Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Viaggio in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, paese natio del grande narratore italiano Vincenzo Consolo

Una Prof. in AmericaFilomena Fuduli Sorrentino 

Ogni volta che vado in Italia, una mia aspirazione è visitare la Sicilia. Attraversare lo stretto sul traghetto e arrivare sull’isola è un’esperienza bellissima, ancora più bella se si viaggia in auto e si visitano diverse città siciliane. Quest’anno in Sicilia ci sono stata due volte, la prima per passare una giornata a Taormina in compagnia di mio fratello e dei miei nipoti; la seconda invece per un obbiettivo culturale più specifico, arrivare a Sant’Agata di Militello, il paese natio di Vincenzo Consolo, considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei, e visitare la Casa Letteraria, inaugurata di recente. Volevo vedere di persona la collezione che include le opere dello scrittore, i suoi quadri, i premi ricevuti, e le sue cose personali.

Vincenzo Consolo oltre a scrittore e saggista, aveva lavorato come giornalista, insegnante, e consulente per la Einaudi. Il libro “La mia isola non è Las Vegas” contiene cinquantadue racconti, racconti di viaggio, d’infanzia, incontri con personaggi, e ricordi professionali pubblicati nell’arco di 50 anni su diversi giornali e periodici italiani come: L’Ora di Palermo, l’Unità, Il manifesto, Il Messaggero, La Stampa, Il Corriere della Sera, Giornale di Sicilia, La Sicilia; alcuni di questi quotidiani non esistono più. Leggendo i suoi saggi, i suoi romanzi, e ascoltando le sue video interviste, Consolo descrive “la sua isola” nei minimi dettagli, raccontandone le bellezze e i problemi. A me la Sicilia affascina moltissimo, la trovo veramente bellissima; una terra ricca di civiltà mediterranee, di storia, di cultura, di arte, con un mare da sogno, sole africano, e cibi gustosissimi. Non si finirebbe mai di girarla e di apprezzarne le sue bellezze, la sua storia, e il suo cibo, proprio come scrive Consolo in uno dei racconti di Le pietre di Pantalicain cui il protagonista si chiede: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.

Ero in compagnia di mio marito, e quando siamo arrivati al Castello Dei Principi Gallego, nel centro storico della città, tra piazza Francesco Crispi e la storica piazza Vittorio Emanuele ribattezzata Piazza Vincenzo Consolo il 18 febbraio 2017, ci aspettava Claudio Masetta Milone, uno dei fondatori dell’Associazione “amici di Vincenzo Consolo”. Claudio, cortesemente ci ha fatto da guida del castello incominciando da “La casa letteraria di Vincenzo Consolo” dove sono custodite, a disposizione della cittadinanza, le opere dello scrittore e la sua biblioteca personale con oggetti preziosi e premi ricevuti nel corso della sua lunga carriera letteraria. La donazione voluta dalla signora Consolo, include ricordi e ricchezze culturali che Consolo collezionava durante i suoi viaggi, e tra questi ho notato modelli di piccolissimi libretti di ceramica o di ottone, e lumache di ceramica o di ottone (chiocciole, simbolo del castello Gallego e del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio). Ci sono pezzi antichi che ricordano il lavoro fatto a mano della cultura contadina siciliana, come un telaio per tessere, dei birilli di legno, i suoi libri, i suoi quadri, le onorificenze ricevute da diversi Paesi esteri come la Francia, l’onorificenza del Presidente italiano, la macchina da scrivere che usava per il suo lavoro, e tante altre cose; troppe per essere elencate in questo pezzo, e tutto a disposizione degli studiosi e del pubblico. Ero contentissima di trovarmi li ed emozionata allo steso tempo guardando e toccando le cose personali di Vincenzo Consolo sullo scaffale; tra le sue cose c’era anche L’opera completa di Vincenzo Consolo, opera pubblicata nei Meridiani Mondadori grazie alla cura di Gianni Turchetta.

Nello studio c’erano anche molte foto, ma una foto datata 1968 aveva attratto la mia attenzione, erano fotografati: Consolo insieme allo scrittore Leonardo Sciascia e al poeta Lucio Piccolo nel giardino della villa Piccolo a Capo di Orlando. Mente guardavo la foto ho chiesto al signor Masetta Milone, amico intimo di Consolo e della signora Consolo, quanta importanza dava lo scrittore all’amicizia, Claudio mi rispose con una citazione dal libro La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo“…E questa amicizia, che quando uno è solo contro tutti, l’altro gli dice ecco qua, siamo in due”. Lucio Piccolo era un poeta e viveva nella villa “Piccolo” a Capo d’Orlando, ma passava molto tempo anche a Palermo. Piccolo era conosciuto come il barone, ed era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico ma famosissimo romanzo, Il Gattopardo. Lucio Piccolo era un  uomo molto solitario e chiuso in se stesso, amava la solitudine. Consolo da giovane lo andava a trovare spesso alla sua villa a Capo d’Orlando e ci restava per ore a parlare di poesie e di lingua. Per Consolo visitare Piccolo era come andare a lezione, lo stimava molto e lo riteneva un suo maestro.

La laurea “honoris causa” in Filologia Moderna, conferita dall’Università degli Studi di Palermo

Con Leonardo Sciascia Consolo aveva un rapporto diverso da quello con il poeta Lucio Piccolo. Consolo per Sciascia custodiva un’amicizia storica e un gran rispetto, e come Sciacca, egli era motivato a sconfiggere l’ignoranza che alimenta la cultura mafiosa in Sicilia. Leonardo Sciascia viveva a Recalmuto e Consolo doveva prendere il treno da Sant’Agata di Militello per andare a visitarlo, ma di solito lo faceva una volta la settimana. Prima di Sciascia, nessun scrittore aveva scritto di Mafia, egli fu il primo a scriverne nel suo grande successo Il giorno della civetta, terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961. Al romanzo si ispirò il film, dello stesso nome, del regista Damiano Damiani uscito nel 1968. Con i suoi romanzi Sciascia dimostrò che l’esistenza pericolosa della Mafia si deve combattere con ogni mezzo disponibile, specialmente scrivendone e diffondendo la cultura e la legalità. Dopo Sciascia Consolo continuò la battaglia contro la Mafia e la criminalità organizzata usando anche lui come arnese la stressa arma, la letteratura. Il signor Masetta Milone, che ha sempre vissuto in Sicilia, dice che la letteratura insieme alla cultura e alla bellezza sono l’arma più potente da usare contro la criminalità organizzata e la Mafia.

Vincenzo Consolo è conosciuto come l’autore della pluralità di lingue e di toni, una caratteristica che afferma la sua identità di scrittore. Lo stile linguistico di Consolo non è dialetto ma nemmeno lingua nazionale. Egli usa vocaboli che esprimono emozioni ma non sono parole dialettali. Il suo stile si allontana dall’italiano comune che egli riteneva troppo tecnico. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive, Consolo nei suoi romanzi sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e particolare dei personaggi. Riconoscibile in ogni sua frase è l’utilizzazione di lessici incrociati tra l’italiano antico (la lingua volgare o lingua del popolo) e il siciliano, quindi, la sua è una scrittura che narra una continua ricerca di originalità. Nei suoi romanzi racconta secondo la prospettiva soggettiva di chi è dentro la storia giocando con le parole, come possiamo notare in “Retablo”, nella ode a Rosalia: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”. In un’intervista curata da Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario, e conduttore radiofonico, Consolo aveva dichiarato: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”.

Consolo amava la Sicilia, la lingua siciliana, la cultura dell’isola e la lingua italiana, ma era convinto che i giovani a scuola debbano studiare l’italiano e non il dialetto. Nel 2011 egli fu il più critico scrittore contro l’insegnamento del dialetto nelle scuole. Console vedeva la legge che regolava lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado come un’iniziativa leghista: “Ormai siamo alla stupidità”, aveva affermato Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Consolo usa anche l’arma dell’ironia, ma da quasi tutti i suoi scritti trapela una Sicilia amara per quanto sempre molto amata.




























Tornando alla mia visita al Castello dei Principi Gallego, dopo aver ammirato “La casa letteraria di Vincenzo Consolo”, visito il resto del castello con il signor Masetta Milone, un tempo dimora dei Principi Gallego. Risalendo una scala a chiocciola – simbolo del castello e del nome Gallego – si raggiunge il piano superiore dove si trovava la residenza di Principi Gallego: i saloni di ricevimento, i soggiorni, le stanze da letto, il giardino, le cucine e le stanze più riservate del castello. Come ogni residenza nobile, il castello ha pure una cappella, anche questa con dei segreti: i Principi Gallego potevano assistere alle funzioni religiose senza essere visti, affacciandosi da una finestrella comunicante con alcune stanze dell’abitazione. Aprendo la finestrella Claudio dice: “Da questa finestra i principi guardavano se c’erano belle ragazze in chiesa senza che gli altri se ne accorgessero”. L’ingresso della chiesa si trova sulla piazza, e all’interno della cappella si possono ammirare tele, dipinti e statue di legno dei secoli XVIII e XIX. Visibile da lontano, il campanile della chiesa con il grande orologio.

Continuando il giro del castello arrivo sulle terrazze del palazzo: alcuni sono balconi che si affacciano sulle terrazze settentrionali, un tempo armati d’artiglierie per fermare gli attacchi dei pirati che arrivavano via mare. Da ognuna delle terrazze si poteva ammirare un panorama bellissimo e suggestivo del porto di Sant’Agata Di Militello, dove erano ancorate barche a vela e motoscafi. Si avvistava la curva della costa di Cefalù, e la punta di Capo d’ Orlando, e guardando in rettifilo si poteva riconoscere il bellissimo arcipelago delle isole Eolie. “Il castello domina le isole Eolie, dunque da qui il Mandralisca doveva passare navigando per recarsi a Cefalù – ci spiega Claudio Masetta Milone. E nelle prigioni del castello sono stati imprigionati molti rivoluzionari di Alcara Li Fusi. Consolo parla delle prigioni del castello con molta tristezza; attraverso la figura di Mandralisca, nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo si fa portavoce del malessere delle genti siciliane tradite dalle strutture politiche.

Panorama marittimo da uno dei terrazzi del Castello (Foto VNY, F.S)

I Principi Gallego ottennero la signoria della città nel 1573, Vincenzo Gallego e suo figlio Luigi costruirono il castello nel 1663. Il castello fu venduto nel 1820, insieme alle terre, dall’ultimo erede dei Gallego al Principe di Trabia. Nello stesso secolo i privilegi feudali declinarono. Il libro di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio finisce con una descrizione precisa del castello-carcere di Sant’Agata di Militello, che per la sua forma a chiocciola divenne un simbolo architettonico per anime malvagie: “E siam persuasi che quell’insolito e capriccioso nome chiuso tra le parentesi che vien dopo Girolamo del principe marchese, Còcalo, sicuramente d’accademico versato in cose d’arte o di scienza, sennò sarìa stato eretico per paganità, abbia ispirato l’architetto. Essendo Còcalo il re di Sicilia che accolse Dedalo, il costruttore del Labirinto, dopo la fuga per il cielo da Creta e da Minosse, ed avendo il nome Còcalo dentro la radice l’idea della chiocciola, kokalìas nella lingua greca, còchlea nella latina, enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica, come nella lumaca di Pascal, della sua spirale, l’architetto fece il castello sopra questo nome: approdo dopo il volo fortunoso dal grande labirinto senza scampo della Spagna, segreto sogno di divenire un giorno viceré di Sicilia, sforzo creativo in sfida alla Natura come l’ali di cera dell’inventore greco o solo capricciosa fantasia?” Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Come la vita di ogni scrittore, anche quella di Vincenzo Consolo non fu facile. Terminate le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica di Milano. Consolo decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, e c’era stato Verga. Però, per far contenti i suoi genitori egli si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e non a quella di lettere; la sua famiglia considerava l’insegnamento un lavoro da donne e non da uomini. Durante il tempo in cui si trovava a Milano fu costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, e in seguito si laureò in Giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto dall’Università di Messina, e ritornò a vivere in Sicilia dove si dedicò all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 debuttò con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, una narrazione della vita di un paese siciliano straziato dalle lotte politiche del dopoguerra. Nel 1968, dopo aver vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove vivrà e lavorerà fino alla sua morte svolgendo un’intensa attività giornalistica ed editoriale, e alternando alla vita milanese con lunghi soggiorni nel paese d’origine. Nel 2007 ricevette la laurea “honoris causa” in Filologia moderna dall’Università di Palermo.

Tra le opere di Vincenzo Consolo riordiamo: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, la sua opera più celebre), Retablo (1987, premio Grinzane), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992, premio Strega), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998). Lunaria (1985, dialogo fiabesco di sapore leopardiano). Consolo ha scritto anche per il teatro (Catarsi, 1989) ed è stato autore di saggi dedicati alla sua terra, la Sicilia: La pesca del tonno in Sicilia (1986), Il Barocco in Sicilia (1991), Vedute dallo stretto di Messina (1993).

Concludo con una citazione di Vincenzo Consolo,  tratta da una video intervista: “Perché molti siciliani scriviamo? Noi scrittori siciliani non è che non sapevamo che fare, ma abbiamo sentito il bisogno di spiegarci, di capire le ragioni di tanto malessere di quest’isola. Da sempre un’isola che potrebbe essere veramente un isola felice, l’Isola dei Feaci, perché abbiamo tutto; abbiamo la terra, le antichità. Eppure, per i mal Governi che si sono succeduti da sempre quest’isola e diventata un’isola maledetta, un’isola infelice”.

Filomena Fuduli Sorrentino

Filomena Fuduli Sorrentino

Una Prof. in America

Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU

Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

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PERIODICO QUADRIMESTRALE DI STUDI SULLA LETTERATURA E LE ARTI SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE»

Sinestesieonline – N. 20 – Anno 6 – Giugno 2017
di Carmela Rosalia Spampinato Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

Il 15 agosto del 2004 sul giornale La Sicilia viene pubblicato il racconto di Vincenzo Consolo La mia isola è Las Vegas, in cui compare l’hapax “matria”. La matria è una metafora di triplice natura: insieme lingua, terra e madre. Analizzando Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, Il sorriso dell’ignoto marinaio e La mia isola è Las Vegas si individuano attestazioni e ricorrenze. Dei tre versanti della complessa metafora, quello materno e femminile si rivela il più articolato. On August 15, 2004 in the newspaper La Sicilia is published the story of Vincenzo Consolo My island is Las Vegas, in which the hapax “matria” appears. The matria is a triple nature metaphor: along with language, land and mother. AnalyzingAltarpiece, The Pantalica stones, The olive tree and the olive tree wild, The Smile of the unknown sailor and My island is Las Vegas are identified claims and celebrations. Of the three sides of the complex metaphor, maternal and feminine it reveals the most articulate.
Nel racconto La mia isola è Las Vegas, pubblicato da Vincenzo Consolo sul quotidiano «La Sicilia» il 15 agosto 2004, si legge per la prima ed unica volta il termine «matria»1 : «Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei»2 . Il termine «matria» si può assumere come metafora e chiave di lettura per l‟intera produzione consoliana. L’incipit del racconto, fortemente evocativo, rimembra una terra lontana che è la «matria» poiché come una madre ha dato i natali allo scrittore, una terra che è dunque donna, che può essere America, tutte le terre insieme e nessuna, una terra che è dialetto e nenia, canto popolare, ritornello dedicato alle arance: Sicilia mia, oh che nostalgia! Ricordo una bella canzoncina che m‟hanno fatto imparare quand‟ero ancora picciriddu. Faceva così: “Di Muncibeddu i figghinuisemu, ohi oh, / terra di canti e di ciuri e d‟amuri, ohi oh, / „st‟arancisulunui li pussiremu, ohi oh, / e la Sicilia nostra si fa onuri, ohi oh. / E di luntanuvenunu li furisteri a massa / dicennu la Sicilia chi ciauruca fa, / chi ciauruca fa…”. Mi viene da piangere a ricordare queste parole. Terra antica, nobile e ricca, la mia Sicilia. Terra importante3 . Ecco dunque il nucleo più pro Vegas– si riscontrano le declinazioni della matria come: lingua, terra e madre5 . La lingua In primis, vi è la lingua. Ripudiando la lingua moderna, appiattita dai mass media, violentata, privata delle sfumature, Consolo sceglie lo sperimentalismo, una lingua definita pastiche6 , la lingua della plurivocità7 , all’insegna della ricerca e della convivenza degli estremi – razionalismo, illuminismo e prosa da una parte, musicalità e poesia dall’altra. E ancora, lo scrittore riscopre il dialetto – spesso nella variante sanfratellana8 –, culla dell’ultimo seme di autenticità, e lo mescola a termini dotti, prestiti linguistici, latinismi, grecismi e neoformazioni, risacralizzando9 così le parole. Il dialetto – la lingua che si impara da piccoli, quella della prima nominazione e quindi dell’invenzione del mondo, carico di ricordi, pulsioni ed affetti – può avere questa valenza forte e virginea. Il dialetto è importante poiché ha echi materni10 . 5 La metafora della matria si ritrova anche nelle altre opere di Vincenzo Consolo. 6 Salvatore Trovato afferma: «Studiare la lingua di Consolo significa estrarre dal pastiche delle sue opere gli ingredienti, isolarli e analizzarli singolarmente, in sé e in rapporto agli altri, nel testo singolo e nell’opera consoliana in genere. […] La lingua che […] possiamo fin da ora definire “dialetto metaforico” o, pascolianamente (ma senza allusioni alla complessa problematica decadentistica e simbolistica di Pascoli), la “lingua che più non si sa”»; S. C. Trovato, Italiano Regionale, Letteratura, Traduzione, Euno Edizioni, Leonforte, 2013, p.92. 7 Cfr. Consolo: «Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettalgergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell‟introduzione al Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, Donzelli Editore, Roma, 1993, p.16. 8 «No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla, un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…. Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati» Ivi p.54. 9 «“Risacralizzazione” non è sinonimo di aulicizzazione. La mia ricerca letterario-filologica è volta al recupero di parole che abbiano una loro intrinseca purezza, una verginità non ancora imbrattata e degradata, che portino una intima risonanza di luce e verità» D. Calcaterra, Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza, Prova d’Autore, Catania, 2007, p.169. 10 «Si potrebbe ipotizzare che la scelta linguistica di Consolo – che egli stesso connette all’uccisione del padre e che si può ricondurre alla profondità naturale e “materna” del dialetto (anzi, dei dialetti: il siciliano standard e i dialetti gallo-italici, come il sanfratellano […]) – si situi in un equilibrio difficile con la proiezione storica (e dunque “paterna”) della sua ispirazione: è la stessa ricerca di equilibri fra “mondo dei padri” e “mondo delle madri” perseguita da Vittorini e, La scrittura consoliana, si serve dell’innesto e dello scavo archeologico: portando in auge termini dimenticati e ormai seppelliti, mescidandoli con altri, sperimenta un linguaggio nuovo e potente, che non scade mai nel tono medio. Tutti gli elementi della lingua consoliana richiamano fortemente la Sicilia. Narrando di una terra che dà i natali, che segna nel profondo l’uomo, la lingua diventa il mezzo per esprimere l’identità, la vocazione, l‟appartenenza. Consolo afferma infatti: Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. […] Credo, infine, di non aver mai smesso di essere uomo di quest‟isola, figlio di questo paese. A cui sono grato di tutto quanto mi ha dato, con i suoi segni, con la sua luce, con i suoi accenti11 . Attraverso le parole del racconto Memorie, si congiungono i tre vertici della matria: vi sono la lingua, una madre e la terra, di cui lo scrittore afferma di essere figlio. 2. La terra Dunque la matria è anche terra. È la Sicilia. E per Vincenzo Consolo: «Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro»12. E ancora, ne Le pietre di Pantalica afferma: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone,conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca13 . La Sicilia è sempre nei pensieri dello scrittore: «Io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese14». Da una parte è l’isola santa(«la Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa!15 »), dall‟altra è anche la terra delle contraddizioni, degli orrori, della in forme meno palesi, da Sciascia. Un equilibrio che […] si rivela sempre precario, frutto comunque di un azzardo lacerante» G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole, 2001, p.56. 11V. Consolo, Memorie, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.137-138. 12Ivi p.135 13V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.632 14V. Consolo, Memorie, cit. p.135. 15V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in Id., L’opera completa, cit. p.176. violenza e della forzatura: E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo; è dolorosa saggezza, disperata intelligenza16 . E proprio del paradosso e di un inspiegabile grumo di odio e amore si alimenta il siciliano e lo scrittore. Per Consolo, narratore–viaggiatore–siciliano, la Sicilia non è mai semplice sfondo, muto e incolore, ma vera innegabile protagonista. Per Consolo, la terra è un culto, rappresenta la devozione di un figlio nei confronti della madre. A riprova di ciò, le parole scelte per la Sicilia sono di eco materna. Le città vengono descritte come donne, la terra raccontata come una madre, verso cui riservare le medesime attenzioni: I campi vogliono la vicenda: ora grano, ora fave, e un anno riposo. Non bisogna sfruttare eccessivamente la terra: se troppo le chiedi, ti rende meno. Dàllemodo di rafforzarsi e nutrirsi: essa è come la nutrice, che ha bisogno di riposo e di buon nutrimento per avere buon latte17 . Ecco come la matria appare ben riconoscibile. La metafora tripartita, la trinità laica, mostra i propri vertici. Li intreccia. 3. La madre E con la presenza materna, si introduce il vertice più importante dell‟hapax. La matria è donna. Elemento femminile. Natura profonda. La matria è madre. Metafora del «grembo» 18, recesso più interno e proibito19. Di volta in volta muta, si trasforma, si declina. Grazie a un’attenta ricognizione nei dizionari constatiamo che il termine «matria» ha nel panorama letterario italiano solo tre antecedenti: Màtria, sf. Letter. Luogo natio, patria. Tasso20 , II-379: Ne godo fra me stesso per molte cagioni, delle quali la prima, ch’ella sia di quella nobil patria de la quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria, secondo l’usanza antica dei creti. M. ni21 ,3-4-338: La Patria e la Matria (per parlare al presente, come dicono i Cretesi), la 16V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.631 17Ivi p.523. 18V. Consolo, Retablo, cit. p.427. 19Ivi, p.437. 20T. Tasso, Dialoghi, a cura di E. Raimondi, 4 voll., G. C. Sansoni, Firenze, 1958, p.379. 21M. Adriani, Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati, 6 voll., Stamperia Piatti, Firenze, 1819- 1820, p.338. quale è più antica, a cui siamo più forte obbligati che ai genitori, parimente è di lunga vita. – Figur. Gioberti22 , 1-71: La Chiesa è la patria, e per, usare la bella espressione dei Cretesi, legittimata da Platone, la ‘matria’ dell’uman genere, perché comprende, rannoda e restringe con vincolo interno, sacro e tenace, tutte le patrie speciali. = Formazione dotta, dal lat. matermatris ‘madre’, sul modello di patria23 . Tasso, Adriani e Gioberti scelgono il termine richiamando la tradizione cretese. È il luogo natio, insieme impasto affettivo e culturale. La matriacustodisce l’elemento sacro e diviene il cantuccio dei ricordi. Consolo, che si rifà alla lezione bizantina24 per la sacralità della lingua, alla cultura greca, all’oralità araba e allo stile makamet25, sembrerebbe stato memore anche della lezione cretese, dell’interpretazione antica di luogo natio, di dea e madre. Potrebbe aver usato il termine tanto come neoformazione che come riferimento alle attestazioni passate. Entrambe le intenzioni rappresentano la poetica dello scavo archeologico e dell‟innesto. Infatti ripescando una tradizione matriarcale profondissima e sepolta, di matrice siciliana (e non solo), Consolo modifica il termine tradizionale «patria» e lo adatta al fine di raccontare una storia diversa, personale, affettiva e materna. L’etimologia di «matria» è «mater». E questa madre si porta dietro un modello archetipo di valori, tradizioni, culti, storie, miti26 . 22V. Gioberti, Il gesuita moderno – Apologia, Dalla Stamperia del Vaglio, Napoli, 1848, p.71 23Battaglia, S. Barberi Squadrotti, G. (a cura di) [1961-2004], Grande dizionario della lingua italiana. Torino, Utet, 21 voll. + Supplemento + Indice degli Autori citati a cura di G. Ronco. 24«Gli scrittori bizantini nel momento in cui la loro grande civiltà stava finendo, scavavano ossessivamente nel linguaggio, cercando disperatamente di recuperare la loro matrice che era classica greca. Reinventarono una scrittura ricca e complessa, che non corrispondeva al momento storico che stavano vivendo ma era un modo per riaffermare la loro identità proprio mentre scomparivano dalla storia. Avevano i barbari alle porte e scrivevano in modo straordinario (p.15 e p.10)» SINIBALDI (1988); cit. in S. C. Sgroi, Scrivere Per Gli Italiani Nell’Italia Post-Unitaria, Franco Cesati Editore, Firenze, 2013, p.374. 25«[la prosa consoliana] credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. […] I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste inuna sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche, nella mia scrittura c’è uno slittare dalla prosa verso un ritmo poetico. Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di “risacralizzarsi” (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, cit., p.52. 26Per ulteriori approfondimenti: E. Neumann, La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, con 74 figg. e 186 tavv. fuori testo, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1981, ed. it. e trad. a cura di Antonio Vitolo; E. Neumann, La psicologia del femminile, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1975, trad. di Matelda Talarico; J. J. Bachofen, Il matriarcato. Ricerca sulla ginococrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, tomo I e tomo II, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino, 1988, ed. it. a cura di Giulio Schiavoni; I. Magli, Matriarcato e po- 3.1. Le divinità femminili La prima manifestazione femminile della matria è di natura divina. La matria è dea. Un catalogo di dee. In Retablo, la Sicilia è la terra della coppia indissolubile Demetra e Persefone– Kore. La dea ammantata di nero27 che ha subito l’oltraggio è il simbolo della fertilità, delle messi e dei campi. È la madre della figlia rapita e sposa di Ade, signore della morte. Demetra collerica alterna alla fertilità l’aridità della terra, fino al momento in cui le è concesso il ricongiungimento alla figlia sfortunata. Dunque vita e morte diventano facce della medesima metafora. Alla madre si lega la terra, alla coppia madre–figlia si lega il dolore e l’oltraggio, simboli della Sicilia più antica e ferina. La matria è mito e terra. I luoghi delle dee e della mitologia sono luoghi sacri, carichi di significato e tradizione. Luoghi di magia e mito, silenzio e meraviglia. Alla madre disperata è riservato il luogo sacro, il temenos inviolabile e inviolato. Alla dea spettano i templi, i grandi luoghi misteriosi della Sicilia. Mediante le parole dello scrittore si rintraccia l’antichissimo nucleo del mistero. In Retablo riguardo Egesta, Consolo scrive: Porta o passaggio […] verso l‟ignoto, verso l‟eternitate e l‟infinito. L‟ignoto oltre la vita, metafisico, che nei riti notturni e sotto il cielo stellato le madri, per la gran Madre comune e originaria, vollero sondare; […] l‟infinito oltre questo tempio, […] oltre quest‟isola dal passato morto, dal presente tumultuoso e tragico per cui ora mi sogno di viaggiare28 . La matria si manifesta con i connotati più regali. A Selinunte, per il protagonista Fabrizio Clerici solcare i luoghi mitici vuol dire immergersi nel cuore della metafora. O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos‟è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l‟uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, poiché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d‟amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d‟ogni uomo.29 Nel mistero più oscuro, vi è posto per un altro culto, per un’altra donna dea e madre – anche se le due divinità spesso coincidono, come ne Le Pietre di tere delle donne, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1978; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO), 1981. 27V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. L’intero capitolo Malophòros risulta assolutamente denso e utile al fine dello studio della metafora materna e divina insieme. 28 V. Consolo, Retablo, cit. p.414. 29Ivi, p. 436. Pantalica –, la Molle e Umida, la Malophòros, letteralmente «portatrice di mela»: «Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice»30 . Lo scrittore mostra un panorama di figure antiche femminili e divine, dee e ninfe, sante. Vi è spazio anche per Ecate Triforme, degna di attenzione per la natura tripartita, ricorrente in Consolo e nella tradizione siciliana: Traversato il ponticello sul fiume, arrivammo alla collina delle divinità catactonie, sotterranee, di Demetra Malophòros, la portatrice di mela, di Persefone, di EcateTriformis […] : stazione dei cortei funebri verso la vicina necropoli e recinti di culti segreti, di sacri misteri31 Inoltre questa divinità viene associata secondo alcune varianti del mito alla luna e proprio la luna è simbolo della vita e della morte, insieme donna fertile e malinconia di luponario, protagonista del sogno teatrale Lunaria32 e di Nottetempo, casa per casa33 . E volendo inoltrarsi ancor di più nelle pagine dello scrittore agatese, in Retablo ritroviamo altri due importanti culti femminili e materni: la Grande Dea Madre Astarte e la Celeste Madre Tanit. Era quello il cimitero ove i Fenici di quest’isola di Mozia seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dèi. Il primo nato sacrificavano gli sposi, la primizia, estrema privazione e suprema offerta, come l’offerta del primo fiore o frutto d’una pianta, alla celebre madre Tanit o Astarte34 . Una delle manifestazioni più potenti della madre divina è ancora tra le pagine di Retablo, in cui il pastore Mastro Curatolo venera una Matre Santa, secondo un antichissimo culto che si tramanda di padre in figlio e la cui origine è ormai dimenticata. – Mastro curatolo, don Nino, che santa è quella? – La più santa – rispose l‟uomo. – E si chiama? – La Matre santa. – E dove la si venera? – Qua, per intanto, nella mia casèna. – Ma lo sanno i monaci, i parroci che avete in casa questa santa? – Lo so io e basta. Come lo seppe mio padre, da cui l‟ereditai. Che l‟ereditò dal padre suo e così arrere, fino a che si perde la memoria, memoria dico della mia famiglia.35 3.2. Rosalia e la matrazza 30V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. 31Ibidem. 32Lunaria, può considerarsi una sorta di favola teatrale e viene pubblicata per la prima volta nel 1985 dalla casa editrice Einaudi. Ora in: V. Consolo,L’opera completa, cit. pp.261-364. 33 Il romanzo è pubblicato da Mondadori nel 1992 e vince il premio Strega. È incluso in: V. Consolo, L’opera completa, cit. pp.647-755. 34V. Consolo, Retablo, cit. p. 445. 35Ivi, pp. 408-409. Retablo è forse l’opera in cui la metafora della matria si manifesta con maggiore poeticità e con un numero elevato di ricorrenze. Infatti è il romanzo di una coppia madre–figlia36 (che richiama Demetra–Persefone): una figlia, che è fiore37, statua, simbolo dell‟eros, metafora della Veritas e una madre, una matrazza38viva e terrena, una madre bagascia39, «la ‘gna Cristina Insàlico, vedova Guarnaccia»40. I connotati di questa madre sono negativi. A tal proposito tornano utili le ricerche svolte sui vocabolari del siciliano-italiano, poiché tanto nell’Antonino Traina41quanto nel Giorgio Piccitto42 il termine «matria» si attesta col significato di «matrigna». Dunque la matriaconsoliana può essere anche la matrigna siciliana. Il romanzo di Demetra e della fanciulla con il nome di fiore parla anche di questa donna terribile. E Rosalia, l’altra metà dell’innesto materno, è tante Rosalie insieme. A partire dall’incipit in cui si tramuta in tanti fiori, è rosa e giglio43 , malia e maledizione, amore agognato e maledetto, angelo e diavola, magàra44 , si sdoppia, acquista più forme e diviene più donne. È Rosalia di Isidoro, ma è anche Rosalia Granata, è Teresa Blasco, è Ortensia, è «la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»45. Siamo dinanzi a un personaggio che non è più personaggio, a un corpo mitizzato e sfumato46, a un soggetto che è metafora e destinatario indefinito di tutto l’amore. E Rosalia diviene anche soggetto artistico. In Retablo la statua della Veritas, realizzata dal Serpotta, ha le sue sembianze e provoca la reazione folle di Isidoro nelle prime pa36 «Già nel primo incontro Isidoro vede Rosalia in coppia con la madre, dettaglio quest’ultimo da non trascurare, poiché il ritratto della figlia si confonde talvolta coi tratti materni, fino a costituire un curioso corpo ibrido» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, Comunicazione presentata al Convegno della Mod, Scritture del corpo, tenutosi a Catania il 22-24 giugno 2016 (in corso di stampa). 37Rosalia è rosa, giglio, gelsomino. Prende il nome di «Ortensia» nella parte finale del romanzo, altro fiore. Cfr R. Galvagno, L’inno a «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, in corso di stampa, nel quale si analizza l’incipit del romanzo e si enunciano i vari riferimenti al mondo floreale. 38V. Consolo, Retablo, cit. p.373. 39Ivi, p.370. 40Ivi, p.375. 41 «Matria. V. MATRIGNA. In quel di Modica.» A. TRAINA, Vocabolario siciliano-italiano illustrato, 2 voll., Edizioni Sore, Palermo, 2ª ed., 1977. 42 «Matria (Spa., Tr., Av., Ma., ecc., RG7) f. matrigna.» G. PICCITTO, (a cura di), Vocabolario Siciliano, 5 voll., Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Catania – Palermo, 1977. 43Secondo le parole della madre: «la figlia mia ch’è giglio, regina»V. CONSOLO, Retablo, in Id., L’opera completa, cit. p.373. 44 V. Consolo, Retablo, cit. p.370. 45Ivi, p.423. 46«Quale corpo femminile è allora in questione nei due casi? Non è, in definitiva, che un corpo fantasmatico, puro oggetto della pulsione quello di Rosalia; un oggetto altamente idealizzato quello di Teresa Blasco; ma entrambi investiti dal furore dei loro amanti» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, cit. gine del romanzo. Nel penultimo capitolo invece viene contemplata con ammirazione da Fabrizio Clerici47 . Ma Consolo dissemina nel testo molti riferimenti alla Veritas. Infatti «VERITAS» è il titolo dell‟ultima sezione del romanzo, nella quale Rosalia–Ortensia racconta la propria verità nella lettera dettata a Don Gennaro. Queste pagine malinconiche sono impreziosite dall‟ironica anafora «Bella la Verità!». Anche Rosalia Granata racconta una verità, la verità di una «smarrita pecorella, peccatora inveterata, anima confusa»48. La confessione, scritta in corsivo rispetto al tondo del testo, parla d‟amore ma anche di abusi e violenza. Attraverso Rosalia, la statua della Veritas e i vari riferimenti alla verità, Consolo affronta un tema a cui tiene particolarmente. In Retablo, nel Sorriso e in altre opere, mediante metafore, ekfraseis, rimanti più o meno celati e riflessioni, lo scrittore cerca e trova la propria verità49 . 3.4. Il corallo e l’arancio/arancia All’interno del catalogo femminile di Consolo, la donna finirà con l‟assumere anche i tratti del corallo e dell’arancia, due potenti rappresentazioni poetiche. Il corallo, sublime più di ogni altra pietra è sensuale e seducente, perché il colore suo morbido e carnale rimemora le carni femminine, […] il corallino pallido le carni ascose, immaginate, quello acceso, le carni in vista delle labbra, delle dita, degli orecchi, del canale pettorino… […] Di questa pietra o fior sottomarino che, pur raffigurando Annunziate, sante Rosalie, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne, sono sempre carne, carne, che risveglia ogni senso e appetito.50 L’arancia e l’arancio richiamano la maternità, la fertilità umida del grembo, la conca intima, il miracolo. In diverse opere, al frutto e alla pianta sono dedicate le pagine più liriche, più cariche d’amore e nostalgia. Come la madeleine di Proust, il ricordo dell’arancia provoca l’epifania del passato, l’apparizione improvvisa della terra natia, il ricordo, una fitta al cuore. In Retablo, don 47«L’immagine su cui lo scrittore posa il suo sguardo narrativo, alla fine del viaggio di Clerici, è quella ambigua, esemplata in una statua del Serpotta, in cui è raffigurato il corpo reale di Rosalia e l’idea della Veritas. Vera e propria Morgana di un reperimento di senso, costituisce la figura più affascinante ed emblematica di un tentativo di mediazione tra reale ed immaginario, immagine concreta e simbolo ideale. Emblema infine del doppio insito in una narrazione ai limiti dell’artificio barocco, ove protagonista principale è la coscienza di una ricerca costantemente disillusa. La figura ariostesca di una Rosalia-Angelica, sempre sfuggente ai desideri e ai ritrovamenti dell’amato, si compone enigmaticamente nella realtà inattingibile della statua» F. Di Legami, Vincenzo Consolo, la figura e l’opera, Editrice Pungitopo, Marina di Patti, 1990, p.41. 48V. Consolo, Retablo, cit. p.416. 49Per un‟analisi approfondita, vedi: R. Galvagno, «Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, «Diverso è lo scrivere», Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, a cura di Rosalba Galvagno e con Introduzione di Antonio di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino, 2015, pp.39-64. 50Ivi, pp.457-458. Carmelo Alòsi, «d’una Sicilia remota»51, dedica una struggente preghiera d’addio alla pampinella vergine, alla fanciulla fantasiosa, alla figlia e sposa bambina: Addio, promessa d‟ogni essenza, sorgente di fragranza, corona delle zagare, goliera dell‟aurora. Addio ramo di miele, fanciulla fantasiosa, stellaria vanigliata, regina dei giardini. Spero che gli innesti arcani compiuti nel grembo tuo di nardo fruttino la fantasia di spere multicolori, di scrigni di sapori impareggiabili. […] Bevi rugiada e ambrosia, o Mora, cresci, Bionda, Sanguinella, Tarocchina, divieni donna piena, fruttifera, amorosa, a te la buona sorte, vergine ingallata, zingara maliosa, figlia e sposa mia bambina, narancia affatturata.52 E ancora: Nel tepore del grembo, nutrito dagli umori, il seme gonfia, s‟apre, emette il suo germoglio. E in poco tempo, il semenzale, la pampinella vergine, è pronta per lo squarcio e per l‟innesto. […] Volevo che la mia prima amante si tramutasse in donna singolare, si facesse sogno, irrealtà, chimera. Io la contemplavo, le parlavo, le rivolgevo fiati e sillabe d„amore per tutto il tempo dell„incubazione e dell’attesa. E quindi, tolta la fasciatura della rafia, gridai al miracolo.53 La terra delle arance è Mazzarà. Anche il paese diventa così donna e madre: «Mazzarà: grembo, nutrice, madre d’ogni pianta d’agrume, limone o arancio, cedro o lumia, bergamotto, mandarino o chinotto che si trovi in questa terra di Sicilia e oltre. Luogo privilegiato, conca umida e calda riparata…»54 . Nel racconto Arancio, sogno o nostalgia55 il profumo inebriante di un aranceto dà vita alla narrazione di una Sicilia arabaantica e perduta: Ricordo, nostalgia è l’arancio, o il limone o il cedro, ma anche sogno, desiderio. Simbolo, accanto al tempio dorico, alla cavea di granito d’un teatro, al luminoso pario d’una Venere, d’un Sud d’antica civiltà. […] Non ci sarà più storia, per gli agrumi, per gli aranci di Sicilia, per questo pomo così antico, così mitico, per questo frutto dei poveri e dei reali56? L’arancia diventa vana illusione, ricerca di speranza e domanda priva di risposta. Consolo si chiede se potrà esserci ancora un futuro per l’arancia di Sicilia, se potrà esserci ancora un futuro per la sua metafora, per il mistero di una terra senza tempo e di un popolo senza speranza. 51Ivi, p.426. 52Ivi, pp.426-427. 53Ivi, p.429. 54Ivi, p.427. 55 Arancio, sogno o nostalgia viene pubblicato per la prima volta sul giornale «Sicilia Magazine», nel dicembre 1988 (con traduzione inglese a fronte). È trascorso circa un anno da Retablo. Nonostante i rispettivi anni di pubblicazione, è probabile che la stesura del racconto sia stata antecedente o contemporanea al romanzo. 56V. Consolo, Arancio, sogno o nostalgia, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.129-133. Anche ne L’olivo e l’olivastro un tenue lamento è dedicato al frutto dorato, al «profumo d’arancio edi nardo»57 . E infine nel capitolo del Sorriso intitolato L’albero delle quattro arance, la pianta è ricamata su una tovaglia. Questa immagine capovolta si trasforma nella penisola, in cui le arance finiscono per rappresentare le bocche dei tre vulcani di Sicilia58. Ancora una volta torna il numero tre, ancora una volta i vertici siciliani, ancora una volta la metafora. 3.5. Il carcere/labirinto, la chiocciola e la lumaca La metafora diventa altro ed altrove. Diventa carcere e discesa nell’antro recondito, nel profondo nucleo materno. Echi vittoriniani si avvertono nel romanzo Il Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui la prigione ha forma circolare e richiama la chiocciola. Il simbolo della chiocciola59, il suo guscio a forma di conchiglia rappresentano il riferimento più arcaico della metafora materna60 . La chiocciola è l’origine61. E il ritorno all’origine significa ritorno alla madre ed alla terra natia62, preghiera alla donna, circolarità dell’immagine. Dentro il labirinto, i detenuti invocano le proprie donne con preghiere incise sui muri. «Mammuzza mia»63, scrive un povero diavolo, e si legge anche Rosa64 e Serafina65, giacché la donna è sogno e ristoro, attesa e sollievo. Dunque la metafora matria–madre–donna diviene carcere–labirinto–conchiglia– chiocciola–lumaca. 3.6. L’ermafrodita e il castrato È necessario riflettere ancora sul simbolo della lumaca poiché rappresenta anche l’ermafroditismo. Insieme maschio e femmina, la metafora si alimenta così di dicotomie per affermare la propria potenza. La lumaca non è il solo riferimento all’ermafroditismo nelle pagine dello scrittore agatese. Infatti più volte viene 57V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. p.773. 58V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.168. 59 Per la metafora della chiocciola cfr: S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio»,Sellerio editore, Palermo, 2011. 60Riguardo la metafora materna nel Sorriso, cfr.: G. Traina, Vincenzo Consolo, cit. pp.27-29 e pp.62-63. 61V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.236. 62 Attilio Scuderi si sofferma sulle metafore malinconiche di Consolo: «Conclude il libro l’effigie della chiocciola, vera parola fine del manifesto della poetica di Consolo; come se il libro volesse farsi anch’esso pietra, per rientrare nel ciclo della Terra-Madre concludendo una goethiana discesa nel luogo delle matrici originarie del tutto» A. SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Il Lunario, Enna, 1997, p.33. 63V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.239. 64Ivi, p.246. 65Ivi, p.248. citato l’indovino Tiresia, personaggio mitologico sia uomo che donna per sette anni, alter ego di Consolo. E se narrare vuol dire inventare un mondo altro66 , dunque narratore e indovino finiscono per coincidere. L’attività del narrare così è paragonabile alla magia e meritevole delle peggiori condanne dantesche («Grande peccatore, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni […]. Ed anche “di maschio femmina”, diviene, come Tiresia, il narratore67 »). Dunque se Tiresia è l’indovino cieco sia uomo che donna, se indovino è anche il narratore, Consolo diviene il custode della metafora femminile. Altra figura importante è quella del castrato, che si ritrova in Retablo, nei panni del personaggio di Don Gennariello. Figura apparentemente secondaria e marginale, il castrato è anche l’artista. Infatti è proprio Don Gennariello a scrivere la malinconica e poetica lettera di Rosalia/Ortensia. E proprio in un’affermazione di questo personaggio si manifesta un’importante chiave della poetica consoliana: “Siamo castrati, figlia mia” aggiunse, “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pittore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”68 Ed è castrato anche l’Ulisse moderno de L’Olivo e l’olivastro, uomo senza nome e ormai senza via. A Scheria, dinanzi a Nausicaa si copre i genitali e mediante l’inconscio gesto manifesta la propria privazione69 . Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro […], si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato al mattino dalle voci, dalle grida gioiose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. Esce dal riparo e si presenta a loro, il sesso schermato da una 66Per Consolo, scrivere e narrare sono due attività differenti. Egli si definisce un narratore e questo vuol dire aver la capacità di inventare un mondo nuovo, altro. Vedi: V. Consolo, Un giorno come gli altri, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.87-97. 67Ivi. pp. 92-93. 68V. Consolo, Retablo, cit. p. 473 69«Il capitolo II del libro rievoca il tremendo viaggio di Ulisse fino a Scheria, il suo naufragionostos come segno di una colpa storica: lo scempio della guerra ma anche l’abbandono colpevole della Terra-madre. Troviamo qui – nella rievocazione del racconto omerico dell’approdo dell’eroe, nel suo coprirsi i genitali dinanzi alla vergine Nausicaa il segno di “simbolica autocastrazione” – una completa psicologia del nòstos: luttuoso; l’espiazione consiste nel doloroso passaggio attraverso “quell’utero tremendo di nascita o di annientamento: Scilla e Cariddi”, simboli della “metafora dell’esistenza” che diventa quel braccio di mare, metafora di una vera ordalia in cui il soggetto può perdere la ragione o recuperare l’utopia, la sua felice Scheria, la sua Itaca; infine l’autocastrazione e la remissione colpevole nel ventre materno, nel ventre-Sicilia» A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, cit., pp.95-96. fronda, come per simbolica autocastrazione, per non allarmare le vergini, come umile supplice, dimesso70. 3.7. La madre, stanca Nessuna Penelope attende l’eroe. Vi è solo una madre stanca, dimentica, irriconoscibile, che sonnecchia indifferente sulla poltrona71. Approda a questo la matriaconsoliana. Diventa vecchia la donna regale di un tempo. Non più Demetra, non più dea. Ora solo Euridice. Non basta più la poesia. Resta solo il silenzio. Un «mah» emesso tra i denti, a labbra strette. Il viaggio all’interno della matria, delle metafore femminili e materne si conclude con l’immagine più forte, più vera. Questa matria è antica, questa madre stanca… Dopo anni, anni d‟assenza, lontananza, dopo sconfitte, perdite, follie, afflizioni, ritornava sovente, rimaneva nel paese. Ritornava e stava chiuso nella casa, seduto a parlare con la madre. Parlare… era lei, quando non chiudeva gli occhi e s‟assopiva. Lui rispondeva alle domande. – Chi sei? – Tuo figlio. – Mah… Pensava fosse quella la vecchiaia, quello sfilacciarsi, rompersi di legami, allontanarsi a poco a poco, procedere a ritroso. […] La guardava, ne studiava la faccia, la pelle sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti, i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli orecchini. Ma presto provava imbarazzo, distoglieva lo sguardo, gli sembrava di violare l‟intimità indifesa di quella donna ch‟era stata sempre candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi. […] La madre s‟era addormentata. […] Pensava ch‟era stato lui per primo a rompere gli ormeggi, allontanarsi, via per tanto tempo. Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore sempre vivo per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma quando, come?) e s‟era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto di partenza, far tornare lei, la vecchia Euridice, di là dall‟ombra dell‟oblìo? – Mamma, o ma‟… – Chi sei? – Tuo figlio. – Quale figlio? 70V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.767-768. 71«Il ritorno alla vera patria, al paese natio, potrebbe essere allora un rimedio allo scempio, anche perché comporta il vero e proprio ritorno vittoriniano, alle madri. E l’ulisside […] incontra la madre, che però è una presenza attonita: sonnecchia, lo riconosce appena, non fa altro che evocare la propria madre, giusto sul filo della continuità matriarcale. Un ritorno inutile, che provoca sola la rievocazione dell’antico bisogno di partenza» G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., pp.101-102. […] Cos‟era quel sostare nella casa della madre? Era per cancellare un insopportabile presente, la Tauride dell‟esilio e dell‟offesa, saldare la frattura, colmare l‟incolmabile voragine. […] Osservò ancora quella faccia, quegli occhi vivi, ma lontani. I quali poi si chiusero e diedero al volto l‟aspetto d‟una maschera severa72 . 72V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.848-850, c.n.

Rileggere Consolo in altre lingue


Il racconto di Irene Romera Pintor, studiosa e traduttrice dello scrittore.

La sua scrittura incartata con un senso etico fortissimo, il suo personale plurilinguismo, il suo restare un meridionale al Nord, pur lavorando alla Rai di Milano per una vita intera: difficile schedare un personaggio come Vincenzo Consolo dietro un’etichetta o contenere la sua opera dietro un solo appellativo.
E poi la lingua italiana a volte non basta a spiegare la propria letteratura.
Riguardare al lavoro dell’intellettuale siciliano dietro la diversa prospettiva delle sue opere nelle traduzioni, cinque anni dopo la sua scomparsa, è il senso del seminario “Rileggere Consolo in altre lingue” che si svolgerà questa mattina alle 12, presso Palazzo Codacci Pisanelli (Aula3). A parlarne sarà Irene Romera Pintor docente di filologia italiana presso l’Università spagnola di Valencia, studiosa (tra le altre cose) dell’opera di Vincenzo Consolo, del quale ha curato e tradotto “Lunaria” (2003) e “Filosofiana” (2008 e 2011). Premiata per il primo lavoro con il premio per la Traduzione di Opere Letterarie e Scientifiche del Ministero degli Affari esteri italiano, Irene Romera Pintor ha organizzato sullo scrittore italiano anche vari convegni di studio in Spagna, curandone i relativi atti.
“Rileggere Consolo in altre lingue” è il nuovo appuntamento di cicli di seminari “Con testo a fronte. Poeti e testi a confronto”, a cura del Centro di ricerca Pens (acronimo di Poesia Contemporanea e Nuove Scritture) recentemente nato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento e coordinato dal professor Antonio Lucio  Giannone, docente di Letteratura contemporanea dell’Università del Salento.
Irene Romera Pintor vaglierà, spiegherà e dimostrerà il valore di quest’opera poliedrica della letteratura italiana vista da un altro paese del contesto europeo, modulando quindi con un’altra lingua le operazioni linguistiche di Consolo, le sue caratteristiche e le sue scelte stilistiche in una più ampia visione artistica culturale.
Consolo è stato di recente anche inserito, con la sua opera omnia, nella collezione dei “Meridiani” di Mondadori. In quella occasione si è tenuta un’altra giornata di studi a Lecce, sempre organizzata dall’Università del Salento, sullo scrittore di Sant’Agata di Militello, acuto saggista e giornalista, per i rapporti che ebbe con il Salento e con l’università in relazione alla pubblicazione di due suoi volumi con l’editore pugliese Manni.  Si trattava di “Oratorio” del 2003 e di “La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo” del 2007 che vennero presentati in Puglia in entrambi i casi da Giannone  insieme a Consolo. Dedicare questo seminario nel calendario del Centro di ricerca Pens a Consolo, al di là dell’indubbio valore del personaggio, è anche una scelta nata dall’interno di un rapporto di particolare stima e di relazioni elettive che non si sono mai spezzate (in particolare con Giannone, che organizza anche questo evento con Pens).
Da “Di qua del faro” a “La ferita dell’aprile”, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, “Retablo”, “Le pietre di Pantalica”, “L’olivo e l’olivastro”, “Lo spasimo di Palermo” e a tanti altri lavori, merita riletture questo scrittore dalle ampie vedute, fortemente impegnato e attento alle tematiche di una certa letteratura meridionale, ad un sentire che profuma di vento di mare e di salsedine, alle passioni di terre tumultuose e violate dalla dimenticanza e dalle ingiustizie, con la loro storia irrisolta.
Consolo, classe 1933, vincitore del concorso alla Rai nel ’68, giornalista per L’Ora dal ’64, consulente editoriale di Einaudi con Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Premio Strega nel ’92 con “Nottetempo casa pere casa”, ha vissuto a Milano fino alla sua morte, nel gennaio del 2012. Ma pur avendo lavorato e abitato al Nord per la maggior parte della sua esistenza, restò un siciliano verace e si dedicò alla sua terra, anche come giornalista. Fu un autore proteso alla conservazione della memoria storica. Raggiunse la grande notorietà nel 1976 con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, considerato presto il suo capolavoro, una sua rivisitazione del romanzo storico sui moti rivoluzionari in Sicilia nel 1860.

di Claudia Presicce
(articolo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia – 16 marzo 2017)

Su Vincenzo Consolo, orafo della parola

*

Nell’età della diffusione epidemica della graforrea sia tra i professionisti della pagina scritta che tra i dilettanti, non si può non andare con il ricordo e con il rimpianto a Vincenzo Consolo: orafo della parola. La penna dello scrittore siciliano era fresa e lima diamantata, bulino e bilancino, origine di sbalzo e cesello. Chi scrive ha avuto il piacere di conoscere Vincenzo e la dolcissima Caterina nei primi anni 90 del secolo scorso quando, con moglie e figlio, andò a trovarlo nella casa accogliente di Sant’Agata di Militello. Avevo fissato l’appuntamento attraverso un comune conoscente e andai per presentare un progetto sul suo ultimo – a quel tempo – romanzo: Retablo. Ancora mi commuovo al pensiero dell’accoglienza che Vincenzo riservò a noi tre sconosciuti; alla sua attenzione verso il nostro piccolo bambino; alla sua cura al momento della nostra ripartenza per Catania. Tanto era il suo pensiero per l’ora tarda e la probabile stanchezza del guidatore che ci invitò persino a trattenerci da lui per la notte.

Qualche anno dopo, su commissione del Teatro Stabile di Catania, avrebbe scritto un atto unico teatrale su Empedocle, “Catarsi”, e nel delineare il personaggio di Pausania mi disse di essersi ispirato a me, anzi di averlo scritto pensando che fossi chiamato io ad interpretarlo. Non aveva fatto i conti con le dinamiche del teatro e con i suoi tradimenti.

L’ultimo ricordo che ho del mio amico – mi perdoni, Vincenzo, ma il mio cuore la vuole chiamare così – risale ad un pomeriggio trascorso in casa di una prostituta ad Agrigento. Eravamo in quattro e il nostro ospite sapeva dell’amore di Consolo per la marginalità del mondo e della storia. Così ci portò a prendere un caffè da Pina, storica donnina della città dei templi. Con lei all’asse da stiro e noi seduti alla cerata unta e per ciò dai colori vivissimi su un tavolo scazonte, l’odore dalla caffettiera gorgogliante si espandeva nell’aria della piccola stanza umida. Ricordo gli occhi, anch’essi umidi, per la tenerezza che Vincenzo sicuramente provava per la storia che quella donna ci raccontava; così lontana dai lustrini e dalla sensualità che il suo ruolo sulla strada le avrebbe dovuto imporre. L’amore di Vincenzo per i margini, dicevo, diventava pudore infrangibile di fronte alla parola scritta; mai, a memoria mia, nelle sue opere, alcun margine è stato violato; mai l’interesse per il successo lo ha portato ad utilizzare anime e corpi verso cui vera era la sua cumpassione. Vincenzo non era uno scrittore di fiera, di mercato, di ‘bbanniata. Certo era un suo cruccio il non riuscire ad affidare all’inchiostro un solo segno che non fosse frutto di complessi processi creativi. Anche a me una volta confidò la sua meraviglia, non certo positiva, verso gli scrittori che producevano libri come… graforrea, appunto.

Leggere Consolo è come vivere la sequenza dell’immersione ne L’Atalante; è un fluttuare armonioso nella trama avvolgente del racconto; è un viaggiare sensuale fra le turgide pieghe e le morbide crespe della parola.

“Perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? […] la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno.”

Buon viaggio, allora, e ad meliora, amico mio.

FD

La letteratura come nostalgia della vita. Retablo di Vincenzo Consolo

retablorid

Gianni Turchetta

Rappresentazione e realtà
La ricchezza linguistica e culturale della pagina di Vincenzo Consolo, la

stratificazione vertiginosa delle allusioni e delle citazioni nelle sue opere, potrebbero far sorgere l’idea che la sua sia una scrittura non soltanto, come egli stesso ha detto, ‘palinsestica’ o addirittura ‘palincestuosa’, ma addirittura esclusivamente giocata su una infinita deriva verbale, su qualcosa come la fuga senza fine delle parole e delle immagini, nell’ impossibilità, per la letteratura e per l’arte in genere, di attingere la realtà. Tesi che è peraltro balenata non di rado in alcune interpretazioni recenti. Le parole, certo, sono altro dalla vita, e dall’esperienza. Ma d’altro canto alla letteratura spetta proprio la sfida senza fine di evocare comunque la vita, di mettere in scena un testo costantemente teso a sfondare la propria chiusura, a far saltare i limiti del linguaggio che pure lo costituisce. Per Consolo l’arte tutta, e le rappresentazioni, e le parole, sono in qualche modo una forma di nostalgia: in quanto tensione disperata verso una vita comunque irraggiungibile, verso una realtà che nessun’arte, nessuna rappresentazione, e nessuna parola, sarà mai in grado di restituire in tutta la sua intensità e densità. D’altro canto, Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un mondo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza. La scrittura letteraria, così come l’arte e l’essere intellettuale, resta un valore: ma non può prescindere dalla sofferta consapevolezza del proprio essere altro rispetto alla realtà. La forza fascinosa della scrittura di Consolo mette così radici anche e proprio nell’ energia con cui la sua nostalgia del mondo si lascia pienamente sentire come desiderio, per quanto deluso e problematico, e proprio per questo non smette mai di comunicarci proprio quella densità del reale che dispera di raggiungere. Se questo accade un po’ sempre nei libri di Consolo, forse Retablo porta all’estremo la tensione fra, da un lato, un pessimismo, storico e meta-storico, acutissimo e, dall’altro, una mai perduta capacità di gustare la vita, e perciò di amarla, di riaffermare sempre e comunque, le ragioni della vitalità (che non va in nessun modo confuso con il vitalismo, da Consolo sempre rifiutato e combattuto) e persino dei sensi. Così, se è certo vero che, come scrive Giuseppe Traina, “Retablo appare, almeno in parte, come un episodio alquanto eccentrico dell’itinerario narrativo consoliano, sia rispetto ai romanzi che l’hanno preceduto sia rispetto a quelli che l’hanno seguito” (Traina 2004, 113), a guardarlo da un punto di vista un po’ diverso, Retablo può legittimamente apparire piuttosto come un’opera esemplare nella carriera di Consolo, un romanzo capace di mettere sotto tensione, al massimo grado, proprio l’antitesi fra pessimismo e vitalità.      Come ebbe a scrivere Giuseppe Pontiggia, a proposito di un altro grande siciliano da Consolo amatissimo, Stefano D’Arrigo, lo scopo dei veri artisti è alla fine quello di “aggiungere vita alla vita” (Pontiggia 1984, “Retablo” di Vincenzo Consolo

209). Sarei tentato a questo punto di citare tutto lo straordinario, travolgente incipit del romanzo, con l’invocazione del fraticello Isidoro all’amata Rosalia; mi accontenterò di citarne solo una parte: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozio- ne, lilio dell’inferno che credi divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue

che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. (Consolo 1987a, 369) Ce n’est qu’un début … Opera straordinariamente coerente e compatta, fin dal titolo Retablo (cioè pala d’altare, polittico) pone il problema del rapporto fra rappresentazione e realtà, avviando un complesso gioco di specchi fra letteratura e pittura, e fra parola e immagine: un gioco confermato anche dalla macro-struttura del libro, che si presenta come una sorta di trittico, cioè come una struttura a tre termini, con agli estremi due capitoli molto brevi (“Oratorio” e “Veritas”), analoghe alle due pale d’altare laterali, più piccole, e con al centro un capitolo molto più lungo (“Peregrinazione”, che occupa tre quarti del libro), come più largo è di solito il quadro centrale dei polittici: significativamente il tema principale del capitolo centrale è il viaggio. Fra i molti possibili riferimenti di questa complessa operazione, mi piace ricordare il troppo poco citato Claude Simon, con il suo Le vent, che porta come sottotitolo Tentative de restitution d’un retable baroque (Simon 1957). A prescindere da possibili intertesti, con ogni evidenza nel libro di Consolo l’intreccio letteratura/pittura, in Retablo come già in Il sorriso dell’ignoto marinaio, e in altre opere ancora, si fa anche costruzione di diversi livelli di realtà: un effetto strutturale che Consolo moltiplica affidando sempre il racconto a narratori interni, in prima persona, cioè a una prospettiva soggettiva, parziale. Inoltre, ognuna delle tre parti di Retablo ha un narratore diverso, che interpreta la realtà dal suo punto di vista, obbligando il lettore a cambiare a sua volta via via prospettiva. Il gioco delle prospettive e dei livelli di realtà, a complicare ancora di più la complessità dell’impianto narrativo, s’intreccia inoltre con la percezione, spagnolesca e barocca (da Cervantes a Calderón de la Barca), ma anche siciliana, pirandelliana e sciasciana, del mondo come teatro: e dunque come illusione, mascherata e rappresentazione. Storia, fiction e metafora: fra idillio e orrore Come si vede, i rapporti fra rappresentazione e realtà vengono giocati, problematicamente, su molti piani allo stesso tempo: col risultato, solo apparentemente paradossale, che il lettore ne riceve un effetto insieme di esibito artificio e di realtà, per via di addensamento di un’irriducibile pluralità percettiva e interpretativa. A complicare ulteriormente il quadro c’è anche la dimensione di romanzo lato sensu storico: anche Retablo, come Il sorriso dell’ignoto marinaio, è a suo modo un romanzo storico, ‘un componimento misto di storia e d’invenzione’, ambientato in questo caso nel XVIII secolo. Però, per quanto un po’ sommariamente, possiamo dire subito che Retablo è molto meno romanzo storico del Sorriso dell’ignoto marinaio, anche se il principio di verosimiglianza, anche e proprio nel senso della verosimiglianza storica, non viene mai intaccato in modo sostanziale. Anche a Retablo si potrebbero del resto premettere le stesse parole che Consolo metteva in epigrafe al suo primo romanzo: “Persone, fatti, luoghi sono immaginari. Reale è il libro” (Consolo 1963, 4). Certo, non mancano i riscontri puntuali con aspetti, eventi e personaggi storici, che Consolo sempre mette in scena solo dopo un pazientissimo lavoro di documentazione e di ricostruzione storica. Penso, per esempio, alle figure di Teresa Blasco, di Cesare Beccaria e dei fratelli Verri, dello scultore Giacomo Serpotta e dell’abate e poeta dialettale Giovanni Meli. Ma, mentre ricostruisce attentamente il contesto, Consolo mette in atto pure, a contropelo, una serie consapevole di anacronismi. Anzitutto, e fondamentalmente, scegliendo come protagonista un Fabrizio Clerici, omonimo del grande pittore e amico, nato nel 1913 (morirà nel 1993), con il quale aveva compiuto nel 1984 il viaggio che sarà lo spunto per il romanzo, dopo la comune partecipazione come testimoni al matrimonio dell’amico regista Roberto Andò 1. Ma il gioco è molto più sottile. Infatti, la vicenda è ambientata nel 1760-1761. Ma Serpotta era morto nel 1732 (era nato nel 1656); in modo opposto e complementare, Giovanni Meli, nato nel 1740 Per la storia della genesi e dell’elaborazione di Retablo, cf. Turchetta 2015, 1351- (morirà nel 1815), a quell’epoca aveva vent’anni, e non era certo un vecchio abate bavoso, lesto a toccare Rosalia e poi a fuggire. Va notato, fra l’altro, che Giovanni Meli era già un personaggio di Il consiglio d’Egitto di Sciascia (Sciascia 1963), opera fondamentale per Consolo, soprattutto per l’ideazione di Il sorriso dell’ignoto marinaio.  Né mancano, in questa Sicilia un po’ sognata, le violenze e gli orrori, che rappresentano comunque un richiamo costante alla feroce durezza della realtà: nella quale le catastrofi naturali si sovrappongono alle crudeltà della storia, all’evocazione degli strumenti di tortura, alla brutale ferocia di una sedicente giustizia, come accade, esemplarmente, nella scena delle prostitute frustate e mutilate: Ci girammo e vedemmo quattro donzelle in fila, che aizzate da un bruto con un nerbo, affannate correvan lacrimando in giro in giro per tutto quel terrazzo. Al cui centro, imperioso e alto sopra una catasta di palle di granito, stava il tronfio figlio del Soldano. “Cos’hanno queste fanciulle, perché subiscon una simile condanna?” gli chiesi avvicinandomi. “Puttane sono!” risposemi sprezzante. “Si fecero da me violare. E ora voglio che sgravino, avanti d’aver ricatti e il pensiero di mettere alla ruota i bastardelli”. Guardai con raccapriccio le fanciulle piangenti, il ceffo privo di naso, mozza- togli di certo per condanna di ruffianeria, che ghignando le colpiva; guardai quel ribaldo garzone compiaciuto, e non desiderai altro che fuggire presto la casa di suo padre, abbandonar correndo quel paese. (Consolo 1987a, 400) Inoltre, il viaggio in Sicilia diventa anche uno strumento per evocare Milano: sì, la Milano del XVIII secolo, ma non meno la Milano ‘da bere’ degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo, corruzione: O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987a, 433) D’altro canto, la riconoscibilità dei personaggi nei termini della storia ufficiale, per quanto rilevante, tutto sommato non appare qui decisiva, a differenza di quanto accadeva nel Sorriso. Diciamo che lo scenario in cui si svolgono le vicende di Retablo è ‘antico’, prima che storico: tanto che qualche recensore, esagerando in senso opposto, ebbe a parlare persino di ‘fiaba’, o di ‘sogno’. Ma Consolo è molto più lucido, oltre che letterariamente più bravo, dei molti autori di romanzi pseudo-storici, o para-fantastici, degli ultimi trent’anni circa. Riprendendo liberamente un’acuta categoria interpretativa del mio maestro Vittorio Spinazzola, riferita proprio al romanzo siciliano del XIX e del XX secolo (Spinazzola 1990), potrei dire che anche Retablo è un romanzo anti-storico: dove, in particolare, la regressione nel tempo e l’allontanamento dal presente sono costruite in esplicita opposizione con la violenza della storia, oltre che in aperta polemica con la barbarie del presente. Nel passato, certo, si ritrovano altre violenze e altre barbarie: ma resta importante proprio il movimento di fondo, il gesto di distacco, conspevolmente esibito, insieme dal presente e dalla storia: che implica comunque un moto polemico e critico, senza il quale il testo consoliano sarebbe in buona sostanza incomprensibile. In prima approssimazione, Retablo si presenta come un trittico, che evoca la struttura di quel tipo di pala d’altare definito appunto retablo; ma la struttura programmaticamente pittorica si doppia nell’impostazione teatrale della narrazione, così costituendo il testo tutto a partire da una irriducibile pluralità strutturale: Retablo è teatro, pur nella forma narrativa o romanzesca. Il termine ‘retablo’, recita il dizionario, ‘è l’insieme di figure dipinte o scolpite, rappresentanti in successione lo svolgimento d’un fatto, d’una storia’. Appartiene dunque il termine (che deriva dal latino retrotabulum) alla sfera dalla pittura o della scultura (in Sicilia abbiamo retabli dei Gagini). Ma il termine trapassa poi in Spagna dalla pittura al teatro. È teatro (tìtere: teatro di marionette, di pupi) in Lope de Vega e soprattutto in Cervantes, nell’ intermezzo El retablo de las maravillas e nel Don Chisciotte: qui vi è il racconto del retablo o teatrino di Mastro Pietro. Nel grande ironico spagnolo retablo è metafora dell’arte, pittura teatro o racconto: è inganno, illusione, ma illusione necessaria per fugare il sentimento della caducità della vita, per lenire il dolore. Il mio Retablo è dunque pittura (a partire dalla sua struttura) e insieme racconto. Racconto di un viaggio in Sicilia (la coppia dei viaggiatori Fabrizio e Isidoro sono proiezioni, ombre labili, quanto si vuole, di don Chisciotte e Sancio), viaggio nel tempo e nella storia, nella miseria e nelle nobiltà umane. Ed è teatro ancora, Retablo, per il linguaggio, che è ampiamente dispiegato in quella che è la mia sperimentazione stilistica. (Consolo e Ronfani 2001, 9-10) Sulla ben percepibile strutturazione a trittico, pittorica e però anche teatrale, il complesso impianto narrativo di Retablo innesta e intreccia due “Retablo” di Vincenzo Consolo storie principali. La prima è quella dell’amore del fraticello Isidoro per la bella Rosalia: un amore che gli fa abbandonare il convento, e che viene riecheggiato un po’ per tutto il libro dalla presenza quasi ossessiva del nome di Santa Rosalia, oltre che dalla presenza di un’altra Rosalia. Quest’ultima fa balenare persino il sospetto di essere la stessa amata da Isidoro, e dà luogo a sua volta a un’altra storia nella storia, quella raccontata, ancora una volta in prima persona, nel capitolo “Confessione”, che si incastra esattamente al centro del capitolo centrale, e dunque al centro del libro tutto: è la confessione di Rosalia Granata, che racconta la propria seduzione ad opera del proprio confessore, frate Giacinto, che la obbligherà poi ad avere rapporti con altri tre conversi, uno dei quali, innamorato, la libererà uccidendo il corruttore. Questa ulteriore storia inserita, ma verrebbe voglia di dire intarsiata, crea un ulteriore gioco di specchi e di rimandi interni, arricchendo e complicando la polisemia del libro, anche perché appare vergata in corsivo sul verso di una serie di pagine pari del romanzo (Consolo 1987a, 416, 418, 420, 422), alternate alla narrazione normale, in tondo nelle pagine dispari. Queste pagine infatti si rivelano essere il verso dei fogli di una risma di carta consegnata a Fabrizio Clerici perché possa disegnare, ma sono anche scritti effettivamente sul verso delle pagine del romanzo pubblicato, così che la storia di Rosalia Granata sfonda la separazione fra mondo della rappresentazione e mondo del lettore, perché va a toccare direttamente la realtà materiale al tempo stesso dei fogli che sono in mano a Fabrizio e delle pagine del libro che il lettore ha per le mani: “Ecco la carta, ecco la carta che vi manda frat’Innocenzo, col fraterno saluto e la benedizione sua paterna”. Così dicendo uno dei due messi porse una rìsima di carta vecchia, gialla e spessa al capo suo don Vito. Il quale, contento, con un profondo inchino me la porse. Io la sogguardai e subito m’accorsi ch’erano alcuni di quei fogli scritti su una faccia, in righe sconnesse e con una scrittura svolazzante. E sono quei fogli questi su cui, nella faccia opposta e immacolata, ho continuato a scrivere il diario di viaggio oltre che sugli altri fogli vergini e ingialliti. Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti. Come l’amore l’eco d’altri amori da altri accesi e ormai inceneriti. E il mio diario dunque ha proceduto, vi siete accorta, come la tavola in alto d’un retablo che poggia su una predella o base già dipinta, sopra la memoria vera, vale a dire, e originale, scritta da una fanciulla di nome Rosalia. Che temo sia la Rosalia amata da don Vito Sammataro, per la quale uccise, e si convertì in brigante. O pure, che ne sappiamo?, la Rosalia di Isidoro. O solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore. (Consolo 1987a, 421 e 423) Tornando a Isidoro, questi perde tutte le comodità della condizione di fraticello, e si ritrova da un giorno all’altro sulla strada e per di più non ritrova l’amata per la quale si è appena rovinato; ma per fortuna incontra il cavalier Fabrizio Clerici, che lo prende al suo servizio. Si apre così la seconda storia principale del romanzo, quella appunto del viaggio di Fabrizio, alla ricerca di oggetti archeologici. In questo modo, la vicenda di Isidoro servo di Fabrizio evoca palesemente, come del resto accennato dallo stesso Consolo, la coppia don Chisciotte – Sancio Panza: coppia che a sua volta rimanda a un ulteriore palese riferimento a Cervantes, presente fin dal titolo, che, oltre a richiamare il genere pittorico del retablo, è anche più specifica citazione di El retablo de las maravillas, uno degli entremeses di Cervantes. Inoltre, l’avvio del viaggio in Sicilia rimanda visibilmente non solo al modello odeporico in genere, ma specificamente al Viaggio in Italia di Goethe, per il quale Consolo aveva scritto una introduzione pubblicata, corrispondenza certo non casuale, proprio nel 1987, lo stesso anno di Retablo (Consolo 1987b). A moltiplicare ancora i rimandi interni, e i livelli di realtà del testo, Fabrizio Clerici, come si è visto, è anche il nome di chi ha realmente disegnato le illustrazioni del volume: a conferma dei molteplici interscambi fra letteratura e pittura, da un lato, ma anche, più fondamentalmente, tra realtà e finzione. Abbiamo così un amore parallelo ad un viaggio, dove il primo innamorato, Isidoro, si metterà in viaggio con Fabrizio. Ulteriore parallelismo, si scoprirà che anche Fabrizio in realtà è innamorato: e se l’amore di Isidoro è un amore non realizzato, non consumato, il viaggio di Fabrizio è stato intrapreso per sfuggire all’amore, per non lasciarsene afferrare: “Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo roseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio. Laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?” (Consolo 1987a, 393). En passant, uno dei personaggi più riconoscibili rispetto alla realtà storica è la donna amata da Fabrizio: donna Teresa Blasco (cognome fondamentale nei Viceré di De Roberto, ça va sans dire), che sposerà Cesare Beccaria, e che dunque è la nonna di Alessandro Manzoni 2 … Ma, si noti, Fabrizio si distacca dall’amata e dall’amore per eccesso di amore: e per eccesso di amore si mette a scrivere. Senza il distacco, non riuscirebbe a scrivere; tuttavia, se non amasse verrebbe a perdere la conditio sine qua non della scrittura. Una raffinata e puntuale ricostruzione delle vicende di Teresa Blasco, nel contesto della Milano dei Verri e di Beccaria, è quella di Albertocchi 2005.  “Prima viene la vita” Entrambe le storie rappresentano comunque una condizione di distanza, di non contatto. Non a caso, Consolo riprende l’immagine della scrittura come viaggio, arricchendola di una complessa stratificazione di significati aggiuntivi: Ascesi, come procedendo in sogno, o come in uno di quei disegni trasognati che i viaggiatori oltremontani lasciaro di questo sogno, del sogno intendo di quest’antichitate indecifrata (perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sogna E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato. Come questo diario di viaggio che io per voi vado scrivendo, mia signora Mi chiedo: sogno, chiuso nella mia casa deserta di Milano, o egli è vero che io sto viaggiando, che mi trovo ora qui, sul suolo della celebre Segesta?), ascesi, per un sentiero d’agavi fiorite, macchie d’acanto, di cardi mezzo gli anfratti delle rocce di candido calcare, al colmo di quel colle, ai piedi del maestoso e chiaro, misterioso templo … (Consolo 1987a, 413) Come si vede, ancora una volta Consolo assume un atteggiamento duplice, ambivalente, nei confronti della letteratura e più in generale dell’arte: da un lato, infatti, egli le esibisce e svela come frutto di una rinuncia e di un rifiuto, consapevolmente arrischiandosi a sottolinearne persino il valore consolatorio, come esito proprio della fuga dalla violenza del mondo, dagli orrori della realtà. Da un altro lato, però, proprio la coscienza di questa debolezza dell’arte diventa la sua forza: l’arte può accostarsi al reale senza mistificazioni proprio perché sa di non identificarsi col reale stesso, e proprio così resta sempre in grado, mentre ci fa sfuggire al reale con l’illusione, di rivelarci questo stesso reale, di farcelo indirettamente afferrare, in modo apparentemente paradossale.   Fabrizio (nome carico di risonanze romanzesche, a cominciare da Fabrizio del Dongo) viaggia dunque alla ricerca di antichità, di oggetti antichi, e dunque fugge la vita inseguendo la storia e la cultura, spendendo il proprio tempo alla ricerca di oggetti doppiamente distanti dal presente in quanto arte e in quanto appartenenti al passato. Si noti, però, che, a fronte del pericolo di naufragio durante una tempesta, una preziosa statua greca verrà gettata in mare, consentendo alla nave di riequilibrarsi e ai viaggiatori di salvarsi: a conferma che la cosa più importante resta sempre e comunque la vita; l’arte può anche prendere il comando della nostra esistenza, ma solo finché ci aiuta a vivere: quando entra in conflitto aperto con l’esistenza deve essere messa da parte, persino a rischio della distruzione: “Pericolo c’è, ah?, don Giacomino? Io non so natare …” disse con voce rotta. “Pericolo … pericolo … mastr’Isidoro … ’sto marmo è, che non sta fermo! …”. E guardò me, il marinaro, come responsabile, pel mio capriccio di trasportare in Trapani la statua: capriccio incomprensivo di forastiero, d’uomo ricco … Una più alta onda, a un certo punto, sferzando fortemente la fiancata, fece rotolare ancora, e trasbordare, tranciando scalmi, inabissar nell’acqua, salvandoci sicuramente da naufragio, la mia statua. Vai, dunque, vai, giovine di Mozia, atleta o iddio, sagoma, effigie vera o ideale, chiunque tu ti sia, pace e quiete a te in fondo al mare, a noi sopra la barca, e a terra, quando v’arriveremo e fino a che duriamo. Tutto viene dal mare e tutto nel mare si riduce. Addio. Prima viene la vita, quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi viene ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza … Quanti Fenici o Greci navigando, giovani e prestanti al par di te, ma vivi, veri, Matar di nome oppur Alchibiades, si persero nel mare, si sciolsero finanche nelle ossa … Tu perduri nella tua petrosa consistenza e forse un giorno, chi sa?, sospinto da correnti o trascinato da sciabiche, pur incrostato di madrèpore, coralli, risorgerai dal mare, ridestando ancora sulla terra maraviglia. Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo. Questo, o di questo genere, fu l’ultimo pensiero ch’io gli rivolsi, mentre la barca andava equilibrandosi sgravata finalmente di quel peso. E il vento a regredire, e il mare a rabbonirsi. (Consolo 1987a, 452- 453) D’altro canto, se Fabrizio, cercando reperti archeologici, fugge dalla realtà, allo stesso modo egli testimonia di realtà perdute, adempiendo a una necessaria pietas storica, che è un compito fondamentale dell’arte e, più in generale, del lavoro intellettuale. La stessa lingua di Consolo, del resto, con la sua raffinata e inesauribile ricerca di parole e giaciture sintattiche, con lo scialo sontuoso di lingue diverse rimescolate in modo inatteso (italiano antico, dialetti siciliani, spesso proprio nelle varianti meno conosciute e non vocabolarizzate, altre lingue antiche e altri dialetti, gerghi, lessici tecnici) e di registri diversi (con il calcolato contrasto fra registri alti e registri bassi), nasce anche e proprio dall’esigenza di difendere strenuamente, per così dire, le bio-diversità del linguaggio, di contrastare l’oblio delle parole, per difendere almeno la memoria delle cose e delle persone a cui si riferiscono. La ricerca delle parole risponde così, certo, a esigenze di concentrazione simbolica, ma, ancora una volta, nasce, nel profondo, da un’esigenza etica, che, per riprendere il punto di partenza del nostro discorso, fa tutt’uno con l’amore per gli infiniti aspetti del mondo, per le cose e le persone che la scrittura si sforza di preservare in qualche modo, per impedire che la morte coincida con la sparizione definitiva anche dalla memoria degli uomini, che la violenza vinca due volte, inabissando anche nel nulla dell’oblio quanto ha già sconfitto nella realtà. Diventa così tutto sommato secondaria la questione della storicità o meno della rappresentazione di Retablo, nella prospettiva di una possibile attribuzione di genere letterario. Da questo punto di vista, infatti, tutte le scritture di Consolo sono profondamente storiche: di una storia, per la precisione, che in ogni momento si mescola, felicemente, allo sguardo antropologico; come del resto confermano, ad abundantiam, i saggi di Vincenzo. E la sua irriducibile esigenza etica non entra affatto in contrasto, ma finisce anzi per coincidere con la sua carnale passione per il mondo, per le cose che restano fuori dalle pagine, ma che pure la letteratura riesce a far balenare. Significativamente, l’ultimo capitolo, la pala che chiude il polittico, evoca la figura di un cantante e maestro di canto, don Gennaro Affronti, sopranista dalla voce sublime, ma perché è stato castrato: Io sono dunque ormai creatura di don Gennaro. Il quale, meschino, da caruso, fu mutilato della sostanza sua mascolina per esser tramutato in istromento dolcissimo di canto. E ha avuto ricchezza, onori e risonanza, ma gli è mancata la cosa più importante della vita: l’amore, come quello nostro, Isidoro mio. Mi dice: “Ah, come t’avrei adorata, Rosalia, se fossi stato uguale come gli altri!”. E ancora, sospirando: “C’est la vie: chi canta non vive e chi vive non canta!”. E mi guarda, alla vigilia del mio inizio, con gran malinconia. “Siamo castrati, figlia mia”, aggiunge “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore … Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo,e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”. (Consolo 1987a, 473) Del resto: […] non la conoscenza di un luogo ci trasmettono gli uomini come Goethe, i poeti, ma la conoscenza del Luogo, del sempre sconosciuto, misterioso luogo, bellissimo e tremendo, che si chiama vita. (Consolo 1987, 1224) Riferimenti bibliografici Albertocchi, Giovanni. 2005. “Dietro il Retablo. ‘Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria’”. Leggere Vincenzo Consolo. Quaderns d’Italià (Universitat Autónoma de Barcelona) 10: 95-111 (poi in Giovanni Albertocchi, ‘Non vedo l’ora di vederti’. Legami, affetti, ritrosie, nei carteggi di Porta, Grossi & Manzoni, 141-159. Firenze: Clinamen, 2011). Consolo, Vincenzo. 1963. La ferita dell’aprile. Milano: Mondadori (poi in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, 3-121. Milano:  Mondadori, 2015). Consolo, Vincenzo. 1987a. Retablo. Palermo: Sellerio (poi in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di e uno scritto di Cesare Segre, 365- 475. Milano: Mondadori, 2015).Consolo, Vincenzo. 1987b. “Introduzione”. In Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Sicilia. Siracusa: Ediprint (poi in Vincenzo Consolo, Di qua dal faro. Milano: Mondadori, 1999; ora in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, 1219-1224. Milano: Mondadori, 2015). Consolo, Vincenzo, e Ugo Ronfani. 2001. Retablo, versione teatrale a cura di Ugo Ronfani. Catania: La Cantinella – Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano.Pontiggia, Giuseppe. 1984. “Un eroe moderno”. In Giuseppe Pontiggia, Il giardino  delle Esperidi, 208-220. Milano: Adelphi. Sciascia, Leonardo. 1963. Il consiglio d’Egitto. Torino: Einaudi. Simon, Claude. 1957. Le vent. Tentative de restitution d’un retable baroque. Paris: Minuit. Spinazzola, Vittorio. 1990. Il romanzo antistorico. Roma: Editori Riuniti. Traina, Giuseppe. 2004. “Rilettura di Retablo”. In Per Vincenzo Consolo. Atti delle Giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2003), a cura di Enzo Papa. San Cesario di Lecce: Piero Manni. Turchetta, Gianni. 2015. “Note e notizie sui testi”. In Vincenzo Consolo, L’opera  completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di Gianni  Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, 1271-1455. Milano: Mondadori.

VINCENZO CONSOLO POETA DELLA STORIA

di Carmelo Aliberti

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Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.

Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio.
Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.

Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.

Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.

Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.

Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.

Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.

Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.

A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.

Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.

Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.

L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.

Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.

Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.

La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.

Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.

Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.

La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.

Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.

Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.

Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.

La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.

In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.

La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].

Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.

L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.

BIBLIOGRAFIA

Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.

Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia. La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa siciliana d’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala a chiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cose di Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stesso ceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.

[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.

Carmelo Aliberti

 il 7 febbraio 2017 Terzo millennio rivista letteraria

Vincenzo Consolo, la voce della Sicilia, sarà ricordato anche a Tunisi

http://www.kairosrivista.it/2017/02/02/vincenzo-consolo-la-voce-della-sicilia-sara-ricordato-anche-tunisi/

Caro Maestro

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Caro Maestro, sono ormai passati cinque anni e le stagioni sembrano essersi fermate. Il tuo scendere in Sicilia, a Sant’Agata, le scandiva tutte: segnava l’arrivo imminente dell’estate o il suo trascolorare nell’autunno, quando tornavi a Milano. Scrivevi: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (Le pietre di Pantalica, 1988) Alcàra Li Fusi, San Marco d’Alunzio, San Fratello, Portella, Femmina Morta, Mistretta, Furci, Scurzi, Caronìa, Santo Stefano di Camastra, le pendici dei Nèbrodi: sono tutte schegge, frammenti, sprazzi di una Sicilia visitata insieme, osservata, ascoltata, raccolta e custodita per farne narrazione, racconto, poesia. Sono pagine di una storia comune, condivisa, che tu temevi sfumasse nella dimenticanza, nell’abbandono, nel silenzio. Per questo mi chiedevi di accompagnarti per paesi e contrade, su e giù per i fianchi dei nostri monti, ricchi di storia umana e naturale, o lungo la costa, nelle contrade incastonate come piccole gemme tra la roccia e il mare: per raccogliere i palpiti di una terra che temevi fosse sul punto di scomparire. A te, poi, spettava il compito di trasferire nella scrittura il pulsare di quella vita, di quelle storie di cui ti volevi fare testimone, custode, attraverso la parola di quel Creato nebroideo popolato di pastori, contadini, carbonai, carrettieri, autentici plasmatori di forme e sapori. Ricordo ancora l’interesse consapevole con cui apprezzavi le forme dell’umano creare: un canestro di olivastro e giunco, un bùmbulu di calda terracotta, una fascedda di ricotta profumata sapevano strapparti il più sincero e vivido interesse. A me lasciavano il privilegio di aver potuto assistere alla tua meraviglia di siciliano mai stanco di conoscere la sua terra. Nel raccoglimento creativo che inevitabilmente seguiva, nella tua casa di Sant’Agata o dalla distanza di Milano, trasferivi al linguaggio la dimensione umana e culturale sperimentata nei nostri pellegrinaggi su e giù per la Sicilia di allora. Alla lingua, più che a ogni altra cosa, spettava il compito di far riaffiorare la stratificazione culturale, le incrostazioni di cui la storia e gli avvicendamenti dei popoli hanno segnato la nostra isola. Ripercorrendo i tuoi scritti, mi soffermo di frequente su questo passo: Azzurro, giallo, rosso. Mi regalò mio padre tre cristalli, mia madre tre nastri variopinti. Mi dissero partendo: Muoviti, figlio, agita il ventre, danza a campo raso, nella luce piena. È fredda l’ombra, immobile serpente, lunga la notte dentro la foresta. (Lunaria, 1985, pag.19) E penso alla musicalità, al canto della tua lingua, alla gioia, ingrediente mai riconosciuto sufficientemente della tua opera. E come non ricordarla, la gioia, quell’emozione densa di stupore con cui accoglievi e raccoglievi ogni nuova trovatura, ogni nuova scoperta che ti disvelasse una pagina della nostra comune storia di siciliani. La stessa gioia meravigliata che ti colse bambino di fronte alla rivelazione di nuovi linguaggi: “[…], fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero.” (Le pietre di Pantalica, 1990, pag. 151) Gioia, nella tua scrittura, era il dispiegarsi pieno e ricco del linguaggio e della sua policromia, gioia era il far risuonare tra le pagine l’eco di parole antiche ma vive, antidoto alla perdita di senso, allo svuotamento, all’oblìo: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha rόso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.” (Retablo, 1990, pag.1 )

“ che Calasia ”.

Claudio Masetta Milone

foto di Gino Fabio

Caro Maestro

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Caro Maestro,
sono ormai passati cinque anni e le stagioni sembrano essersi fermate. Il tuo scendere in Sicilia, a Sant’Agata, le scandiva tutte: segnava l’arrivo imminente dell’estate o il suo trascolorare nell’autunno, quando tornavi a Milano. Scrivevi:

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”
(Le pietre di Pantalica, 1988)

Alcàra Li Fusi, San Marco d’Alunzio, San Fratello, Portella, Femmina Morta, Mistretta, Furci, Scurzi, Caronìa, Santo Stefano di Camastra, le pendici dei Nèbrodi: sono tutte schegge, frammenti, sprazzi di una Sicilia visitata insieme, osservata, ascoltata, raccolta e custodita per farne narrazione, racconto, poesia. Sono pagine di una storia comune, condivisa, che tu temevi sfumasse nella dimenticanza, nell’abbandono, nel silenzio. Per questo mi chiedevi di accompagnarti per paesi e contrade, su e giù per i fianchi dei nostri monti, ricchi di storia umana e naturale, o lungo la costa, nelle contrade incastonate come piccole gemme tra la roccia e il mare: per raccogliere i palpiti di una terra che temevi fosse sul punto di scomparire.
A te, poi, spettava il compito di trasferire nella scrittura il pulsare di quella vita, di quelle storie di cui ti volevi fare testimone, custode, attraverso la parola di quel Creato nebroideo popolato di pastori, contadini, carbonai, carrettieri, autentici plasmatori di forme e sapori. Ricordo ancora l’interesse consapevole con cui apprezzavi le forme dell’umano creare: un canestro di olivastro e giunco, un bùmbulu di calda terracotta, una fascedda di ricotta profumata sapevano strapparti il più sincero e vivido interesse. A me lasciavano il privilegio di aver potuto assistere alla tua meraviglia di siciliano mai stanco di conoscere la sua terra. Nel raccoglimento creativo che inevitabilmente seguiva, nella tua casa di Sant’Agata o dalla distanza di Milano, trasferivi al linguaggio la dimensione umana e culturale sperimentata nei nostri pellegrinaggi su e giù per la Sicilia di allora. Alla lingua, più che a ogni altra cosa, spettava il compito di far riaffiorare la stratificazione culturale, le incrostazioni di cui la storia e gli avvicendamenti dei popoli hanno segnato la nostra isola. Ripercorrendo i tuoi scritti, mi soffermo di frequente su questo passo:
Azzurro,
giallo,
rosso.
Mi regalò mio padre tre cristalli,
mia madre tre nastri variopinti.
Mi dissero partendo:
Muoviti, figlio,
agita il ventre,
danza a campo raso,
nella luce piena.
È fredda l’ombra,
immobile serpente,
lunga la notte dentro la foresta.
(Lunaria, 1985, pag.19)
E penso alla musicalità, al canto della tua lingua, alla gioia, ingrediente mai riconosciuto sufficientemente della tua opera. E come non ricordarla, la gioia, quell’emozione densa di stupore con cui accoglievi e raccoglievi ogni nuova trovatura, ogni nuova scoperta che ti disvelasse una pagina della nostra comune storia di siciliani. La stessa gioia meravigliata che ti colse bambino di fronte alla rivelazione di nuovi linguaggi:
“[…], fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero.”
(Le pietre di Pantalica, 1990, pag. 151)
Gioia, nella tua scrittura, era il dispiegarsi pieno e ricco del linguaggio e della sua policromia, gioia era il far risuonare tra le pagine l’eco di parole antiche ma vive, antidoto alla perdita di senso, allo svuotamento, all’oblìo:
“Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha rόso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.”
(Retablo, 1990, pag.1 )

“ che Calasia ”.

Claudio Masetta Milone

foto di Gino Fabio

La Sicilia comasca di Consolo nei “Meridiani”

Di Lorenzo Morandotti

Nei “Meridiani” di Mondadori è approdata, a cura e con un saggio di Gianni Turchetta e con un testo introduttivo del filologo Cesare Segre, l’opera letteraria dello scrittore Vincenzo Consolo, molto legato al Lario. “Voglio subito enunciare un giudizio complessivo – esordisce Segre – Consolo è stato il maggior scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa ha turbato tutto il quadro della narrativa del nostro Paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile”.

Pubblichiamo qui il testo integrale dell’intervista al maestro di Sant’Agata di Militello, scomparso nel 2012, apparsa sul nostro giornale il 19 novembre 1997. Consolo era assiduo frequentatore del Lario. Nel 1993, fresco vincitore dello Strega, nella sala del comune di Albavilla, aveva presentato con il giornalista Lorenzo Morandotti del “Corriere di Como” il suo romanzo “Nottetempo casa per casa”. L’autore dell’articolo-intervista a Consolo, Dario Campione, così commenta oggi sul suo blog: “Ho ritrovato parole sorprendentemente attuali, a testimonianza del fatto che i grandi temi restano sempre sullo sfondo della vita degli uomini, sono il loro palcoscenico naturale. Rileggere Consolo a 20 anni di distanza dà la misura della sua grandezza di scrittore e di osservatore della realtà italiana”.

Vincenzo Consolo in Altolago nella chiesa di San Giacomo di Livo

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo ha instaurato un intenso rapporto con il territorio altolariano. In uno dei suoi libri più fortunati, Retablo, si parla diffusamente di Gravedona e delle Tre Pievi, terra di emigrazione (dal Cinquecento all’Ottocento) verso Palermo e la Sicilia. Eccone anche per darne un saggio della ricca prosa di Consolo, una citazione dal romanzo, che ritroviamo anche nel “Meridiano” pubblicato da Mondadori: “Con gran sorpresa riconobbi, sulla soglia di una botteghella, un uomo della terra di Stazzona, ove la mia famiglia possedea cascine e campi, e una casa in cui s’andava nell’estate e ancora vanno di tempo in tempo i miei parenti (…) Mi mostrò orgoglioso la sua bottega di panniere. ben avviata, fiorente, pur nel poco tempo in cui si dimorava qui in Palermo.”
Sempre più frequenti sono state, negli ultimi anni, le sue visite sul Lago di Como. In Retablo il protagonista, il pittore Fabrizio Clerici, compie un viaggio dalla Lombardia alla Sicilia. È anche il libro con il quale lei si è legato al territorio lariano. Come è nata l’idea del romanzo?

«Retablo è innanzitutto un omaggio alla letteratura, al Manzoni, rievocato attraverso il personaggio di Teresa Blasco, ma anche nel figlio del mercante gravedonese emigrato in Sicilia, che il Clerici incontra a Palermo, proprio nell’ultimo capitolo, nel momento in cui abbandona l’isola. Quel ragazzo si chiama Lorenzo e manda, attraverso il pittore, un paio di orecchini alla sua fidanzata, Lucia. Il romanzo contiene anche un omaggio al grande Cervantes attraverso il gioco del Retablo, riflessione sull’inganno necessario, l’inganno della poesia. Una società privata della poesia è una società che impazzisce, una società che si aliena. Sino a quando coltiviamo la memoria non correremo questo rischio. Se perdiamo la poesia perdiamo la memoria e quindi siamo veramente destinati alla follia della storia. E sappiamo a quali disastri, a quali orrori può condurci la follia della storia».
Che cosa l’ha colpita dell’Alto Lago, al punto da eleggerlo a luogo letterario?
«L’estremità di questi luoghi, questo Nord profondo che si incontra con la Sicilia grazie all’emigrazione. Credo che l’emigrazione sia veramente il cammino delle civiltà. Tutte le grandi civiltà si sono infatti formate attraverso le emigrazioni, a partire da quella greca. L’Altolago è un luogo della memoria, come dimostrano ad esempio i tanti oggetti sacri che la “Nazione Lombarda”, insediatasi nella Palermo del Seicento e del Settecento, mandava al luogo di origine, e che ancora oggi sono conservati nelle chiese. La memoria spesso si perde, viene cancellata. Sull’emigrazione lombarda in Sicilia sono state pubblicate parecchie ricerche, lavori meritori perché spiegano il fenomeno e ne dimensionano la portata. Sono le stesse ricerche di cui anch’io mi sono servito. Soltanto la letteratura, il romanzo, è però in grado di assegnare un significato alla storia, a dargli poesia. La letteratura scava nel profondo e restituisce ai fenomeni storici il loro senso più vero e profondo».
Si è mai chiesto perché si emigra?
«Tutte le emigrazioni sono sempre dovute a necessità economiche. Credo che la stessa cosa sia successa in quel lontano Seicento agli uomini delle Tre Pievi, quando per ragioni di carestia e di fame sono arrivati a Palermo, in questa grande capitale che allora era una sorta di crocevia del mondo. Da lì infatti passavano tutte le navi dirette a Oriente o verso le coste africane. Era una metropoli ricca, dove grande era anche la vitalità culturale ed economica. I valori in cui ci si riconosce, nell’emigrazione, sono quelli dell’onestà, della probità, del lavoro, della tolleranza, i valori della solidarietà. Questi lombardi, questi emigrati comaschi, proprio perché avevano questo senso dell’onestà del lavoro, del lavoro fatto bene – erano degli artigiani provetti – trovarono a Palermo la loro dimensione, il loro destino. Queste famiglie esistono ancora, oggi il più importante gioielliere di Palermo si chiama Barraja, ma si possono fare tantissimi altri esempi. Hanno trovato tolleranza, perché a Palermo, in quegli anni, c’era, proprio per eredità culturale, tolleranza e solidarietà per chi veniva da fuori, e hanno saputo con il loro lavoro, con la loro sapienza artigianale, con la loro probità, trovare lì, in questo luogo così lontano e così diverso da quelli che avevano lasciato, una nuova identità, un nuovo futuro e, in definitiva, il loro destino».
Perché la metafora del viaggio è così importante per gli scrittori di ogni epoca e di ogni tradizione culturale?
«Viaggiare per scoprire i luoghi in cui i propri antenati sono emigrati, ad esempio, è un fatto di memoria, è un modo di difendere la propria identità. Oggi una diversa organizzazione del mondo, l’esplosione della cosiddetta rivoluzione tecnologica, l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, tendono a cancellare la nostra memoria, la nostra identità, e quindi a farci vivere in un presente infinito dove non riusciamo a immaginare neanche il futuro più prossimo. Credo che l’impegno di ciascuno di noi debba essere quello di conservare la memoria di tutto quanto ci ha preceduto e quindi: consapevolezza del presente e progettazione del futuro. Non facciamoci ridurre a oggetti, cerchiamo di rimanere soggetti della nostra vita e della nostra storia».
I suoi libri sono considerati difficili, il linguaggio in cui lei si esprime è volutamente colto, a volte caratterizzato da arcaismi e locuzioni dialettali. Da dove nasce questo modo di scrivere?
«Il mio linguaggio scaturisce da uno scavo profondo in un giacimento prezioso, di cui non ho alcun merito. È il giacimento linguistico lasciato da tutte le civiltà che sono passate nella mia terra. Scavando in questo patrimonio ho cercato di immettere in circolo parole sepolte dall’oblio. Fra queste lingue preziose, tra questi reperti lessicali, che vanno dal greco al latino, all’arabo, allo spagnolo, una lingua particolarmente importante per me è stata l’antico lombardo, che si parlava nella pianura padana intorno all’800 dopo Cristo. Quando i Lombardi, dopo essere venuti in Sicilia con i Normanni per cacciare gli Arabi dall’isola, decisero di insediarvisi definitivamente, formarono delle colonie linguistiche (su questa Lombardia siciliana ha molto fantasticato e mitizzato uno scrittore come Vittorini: inConversazione in Sicilia c’è infatti la figura del “Gran Lombardo”). Ho adottato questa lingua, che è un medio-latino, o gallico che dir si voglia, proprio come estremità linguistica, da cui partire per giungere poi alla lingua della comunicazione».
Non le sembra a volte di esagerare, di tentare un gioco estremo, di correre il rischio di cedere di fronte al fascino della forma?
«La mia lingua letteraria non è usata soltanto per un gioco formale. Sono nato vicino ad una di queste isole linguistiche, San Fratello, dove il medio-latino gallico si è conservato integro. I sanfratellani, proprio perché parlavano una lingua diversa (e avevano di conseguenza usi e costumi differenti) erano oggetto di critica, di dileggio, qualche volta anche di beffa».
A questa sua sperimentazione assegna un significato particolare?
«Investe tutto il significato della mia ricerca. Mi sono posto subito, sin dal mio primo gesto di scrittore, su una linea “sperimentale”, non ho cioè adottato il codice linguistico della comunicazione, ma quello dell’espressione, situandomi così su una linea che parte da lontano, da Verga, e poi, in tempi più recenti, passa attraverso Gadda e Pasolini. Ho conosciuto un mondo che adesso è scomparso, quello della cultura contadina, ed ho assistito alla grande trasformazione italiana, cioè alla cancellazione di questa cultura contadina e all’avvento di quella industriale. Credo che in Europa nessun paese come l’Italia abbia vissuto una trasformazione così rapida e profonda. Ciò ha messo in crisi parecchi scrittori. Pasolini, ad esempio cerca disperatamente di raccontare questa grande trasformazione. Nel momento in cui ho cominciato a scrivere si concludeva anche una stagione importante, nella letteratura come nel cinema: il neorealismo. Scrittori come Pratolini o Carlo Levi (e nel cinema registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica) con grande generosità avevano immaginato, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una nuova società, e si erano quindi espressi in un linguaggio di estrema comunicazione, credendo così di poter ricostruire la realtà dalle macerie in cui era stata ridotta».
Ma il suo mestiere di scrittore nasce da un’esigenza di raccontare la società italiana o di trasformarla? Si tratta insomma di una scelta stilistica o di una scelta politica?
«Credo entrambe. L’Italia non ha mai avuto una società coesa proprio perché non si è mai affermata, nel nostro Paese, una lingua comune. Il problema della lingua è stato agitato da parecchi scrittori della nostra letteratura: Leopardi, ad esempio, guarda oltralpe, afferma che il francese tende all’unità, è una lingua che si è geometrizzata a partire dall’epoca di Luigi XIV, mentre in Italia esistono un’infinità di lingue. La Francia ha “perso l’infinito” che aveva in origine, mentre l’Italia lo ha mantenuto, ha mantenuto cioè la possibilità di alimentare la propria lingua attraverso l’apporto delle parlate popolari, dei dialetti. Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, porta come esempio di possibilità infinita di orchestrazione dell’Italiano uno scrittore del Seicento, Daniello Bartoli. Bartoli era un gesuita, autore di una straordinaria Storia della Compagnia di Gesù, un’opera usata come pretesto per descrivere luoghi esotici, lontani, e in particolare l’estremo oriente e la Cina. Non è un caso che il padre del romanzo italiano, Alessandro Manzoni, nel momento in cui, con un gesto di generosità civile, cerca di dare una lingua agli italiani “sciacquando i panni in Arno”, “attacchi” il suo grande romanzo parodiando proprio Bartoli. “Quel ramo del lago di Como” non è altro che la mimesi, la scimmiottatura di una descrizione della Cina del Bartoli. Per quanto mi riguarda, rinunzierei a quello che Leopardi chiama l’infinito che c’è e c’è stato nella nostra lingua, pur di avere una società dove tutti possano comunicare in un’unica lingua della verità e della giustizia».

Corriere di Como 14 Aprile 2016