage per il centrismo”: una controcelebrazione del trentennale? E in questo nostro paese di telegrammi ufficiali, di lacrime di coccodrillo, di corone di fiori di commemorazioni, di controcelebrazioni ce n’è gran bisogno: bisogno di analisi, di processi e di imputazioni. Cosa sappiamo, intanto, della Sicilia, del Meridione, dopo questi trenta anni di malgoverno, cosa sappiamo delle condizioni in cui sono state lasciate queste terre “di rapina”? Abbiamo avuto notizie solo di altre stragi, di sindacalisti ammazzati, di sciagure naturali che scoperchiavano altre e millenarie sciagure storiche, di mafia, di rapine, di corruzioni, di speculazioni, di intrighi e di compromissioni della classe dirigente: vasta è la letteratura a riguardo, e spesso romanzata fino al folklore, fino all’amenità, fino a perdere forza di verità, forza di denunzia. Ma dei siciliani che nell’Isola sono rimasti, dei loro mutamenti sociali e politici in questi anni poco sappiamo. La letteratura, a riguardo, crediamo che sia inesistente Ci sovviene soltanto qualche meritoria inchiesta giornalistica, come quella per esempio di Mario Farinella raccolta in volume sotto il titolo di “Profonda Sicilia”, una ricognizione per l’Isola sul finire degli anni ’60. E dei giovani meridionali, dei giovani siciliani di questa fine degli anni settanta, cosa sappiamo? Di questi, di cui non si può dire ormai che siano una generazione, ma una classe (una situazione esistenziale che è immediatamente storica Ed è allora, per questo che loro, i ragazzi, hanno sentito il bisogno di rivendiate, tra le altre cose, il principio che il personale è politico?): per l’emarginazione. il cui li abbiamo spinti, noi, i loro padri, per il deserto di valori in cui li costringiamo a vivere; por le varie crisi che gli abbiamo apparecchiato; per la distruzione di speranze, per le lande senza orizzonti in cui li abbiamo relegati, spogli di cultura e identità. Fino a poco tempo fa, dire giovani, dire siciliani, calabresi o lucani, appariva subito una definizione astratta se non qualunquistica, priva com’era di una distinzione di classe. Dire oggi giovani o giovani siciliani non è più sospettabile. Anzi. In questi, nei giovani siciliani, o giovani calabresi o giovani pugliesi, c’è già una doppia connotazione storica: in quanto giovani e in quanto meridionali. Di una storia che non è più uguale a quella delle generazioni precedenti. Tra queste ultime (del subito dopo- guerra, degli anni cinquanta o sessanta, del sessantotto o del dopo sessantotto) e le generazioni di questa fine degli anni settanta, sembra che dei terremoti siano avvenuti, a scavare abissi, voragini, a creare profondi mutamenti. A decifrare i quali non servono più i metri conosciuti e praticati sin qui. Quali nuovi metri allora si usano? Le sofisticate e asettiche analisi di laboratorio su campionature o cavie che gli scienziati, antropologi e sociologi, praticano con quel distacco e quella iattante autorevolezza che a noi – col rischio di apparire corrivi o vecchi umanisti superati – tanno nascere il dubbio di verità o deduzioni sospette perchè nate da quella scientificità “‘pura che è già ‘”socialdemocratica”; quando non risultano, queste analisi nel chiuso del laboratorio, immediatamente superate dallo svolgersi e radicalmente rivolgersi della realtà esterna. E allora preferiamo la vecchia, esposta. non-scientifica, non-rigorosa, ma “calda” e reale inchiesta giornalistica. E preferiamo anche la pratica di una realtà umana come quella giovanile (e spero che i lettori di questo scritto non siano portati a facili e offensive alla loro stessa intelligenza – battute cosiddette di spirito) di un poeta come Pasolini che lo portava a dolorose constatazioni, a inquietanti profezie. Ecco dunque un’inchiesta giornalistica sui giovani della provincia siciliana, questa di Giuseppe Corsentino: fra le prime e quindi preziosa; profonda, perchè di una realtà scovata in angolo bui e da anni dimenticati. Questa realtà giovanile della provincia siciliana è sconcertante. Per noi, lettori di vecchie letterature e vecchie inchieste sulla Sicilia, dove le classi separate davano un quadro dialetti- co e storicistico (gli zolfatari e i padroni di miniere, i contadini occupanti le terre incolte e i baroni e campieri, le speculazioni edilizie e le stragi a scoppi di tritolo e colpi di lupara, i cortili di Palermo e gli sprechi messi in luce da Dolci, le parole che erano pietre delle madri dei sindacalisti uccisi dalla mafia riportate da Levi, la fame dei bambini e i bottoni nella loro minestra, i salinari e il potere che si ricostituiva nel dopoguerra come ce li ha fatti vedere lo Sciascia de “Le parrocchie di Regalpetra”…), questo quadro di oggi della Sicilia dei giovani ci appare inedito (come inedito deve essere il quadro della realtà giovanile del resto delle regioni meridionali) non più dialettico, intanto, ma univoco, omologo, come oggi si dice. Di giovani quasi tutti appartenenti ormai (qualsiasi sia la loro origine) a una piccola borghesia vittima e disastrata dal consumismo (l’edonismo americano), di merci e di ideologie, disorientati e ondeggianti tra atteggiamenti di riporto di freakettonismo o indianismo paesano o triste e consapevole acquiescenza al vecchio ricatto e alla vecchia soggezione clientelare. Dall’altra parte, gli adulti, i vecchi, di fronte a questi giovani disorientati e disarmati, residui della risacca sessantottesca, “‘scollati” da qualsiasi organizzazione politica, instaurano vecchie controriforme, vecchie ipocrisie, vecchi vizii provinciali e bacchettonismi. Così è a Trapani a Sciacca, ad Agrigento, a Mazara, a Caltanissetta, a Castelvetrano, alienata e miracolata racina Canicattì, allo squallido deserto periferico di Gela… Qualcosa di diverso, di muovo, si nota noi giovani della Valle del Belice, dove il terremoto ha anche sconquassato le vecchie divisioni, le vecchie classi producendo, a prezzo di tanto dolore, uguaglianza e unità di impegno e di lotta. Siamo partiti da lontano: dalla Sicilia del 47. Questa è la Sicilia di oggi. Ma è anche il Meridione di oggi. Di questo Meridione che si è voluto cacciare dalle campagne e dai paesi, lo si è portato nelle fabbriche del Nord in nome della dea industria, che lo si è eletto a terra di conquista per i consumi, che si è spogliato di cultura e di identità. Oggi che quella divinità industriale dai piedi di argilla è crollata, c’è il marasma e lo smarrimento, nei giovani, soprattutto, i più fragili e vulnerabili. Per essi, la unica novità è la recente legge per l’avviamento al lavoro, e quale? In essi, intanto, c’ è il desiderio di un ritorno alla campagna: ci sono le rioccupazioni delle terre come negli anni ’50, si formano le comuni agricole, le cooperative. E questo significa che c’è nei giovani, oltre a una volontà di una vita diversa, anche il bisogno della ricerca di una cultura più “umana” di una identità più vera e più solida. Il governo, le forze economiche nazionali e non, terranno conto di questo loro bisogno?

VINCENZO CONSOLO  Milano, 26 agosto 1977


Il clamoroso caso letterario di uno scrittore siciliano.

Un moderno Ulisse tra Scilla e Cariddi

Sfogliando il grande libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo

Vent’anni di lavoro, e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine dell’ultima guerra mondiale.

Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma: e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia, che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.

E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono a spiegare le cose e le ragioni delle cose.

A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per quella letteratura che si chiama siciliana.

E quando una storia della letteratura dell’isola si farà, oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa, Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.

Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.

E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.

Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone fossero in qualche modo diverse.  E diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo romanzo si svolge sullo stretto).  Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al modo d’essere siciliano.   Sciascia, sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero spazio vitale”.  E ci soccorre anche Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite della storia”.

Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia, o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore, la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono siciliane per sostanza.  Ma questa non è che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste, la realtà scappa da tutte le parti.

   Tuttavia: una città come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi dentro un mero spazio vitale.  E figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?” dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il romanzo di D’Arrigo.

La morte marina

   “Orcynus Orca” è un romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni.  È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria, marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare, lo stretto, lo ferma.  Tutto è devastato, distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche.  Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale.  Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.

Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare notturno di cadaveri e di fere bestine.  Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra, ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre deludente e atroce.  Ritrova il vecchio padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.

Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia, l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.

   Solitario, terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede il terrore, lo segue il deserto e la devastazione.  Il mostro arenato, scodato e irriso dalle fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli inglesi e dai pellisquadre.  Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato, corrotto: viaggio verso la morte.  Ma viaggio anche verso la verità, l’origine della vita.  Orcynus è anche orcio, grembo materno, liquido rifugio, mare, principio e fine della vita.  ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura “naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte

   È quasi impossibile riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure.  Romanzo dentro il quale tuttora siamo immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante.  E per poterne riferire in termini pacati e chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore  e l’incanto.  “Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata dallo scrittore.  Lingua che è il dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento, assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi con ritmo e musicalità, larga, polifonica.

   Una lingua che è ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.

   E riferire vogliamo anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.  Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a oriente, verso il sole.  Si sarà incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia, terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.

L’incontro con Vittorini

    A Messina, all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice Canonico, disegnava.  Vittorini, chissà per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo, vuole leggerlo.  Gli mandano un numero con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”.   È il 1946.  Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono civiltà e poesia”).

   Nel 1947 parte per Roma.  Qui si occupa d’arte.  Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti, Ciarletta.  Nella soffitta dello scultore di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a testa, e mangiano panibi e bevono vino.  Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul delfino.  Canonico va dal direttore dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici, storie antiche sul delfino, leggende.  E fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.

   Nel 1957 D’Arrigo pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano. Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista “Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava prima il romanzo.  Scrisse allora Vittorini sulla rivista:  “Quanto qui ora pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress” ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.  Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.

Impegno totale

   La rivista di Vittorini era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino.  Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare, a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e ne avevo ricevuto una grande impressione.  D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul linguaggio, il ritmo, i personaggi…

   Lo incontrai l’anno dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei pescatori, parole, frasi.  Era pieno di fervore, di vita.  Si capiva che il lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo.  E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai a trovarlo a casa, a Monte Sacro.  Era già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il libro era là nel suo studio, in bozze.  Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che arrivavano fino al pavimento.

D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a Messina.  Era tutto calato dentro il suo libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro.  Mi disse che soffriva di cattiva circolazione alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da attacante nella squadra di calcio del Messina.  Sono passati anni.  Di tanto in tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.

   Nel ’73 sono ancora andato a trovare D’Arrigo a Roma.  Mi apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede nessuno ormai da anni.  Dopo un lungo tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto, memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento.  Mi parla della moglie Jutta (è assente perché al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui, senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con speranza intatta e chiara.  “A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul frontespizio del libro.  Parla degli amici che se ne sono andati, quelli morti  (Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma.  E parla di Messina, della sua Messina, della Sicilia.

   – Perché un giorno non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i politicanti, gli affaristi, i mafiosi.

   – E poi, dopo una lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.

Ma del libro non parla e io non oso fargli domande.  E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo e anche sul divano.  E c’è anche la prima pagina, la controcopertina col titolo.  “Orcynus orca” si chiama ora e non più  “I giorni della fera”.  E poi di Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico.  La Divina Commedia è il mio libro De Chevet.  Mi è servito molto, soprattutto per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno” in Arno.

   Al momento che devo partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me, in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.

   Certo, D’Arrigo, rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno  di impegno totale alla letteratura, alla poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi.  Non si sa ancora che ripercussioni avrà il suo libro nei lettori, nei critici.

Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio.  E questo lui lo sa e lo teme.  Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore.  Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse?  Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?

Vincenzo Consolo L’Ora 22 febbraio 1975

CONVERSAZIONE CON SCIASCIA OVVERO IL VIZIO SEGRETO DI SCRIVERE… E LEGGERE

Un giorno d’inverno in libreria a Milano

di VINCENZO CONSOLO*
18 gennaio 1969

Ama molto camminare a piedi. Dal suo solito albergo vicino la stazione scendiamo verso il centro. Alla Libreria Internazionale Cavour facciamo il giro delle tre vetrine cariche di libri. Libri, libri. Ed essendo periodo di «strenne», vi sono vecchi titoli ristampati e riproposti in nuove e lussuose confezioni come fossero panettoni raffermi rinforzati, scatole di dolci scadenti in involucri preziosi e accattivanti. Libri sui vini, sulle automobili, sui fiori, guide gastronomiche, guide ai piaceri di Londra e di New York, guide al raggiungimento delle perfette intese sessuali. Proseguiamo per via Manzoni. Parliamo dello scrivere e del non scrivere.
«Che fai, lavori, Leonardo?».
«Vorrei scrivere tre o quattro cose ancora, prima di smettere (o di morire: ma spero di arrivare a smettere per avere il tempo di prepararmi a morire). Ma c’è qualcosa nell’aria che, si direbbe a Napoli, ti fa cadere la penna di mano; e in Sicilia specialmente. Scrivere è ora una lotta non solo con la realtà ma con me stesso. Forse il successo che i miei libri hanno avuto, mentre le condizioni della Sicilia peggiorano al punto che poco più è morte, ha creato in me uno stato d’animo che somiglia alla vergogna e al rimorso. Avendo concepito lo scrivere come azione, sconfitto nell’azione sento come una forma d’irrisione il successo in “letteratura”. Ma scrivere è la mia vocazione e il mio mestiere: e continuerò a scrivere anche se tutte le ragioni per cui ho scritto ora si rivoltano a non farmi scrivere». Alla Libreria Einaudi, in Galleria, il direttore Aldrovandi ci accoglie come vecchi amici. Ci chiede di Attilio. Attilio Mangano è un giovane siciliano di Palermo che, avendo fatto una interessante tesi su Vittorini, era stato chiamato da Einaudi e messo qui, in libreria, a fare il commesso. Un giorno – fui spettatore – entrarono nel negozio due ragazze e chiesero ad Attilio ventidue romanzi che fossero divertenti, un po’ «spinti» senza essere «eccitanti». Aiutai Attilio a scegliere i titoli. «Scusate. Per chi servono?».
«Per una squadra di calcio in ritiro. Gli undici giocatori e le riserve».
Attilio lasciò la libreria e tornò in Sicilia. Ora è di nuovo qui a Milano e insegna in un ginnasio.
Entrano giovani barbuti e con mantelli, ragazze con lunghissimi cappotti e occhialoni alla clown, e chiedono Marcuse e le opere del «Che», la «Monthly Review» e i «Quaderni Piacentini». Ma entrano anche persone, meno giovani, che chiedono «tutto Pavese», Le confessioni di Nat Turner e A ciascuno il suo.
«La crisi del romanzo non esiste se non dentro quella che direi la generale crisi dello scrivere. Perché ci dovrebbe essere una particolare crisi del romanzo? Ancora c’è chi li sa scrivere; e moltissimi sono quelli che sanno leggerli, anche se nessuno, al disotto dei quarant’anni, è disposto ad ammettere che legge romanzi. La lettura dei libri di narrativa è diventata una specie di vizio segreto, da quando certi galantuomini che non ne sanno scrivere si danno da fare a lanciare la moda del non leggerli: “Non leggo più romanzi, leggo saggi”; come ieri si diceva “non leggo più poesie, leggo romanzi”. La verità è che leggiamo poesia e leggiamo romanzi: quando troviamo un buon poeta, un buon narratore. E in quanto ai saggi, se ne comprano certamente molti, ma direi che se ne leggono pochi».
Davanti alla bancarella di un siciliano, in piazza Matteotti, Sciascia mi parla dello stare nell’isola e dell’andarsene.
«Il mio stare in Sicilia non ha niente a che fare col dovere e col sacrificio, né ha comportato alcun rischio. Mi piace starci e ci sto: tutto qui. O meglio: finora mi è piaciuto starci. Comincio infatti a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: in parte perché mi sento, pirandellianamente, imprigionato nella forma di “quello che sta in Sicilia” (il che Vittorini mi prediceva quando io ero ancora lontano dal sentirne il disagio); in parte per ragioni più oggettive, che si posso no oggettivamente riassumere nella constatazione che fa il personaggio di un mio libro: che uscendo di casa incontri tutte le persone che non vorresti incontrare, e quasi mai quelle che ti piacerebbe incontrare».

* Questo articolo è stato scritto per L’Ora ed è raccolto nel libro “Esercizi di cronaca” (Sellerio editore)

Nella foto: Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo