Blu

Vincenzo Consolo scrive questo testo ispirandosi
all’ opera dell’ artista Marcello Lo Giudice.

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BLU

Per isole di calce, passaggi di carminio, per sprazzi gialli e sfumature verdi, ai bordi, sul ciglio d’un ignoto mondo, del più profondo azzurro, ci muoviamo. Sfioriamo un mare immenso, un immenso cielo, uno smisurato spazio, la soglia del panico, la voluttà del naufragio, del sogno e della stasi, dell’oblìo. Denso, compatto come lapislazzulo precipita, scorre tra sponde d’oro, argini di smalti. Ci prende e ci trascina questo fiume imperioso nella Venezia e Samarcanda del racconto, della favola, nell’oriente di splendori, nella Bisanzio al culmine del fasto e della grazia. Si ritrae e stempera l’azzurro, ristagna e vortica tra scialbature, muschi, biacche. Più lieve, trasparente, invade ancora il nostro spazio, con lampi incandescenti nel suo sottile corpo di cristallo, linee, curve, squarci allarmanti di scarlatto: a ogni nuova forma, metamorfosi, scrive per noi, apparecchia ansie, sortilegi, ci chiude nel recinto dell’incanto. Tracima ora dagli argini, scorre per invisibili passaggi, colma ogni vuoto, abisso, s’addensa a strati, spegne ogni luce, riflesso, culmina nella notte del mondo, nel blu più cupo, nell’assoluto nero. Compiamo questo viaggio dentro le quinte mobili e fugaci, dentro l’illusione, l’inganno, la malìa dei colori, fra l’apparenza della pittura. Dentro l’avventura dell’azzurro, del colore dell’origine, dell’infinito spazio e dell’eterno, del

dolce colore d’oriental zaffiro.

Andiamo dentro il magma etneo, il fluire e il cristallizzarsi del colore, il suo stringersi ed espandersi, stratificarsi sopra verdi, bianchi, rossi, il suo crepare e aprirsi in voragini, in abissi, il suo disintegrarsi come per immane cataclisma e stendersi sereno, denso e profondo come a suggerire acque, cieli d’una prima creazione. Una mano d’istinto e d’irruenza sembra abbia predisposto questo gioco, la mano d’un pittore che rapito dall’ incanto del colore, dall’ energia primigenia del cobalto, abbia superato, per il nostro rapimento, il nostro incanto, la superficie della tela, il confine del suo spazio, sia andato, per illuminazione, naufragio, oltre ogni grammatica, ogni sintassi.

Brano tratto dal libro L’ ora sospesa ed. Le Farfalle

Il libro celeste

Vincenzo Consolo scrive questo testo ispirandosi
all’ opera dell’ artista Fabio Zanzotto.

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IL LIBRO CELESTE

Vorrei essere o sono il figlio disdegnoso, il figlio errante d’Ermocrate, o egli stesso, il vecchio, privo ormai di ritegno, privo di casa, affetti, vagante come insano o come schiavo fuggitivo lontano da città, contrade, per ermi monti, per valli inospitali, per lidi desolati. E fuori da grotta, anfratto, trepido come colomba, lepre, muove il bordone, il passo nell’ ora estrema in cui la cenere viola, il sudario d’albagio cala sopra il mondo, in cui s’accende il cielo. S’accende la volta immensa, la tersa ossidiana d’ogni incandescenza, adamantino dardo, palpito, anelito di fiamma.

E vado, vado nel tempo mio del rapimento e dell’incanto, vado alla ricerca del luogo della quiete, dell’incominciamento del giorno mio dentro la notte, vado coi pipistrelli, i gufi, le volpi fameliche e insonni, vado nell’ora in cui ogni animale, zolla, arbusto ritrova nell’abbandono, nell’assenza ristoro al suo travaglio, alla sua pena.

Salgo sul colmo d’un colle di spini e acanti dove, sul ciglio della voragine sonora pel gorgogliare d’acque, sorge un bianco tempio di calcare, vasto e possente nella base, nelle colonne, nei timpani dei fronti. Che pare sorto, nella perfezione della struttura, nell’equilibrio delle masse, nella consonanza con la natura intorno, per forza sua, per evoluzione naturale, sorto dal lento ricomporsi della pietra informe, del caos naturale, dentro la forma della geometria, dentro l’ordine del ritmo, del numero. Che sembra concepito, non finito come si presenta, privo di ara, d’ermetico sacello, di copertura, di scanalature alle colonne, come luogo aperto verso il cielo, come porta verso l’insondabile infinito o come pausa, sosta d’un momento, quale la vita d’ogni essere, ogni uomo, nel processo del tempo inesorabile ed eterno. Per quale dio o dea, per quale regina delle madri è stato edificato? E per quali riti, per quali misteri imperscrutabili posto in questa solitudine, sull’orlo dell’abisso? E perché lasciato nel suo difetto calcolato, nella sospensione sua pietrificata?

E qui, nel centro, nel sacro onfalo di questo temenos aperto in ogni lato, verso ogni punto del mondo, esposto alla tenera notte dell’estate che porta sulle brezze odori arsicci di fieni, nepitelle, porta le scansioni del silenzio, le strida, i pigolii flebili, lontani, e i verdi filamenti, i palpiti soavi delle lucciole sopra le pareti del buio, il luccichìo fermo, tondo dell’uccello sacro d’Atena, aperto, esposto in alto all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, come l’orante prono, e vado, rotto ogni ormeggio, sciolta ogni memoria, navigo, mi perdo nella lettura stupefatta del libro portentoso, immenso, in incessante mutamento, della scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti, dei chiodi tremendi del mistero. Sì, io, il figlio delirante d’Ermocrate, o egli stesso, lo stimato cittadino d’Agrigento, dal terrazzo della ricca casa proteso sulla vallata degli ulivi e dei templi che numerosi e belli vanno fino al fiume, al mare verso l’Africa, una notte illune carica di stelle e di portenti, guardai il cielo e smarrii per sempre il senso del presente, dell’opportuno e dell’angusto, persi la ragione nell’assillo di capire, di rinnovare ogni notte la mia gioia.

Ma che legge un uomo che ignora gli alfabeti, ignora i segni, la scrittura, i messaggi delle stelle? Ignora la scienza sacra ed ermetica dei maghi, la potente sapienza dei sacerdoti di Tebe o di Babele? Un uomo che ignora i nomi di stelle fisse o variabili, di stelle doppie e multiple, i divini nomi e mostruosi delle costellazioni, di nebulose, di ammassi, di galassie?… E allora – qui sta la condanna e la fortuna – io non leggo, io resto immobile e contemplo. Contemplo e sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori che s’accendono e spengono d’un tratto, nei frammenti incandescenti che staccandosi precipitano con code luminose, si spengono nel più profondo nero… Mi perdo e, come nel momento acuto dell’amore o del terrore, ogni parola si frantuma, si spegne, si fa afona, di polvere. Poi, quando sorge e sale nel cielo pallido e regale il faro familiare, lo schermo opalescente, il sipario consolante dell’infinito e dell’eterno, torna incerta, tremante la parola, torna per dire solo meraviglia…

Brano tratto dal libro L’ ora sospesa ed. Le Farfalle

Gli scritti sull’arte di Vincenzo Consolo

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente…

recensione di Sergio Spadaro – critico letterario

Sabato 05 Maggio 2018 

Immagine Principale

Immagine Principale

 Immagine in copertina: quadro “Marina a Tindari” di Michele Spadaro, 1972. 2) Vincenzo Consolo

 Miguel Angel Cuevas, italianista de l’Universitat de Sevilla, ha raccolto e curato gli scritti che Vincenzo Consolo ha via via dedicato agli artisti (non solo pittori o scultori, ma anche fotografi e architetti) in L’ora sospesa (Le Farfalle Ed., Valverde [CT], 2018). Giustamente dice il curatore che “abbiamo forse qui l’archetipo di una strategia di ambiguazione  da annoverare fra le più cospicue della scrittura consoliana”[…] Attraverso “passaggi in cui l’impiego di alcune risorse stilistiche (quali la frase nominale, l’elencazione, la ritmicità della prosa, la rima interna, ecc.) […] L’ora sospesa rivela l’intimo legame tra l’occasione figurativa e la stesura di pagine dominate (per dirla pasoliniamente) da ‘l’immediatezza allucinatoria della poesia che fissa le figure in un loro momento assoluto’. […] Tutti questi tratti distintivi della scrittura consoliana, di un narrare che contamina finzione e dizione (romanzo e poesia, cunto e  canto), trovano una loro cifra, una loro matrice nella dimensione ecfrastica del testo, sia essa velata o meno. […] I testi sull’arte e  sugli artisti […] si dimostrano tutt’altro che scritti d’occasione: […] bisognerebbe piuttosto parlare di occasioni alte e altre, se sono servite per mettere a fuoco le tensioni espressive di Consolo” (pp. 10/16).

   Queste “tensioni espressive” hanno momenti salienti e ricorrenti. Anziché fare pertanto una rassegna per riscontrare quanto dell’arte di ogni artista è penetrato nei testi consoliani, preferiamo indicare alcuni dei passaggi “tipici” della sua visione del mondo (tenendo presente che, in Consolo, il termine “visione”perde ogni statuto razionale e si veste, o si traveste,  invece della  sua particolare “sensibilità”). Citando L’infinito di Leopardi possiamo partire da quella Metafora (la maiuscola è nell’autore) dell’occhio, e dei portoni-occhi che si rintracciano nelle architetture di Bruno Reichlin e Fabio Reinhart, nella quale Consolo vede “quale pietoso, consolatorio argine, quinta, quale parete dipinta contro lo smarrimento, l’ansia dell’indistinto, dell’infinito spazio”. Linguaggio che nasce dalla paura, dal “bisogno di esorcizzare lo smarrimento di fronte all’infinito e al silenzio” (L’occhio e la memoria, pp. 63/65).

   Questo della metafora è un passaggio centrale in Consolo, che arriva anche a teorizzare una differenza fondamentale fra narrare e scrivere. “Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico. […] Il narratore procede sempre con la testa rivolta indietro […].   Ha però il narratore […] una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo sposta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, sì, figli della natura, ma siamo anche – direi soprattutto – figli della cultura. […] Lo scrivere, invece, al contrario del narrare, può fare a meno della memoria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica” (Fotografia e/o racconto, p. 70). E ritorna ancora a Leopardi, citando stavolta il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Tristi nenie […] suscitano dunque il deserto e la notte, lo smarrimento davanti al vuoto, all’infinito, e nel pastore leopardiano domande che […] denunciano [..] sfiducia nella vita, malinconia per la condizione umana. L’insopportabilità di un orizzonte sconfinato, d’uno scenario uniforme e vuoto aveva forse indotto i Segestani a costruire sul ciglio di un abisso, tra l’eminente loro città e la nuda vastità dintorno, il colossale tempio che mai vollero finire, che forse concepirono come segno sospensivo, schermo, come sosta o soglia verso ‘l’infinito seren’, la ‘solitudine immensa’ “ (Faber audace, pp. 87/88). E poiché Consolo procede sempre per opposizioni e contrasti, cita persino la dialettica nietzschiana fra apollineo e dionisiaco che, in Andalusia, si trasforma nel lorchiano Duende: “Avveniva nell’animo di questi nomadi […] la caduta […] dello spirito socratico e l’irrompere dello spirito dionisiaco: avveniva in essi il prevalere del sentimento sul ragionamento, dell’espressione sulla comunicazione, del canto, del movimento sulla prosa razionale” (p. 88). Per concludere: “Dai luoghi estremi, dai deserti, lontano dai segni della storia, della realtà apparente, vinto lo sgomento, si può partire per un’avventura in cui si scoprono alfabeti ignoti, forme e movimenti sconosciuti, si può approdare a una nuova conoscenza, a una fantasia che reinventi il mondo, dia di esso ragione e poesia” (p. 94).

   Questo del “vincere lo sgomento” richiama subito la prosa di Marina a Tindari (poi confluita ne Il sorriso dell’ignoto marinaio), che nella dialettica fra storia e natura, indica l’operazione coraggiosa compiuta dal pittore: “Ma per certo su la tremula landa sconfinata navigò qualcun altro puntiglioso, scoraggiando la perdita, il malessere: di quel luogo tremendo ne riportò i segni, l’idea” (p. 27).

    La metafora può diventare in Consolo persino simbolo generale di ascensione verso l’alto, una di quelle sue figure di ?nghelos, come lo stesso Empedocle (in Catarsi e in Oratorio ne fa quasi un santo che s’immola per il bene dell’umanità). Oppure come il personaggio melvilliano di Billy Budd che, essendo radicalmente buono non può integrarsi nella società umana e, di fronte alla ingiustizia, non può parlare, ma solo agire. Consolo dirà a proposito; “L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze” (p. 76, ma anche in Preludi e naufragi, p. 35).

   Anche la figura di Antonello da Messina è, per Consolo, un prodotto della dialettica fra storia e natura “Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici non si spiegano se non con una preziosa, spessa, enorme sedimentazione di memoria. […] Giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore e geometria. […] E’ l’immagine nostalgica e struggente di una città, un’epoca, di ricca umanità che era nel luogo dove l’ottusa violenza della natura tende sempre a tutto cancellare, tutto smemorare” (p. 103). E in Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia, aggiunge, con tipica immedesimazione personale: “Avrebbe potuto, Antonello, come altri siciliani, come altri messinesi, perdersi, annullarsi nel mare dell’esistenza, essere sopraffatto dalla oggettività fino a perderne coscienza, sprofondare in vortici, chiudersi in labirinti di paura  e incomprensione se non fosse fuggito via in tempo dalla sua città” (pp. 107/108).

   Ricordiamo che, persino nel Ritratto d’ignoto di Antonello del Museo Mandralisca, Consolo   vede “il suo sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (p. 116).

   Un esempio infine della metaforizzazione manieristica di Consolo si ha in Autoritratto , dove il  suo volto viene descritto come un uovo, anzi un limone spremuto e la facies così assomiglia a quella mortuaria:”Nella metafora manieristica, si sa, appare assai debole la somiglianza fra gli oggetti posti a confronto: il paragone viene istituito, non tanto con un altro oggetto, quanto con il poeta e la metafora nulla rispecchia fedelmente come il poeta stesso” (Amedeo Quondam, Problemi del manierismo, Guida, NA, 1975, p. 181).

   Gli artisti che appaiono in questo libro sono rispettivamente: i pittori Pippo Spinoccia, Luciano Gussoni, Michele Spadaro, Mario Bardi, Franco Mulas, Marcello Lo Giudice, Ruggero Savinio, Fabio Zanzotto, OttavioSgubin, Rino Scognamiglio, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici   (che in Retablo era un personaggio della narrazione), Antonello da Messina, Enrico Muscetra; gli architetti: Bruno Reichlin e  Fabio Reinhart; lo scultore Nino Franchina; i fotografi: Enzo Sellerio, Giuseppe Leone e Stefano Baroni. A questo punto ci chiediamo perché non sia stato riportato lo scritto che Consolo aveva dedicato al pittore Togo. E siccome il curatore ci avverte che la selezione dei testi è autoriale (p. 132), si tratta evidentemente di una dimenticanza. Per questo – essendo in grado di farlo – saniamo appresso la lacuna (il catalogo si riferisce alla mostra tenuta da Togo allo Studio d’Arte  Grafica di Milano, dal 26 gen. al 23 febbr. 1995). Oltretutto il testo, come direbbe il curatore, è un esempio di ékphrasis, cioé di descrizione della sua pittura dai colori fauves e dall’ambientazione messinese:

Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzurro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, lo squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’intreccio impietoso, nelle latebre profonde, nel segreto germinare.

Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria. In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi,in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna  instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore.

In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza,come l’incanto d’una strada chiara,d’una fata morgana  tra il cielo e il mare dello Stretto.

Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente… Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura. 

VINCENZO CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, Le farfalle, Valverde [CT], 2018. € 13,00.

da Paese Italia press.it

NOTTETEMPO, CASA PER CASA

1920, Cefalù. È notte. Al sorgere della luna gli ulivi che affollano la collina Santa Barbara sembrano “sradicarsi, muover dondolando, in tentativo di danza, in mutolo corteo, aspri, rugosi, piagati dalle folgori, maculati da lupe, da fumiggini, spansi o attorti con spasimo in se stessi”. Un’atmosfera magica ma anche angosciosa si sparge per la cittadina. Una porta si spalanca di colpo, ne esce barcollando un uomo che si morde le mani, si strappa la camicia al collo, inizia a correre ululando e urlando per le stradine silenziose. “Il luponario! Il luponario”, bisbigliano i suoi compaesani chiusi in casa al suo passaggio. L’uomo ogni tanto cade a terra, si inginocchia, si rotola nella polvere, batte i pugni contro il suolo, piange e ulula ancora. Giunge al mare e vorrebbe gettarsi dagli scogli, ma lo raggiunge, lo abbraccia e lo salva suo figlio Petro. Lui si divincola, corre verso il cimitero, si accascia su una lapide, finalmente si calma. 1920, Cefalù. È giorno. Fa molto caldo e “la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze”. La bottega della Piluchera è affollata, si bevono vino, gazzosa, cedrata, persino acqua. Dal viale Margherita, procedendo su per via Mazzini e accompagnato da una strana musica “segreta d’ascosi pifferi, timballi e ciaramelle”, appare d’un tratto senza preavviso il corteo di forestieri più stravagante mai visto a Cefalù. Davanti a tutti marciano “due fantolini biondi, arricciolati”, vestiti di panni sgargianti. Seguono due donne in tunica color porpora e a piedi nudi. Chiude il corteo l’individuo più strano di tutti: è pieno di anelli e collane, ha un grande bastone dorato e con l’altro braccio tiene un neonato avvolto in panni di pizzo. È “un uomo maestoso, giacca d’alpagà sopra brache variopinte, (…) il cranio raso tranne una ciocca che come corno o fiamma gli si rizzava al colmo della fronte”…

Il magnifico romanzo di Vincenzo Consolo – nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e morto a Milano, dove per una vita ha lavorato alla RAI, nel 2012 – è stato insignito del Premio Strega nel 1992. Magnifico per l’impianto narrativo complesso e sfaccettato, una vera sinfonia in cui la singola nota suonata dal singolo strumento è necessaria e contribuisce alla maestosità dell’insieme, magnifico per i temi affrontati (l’impatto dell’occultista Aleister Crowley e della sua corte variegata sull’ambiente della provincia siciliana degli anni Venti, e contemporaneamente l’avvento del Fascismo). Magnifico più di tutto per la lingua ricchissima, piena di arcaismi, neologismi e localismi. Non è raro imbattersi in prose ricercate, soprattutto nella narrativa italiana, lo sappiamo bene e lo riteniamo un difetto, un limite, un peccato originale. Ma Consolo è tra i pochissimi autori che possono permettersi uno stile così barocco, perché ha la sensibilità e l’approccio del poeta, maneggia la parola come fosse un orafo. Ecco perché le sue frasi profumano di zagara, di arancia, di acqua di mare, di notte d’estate, di sesso femminile. E la spiccata sensualità che la lingua di Consolo trasmette, come fosse un incantesimo arcaico, si adatta alla perfezione a raccontare le avventure di Mr. Crowley, che alla villa di Santa Barbara di Cefalù – da lui ribattezzata Abbazia di Thélema richiamando la sua dottrina, a sua volta così chiamata in onore del Gargantua di Rabelais – mise in scena una colorata rappresentazione di sé e delle sue rivoluzionarie idee in tema di religione, sesso e società, fondando una sorta di “comune” ante litteram. Libero amore, nudismo, abolizione dei vincoli e delle proprietà, droghe, rituali religiosi eretici. Uno scandalo che l’asfittica società siciliana non poteva tollerare (Crowley fu addirittura ribattezzato “u diavulu”) e che peraltro fu inquinato anche da voci false di cannibalismo, sacrifici umani, stupri, fino alla cacciata dell’occultista inglese dall’Italia ad opera delle autorità fasciste.

David Frati 
http://www.mangialibri.com/libri/nottetempo-casa-casa

L’ora sospesa e altri scritti per artisti.

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L’ARTE A PAROLE

Nel 2004, negli appunti inediti per una conferenza su Antonello e altri pittori tenuta nel mese di febbraio all’Accademia Carrara di Bergamo, scrive Vincenzo Consolo:

L’ispirazione della letteratura alla pittura può essere esplicita […] oppure implicita, nascosta. Voglio dire che un disegno, un’incisione, una pittura, una scultura può dare modo a uno scrittore di piegare il racconto verso inflessioni visive, verso l’icasticità.

Ho voluto sottolineare l’aggetivo nascosta come un segno della scoperta che  L’ora sospesa riserva ai suoi lettori. Ma andiamo alle origini; partiamo da un brano de I padri putativi (1960), primo inedito abbozzo manoscritto de La ferita dell’aprile:

Gesù con la tunichetta bianca e il cuore rosso e infiammato in una mano, là nel grande affresco dietro l’altare maggiore, scendeva una lunghissima scalinata che si perdeva nel cielo, una scalinata bordata da siepi di gigli bianchi, alcuni recisi e sparsi per i gradini, gigli che si perdevano anch’essi nel cielo e si confondevano con le nuvole. […] muoveva un piede sul gradino inferiore e gliene mancavano ancora tre per scendere sopra il piano dell’altare e poi lì, in mezzo ai ragazzi. Don Bosco, dal vetro dell’altare di destra, […] – Da mihi animas – diceva dal piedistallo […].

E leggiamo ora la scena nella versione definitiva, nel capitolo V del romanzo del ’63:

Gesù, cuore infiammato su tunica bianca, scende una celeste scalinata bordata di gigli immacolati, muove un piede scalzo e fiorito d’una piaga sui gradini e gliene mancano ancora tre per essere a terra, tra i bastasi della refezione. Don Bosco sorridente […] da mihi animas, e pure il cuore […].

Nel passaggio dalla prima alla seconda stesura assistiamo all’imporsi di alcuni degli espedienti stilistici che contraddistinguono la prosa consoliana: la frase nominale, il ritmo endecasillabico. Ma assistiamo pure a qualcosa di meno evidente, e tuttavia di più trascendente: l’escamotage dell’ecfrasi nascosta; ovvero il passaggio da un’esplicita rappresentazione ad una sorta di presentazione.

Spariti affresco e piedistallo, altare e vetro, al lettore resta non la descrizione di un’immagine ma la sua immediatezza: l’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenza, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire in ogni caso di una diversa voce narrante. Benché nell’esigua misura di una tra le prime prove narrative dell’autore, abbiamo forse qui l’archetipo di una strategia di ambiguazione da annoverare fra le più cospicue della scrittura consoliana.

Non mancano, i romanzi di Consolo, di momenti di stasi narrativa, di still moments (Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural Sign), di passaggi in cui l’impiego di alcune risorse stilistiche (quali appunto la frase nominale, l’elencazione, la ritmicità della prosa, la rima interna, ecc.) sembrerebbe “voler trasformare il moto in quiete” (Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica).

L’ora sospesa rivela l’intimo legame tra l’occasione figurativa e la stesura di pagine dominate (per dirla pasolinianamente) da “l’immediatezza allucinatoria della poesia che fissa le figure in un loro momento assoluto” (Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta). Il libro immette il lettore in un laboratorio; soprattutto nelle sezioni «Bozze di scrittura» – che ospita alcune tra le prime stesure di certe pagine confluenti poi in ulteriori e più larghi discorsi narrativi – e «Prove di saggi» – campionario di alcuni dei leitmotiv della riflessione poetologica consoliana. Queste pagine si pongono quindi come l’occasione per la rilettura trasversale di un intero universo letterario, onde cogliere d’altronde la portata di un’operazione tesa spesso a cancellare le tracce d’una scrittura originale tendenzialmente ecfrastica; ad ulteriore riprova di una prassi letteraria che si serve consapevolmente di strategie di opacizzazione referenziale, e conferma, nel contempo, dei particolarissimi rapporti tra l’immaginazione figurativa e alcuni momenti testuali dove la semantica dell’ambiguità raggiunge la più alta densità stilistica; rapporti tutt’altro che scontati se si considera che spesso in Consolo la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata; rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità (Mitchell, Picture Theory).

L’attenzione – o l’intuizione –, i dubbi che la lettura del testo suscita nell’interprete che predispone lo sguardo verso un preciso orientamento (ché, Kant insegna, l’occhio innocente è cieco), finiscono per confermargli che alcune significative pagine di Consolo siano scaturite – nella loro concreta testura verbale, non soltanto nelle loro valenze simboliche – da un’ispirazione figurativa: che l’occasione iconografica sia diventata momento fondante della scrittura. Tale è ormai il collaudato orizzonte di precomprensione di ogni attento lettore consoliano.

Non pensiamo ora però – a questo ci invita L’ora sospesa – a quelle pagine in cui i riferimenti sono espliciti, dichiarati mediante meccanismi testuali o paratestuali (la dettagliata descrizione del Ritratto d’ignoto che chiude il capitolo primo del Sorriso); né alla presenza di quelle che potremmo chiamare icone autoriali (Antonello nel Sorriso, Clerici e Serpotta in Retablo, ne L’olivo e l’olivastro Caravaggio: nomi che il lettore attiva in modo finzionale tramite una successione di immagini: le loro opere); nemmeno, ancora, alla comparsa di titoli la cui iscrizione quasi epigrafica scandisce intere sequenze narrative (quelli dei Desastres di Goya nel Sorriso), o alle palesi citazioni pittoriche (l’Angelus di Millet che apre il capitolo quinto, sempre nel Sorriso; la Melancholia I del Dürer in Nottetempo, casa per casa). Tutta questa dimensione più o meno dichiarata, o appena velata, della scrittura di Consolo è ben nota.

Pensiamo ad altri frammenti – altri momenti, altri spazi – nei quali la rappresentazione verbale di un’altra rappresentazione, di tipo visuale, non è dichiarata: a frammenti nei quali l’evidenza dell’operazione ecfrastica, della meta-rappresentazione (quella letteraria che prende forma da quella pittorica), si direbbe che fosse, programmaticamente a volte, nascosta al lettore; oppure intensamente schermata all’interno di scene di forte contenuto referenziale che sembrerebbero escludere l’esistenza di una doppia mediazione stilistica, di una doppia semiosi.

Questo libro permette di leggere quei frammenti nella loro forma originaria, prima che fossero sottomessi alle diverse operazioni del trasferimento testuale (varianti, omissioni, procedure d’inserimento) in un tessuto narrativo di più ampio respiro.

Penetrare in questo laboratorio dovrebbe suscitare delle domande sulla natura del rapporto tra letteratura e arti figurative nell’opera di Vincenzo Consolo; non però allo scopo di rinsaldare o smentire alcuni topoi – tutti quelli che girano attorno alle cosiddette, in modo alquanto ingenuo, «arti sorelle» poesia e pittura, e alla secolare discussione teorica in merito –  ma per indagare nella funzionalità che tale rapporto può aver assunto nella scrittura narrativa consoliana; ricercare, ad esempio, come l’allusione a un intertesto figurativo dinamizzi la percezione del testo letterario. Una simile indagine sarebbe volta a gettare luce sui meccanismi della formatività testuale, sulle strategie e sulle materie della costruzione narrativa, sulla poetica implicita nell’opera.

Una lingua così materica, un narrare così sussultorio, il ritmo metrico della prosa, un così ricco intarsio strutturale di discorsi; una dimensione di poematicità (meglio che poeticità) che non può non compromettere strutturalmente la narrazione, e che sarebbe riduttivo identificare soltanto con l’andante tonale e timbrico della frase; un narrare macroscopicamente ritmico nel susseguirsi ellittico di frammenti di racconto, a cui fa capo microscopicamente la ritmicità prosodica della frase; l’esplosione interna degli assi crono-spaziali della narrazione, che provoca nel lettore momenti di smarrimento… Tutti questi tratti distintivi della scrittura consoliana, di un narrare che contamina finzione e dizione (romanzo e poesia, cunto e canto), trovano una loro cifra, una loro matrice nella dimensione ecfrastica del testo, sia essa velata o meno. L’ora sospesa ne è prova.

Vorrei, per chiudere, proporre ancora qualche brano di Consolo. Dal testo si parte e al testo si deve sempre tornare, ammonisce Steiner. Risalgono al 1966 le prime pagine scritte dall’autore per una mostra pittorica, pubblicate senza titolo nella brossura di una personale di Oscar Carnicelli alla Galleria d’Arte Il Cannone di Trapani nel mese di novembre. La nota si apre con un brano virgolettato in carattere corsivo, che si presenta come un frammento, incorniciato com’è da punti di sospensione, come una citazione espunta da un’opera che non si dice:

« …E giurammo sulla santa Vergine, su nostra madre, sui figli nati, sugli uomini che in terra ancora vivono, che mai, mai…

Batteva a tempo sulla crosta del suolo di dicembre un tacco (forse mazza o sfera) che rompeva lo stridere di croci di fili in altissime campate. La schiera si allargava e si stringeva muovendosi agli estremi; e regrediva, avanzava (le teste gonfiano e l’orlo della calotta affonda nella fronte e nella nuca: come farà la madre, ma hanno nostalgia d’una mano?).

Le monche braccia e le anche a branche di tenaglia, mostrò il congegno pel quale all’incastro d’un dente di quindici gradi ruotava la celata (quell’occhio, quel tondo occhio di vetro come scivola e gela la tua pelle).

Gridammo (forse solo pensammo) che se non per noi, per la tenera età dei nostri figli… Un sale spesso scorreva per la gola (il ferro ne uscì pulito, ancora più acuto). Si scostassero, ah, si scorgesse un momento una luna di cielo in mezzo a loro ( – O mia pudica, la tua calda camicia sopra la testa! – gemeva l’orgoglio. E la pietà chiedeva di non piegarti sopra l’erbe e i fiori, questi cardi maligni e rose di cianuro). Il vento derisorio (rintronava nelle volte di lamiera) ci sferzava l’onore e il sesso, e noi ancora sperando rigiurammo sulla santissima Vergine… ».

 

Sempre nello stesso testo, più avanti, già in carattere tondo, si legge il seguente microracconto:

[…] la sentenza è stata pronunciata e la condanna, la violenza, sta per essere compiuta. Nell’attesa dell’esecuzione, in questo fermo tempo, la sofferenza, la tragedia: lo scatenarsi di ansie, di tremori, di freddi sudori, incubi dove guglie lance pinnacoli, fili intersecantisi, fiori e foglie malignamente coriacei e spinosi, formano una trama, una maglia che inceppa e dilania il condannato che cerca di evadere da quel mondo cunicolare, di paura e buio ancestrale. Alla cui uscita, contro un cielo impietoso, attendono schiere fitte di cavalieri e fanti, sicuri esecutori della sentenza, massa scura, testuggine, perfetta macchina di inquietante minaccia e di brutale violenza.

Dalla brossura si evince che, almeno nel caso del secondo dei brani, siamo davanti ad un’ecfrasi di uno dei dipinti che vi si riproducono. Abbiamo buone ragioni per pensare che forse anche il primo parte da suggestioni figurative. La strategia della citazione (probabilmente autocitazione) non sarebbe che un pudico velo che nasconde appena il palesarsi di un esercizio di penna, una prova di scrittura che troverà – senza alcuna precisa corrispondenza testuale, sia chiaro – la sua misura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ne funge, se non da conferma almeno da spia, la asfissiante atmosfera cunicolare abbozzata nel secondo dei brani. Si ricordi inoltre che per le prime testimonianze manoscritte della stesura del romanzo del ’76 (Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo. «Il sorriso dell’ignoto marinaio») si potrebbe azzardare la data 1965, essendo comunque accertato che si tratta di prove anteriori al ’69.

Qualche volta soluzioni di compromesso, e nati spesso da circostanze del tutto occasionali (il pittore, lo scultore che chiede il solito pezzo all’amico scrittore), i testi sull’arte e sugli artisti – almeno nei casi di quelli raccolti ne L’ora sospesa – si dimostrano tutt’altro che scritti d’occasione: a onor del vero, di occasioni di scrittura bisognerebbe piuttosto parlare, di occasioni alte ed altre, se sono servite per mettere a fuoco le tensioni espressive di Consolo: se hanno dato luogo, o corso, al racconto o alle domande sulla sua liceità, a delle riflessioni sulla sua incombente impraticabilità, allo strenuo assottigliarsi del dire.*

Miguel Ángel Cuevas

* Una presentazione dettagliata dei testi che conformano L’ora sospesa in M.A. Cuevas, L’arte a parole: intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo, nel volume curato da Rosalba Galvagno «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Per un elenco degli interventi dell’Autore su materie artistiche cfr. Cuevas,  Bibliografia consoliana. Scritti per artisti. Appunti per un nuovo libro di Vincenzo Consolo, in Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica, XXXVI, 69 (2015), pp. 81-95.

Paolo Barone per AGATHA - Edizioni ZUCCARELLO Stampa Arti Grafiche Zuccarello
Paolo Barone per AGATHA – Edizioni ZUCCARELLO
Stampa Arti Grafiche Zuccarello

Consolo: Sicilia passeggiata, Sicilia smaniata

Miércoles, 14 Marzo 2018

Consolo, Sicilia paseadaVincenzo Consolo, Sicilia paseada, traducción y edición de Miguel Á. Cuevas, Granada, Ediciones Traspiés, 2016

Una pagina di Consolo dedicata a Comiso, patria di Bufalino e già location dei missili Cruise, inizia così:

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. // Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” (V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica (1988); ora in L’opera completa, Milano, Arnoldo Mondadori, 2015, p. 632).

In una circostanza, tuttavia, Consolo preferì la Sicilia passeggiata. In occasione del Premio Italia 1990, tenutosi a Palermo, la RAI affidò a lui, programmista RAI e scrittore di fama, e a Cesare De Seta, storico dell’urbanistica e del territorio, l’incarico di curare per la Nuova ERI un volume-omaggio, da destinare alle autorità e ai delegati dei trentasei Paesi invitati alla manifestazione. Un’edizione di lusso in formato quarto, Sicilia Teatro del Mondo, sponsorizzata da Banco di Sicilia e Sicilcassa, con versione inglese e francese del testo, stampata in milleduecento esemplari di cui cento “al nome”. Oggi il volume è una rarità bibliografica. A Consolo fu affidata la parte periegetica, intitolata Kore risorgente, illustrata con immagini di Giuseppe Leone. È la narrazione di un viaggio ideale tra mito e storia nelle due Sicilie, intese non in senso borbonico ma come due facce della stessa isola, l’orientale e l’occidentale. La seconda parte del volume, affidata a Cesare De Seta, presenta e illustra un Atlante del 1686, conservata in copia anonima nella Biblioteca Nacional di Madrid e in copia mutila presso il Ministero degli Esteri spagnolo: il Teatro Geográfico Antiguo y Moderno del Reyno de Sicilia. La denominazione del codice, commissionato dal viceré Carlos de Bonavides, richiama il famoso auto sacramental di Calderón de la Barca e dà il titolo all’intero volume, in cui il mito ha una parte di rilievo.

Le due sezioni furono edite distintamente dalla Nuova ERI l’anno dopo. Kore risorgente ebbe per nuovo titolo La Sicilia passeggiata, ispirato all’idea di un gesuita del Seicento, Francesco Ambrogio Maja, il cui manoscritto rimasto inedito – Isola di Sicilia passeggiata – era stato pubblicato a Palermo nel 1985 da Salvo Di Matteo per Giada editore. Nella Nota introduttiva, Consolo motiva la sua scelta: questo titolo “… più lieve, più svariante, più illusorio, infine più sognante” gli consente di tenersi alla larga da un banale Viaggio in Sicilia.

Sicilia passeggiata è stato ottimamente tradotto in lingua spagnola da Miguel Ángel Cuevas, con il ricorso a un’immagine di copertina più graffiante – uno splendido panorama della città di Ragusa – rispetto alle scontate cupole arabo-normanne di Palermo. Tra Consolo e Cuevas, fin dai tempi de La ferita dell’aprile, si era stabilito un rapporto molto cordiale, lo stesso che legò João Guimarães Rosa a Edoardo Bizzarri, traduttore italiano di Grande Sertão: Veredas. Tanto è vero che nell’edizione dei Meridiani compare questa postilla, voluta da Consolo: “Ringrazio Miguel Ángel Cuevas, curatore della traduzione spagnola, per le puntuali segnalazioni che si sono rivelate preziose nell’allestimento di questa nuova edizione della Ferita dell’aprile”.

Il taglio ‘passeggiato’ e non ‘smaniato’ di Kore risorgente dipende, com’è naturale, dal progetto editoriale e dai destinatari del volume. Inizia dal primo approdo dei coloni greci, a Naxos presso l’odierna Taormina, e di colonia in colonia procede fino alla necropoli preistorica di Pantàlica, luogo di “ombre trasvolate verso la notte”. Una volta Consolo si distese, quasi si immerse, in una di quelle grotte scavate nella roccia, volendo quasi fondersi in un rapporto panico e magico con il luogo, come aveva fatto a suo tempo l’archeologo roveretano Paolo Orsi, e in tempo di guerra Ungaretti in una dolina del Carso. L’itinerario prosegue nel Val di Noto, una delle tre partizioni storiche dell’isola in epoca araba, con Val Demone e Val di Mazara, un’area martoriata nei secoli da tremendi terremoti, il più spaventoso dei quali nel gennaio 1693. Da queste distruzioni, tuttavia, come nel 1755 accadde alla Lisbona di Pombal, il territorio e la sua gente si ripresero nel giro di pochi anni, con la fioritura di un barocco architettonico senza uguali. Consolo narra anche le feste religiose di quest’area, come quella in onore della Madonna delle Milizie, la Santa Madre guerriera di Scicli, in sella a un focoso cavallo, armata di spada e corazza, versione femminile del Santiago Matamoros di Compostela. Siracusa, vagheggiata come seconda patria da Consolo ragazzo, è al centro di un’attenzione speciale. Quando la passeggiata punta su Enna, si parla di Demetra e Kore, non ancora riemerse e risorte a Morgantina dopo il furto di alcuni clandestini, giusto negli anni di Kore risorgente. Le opere, uscite illegalmente dall’Italia, migrate attraverso e finite dopo la vendita in mano a personaggi eccellenti degli Stati Uniti, grazie alla tenacia di due archeologhe siciliane, sono trionfalmente rientrate alcuni anni fa per essere esposte nel Museo di Aidone. A Demetra e Kore si è aggiunta ora una testa di Ade, identificata e rivendicata grazie a un ricciolo blu conservato nei magazzini del Museo di Aidone, che combacia perfettamente con la capigliatura della testa. Il gruppo madre-figlia-genero si è così ricomposto, ma Kore, simbolo della primavera che torna, doppiamente risorgente, è il simbolo consoliano di una Sicilia che si riscatta agli occhi del mondo grazie ai suoi figli migliori.

Dal regno desolato del latifondo, punteggiato un tempo da miniere di zolfo e oggi conquistato per buona parte all’agricoltura razionale, la passeggiata continua nella parte occidentale dell’isola, dalla Agrigento della Valle dei Templi e di Pirandello, a Selinunte, a Segesta, al golfo di Imera, a Solunto, a Palermo, a Marsala, a Mozia, a Trapani, alle Egadi, luoghi questi ultimi celebrati in Retablo e illustrati da Consolo attraverso la corrispondenza immaginaria che il pittore milanese Fabrizio Clerici, controfigura del Clerici novecentesco, indirizza alla donna amata, poi andata sposa a Cesare Beccaria. Con in più le tonnare, i raìs, i loro sottoposti e la “camera della morte”, dove i tonni, intercettati nel pieno della loro migrazione da oriente a occidente, sono arpionati ed estratti dall’acqua con autentici corpo a corpo tra uomo e animale.

Ciò che mi ha incuriosito, come siciliano residente nell’entroterra di Cefalù da qualche anno, è l’assenza totale, in questa passeggiata, di riferimenti geografici, storici ed emotivi a questa cittadina tanto celebrata da Consolo, suo luogo di villeggiatura nell’adolescenza. Da qui è partito il suo Grand Tourletterario di Sicilia, durato una vita. In compenso Cefalù, con la sua Rocca e i suoi bastioni, compare in una delle tavole dell’Atlante di Bonavides, pubblicate in Sicilia teatro del mondo. Sembra quasi che Consolo, che era di Sant’Agata Militello, abbia trascurato di passeggiare tra le bellezze e i monumenti della sua cittadina del cuore, che considerava “sua” per esserne divenuto cittadino onorario (cfr. Note e notizie su Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, p. 1389: “Questo è un libro […] molto legato alla mia città, Cefalù”). Cefalù non rientra nella passeggiata forse anche per quell’inconfessato vezzo dei viaggiatori, che descrivono un bel luogo ma tacciono di proposito sulle locande in cui hanno mangiato meglio, sull’altura o la torre da cui hanno goduto il panorama più bello. Eppure, per Consolo, Cefalù segna il confine tra Sicilia punico-fenicia e Sicilia greca. È la terra, si aggiunga, in cui HERAKLES convive con l’Eracle dei Fenici, MELKART: se letti dai rispettivi alfabeti, sinistrorso il fenicio, destrorso il greco arcaico, i due nomi sono bifronti, quasi palindromi. La ragione del silenzio di Consolo risiede nella legittima riservatezza di autore di un romanzo in via di gestazione: Nottetempo, casa per casa. Di quella gente, di quelle case, Consolo non parla. Cefalù è terra di passeggiate e smanie aristocratiche, diurne e notturne, dove i baroni non sono tutti uguali: da una parte, l’apollineo Enrico Pirajno di Mandralisca del Sorriso dell’ignoto marinaio; dall’altra, i baroni smaniosi di Nottetempo casa per casa, dietro i quali si celano personaggi ancora ben presenti nel Gran Teatro della Memoria cefaludese, o cefalutana che dir si voglia.

Miguel Ángel Cuevas, poeta e docente di Filologia italiana all’Università di Siviglia, traduttore appassionato di altri grandi nomi della letteratura italiana come Pirandello, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, si è dedicato intensamente a Consolo, privilegiando in quest’ultimo caso il rapporto tra arti visuali e scrittura. Ha trascritto e sapientemente ‘montato’ in Conversación en Sevilla, titolo vittoriniano (La Carboneria, 2014), il risultato di alcune giornate di studio celebrative del settantesimo compleanno di Consolo.

In questa Sicilia paesada c’è molto di Vincenzo Consolo, artista raffinato e proteiforme: scrittore, viaggiatore, filologo, programmista, sceneggiatore, giornalista, “orafo della parola”, come qualcuno lo ha definito. Come Vincenzo, anche Miguel Ángel, innamorato della Sicilia, è raffinato e proteiforme nel suo abbinare la docenza universitaria all’attività di poeta autotradotto, viaggiatore, editor e scrittore. Ben venga dunque la sua traduzione, prezioso contributo allo sviluppo dei buoni rapporti culturali tra Sicilia e Spagna attraverso l’opera consoliana, che all’Università di Valencia – dove di recente il volume è stato presentato in occasione di una giornata di studi sul Novecento letterario italiano – si studia e commenta da tempo, grazie a Nicolò Messina e a Irene Romera Pintor.

Alessandro Dell’Aira

Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

data 12/04/2018


 Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

LETTERATURA E MUSICA / INCONTRO CONCERTO-RECITAL

Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

In lingua italiana con sottotitoli in francese, 70’.
Con Gianni Turchetta (voce), Etta Scollo (voce e chitarra) e Susanne Paul (violoncello e voce)

Questo concerto-recital, che rende omaggio allo scrittore Vincenzo Consolo, è stato creato a partire dal racconto eponimo di Consolo. L’opera si svolge in una Sicilia fiabesca, contemplata attraverso un caleidoscopio che mescola tutte le sfumature del barocco mediterraneo. Il protagonista, il viceré dell’isola, è un personaggio cupo e malinconico. Una notte, questo atipico sovrano sogna che la luna sia caduta dal cielo. Quello che sembra un incubo è in realtà una premonizione: in uno sperduto villaggio del regno, inesistente perfino sulle carte geografiche, la luna è veramente caduta dal cielo… Tra narrazione e peosia, il racconto scivola dall’inizio alla fine come la musica di uno spartito, scorrendo come un fiume carsico e comparendo qua e là alla luce del sole (o della luna) in occasione di veri e propri exploit melodici e coreografici: canzoni, balli, poesie la cui tensione musicale viene esaltata dalle parole dell’autore, che raccoglie le più antiche espressioni delle diverse lingue regionali.

Lo spettacolo sarà preceduto da un intervento di Gianni Turchetta, professore di letteratura all’Università di Milano e specialista della scrittura di Vincenzo Consolo, del quale ha curato l’opera completa per i Meridiani Mondadori.

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https://iicparigi.esteri.it/iic_parigi/it/gli_eventi/calendario/2018/04/hommage-a-vincenzo-consolo-lunaria.html

Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione, Vincenzo Consolo

*
Vincenzo Consolo, Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010,
a c. di Nicolò Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 315. Nel mantenere la visibilità di Vincenzo Consolo dopo la sua morte avvenuta nel 2012, il curatore del presente volume, Nicolò Messina, ha avuto un ruolo importante, anche grazie a La mia isola è Las Vegas (Milano, Mondadori, 2012), organica sistemazione di brevi scritti, racconti li chiamava lo scrittore (tra cui alcuni preziosi inediti), che coprono un arco di più di cinquant’anni. Un rapido censimento dei testi consoliani, pubblicati dopo il 2012, non può naturalmente prescindere dal Meridiano (L’opera completa, Milano, Mondadori, 2015) curato da Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre. Ma vanno comunque citati anche gli Esercizi di cronaca, una raccolta di articoli pubblicati su L’Ora di Palermo, a cura di Salvatore Grassia, con prefazione di Salvatore Silvano Nigro (Palermo, Sellerio, 2013); gli Accordi, versi inediti, a cura di Claudio Masetta Milone  (Sant’Agata di Militello, Zuccarello, 2015) e sempre in ambito poetico le 4 liriche, 77 esemplari numerati con acquaforte originale di Luciano Ragozzino (Milano, “Il ragazzo innocuo”, 2017). Oltre ad alcune interessanti conversazioni”: Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas (Caltagirone, Lettere da Qalat, 2016) che rimanda a Conversación en Sevilla, sempre a cura dello stesso (Sevilla, La Carbonería, 2014) e Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor (Bologna, “Ogni uomo è tutti gli uomini”, 2016). Per finire, le prose brevi di Mediterraneo. Viaggiatori e migranti (Roma, Edizioni dell’Asino, 2016). Cosa loro consta di sessantaquattro articoli scritti tra il 1970 ed il 2010, due anni prima della morte, pubblicati su diverse testate giornalistiche (L’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Ora, L’avvenire), su riviste (Linea d’Ombra, Euros) e su pubblicazioni di diversa natura, libri collettanei, ecc. Chiude il libro un’appendice
nella quale il curatore dell’edizione, Nicolò Messina, fornisce utilissime informazioni storiche e filologiche sui diversi pezzi, alcuni dei quali ha potuto collazionare con gli originali, dattiloscritti o manoscritti. Il titolo, Cosa loro, intende apportare, mediante lo scambio del possessivo, una modifica, di certo non solo grammaticale, alla definizione vulgata di “Cosa nostra”, per segnalare, si legge in una nota introduttiva, «un sistema da cui prendere senza compromessi le distanze e da contrastare indefettibilmente ». Consolo lo ha fatto nel corso di tutta la sua vita in quanto, ammetteva, «non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» («Memorie», ora in La mia isola…). In un articolo apparso su L’Ora nel 1982 («I nemici tra di noi», Cosa loro) proclama infatti che «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà». Così Consolo “impugna” la scrittura per fare la sua parte. Scrive, come dice in «Un giorno come gli altri» (La mia isola…) perché la
scrittura «può forse cambiare il mondo». Con il narrare, invece, che è l’altro versante della sua ispirazione, il mondo non lo si cambia, lo si descrive soltanto. Negli articoli ora riuniti in Cosa loro, Consolo adotta quindi una “scrittura di presenza”, ossia una prosa militante che vibra fino ad innalzarsi alla liturgia indignata della riscrittura di un Dies irae da Requiem eseguito il 27 marzo 1993 nella cattedrale di Palermo per ricordare le stragi in cui persero la vita i giudici Falcone, Borsellino («soldati in prima linea » come li definisce), le loro scorte ed i congiunti («Dies irae a Palermo»). La “scrittura di presenza” assume, in certi scritti, la connotazione fisica dell’inviato speciale che segue “in diretta” le vicende che descrive: così ritroviamo lo scrittore al processo di Milano contro Michele Pantaleone nel 1975, querelato ma poi assolto, per aver denunciato un soggetto mafioso o a Comiso («Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso» – proclama con orgoglio – per protestare contro l’installazione di missili Cruise nella base della Nato. Ma l’intervento più solenne per un inviato speciale mandato in prima linea è quello al “maxiprocesso” del 1986: 475 mafiosi in gabbia. «Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio del 1986, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker», afferma lo scrittore con
l’orgoglio di chi assiste, sono ancora parole sue, «al più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale». A cui seguirà purtroppo la tragica sequela di Capaci e di Via Amelio, nel 1992. Di Giovanni Falcone, a cui sono dedicati diversi articoli ed uno straziante necrologio, Consolo ha un ricordo personale: si conoscono ad una cena in casa di amici comuni e lo scrittore non può fare a meno di notare la tragica solitudine di quel commensale taciturno con «quell’aria triste di uomo “con toda su muerte a cuestas”», dice citando Federico García Lorca. Anche Falcone, come Ignacio Sánchez Mejía, era già avviato verso l’irreparabile destino. Consolo traccia la linea genealogica degli scrittori «siciliani e no» militanti: a cominciare dall’archetipo ottocentesco, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i primi che denunciarono, nella famosa inchiesta del 1870, l’esistenza della mafia e l’arretratezza della Sicilia. Seguono, più vicino a noi, il già citato Michele Pantaleone che passò dalla scrittura all’azione, raggiungendo il record di quaranta querele mossegli da presunti mafiosi, Danilo Dolci, con i suoi scritti e le sue inchieste e soprattutto Leonardo Sciascia che «come Sherlock Holmes – è il titolo di un articolo del 1994 – scende nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Leonardo Sciascia è inevitabilmente per il nostro scrittore una sorta di nume tutelare. Ma anche per «quel grande illustratore dell’Italia di ieri e di sempre» che risponde al nome di Alessandro Manzoni, Consolo dice di nutrire una grande ammirazione. Del tutto diversi i giudizi di Consolo su alcuni  prestigiosi scrittori siciliani; quali Luigi Capuana, Giovanni Verga, e soprattutto Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio non poteva naturalmente andare a genio l’affresco storico de Il Gattopardo, definito peraltro come un «sentenzioso romanzo» che cerca di occultare con l’enfasi delle famose parole pronunciate da Fabrizio Salina, («Noi fummo i Gattopardi
e i Leoni; quelli che ci sostituiranno […]» eccetera eccetera..), le complicità
dell’aristocrazia siciliana nell’avvento delle iene in futuro odore di mafia. Ma il
«principe di Salina – si legge ne I nostri eroi di Sicilia del 2007 – ignorava o voleva
ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si
erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?».  Sotto la “scrittura di presenza” che cerca di «cambiare il mondo», circolano, nei diversi capitoli di Cosa loro, frammenti dell’altra vena, narrativa, dello scrittore, che il curatore del libro, profondo conoscitore dell’opera di Consolo, individua puntualmente nell’appendice. Il frammento più solido è, a mio avviso, quello relativo ad un episodio che prende forma in un articolo del 1991 per raggiungere poi l’elaborazione definitiva nel racconto «Le lenticchie di Villalba» del 2000 ( La mia isola…) e rientrare successivamente nella “scrittura di presenza” nel 2004 con il titolo significativo di «Prima educazione alla legalità». Nell’articolo apparso su Linea d’ombra nel 1991, troviamo infatti l’embrione del futuro racconto di un episodio che Consolo dice di narrare per la prima volta, «risalente –precisa – a poco meno di cinquant’anni or sono […]». C’è una colpa, confessa ironicamente lo scrittore, da cui intendo liberarmi: «io
sono stato in casa a Villalba, del famoso capomafia don Calogero Vizzini, [non solo] ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sesamo e un buffetto sulla guancia». «Racconto com’è andata», precisa, quasi per avvertire che dalla scrittura militante sta scivolando in quella narrativa della memoria. «Era l’estate del ‘43», così ha inizio l’episodio. Consolo, a quell’epoca aveva dieci anni, viaggiava in camion con il padre, commerciante di cereali, per racimolare generi alimentari che scarseggiavano. A Villalba, in provincia di Caltanisetta, riescono a rifornirsi di derrate tra cui le lenticchie per cui era famosa la cittadina. Dopo aver caricato il camion, stanno per partire ma vengono bloccati da un maresciallo dei carabinieri che proibisce loro di trasportare la merce. Gli consigliano di ricorrere a don Calò che in effetti sblocca la situazione, li fa partire ed in più regala il torroncino al piccolo Vincenzo. Seguendo la cronologia delle lenticchie arriviamo al racconto del 2000 che ha un finale da un punto di vista etico, più pertinente: niente dolci e buffetti sulle guance del bambino e soprattutto c’è il padre che rifiuta la protezione mafiosa di don Calò, fa scaricare il camion e durante il viaggio di ritorno fa notare al figlio che «in questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli». E lo invita a raccontare l’episodio «in un bel copiato» che Consolo metterà per iscritto quasi sessant’anni dopo. Nell’articolo del 2004, intitolato, come si è appena detto, «Prima educazione alla legalità», l’episodio non può che riconfermare il finale sancito nel racconto del 2000, con una messa a fuoco piu ravvicinata del losco personaggio che il padre definisce senza mezzi termini “capomafia” ed ancora l’invito, quasi un lascito morale al figlio, a raccontarlo a scuola in un “copiato”. Una curiosità lessicale: il ritratto di don Calò attraversa diverse varianti iconografiche: nel 1991 («Mafia e media») è descritto come un «vecchio, imperioso, compassato»; nel 2000 («Le lenticchie…»), è semplicemente «un vecchio con gli occhiali e il bastone» mentre nel 2004 («Prima educazione alla legalità ») viene bollato definitivamente come «un vecchio laido e bavoso». In altre circostanze lo scambio tra scrittura e narrazione (anche di taglio saggistico) procede all’inverso, nel senso che è questa a fornire alla prosa militante, atmosfere, spunti o addirittura interi brani contenuti nei romanzi. Così l’«Invettiva» del 1992 nei giorni successivi all’assassinio di Giovanni Falcone («Adesso odio il paese,
l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…»), è una citazione – è lo stesso Consolo a confermarlo – del coevo romanzo Nottetempo, casa per casa. Continuando questo rapido inventario, sempre sotto la guida attenta del curatore del volume, troviamo Al di qua dal faro come fonte ispiratrice dell’articolo «Sciascia come Sherlok Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Per quanto riguarda la città di Palermo (in «I fantasmi di Palermo») essa è bersaglio di invettive, «Palermo è fetida» e «Questa città  è diventata un campo di battaglia», che provengono rispettivamente da Le pietre di Pantalica e Lo spasimo di Palermo. Attraverso gli articoli di Consolo ripercorriamo quarant’anni di una tragedia nazionale di corruzione e di morti ammazzati che ha il suo apice con l’attentato a Falcone ed a Borsellino: dopo la loro morte, possiamo dire con lo scrittore che «non siamo stati più gli stessi». Ai registri usati da Consolo nei diversi capitoli del suo lungo “copiato”, si deve aggiungere anche quello comico-grottesco in cui agiscono personaggi come Salvatore (Totò) Cuffaro (governatore della regione siciliana), il suo successore, Raffaele Lombardo, e dulcis in fundo Silvio Berlusconi. I primi due sembrano maschere della commedia dell’Arte. A Cuffaro (rinviato a giudizio per «rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento» che, sia detto per inciso, approfittò della reclusione per scrivere una tesi di laurea sul sovraffollamento delle carceri) Consolo attribuisce una illustre ascendenza, nientemeno che Sancho Panza: come il personaggio di Cervantes è, afferma lo scrittore, governatore dell’Isola di Baratteria e come lui potrà affermare, alla fine del suo mandato: «nudo son nato e nudo mi ritrovo». L’elemento farsesco è suggerito dalla sua ghiottoneria: nei diversi “cammeo” che gli sono dedicati nel volume, da «Totò il buono» (2004) fino a «Totò se n’è juto» (2008), è raffigurato come un cicciottello in estasi «davanti a una enorme cassata siciliana». Il menù della sua voracità comprende anche altre leccornie come «cannoli, cassate e mammelle di vergine». Anche il suo successore Raffaele Lombardo eredita il debole per la pasticceria ed in effetti, dice Consolo, scivola pure lui «su un vassoio di cannoli» e sull’accusa di concorso in associazione mafiosa. Lombardo inoltre si è fatto portavoce dell’annoso assioma
secondo il quale a parlare della mafia si infanga la Sicilia. E se la prende pure
con chi a suo avviso l’ha denigrata: la lista include persino Omero, per aver rappresentato lo stretto di Messina nelle fogge mostruose di Scilla e Cariddi, poi Garibaldi, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa. Si salvano invece Camilleri e curiosamente lo stesso Consolo verso cui Lombardo manifesta una grande ammirazione. Al che lo scrittore in persona prende divertito la parola per esprimere la propria sorpresa: «Ohibò! […] se il Lombardo avesse letto qualche libro di Consolo, se ne sarebbe accorto che razza di denigratore della Sicilia è questo scrittore!». Il cast del grottesco si chiude con Silvio Berlusconi, «l’anziano uomo truccato, quello che secondo Pirandello susciterebbe, come la vecchia signora “goffamente imbellettata”, l’avvertimento del contrario il quale crea a sua volta la comicità». In un contributo ad un libro su don Pino Puglisi, sacerdote assassinato dalla mafia nel 1993, intitolato «La luce di don Puglisi nelle tenebre di Brancaccio», lo scrittore si chiede se la Sicilia e l’intero paese siano, per usare un’espressione di Sciascia, «irredimibili». La risposta è lui stesso a formularla in un intervento successivo in cui si sofferma, a mio avviso, in modo enigmatico sulla soglia della parola “utopia”: «Sì –risponde all’intervistatore che gli chiede un messaggio di speranza – come scrittore, devo dare speranza. E la do, credo la speranza, come gli altri, con la scrittura. Il grande critico letterario russo Michail Bachtin affermava che il romanzo critico nei confronti del contesto storico-sociale è romanzo utopico: vale a dire che esso, narrando il male sociale, fa immaginare il bene, indica la società ideale».

Cuadernos de Filología Italiana
Giovanni Albertocchi
Universitat de Girona

Consolo: figlio di tanti padri

*

I libri di Consolo sono sempre nati da uno spunto di realtà e da un punto di vista. Poi prendono una via che può arrivare fino ad Ariosto. Nella sua officina letteraria convivono personaggi reali e diversissimi. E’ il caso di Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, e di Fabrizio Clerici, attento ai surrealia. Come convivono nella sua officina queste due figure che peraltro sono storiche? Fanno a pugni? “Sono due personaggi – spiega Consolo – non accostabili, di matrice diversa, di esito diverso e anche di funzione diversa. Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. L’intellettuale non può estranearsi dalla storia altrimenti diventa complice di determinati misfatti. Mandralisca, che era chiuso nella sua erudizione di malacologo e antiquario, è stato costretto ad aprire gli occhi e vedere la realtà tragica e drammatica delle rivolte contadine nel 1860. Quando uscì, il libro fu chiamato ‘l’anti-Gattopardo’. Io non so se ne avevo consapevolezza tracciando questo personaggio, che modificai per quello che mi serviva. Non sapevo cioè di scrivere ‘l’anti-Gattopardo’, ma certo la mia concezione era assolutamente opposta a Lampedusa che vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo dove l’intervento dell’uomo sulla storia è, seppure con principi diversi, del tipo di quello di Verga: le classi nascono, si raffinano e tramontano come le stelle in un ciclo di ineluttabilità di cambiamenti epocali. Mentre Lampedusa giustificava anche quelle che chiamava ‘le iene e gli sciacalli’ dando loro una legittimazione deterministica, in me invece agiva una visione opposta della responsabilità dell’intellettuale nei confronti della storia, nel senso che deve dare un giudizio sulla storia e intervenire”. D. Clerici allora a che distanza sta dal Mandralisca?R. Quanto a Clerici, il gioco letterario è più scoperto. Avere spostato nel Settecento un personaggio contemporaneo mi è servito per rivendicare nei confronti della storia e del romanzo di cronaca il primato della letteratura, rendendole un omaggio nel senso che tra i sentimenti dell’uomo c’è l’amore e c’è la passione. La scelta di questi temi era dovuta alla contingenza di quei tempi. Ho scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio in un momento di accensione storica qual è stato quello degli anni Settanta quando tutto era messo in discussione con il dibattito culturale e politico del momento. Negli anni in cui ho scritto Retablo c’era piuttosto un atteggiamento da parte di certi intellettuali e politici di disprezzo nei confronti della letteratura, vista come concezione borghese, sicché ho scritto quel libro per difendere la letteratura contro la storiografia. D. Lei ha frequentato generi disparati passando per esempio da una specie di introibocome fu Un sacco di magnolie, che è anche un bozzetto verghiano insieme con Il fosso, per arrivare a sponde rivali come nel caso dello Spasimo di Palermo. Ciò potrebbe fare pensare all’itinerario lungo e sofferto di una persona insofferente e smaniosa. R. Racconti come Un sacco di magnolie rappresentano il tributo che fatalmente deve pagare un esordiente a quelli che sono i padri sacramentali della letteratura siciliana. Sfido chiunque scriva a dire di non avere avuto un minimo di eredità brancatiana e verghiana. Quello era il momento della fascinazione verghiana, dopo la quale è venuta una presa di coscienza, la rivendicazione di una propria identità. D. Certo, ma passare da Verga a Eliot è come un “salto mortale”. R. Non c’è dubbio. Sono sempre stato affascinato dalla poesia di Eliotche ho scoperto attraverso Montale già al tempo de La ferita dell’aprile. Lo stesso titolo è di tipo eliotiano, perché Eliot dice che “aprile il più crudele dei mesi”, talché io ho identificato la crudeltà dell’aprile con l’adolescenza che era quella dell’io narrante, ma era anche l’ennesima adolescenza della Sicilia dopo la guerra, e dunque il momento della rinascita. Naturalmente questa ferita può rimarginarsi e diventare una “maturezza” come dice Pirandello oppure una cancrena. Io ho constatato che l’adolescenza in Sicilia è diventata una cancrena e che quella ferita è rimsta ancora aperta. Di Eliot mi affascinano i correlativi oggettivi, il passare da un’immagine a un’altra. E nello Spasimo di Palermomi ha accompagnato questa continua cifra eliotianaD. Da un viatico verghiano passa dunque a un libro vittoriniano quale La ferita dell’aprile e chiude una sua prima stagione con Quasimodo e la Sicilia rimpianta. Ma c’è un secondo Consolo che ha ascoltato Dolci, Levi e Sciascia. Il salto è dall’empireo all’impegno. R. Io non vedo questo salto. È un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico. Quando scrissi La ferita dell’aprile avevo consapevolezza piena di quello che facevo, della scelta di campo che operavo: avevo seguito la stagione del neorealismo, la memorialistica e tutto il meridionalismo, da Gramsci a Danilo Dolci fino poi a Carlo Levi e lo Sciascia delle Parrocchie. Voglio dire che l’esordio, a parte i racconti dei primi passi, è del tutto cosciente del contesto storico, sociale e stilistico perché questo libro è segnato da un forte impatto linguistico. Lo mandai a Sciascia e mi rispose chiedendomi spiegazioni su una particolarità linguistica che in effetti mi ha sempre accompagnato come diversità storica e sociale: cioè il dialetto galloitalico di San Fratello. Nella lettera che gli scrissi mi dissi debitore delle sue ParrocchieD. La ferita dell’aprile sta a lei come Le parrocchie di Regalpetra stanno a Sciascia, con la differenza che Le parrocchie sono una prova di realismo storico mentre La ferita di realismo mitico. Perché allora si sente debitore di Sciascia e non di Vittorini? R. Perché i miei temi non erano di tipo esistenziale e psicologico, ma storico-sociale. Ho cercato di raccontare attraverso gli occhi di un adolescente cosa sono stati la fine della guerra, il dopoguerra, la ricomposizione dei partiti, la ripresa della vita sociale, le prime elezioni del ’47, la vittoria del Blocco del popolo, denunciando l’ennesima impostura che si perpetuava attraverso le vocazioni religiose, i “microfoni di Dio”, fino alla vicenda di Portella e la pietra tombale delle elezioni del ’48. Ho voluto rappresentare tutto questo con una cifra assolutamente diversa, prendendo le distanze da quella comunicativa di Sciascia e mettendomi su un piano di espressività. D. Perché se la corrente era in senso contrario? R. Ho le mie spiegazioni a posteriori di queste scelte. L’ho fatto perché non mi sentivo di praticare lo stile della generazione che mi aveva preceduto, Moravia, Calvino, Sciascia. C’era lo scarto di appena dieci anni con questi scrittori che avevano vissuto il fascismo e la guerra. Nel ’43, quando avevo dieci anni, loro nutrivano la speranza di comunicare con una società più armonica sicché la loro scelta illuminista e razionalista era nel senso della speranza. Quando io sono nato come scrittore questa speranza era caduta e ho cercato di raccontare perché si era restaurato un assetto politico che non era come si sperava, ancora una volta iniquo, che lasciava marginalità, oppressioni e sfruttamento. Ho scelto il registro espressivo e sperimentale non vedendo una società armonica con la quale comunicare. La speranza che avevano nutrito quelli che mi avevano preceduto in me non c’era più. D. Detto adesso sembra facile, ma allora lei aveva di fronte le ultime risacche del neorealismo e le prime correnti del Gruppo 63. R. Già, ma io avevo consumato questa esperienza. Il prete belloLibera nos a Malo e la memorialistica di quanti erano reduci dalla guerra. Che non era diventata letteratura ma mera restituzione di un’esperienza. D. Ma quella sua prova fu fortemente innotiva e poco sciasciana. R. Senza dubbio. Ma è curioso che Sciascia sia stato impressionato dalla particolarità di questo libro. Poi, quando è uscito Il sorriso, a distanza di anni, con più consapevolezza e con la mimesi dell’erudito ottocentesco, Sciascia a Sant’Agata di Militello lo presentò e disse che quel libro era un parricidio. Voleva dire che avevo cercato di uccidere lui, come del resto avviene sempre. Dice Sklovskij che la letteratura è una storia di parricidi e di adozioni di zii. Debiti dunque sì nei confronti di Sciascia, ma la scelta di campo è stata diversa. La ricerca si inquadrava fatalmente sulla linea verghiana, gaddiana, pasoliniana della sperimentazione del linguaggio, della “disperata vitalità”, come la chiamava Pasolini. D. C’è un campo che è stato poco investigato circa la sua ricerca ed è quello del reportage. Penso a Il rito sulla morte di Rossi, o a Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, “pezzi” giornalistici che l’hanno impegnata per due decenni. Come ha fatto a scrivere reportage mentre scriveva La ferita e poi Il sorriso? R. Mi sembravano due scritture diverse, della restituzione di una realtà immediata nel modo più originale la prima, senza però arrivare allo stile sciatto giornalistico, dando significati altri alla cronaca raccontata. Quando Sciascia stava facendo l’antologia sui narratori di Sicilia con Guglielmino pensava di mettere un mio brano della Ferita, ma quando lesse il racconto su Carmine Battaglia lo scelse perché gli sembrò più consono come sigillo di una certa realtà siciliana. D. A me piacerebbe davvero fare chiarezza sui suoi debiti perché non si è capito se sia figlio di Sciascia o di Vittorini. È un fatto che, per quanto sia stata importante per lei l’Odissea, a un certo punto dice che ci è arrivato attraverso Vittorini e non Sciascia. E allora mi chiedo chi è il suo padre putativo. Sembra amare di più Sciascia, ignora Vittorini in Di qua dal faro ma in verità ha ben conosciuto Vittorini e lo ha molto osservato. R. Dunque. A proposito di parricidi, nella Ferita ho fatto morire all’inizio il padre dell’io narrante e ho adottato uno zio che poi è diventato padre avendo impalato la madre del ragazzo. Poi faccio morire anche questo patrigno. Io sono figlio di tanti padri che poi regolarmente cerco di uccidere. Certo, Vittorini l’ho ignorato nei saggi perché Vittorini mi interessava per certe sollecitazioni di tipo teorico che lui dava circa la concezione letteraria. Sciascia, a una seconda lettura di Conversazione in Sicilia, dice di essere rimasto deluso, e lo capisco perché il libro è contrassegnato da una forte implicazione di tipo rondista con innesti di americanismo. Però è vero che per la prima volta appariva nella letteratura siciliana il movimento, l’atteggiamento attivo nei confronti della storia, la fuoriuscita dalla stasi verghiana, insomma una grande lezione per me quella del movimento. D. Lei ha fatto la stessa cosa che ha fatto Vittorini e che racconta in un’intervista a Giuseppe Traina: ha disegnato per Il sorriso la carta topografica di Cefalù, vicolo per vicolo, come Vittorini fece con la Sicilia per Le città del mondo. R. Già. Un modo per entrambi di essere più siciliani possibile, più precisi e acribitici. D. In Un giorno come gli altri lei pone una questione non risolta: quella della scelta tra lo scrivere e il narrare, dove scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo, secondo una definizione di Moravia. È importante quel racconto perché segna la sua scesa in campo politico. E lei dice che è meglio scrivere. R. Pensavo che la scrittura di tipo comunicativo-razionalistica avesse più incidenza che quella di tipo espressiva che io praticavo e che chiamo “il narrare”, implicata com’è con lo stile e la ricerca lessicale. Lo stile non ha impatto con la società e il movimento è dal lettore verso il libro, mentre in quella comunicativa il movimento è al contrario. I libri di Sciascia hanno fatto capire cos’era la mafia, Moravia ha fatto capire cos’era la noia durante il fascismo. La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo. D. Lei ha fatto una scelta a favore del coté espressivo. R. Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica. D. Vediamo la vicenda sotto un altro aspetto. Lei e Basilio Reale, entrambi messinesi, avete avuto uguali trascorsi: a Milano insieme e nello stesso periodo, però lei va verso la prosa mentre lui verso la poesia. E si chiede come succeda questo fenomeno. R. Lo trovo infatti inspiegabile. D. Mentre poi dice di essere più votato alla poesia quando Reale ha dato poi prova di essere buon prosatore. R. Se parla delle sue Sirene siciliane, siamo di fronte a strumenti psicoanalistici. Io non so perché uno nasce con la tendenza verso la musica e un altro verso la pittura. Con Reale ci siamo incontrati all’università di Milano giovanissimi. A Messina non ci eravamo mai visti. Quando ci siamo conosciuti c’era un altro confrére, Raffaele Crovi che frequentava Vittorini più da vicino. Mi raccontava Ginetta Varisco, che ho frequentato dopo la morte di Vittorini, che Crovi veniva da uno strato sociale povero e quando andava a casa loro Elio le diceva “Cucina molta pasta perché questi ragazzi hanno molta fame”. D. I suoi libri sono giocati in forma autobiografica. Il Petro Marano che lascia la Sicilia o il Gioacchino Martinez che viene in Sicilia sono sempre trasposizioni di sé. È sempre stato lei, sin dai reportage; e non ha parlato che di sé. R. Sì, ma in maniera molto mascherata. La mia esperienza personale mi serve come chiave di lettura della realtà e del momento storico che vivo. Ma nel Sorriso ci sto poco. Sciascia vi vedeva più Piccolo che me. D. Verga e Pirandello, anche loro andati via, sono però riusciti a scrivere di Milano, Roma e di salotti borghesi. Mentre lei, Sciascia, ma anche Vittorini, pur stando fuori non siete riusciti che a scrivere sempre della Sicilia. E c’è un motivo: perché bisogna conoscere il linguaggio e averne memoria, come ha osservato lei stesso. R. Di Milano io non so fare metafora mentre della Sicilia sì. Di Milano posso restituire una cronaca, l’ambiente vissuto da studente, mentre la Milano che ho vissuto dopo mi serve per leggere meglio la Sicilia e creare paralleli tra questi due mondi antitetici e opposti. Non sono caduto in crisi come Verga, se mi è permesso: vivendo in questa realtà milanese non mi sono ripiegato verso l’infanzia dorata. Ho scoperto invece un’altra Sicilia, quella più vera e infelice, la continua ingiustizia e perdita e smarrimento dell’identità. I miei libri sono contrassegnati da questa spinta a varcare la soglia della ragione per andare nella terra dello smarrimento. Vittorini dal canto suo ha scritto su temi non siciliani i libri meno riusciti, così come Verga ha scritto Per le vie che sono le novelle meno felici. Io di argomento non siciliano ho scritto solo qualche racconto come Porta Venezia. D. E’ dunque d’accordo che si può staccare un siciliano dalla Sicilia ma non si può staccare la Sicilia da un siciliano? R. Certo. Nel bene e nel male non si può strappare la Sicilia a un siciliano. D. Ma c’è un ultimo Consolo smaniato da intenti umoristici. Nerò metallicò ne è un esempio. R. Di più c’è forse Il teatro del sole. E’ il rovescio del tragico. Musco a chi dice “Domani il sole illuminerà il cadavere di uno dei due” domanda “E si chiovi?”. E se piove? D. Lei ha riflettuto lo stesso sentimento di Vittorini quando davanti al mondo industriale capiva di poter raccontare solo quello contadino. Le città del mondo nasce da questo stato d’animo. R. Vittorini aveva creduto generosamente in un’utopia. Pensava che l’industrializzazione della Sicilia fosse possibile. Aveva avuto l’esempio olivettiano dell’industria a misura d’uomo e riteneva che la scoperta da parte di Mattei del petrolio risvegliasse finalmente i siciliani. Ed ecco nelle Città del mondo i contadini a cavallo che convergono al centro della Sicilia. Ma la realtà ha infranto la sua mitizzazione. Gli esiti li abbiamo visti. Gela, Augusta, Priolo, obbrobriosi e nefasti. Ecco cosa ne è stato dell’industrializzazione della Sicilia. Ci fu una polemica tra Sciascia e un giornalista dell’Avanti: Sciascia, che scriveva su L’Ora, aveva cominciato ad avanzare dubbi sull’ industrializzazione e il giornalista gli contestò la mancanza di ottimismo concludendo “Benedetti letterati”. E Sciascia rispose: “Adesso si vede che anche loro, i socialisti, hanno la facoltà di benedire, come i democristiani”. Vittorini avrebbe voluto che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione incamminandosi verso un mondo di progresso. Non credeva nei dialetti individuali ma nella commistione delle lingue, ma non sapeva che gli immigrati siciliani a Torino la sera uscivano per imparare il piemontese e mimetizzarsi. D. Se lo sguardo di Vittorini è utopico, il suo è nella trilogia certamente molto amaro. R. Ero più avveduto e avevo gli strumenti per esserlo. Avevo constatato la realtà qual era. Io mi direi, ricordando Eco, un apocalittico realista, avendo visto la realtà italiana dal dopoguerra ad oggi: una continua deriva verso i valori più bassi di un mondo che non accetto sotto nessun punto di vista.

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