Nottetempo, casa per casa

Sì, che bisogna scappare, nascondersi. Che bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati.

A cerchi, ad ellissi, avanzano, ad onde avvolgenti, nella notte isterica, le trombe stridule. II respiro, mòzzalo. Sfiorano
a parabola – lacera la curva le libre – declinano, a corno svaniscono, schiere di cherubini opachi («Toh, sfaccime, toh!.,.»), le bùccine d’acciaio, feroci.

Sul blu’ in diagonale, in vortice di dramma, le mani tra i capelli sulle guance, virano, cabrano, picchiano, occhi a fessura,

piccole animelle colombine, agli Scrovegni. Aggelati nel Giudizio, fermi nel cerchio d’oro della testa… << Per San Michele, tu dal nulla generi la colpa!».

E qui, in questa muffa d’angolo… Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con sirene lame della notte. Perchè il silenzio, la pausa ti morde.

Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. <<…La rabbia resa spietata da una

lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il tirnor di mancare a un’aspettativa generale…; il tirnor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. Ma tu aspetta, fa’ piano. Deponi le mutrie, gli orpelli, i giochi insensati d’ogni giorno, lascia scolare nelle fogne la miseria, concentra la tua mente: sii uomo per un attimo.

Poggia il tuo piede qui, su questa tela, entra, fissa la scena: in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe. Esci, esci, se puoi, dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda dal corpo in prospettiva, mantegnesco. L’uomo è caduto su punte di cristallo.

Mart! Cam t’affuoddi stumatin

Chi t’arcuogghi u garafu ‘ntra u sa giggh! (1)

Le buro-barecrazie innalzano poi barriere, muri, labirinti. E dalle pietre del forte, stella di terrore, il soave mattaccino murato vivo (hanno fermato il piede che disegna per l’aria libere buffe spirali) urla nella notte: <<.,,Questa  nostra lenta agonia che è già morte civile… ». E l’urlo rimbalza di casa in casa, per scaloni di porfido, cortine di damasco, su per ciscranne, podi, teche opalescenti.
«Che si laccia tacere!» gridano, alzando sulle teste manti, pluviali,

cappe, palandre d’ermellino.

Ma vi fu un tempo idillii. Tempo d’arie e d’acque, di erbe e d’animali, di baite romite, masi. Luce in ritmi, equilibri, scomposizioni, essenze: vuoto bianco e schiene di purezza, braccia. Cattedrali d’aria vagano per luci di granato, smeraldine, martire impalato e fraticello matto invetrati (…per sora acqua e frate sole…), illusioni a suoni flautati di canne gotiche e ghirigorì barocchi di fumi orientali. Tempo di tessere smaltate, di giochi bizantini, veloci impasti,

guizzicromie su fresche scialbature, segni, graffi su mollezze caglianti.

E tempo di maestri. Punto e linea, luce ferma. Oltre la greppia euclidea, fughe, profondità, aggetti.

Del chierico diafano non t’inganni la sua luce di febbre: il sacco copre croste, piaghe, sozzure, orgogli. Schizofrenia gli cela il flusso degli eventi, condizioni coatte. Estraneo alla dimora della famiglia dei polli.

ln stie sotterranee, tra fumi d’arsenico e scoli di cianuro, per il mio e il tuo, beccano il vuoto tondo dilatato ebete occhio, segano vene, tendini, polpe. In ciclo di crusca e sterco, crusca e sterco. Sfiora il tao ventre ora, dallo sterno al punto del cordone, con dita ferme: senti la stimma del tuo gastrosegato, la tacca per la fuga della bile. E qui, dove le fughe? In pesi squilibrati di colori, in dissonanze, chiusure dimensionali. In trittici distorti ti rifiuto la tua crusca e il mio sterco. A te, dalla razza degli angeli!

Ma all’estremo della notte, già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli.

Viene fuori l’eretico, prendetelo! Caricatelo di catene e mùffole, di torcia, di mitra e sambenito, stringetegli al collo la corda di ginestra.

E nell’immensa piazza, grida il capitano: «Vivo abrugiato, le sue ceneri al vento siano sparse ».

Vincenzo Consolo

(1) «Morte! Come t’affolli stamattina – A coglierti il garofano dal suo calice!».
postille al margine “nasce 1971 in Il sorriso pa,103-105 cap. VII-1976 modificato”
dal catalogo della mostra di Luciano Gussoni
Villa Reale di Monza 10 novembre – 30 novembre 1971


Barecrazie 71
Volo da una finestra 1°
Luciano Gussoni

La vedova Pinelli all’Ora , Voglio la verità, non solo per me.

La vedova Pinelli all’ORA

«  Voglio la verità, non solo per me »

Emozionante incontro a Milano con la moglie dell’operaio vittima della violenza di stato.

VINCENZO CONSOLO

ODIO?  Sì, come allora, come dal primo momento. Solo che oggi, dopo due anni, questo sentimento si è come solidificato, giù in fondo. Oggi sono in grado di pensare, di ragionare.

La verità? Badi: non voglio la verità solo per me, per quello che riguarda me, sulla fine di Pino, sui responsabili materiali della sua morte. – Cosa conta, in fatti come questi, una mano che spinge o un dito che preme il  grilletto? Oggi voglio l’altra verità, quella che dovrebbero volere i parenti dei morti di Piazza Fontana, i parenti di Valpreda, di Saltarelli, la verità che vuole lei, chiunque, ognuno che ha coscienza dei propri diritti, della propria libertà. Questo sono riuscita a capire, dopo i primi momenti personali di dolore furioso, di odio …

Acuta, attenta diffidente, astuta abile. Imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime, ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto l’improvviso un punto fermo su cui può poggiare una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata: è la Giustizia. La giustizia vera come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose.

Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, è una madre. La capisco. Una madre nella Sicilia del ’55. Che altro poteva fare se non pietrificarsi, non avere speranza, credere  nell’ingiustizia che è nelle cose come destino, come fatalità? Ma da allora ne è passato del tempo, tante cose sono successe, e io non sono una madre contadina, sono stata la compagna di un operaio anarchico, figlia di un operaio anarchico, e qui siamo a Milano. Io credo, nonostante tutto voglio credere nella giustizia ufficiale. Lotto e credo in tutti i compagni che lottano perché sia fatta luce in questo fatto oscuro, perché quella giustizia sia tale di nome e di fatto.

«  Mi spingerò ad un paradosso, che può anche essere una previsione: la  sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere , e sarà quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più non c’è mai stato. »

  1. NO. Non voglio credere nell’amministrazione della giustizia fatta in questo modo. La giustizia è amministrata da uomini secondo determinate leggi, in un determinato paese, in un determinato momento storico. E questi uomini che amministrano la giustizia, come tutti gli uomini, possono restare uomini, con la loro intelligenza, con la loro ragione, con le loro idee, oppure alienarsi per paura o calcolo, alienarsi nei gesti ripetitivi come un medico alienato, un ingegnere alienato, un operaio alienato.

Ha detto: qualunque fatto sia avvenuto in quella stanza ci sono delle responsabilità morali. E ha detto ancora di averlo considerato un dovere morale. Il suo esposto presentato il 24 giugno scorso al Procuratore Generale Bianchi D’Espinosa. Lei è fra i pochi a parlare ancora di moralità al di sopra dei meccanismi giuridici delle prove, testimonianze, perizie al di sopra delle parti, delle fazioni, degli schieramenti ideologici. Lei parla di moralità, cioè di quella tensione  a una coerenza  tra valori e comportamento, come dice Franco Fortini , in un mondo in cui ormai quasi tutti hanno perso il senso dei valori e coscientemente li calpestano: in un mondo in cui quasi tutti tendono ad una coerenza tra vilta e comportamento, menzogna o comportamento, paura, furbizia, opportunismo, impostura e comportamento, violenza e comportamento. In questo mondo di  immorali o nel migliore dei casi di moralisti, lei parla di morale: che cos’è questa cosa in cui crede ancora?

Ho imparato da mio padre e da Pino e anche dalla vita, dai libri, che gli uomini migliori, gli uomini sono quelli che hanno una fede. Fede nei principi di una religione o fede nei valori umani, assoluti, che possono diventare ideologia pratica politica. Ora, quando si calpestano i principi religiosi, si risponde davanti a Dio, e quando si calpestano i valori umani si calpesta nella nostra coscienza, in privato, e a tutti in pubblico. Questa è moralità: sacra fede nei principi, nei valori assoluti, e agire di conseguenza.
Mentre parla, Licia Pinelli, composta, ferma con gesti appena accennati ti fissa con i suoi occhi acuti, intelligenti a scrutare se intendi le sue parole, se ne cogli il senso vero. Ha un bel viso chiaro, un lieve gentile sorriso sulle labbra.                                                                    E’ una donna di alta dignità, una di quelle persone rare oggi da incontrare, in cui  ti colpisce subito l’equilibrio, la saggezza, la verità, il rigore, che intuisci frutti  di sacrifici, di dolori, di avversità quotidiane coraggiosamente sofferte e superate. Una donna che in due anni,da quando per fatalità è diventata una dei protagonisti di uno dei fatti più tragici e oscuri della nostra vita nazionale di questi anni, non ha sbagliato una volta, non ha concesso niente, ha difeso con tutte le sue forze la memoria del marito, la vita privata sua e quella delle sue bambine, una vita vera, umile, tranquilla. Un esempio, in questi nostri tempi, contrassegnati dal plateale e dallo sbracato.
Sapevo che sarebbe stato difficile essere ricevuto da lei, incontrarla soprattutto in questi giorni di anniversario dei fatti del dicembre ’69. Presentato però da Camilla Cederna e conosciuto il giornale per cui avrei scritto, si è detta ben felice di vedermi.

Ed è un pomeriggio che mi avvio verso quel quartiere di case popolari, tutte uguali, tutte dipinte di rosa, nocciola o verdino, case senza balconi, con strette finestre sul cui davanzale sono allineati vasi avvolti in fogli di giornale e di plastica  per difendere le piantine dal gelo: cortine di cemento in prospettiva che aprano la visione, in fondo, di altre strade, di altre case sempre uguali e ogni tanto di spiazzi con alberelli neri e spogli, rada erba gelata, baracconi di legna, al centro con su scritto spaccio comunale. E’ una splendida giornata di sole, un cielo insolitamente limpido e azzurro. Ma l’aria è fredda, gelata. Il silenzio che c’è per queste strade, in questo primo pomeriggio di Festa, i rari passanti, la luce cristallina che scopre e squadra ogni cosa, rendono ancora più desolato questo quartiere tra Baggio e San Siro. Nell’atrio di ogni portineria per cui si passa nei cortili interni, dove si allineano le varie scale A,B,C, D, ecc, vi è sempre al muro una lapide con su una corona di foglie appassite per la libertà e il nastro tricolore stinto

«A Luigi Mariani, caduto per la Libertà. Milano Febbraio 1943. ».  « A Ezio Meregalli…» agli operai morti della Resistenza  sono dedicati questi complessi di case popolari.

Al numero 3 di Via Morgantini, la portinaia mi dice:  « Scala B, primo piano». E ora sono qui, nella casa di Licia Rognini, vedova di Giuseppe Pinelli, una casa di tre minuscoli vani più i servizi, la casa in cui abita da due anni, dopo aver lasciata quella di Via Preneste, qui a due passi, assieme all’anziana madre e alle due bambine, Silvia e Claudia, di 11 e 10 anni. Siamo seduti attorno al tavolo della stanza che fa da pranzo e soggiorno, dove i mobili quasi non esistono, e dove li colpiscono i libri, la gran quantità di libri che, in bell’ordine su alti scaffali, tappezzano interamente due pareti. E poi c’è al muro qualche quadro, una composizione di immagini al cui centro campeggia Lenin, e un altro, una bella visione di campagna lombarda sotto un cielo scuro, plumbeo, al centro una strada ed un corteo di uomini che vanno con bandiere rosse e nere.

«E’ il funerale di  Pino», mi spiega la signora Licia.

« L’ha fatto Franco Fortini, lo scrittore, e ce lo ha regalato» poi vi sono appese al muro delle maschere africane.

« Quelle ce le ha portate Minud » dice. Minud

È un giovane algerino bianco, un compagno di Pino, alto, magro, vestito di nero, con capelli e barbetta riccioluti e biondi, che al mio arrivo, avevo trovato là e che ora è in cucina, arrampicato ad una scala che batte e attacca chiodi alla parete, aggiusta cose che si erano rotte, fa quei piccoli lavori di casa che si fanno solo nei pomeriggi di festa, che gli altri giorni non c’è tempo, si lavora,si corre.

Dalla stanza attigua vengono le voci delle due bambine che finiti i compiti, ora si agitano, scalpitano. Va di là la nonna a sorvegliarle. La signora Licia mi offe un liquore dolce al caffè che fanno dalle sue parti nelle Marche.

Mi ricordo di avere con me un regalo per le bambine e tiro fuori dal borsone nero l’angelo di terracotta smaltata di bianco, uno di questi <<pupi>> che fanno in una delle fornaci di Santo Stefano di Camastra, un buffo angelo che somiglia ad una damina dell’ottocento e che i contadini mettevano una volta per bellezza sul comò. Le due bambine irrompono. Dall’altra stanza e lo accolgono con grandi feste e se lo contendono. Sono due belle bambine. La grande, vivace, spigliata, mi dice che vorrà diventare maestra e poi andare all’accademia di arte drammatica. La piccola, con gli occhiali e posata, riflessiva. Poi vogliono dalla madre cento lire per una e scappano giù, nel cortiletto a giocare.

Hanno preso coscienza

Sì, subito. Glielo ho detto subito. Dovevo essere io a farlo, nel modo più giusto, prima che altri, le compagne di scuola, la gente, i giornali, non so….

Si alza, apre un cassetto e prende un album. Mi fa vedere un disegno e una lettera. Il disegno è di Claudia, la piccola. Su un foglietto di quaderno a quadretti ha disegnato coi pastelli una bambina con un mazzo di fiori in mano accanto a una tomba che assomiglia ad una casetta e al  centro, in un riquadro, c’è il viso di un uomo sorridente. Sulla tomba c’è scritto: « Giuseppe Pino Pinelli», e in alto al margine del foglio : «16 dicembre. Oggi è morto il mio papà» La lettera di Silvia, la grande, di quattro pagine fitte di quaderno, è agghiacciante. E non posso riferirne il contenuto, perché così ho promesso alla signora Licia. Solo questa frase, e penso di non offenderle:  «La mamma non ha pianto».

E poi parliamo d’altro, di tante cose, di Pino, di lei, di quando si sono incontrati, al corso di esperanto, e, fidanzatisi, della promessa che si erano fatti di non spendere soldi per cose inutili, per il cinema, teatro, per ogni divertimento, di spendere i soldi solo per i libri, di leggerli, discuterli assieme. E ha parlato dell’allegria di Pino, dell’entusiasmo, della generosità, della sua curiosità intellettuale. Mi dice che il padre di Pino, suo suocero, è nato in Sicilia, che parla ancora in siciliano, che ha tutte le caratteristiche siciliane, la generosità … che si comporta come un signore siciliano. E’ nato a Caltanisetta da madre nissena e padre piemontese, in quella città come capostazione.

Dico alla signora Licia, che da quelle parti, nel cuore della Sicilia, da famiglie di ferrovieri altra gente meravigliosa è venuta fuori: Vittorini, Quasimodo …

Oh. Vittorini. A Pino sarebbe piaciuto conoscerlo.

E, sono sicuro anche a Vittorini sarebbe piaciuto conoscere Pinelli. E conoscere anche lei signora, donna del mondo operaio milanese, donna forte, razionale, coraggiosa … Come quelle che  ha immaginato nei suoi libri, ne  «Il Sempione », in «Uomini e lupi».
E parliamo degli anarchici . Di quelli vecchi e di quelli nuovi, parliamo di Paolo Schicchi l’avventuroso anarchico di Collesano, di cui Pino conservava  gli scritti e la signora Licia me ne fa vedere uno “ Osservazioni sul socialismo”, edito a Palermo nel 1945.

E parliamo ancora del mondo d’oggi, del consumismo, dell’alienazione, della follia dilagante, della gente che non si capisce più. E lei disse che anche quelli che dovrebbero restare uniti, capirsi, anche loro non fanno che polemizzare, separarsi. E mentre siamo qui, lei e io a parlare, si svolge al teatro Lirico la grande manifestazione dal tema  « Tutta la verità sui tragici e oscuri fatti di Milano» e in città non è che un correre. Di notizie, di voci, tutto un congetturare  sulle manifestazioni di domani, domenica, dai cortei, comizi dei vari gruppi, movimenti, comitati, partiti, ognuno in un posto diverso della città: della questura che ha rifiutato i permessi per i cortei e non si sa come andrà a finire. E ognuno di questi gruppi ha invitato la signora Pinelli a partecipare alla propria manifestazione e lei saggiamente ha risposto di no a tutti, se ne sta in casa: Ha mandato a tutti una lettera che mi fa leggere. Dice:

« Agli anarchici milanesi – A Avanguardia Operaia – A Lotta Continua – Al Manifesto – Al Movimento Studentesco – Università Statale – Al Club Turati » Organizzatore della manifestazione dell’11 dicembre al «Lirico »

Cari Compagni.

In questi giorni che ricordano non solo il mio dolore ma anche l’inizio di un periodo che ancora continua di repressione contro i lavoratori e contro i democratici, mi sento vicino e solidale con tutte le forze che non accettano il silenzio e hanno il coraggio di lottare.

Bisogna dimostrare a tutti  in modo chiaro che Pino non si  è suicidato. E voglio ricordare le vittime innocenti della Banca dell’Agricoltura, uccise dal terrore fascista.

Fare giustizia vuol dire individuare finalmente i criminali e i mandanti della strage, liberare Valpreda innocente e non lasciare dimenticato l’assassinio dello studente Saverio Saltarelli.

Però credo con preoccupazione e paura che tutte le forze che condividono questa idea, non riescano a trovare l’uscita nemmeno in questi giorni.

Non chiedetemi di scegliere una delle manifestazioni; sappiate che sono con voi tutti e che anch’io lotto perché si sia uniti  e non al faciliti con le divisioni di gruppo, la strada del fascismo, specialmente di quello nuovo, che trova complici e mezzi dal potere economico e dentro l’apparato dello Stato.

Milano, dicembre 1971

Siamo come nel ’22, conclude accurata,  – la maggior parte della gente è impazzita e quelli che sono coscienti si dividono.

E’ già sera. Uscito dalla casa della Pinelli, per la strada, sento venire da un bar una voce diffusa da un televisore a tutto volume che scandisce: «De Martino, Fanfani, De Martino, Fanfani…» in una litania senza fine che da il sonno e l’oblio.

Nuclei di poliziotti   Sono sparsi per la città, a gruppi di cinque, dieci, come in libera uscita.

Penso a Licia Pinelli e penso ad un’altra donna milanese, una popolana, di cui non si sa niente, ma che a me piace immaginare tale e quale alla Pinelli, nelle fattezze, nel carattere, nella vera intensa umanità.

E’ la moglie di Gian Giacomo Mora, il povero barbiere padre di quattro figli, che, durante la peste di Milano del 1610, fu sacrificato alla paura e alla follia collettiva.

C’è a Milano una viuzza intitolata al Mora, nell’antica zona di Porta Ticinese, quella in cui nacque Giuseppe Pinelli, vicino alla via Scaldasole, da dove la sera del 12 dicembre 1969, due ore dopo la strage di Piazza Fontana, il povero ferroviere anarchico fu prelevato da Calabresi e  Panteca e condotto alla Questura di via Fatebenefratelli. Da lì non sarebbe più uscito vivo.

In codesta via Gian Giacomo Mora, che parte da Cesare Correnti e arriva in piazza Volta, sarà stata issata, per come stabiliva la sentenza, la famosa «collana infame». Infamia certo – come poi hanno fatto sapere il Verri e il Manzoni non per l’innocente Mora, ma infamia per la gente che lo accusò, per quella che tacque per viltà, infamia per gli sbirri che lo prelevarono a casa, infamia per quei giudici che lo fecero torturare e uccidere.

Milano 12 dicembre 1971.

CONVERSAZIONE CON SCIASCIA OVVERO IL VIZIO SEGRETO DI SCRIVERE… E LEGGERE

Un giorno d’inverno in libreria a Milano

di VINCENZO CONSOLO*
18 gennaio 1969

Ama molto camminare a piedi. Dal suo solito albergo vicino la stazione scendiamo verso il centro. Alla Libreria Internazionale Cavour facciamo il giro delle tre vetrine cariche di libri. Libri, libri. Ed essendo periodo di «strenne», vi sono vecchi titoli ristampati e riproposti in nuove e lussuose confezioni come fossero panettoni raffermi rinforzati, scatole di dolci scadenti in involucri preziosi e accattivanti. Libri sui vini, sulle automobili, sui fiori, guide gastronomiche, guide ai piaceri di Londra e di New York, guide al raggiungimento delle perfette intese sessuali. Proseguiamo per via Manzoni. Parliamo dello scrivere e del non scrivere.
«Che fai, lavori, Leonardo?».
«Vorrei scrivere tre o quattro cose ancora, prima di smettere (o di morire: ma spero di arrivare a smettere per avere il tempo di prepararmi a morire). Ma c’è qualcosa nell’aria che, si direbbe a Napoli, ti fa cadere la penna di mano; e in Sicilia specialmente. Scrivere è ora una lotta non solo con la realtà ma con me stesso. Forse il successo che i miei libri hanno avuto, mentre le condizioni della Sicilia peggiorano al punto che poco più è morte, ha creato in me uno stato d’animo che somiglia alla vergogna e al rimorso. Avendo concepito lo scrivere come azione, sconfitto nell’azione sento come una forma d’irrisione il successo in “letteratura”. Ma scrivere è la mia vocazione e il mio mestiere: e continuerò a scrivere anche se tutte le ragioni per cui ho scritto ora si rivoltano a non farmi scrivere». Alla Libreria Einaudi, in Galleria, il direttore Aldrovandi ci accoglie come vecchi amici. Ci chiede di Attilio. Attilio Mangano è un giovane siciliano di Palermo che, avendo fatto una interessante tesi su Vittorini, era stato chiamato da Einaudi e messo qui, in libreria, a fare il commesso. Un giorno – fui spettatore – entrarono nel negozio due ragazze e chiesero ad Attilio ventidue romanzi che fossero divertenti, un po’ «spinti» senza essere «eccitanti». Aiutai Attilio a scegliere i titoli. «Scusate. Per chi servono?».
«Per una squadra di calcio in ritiro. Gli undici giocatori e le riserve».
Attilio lasciò la libreria e tornò in Sicilia. Ora è di nuovo qui a Milano e insegna in un ginnasio.
Entrano giovani barbuti e con mantelli, ragazze con lunghissimi cappotti e occhialoni alla clown, e chiedono Marcuse e le opere del «Che», la «Monthly Review» e i «Quaderni Piacentini». Ma entrano anche persone, meno giovani, che chiedono «tutto Pavese», Le confessioni di Nat Turner e A ciascuno il suo.
«La crisi del romanzo non esiste se non dentro quella che direi la generale crisi dello scrivere. Perché ci dovrebbe essere una particolare crisi del romanzo? Ancora c’è chi li sa scrivere; e moltissimi sono quelli che sanno leggerli, anche se nessuno, al disotto dei quarant’anni, è disposto ad ammettere che legge romanzi. La lettura dei libri di narrativa è diventata una specie di vizio segreto, da quando certi galantuomini che non ne sanno scrivere si danno da fare a lanciare la moda del non leggerli: “Non leggo più romanzi, leggo saggi”; come ieri si diceva “non leggo più poesie, leggo romanzi”. La verità è che leggiamo poesia e leggiamo romanzi: quando troviamo un buon poeta, un buon narratore. E in quanto ai saggi, se ne comprano certamente molti, ma direi che se ne leggono pochi».
Davanti alla bancarella di un siciliano, in piazza Matteotti, Sciascia mi parla dello stare nell’isola e dell’andarsene.
«Il mio stare in Sicilia non ha niente a che fare col dovere e col sacrificio, né ha comportato alcun rischio. Mi piace starci e ci sto: tutto qui. O meglio: finora mi è piaciuto starci. Comincio infatti a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: in parte perché mi sento, pirandellianamente, imprigionato nella forma di “quello che sta in Sicilia” (il che Vittorini mi prediceva quando io ero ancora lontano dal sentirne il disagio); in parte per ragioni più oggettive, che si posso no oggettivamente riassumere nella constatazione che fa il personaggio di un mio libro: che uscendo di casa incontri tutte le persone che non vorresti incontrare, e quasi mai quelle che ti piacerebbe incontrare».

* Questo articolo è stato scritto per L’Ora ed è raccolto nel libro “Esercizi di cronaca” (Sellerio editore)

Nella foto: Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo

Premio Zafferana Etnea 1968


Da sinistra: Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Vincenzo Consolo
foto Giovanna Borgese
*

La prima edizione del Premio, viene assegnato ad Elsa Morante per il libro “Il mondo salvato dai ragazzini”, ed. Einaudi ed ha luogo nel 1968.  Negli anni seguenti al 1968, il Premio, destinato ad autori italiani, assume la denominazione e le caratteristiche di un “Convegno – Premio Brancati -Zafferana” inteso anche a promuovere annualmente un dibattito critico su problemi di attualità socio-culturale.

 

PORTA ORIENTALE

“Incidono lo spazio,” si diceva, “sono una perentoria affermazione dell’esistenza”.

E li osservava, nelle loro linee nette, nel loro scuro cloisonnage  che li stagliava contro il fondo chiaro, nelle dure capigliature scolpite, nei colori forti, accesi delle loro facce. In contrasto, gli altri apparivano deboli, labili, indeterminati; i loro colori incerti sfumavano nel grigio chiaro dello sfondo, il pallore delle loro facce era come una nebulosa che svaniva verso l’inconsistenza. E concludeva, sintetizzando: “Nero e bianco: l’esistenza e l’inesistenza; la vita e la morte. Avviene nei popoli”, si diceva”quello che avviene nella vita di un uomo. Il nascere, cioè, il farsi giovane, maturo, vecchio e poi il morire. Ecco, noi ci stiamo avvicinando alla morte. Come m’avvicino io, sbiancando ogni giorno nei capelli, nella pelle, preludio a quel bianco definitivo che è la morte”.

Andava rimuginando questi pensieri (ma che pensieri?, larve d’idee, banali congetture, sensazioni; e ridicole anche: andare incautamente ad affogarsi nel periglioso mare dei popoli e delle razze), affogarsi in quei pensieri dettati da noia e malumore, passeggiando il tardo pomeriggio d’un sabato a Porta Venezia, o Porta Orientale, come la chiamò Manzoni, là dov’era il lazzaretto degli appestati. Il quartiere, quello di Porta Venezia, che più amava in quella grigia città ch’era diventata ormai Milano, e il più vero, al confronto dei noiosi e irritanti quartieri del centro, le strade della moda, della sartoria ridondante, o di quegli squallidi teatrini provinciali, di quell’affaristica organizzazione del divertimento di fine settimana che sono i quartieri di Brera o dei Navigli. Amava quella Porta Orientale, quel Corso Buenos Aires popolare, multietnico, quel quartiere lontano dagli infiniti cantieri edili, dalla Milano trionfante dell’Esposizione Universale, e lontana dai penosi quartieri periferici da dove si spazzano via come rifiuti umani gli zingari accampati. Era di giugno. Il sole tramontava dietro le trame degli ippocastani e dei tigli dei Giardini, arrossava il cielo terso. Ma dalla parte opposta, a oriente, nuvole nere erano squarciate da saette: si preparava il temporale della sera dopo la giornata di caldo appiccicoso. Lungo il Corso i negozi già abbassavano le saracinesche. Da via Castaldi e da via Palazzi sbucavano a gruppi gli eritrei, riservati e dignitosi, con le loro donne in veli bianchi. E frotte d’arabi, tunisini ed egiziani, allegri e chiassosi, ragazzotti con l’aria di libertà e di canagliesca innocenza come quella dei gitani. Solitari marocchini, immobili e  guardinghi, stavano con le loro cassette piene di paccottiglia d’orologi, occhiali, accendini, radioline, davanti a quei supermarket del cibo che si chiamano fast food. Davanti alle uscite della metro stavano invece gli africani della Costa d’Avorio o del Senegal con la loro mercanzia stesa a terra di collanine, anelli, bracciali, gazzelle, elefanti e maschere d’ebano, d’un marrone lucido come la loro pelle. In angoli appartati o dentro le gallerie, stavano in cerchio, a cinguettare come stormi d’uccelli sopra un ramo, donne e uomini filippini, cingalesi.

Da questa umanità intensamente colorata, si partiva poi tutta una gamma di bruno meridionale. Ed erano quelli dietro le bancarelle dei dolciumi “tipici”; erano famigliole di siciliani, calabresi, pugliesi, con i pacchi e le buste di plastica delle loro compere, che tornavano a casa o sostavano davanti alla gelateria per far prendere il cono ai loro bambini irrequieti.

Erano, i marciapiedi di Corso Buenos Aires, in quel tardo pomeriggio di sabato, tutta un’ondata di mediterraneità, di meridionalità, dentro cui egli s’immergeva e si crogiolava, con una sensazione di distensione, di riconciliazione. Lui che non era nato in quella nordica metropoli, lui trapiantato qui, come tanti, da un Sud dove la storia s’era conclusa, o come quegli africani, da una terra d’esistenza (o negazione d’esistenza) dove la storia è appena o non è ancora cominciata; lui che era di tante razze e che non apparteneva a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione araba, del seppellimento etiope, lui, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Si distendeva e crogiolava dentro quell’umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino. Ma dal nero africano, dal bruno meridionale, si arriva al biondo, chiaro scialbo. Erano gruppi di nordici che uscivano da gioiellerie e da boutique; erano frotte di lunari, astratti punk nei loro neri abiti, nelle loro criniere arancione e verde, nelle loro borchie, nei piercing e orecchini, aggressivi e fragili.

I nuvoloni avevano coperto tutto il cielo e si faceva buio; i lampi ora vicini anticipavano tuoni fragorosi. E improvvisa, violenta arrivò la pioggia. Rimbalzava a campanelle sul marciapiede e sulla lamiera delle auto. E subito si trasformò in grandine, fragorosa come una cascata di ghiaia. Ci fu un fuggi fuggi generale, un rifugiarsi sotto i balconi, negli androni dei palazzi, nelle gallerie, dentro la metro. Le automobili, sul Corso, erano ferme, incastrate a causa dei semafori guasti, e con clacson e trombe lanciavano un rabbioso, assordante urlo.

Tenendo il giornale sulla testa, corse in direzione di Porta Venezia, scantonò per via Palazzi. I bar erano pieni, pieni ristoranti e pizzerie. Più avanti, fu attratto da un’insegna in caratteri amharici e con sotto la traduzione italiana: “Ristorante eritreo”. Spinse la porta a vetri ed entrò. Subito s’accesero le luci e da dietro il bancone del bar sbucarono un uomo e una donna sorridenti che lo invitarono ad accomodarsi a uno dei tavoli.

– Vuole mangiare ? – gli chiese l’uomo.

– Vorrei prima asciugarmi. Mi porti intanto del vino.

Stese sulla spalliera d’una sedia il giornale che non aveva ancora letto, ridotto quasi a una pasta mucida. Ma per la verità leggeva di quel giornale, che comprava solo il sabato, le pagine dei libri. E quelle, all’interno, erano in qualche modo ancora leggibili.

Cominciarono ad arrivare eritrei, tutti zuppi come lui, e sorridenti. La sala si empiva a poco a poco. La donna era scomparsa in cucina; l’uomo, dietro il banco, lo teneva d’occhio. Gli fece cenno di venire. Gli consigliò il loro piatto tipico, lo zichinì. Era piccantissimo. Lacrimava, ma con quegli occhi addosso non osava smettere di mangiare o fare alcuna smorfia d’intolleranza. Mandava giù biccchieri colmi di vino. Alla fine aveva vampe in bocca, nello stomaco, e la testa gli girava per il vino. Gli eritrei, uomini e donne, ridevano con tutti i loro denti bianchissimi, ma non era in grado di capire se ridevano di lui. Anche loro mangiavano lo zichini, ma non usavano la forchetta, attingevano con le dita a un grande piatto comune posto al centro d’ogni tavolo. Si ricordò che anche così si usava in Sicilia nelle famiglie contadine. E gli venne di pensare che il Nord, il mondo industriale, era anche questo, la rottura della comunione, la separazione, la solitudine.

– Piccante ? – gli chiese l’uomo togliendogli il piatto, e gli sembrò che avesse un tono ironico.

– Un po’ – rispose, con sussiego. E si trovò subito ridicolo. Fumando si mise poi a leggere su quel giornale disastrato la recensione a un libro di grande successo, un best-seller, come si dice; la lesse senza interesse, senza attenzione, non capiva neanche  quello che vi si diceva. Bruciore per bruciore, continuò a bere, bevve fin quasi tutta la bottiglia.

Uscì che barcollava. Pioveva ancora. Si riparò la testa con quel residuo di giornale che gli restava. Sbucò in via Castaldi e lì ancora un’insegna esotica l’attrasse: Bar Cleopatra. Il locale era pieno di egiziani. Dal cd si diffondeva una di quelle nenie senza inizio e senza fine, dolcissime, strazianti, che hanno il ritmo delle carovane, il tono del deserto, nenie che sono la matrice d’ogni musica mediterranea, del cante jondo andaluso, dei canti dei carrettieri siciliani, delle serenate napoletane. Qualcuno degli egiziani cantava assieme al cantante del cd, altri tamburellavano con le dita sul piano del tavolino, un altro ballava, dondolando la testa dai capelli crespi. Ordinò un caffè. Che fu insufficiente a far svanire i fumi del vino. Gli egiziani bevevano tè scuro dentro bicchieri, fumavano. Parlavano fra loro a voce alta, con suoni gravi, gutturali e fortemente aspirati, spesso sghignazzavano. Erano meno riservati degli eritrei, più caciaroni, più scugnizzi.

Uno si accostò al suo tavolo.

– Piace muscica araba ? – gli chiese.

– Piace, piace tanto.

E, sedendosi al suo tavolo, cominciò a sciorinargli nomi di divi delle loro  canzoni, fra cui riuscì a distinguere solo quello della mitica Om Kalsoum. Gli chiese di fargli ascoltare Om Kalsoum. Appena s’udirono le prime note, andò a risedersi e smise di parlare, si chiuse nel silenzio, in religioso ascolto. Anche gli altri si fecero silenziosi e malinconici.

In quella, s’aprì di schianto la porta ed irruppero nella stanza tre poliziotti. Ordinarono a tutti d’alzarsi e, mani in alto, di mettersi con la faccia al muro. Egli rimase fermo al suo posto. Un poliziotto l’afferrò per un braccio e lo spinse contro il muro. Li perquisirono tutti, palpandoli da sotto le ascelle fino alle caviglie. Quindi chiesero a ognuno il passaporto.

– Non ce l’ho, – egli disse – ho la patente.

– La patente ? Tu guidi in Italia?

– E dove devo guidare ?

– Ma sei italiano ?

Gli venne voglia di gridargli, con voce profonfa, gutturale, “No, no, sono africano, sono arabo, sono ebreo, sono di tutte le razze, come te! “

– Fai vedere la patente.

Gliela mostrò e, ancor più vigliaccamente, gli mostrò quel tesserino dei Pubblicisti per cui s’appartiene, sia pure da sottufficiali, al magnifico Ordine dei Giornalisti. E il poliziotto, subito:

– Dotto’, a quest’ora di notte, per questi quartieri è assai pericoloso. Si faccia accompagnare almeno da un fotografo.

“Ecco,“ ritornando umiliato a casa”così difendiamo il nostro ultimo respiro, la nostra agonia, noi vecchi esangui. Ci illudiamo di sopravvivere difendendo il nostro benessere da ogni minima minaccia. Tutta questa nostra ricchezza sotto cui finiremo schiacciati, sepolti, bianchi e immobili  per sempre”.

                                                 Vincenzo Consolo Milano, 4 aprile 2008 

Milano settembre 1968

Prefazione al libro di Pino Di Silvestro “Le epigrafi di Leonardo Sciascia”

Nome dell’autore, titolo, dedica, introduzione, prefazione, postfazione, nota, epigrafe, e molt’altro, sono i «dintorni», più o meno prossimi, del testo letterario, sono quel paratesto che Gérard Genette chiama Soglie e che nell’omonimo saggio ampiamente analizza.

Le soglie, le cornici, autografe o allografe, che avvolgono o vestono la nudità del testo, sono state, secondo le epoche e le mode, più o meno ampie, ricche, qualche volta ampollose. Si pensi a titoli e sottotitoli lunghi, complessi, di opere per esempio che sinteticamente chiamiamo Robinson Crusoe o David Copperfield, si pensi alle dediche o alle lettere dedicatorie, esterne o interne al testo, che partono almeno da quella indirizzata a Mecenate nelle Georgiche e vanno fino a quelle per altri illustri mecenati come Ippolito e Alfonso d’Este, rispettivamente nell’Orlando e nella Gerusalemme, come il duca di Béjar nel Don Chisciotte, vanno fino alla breve « Per Ezra Pound – il miglior fabbro » ne La terra desolata, all’ermetica « a I.B. » ne Le occasioni; arrivano, le dediche, rare e significative, necessitate dal testo (non teniamo in conto quelle esortative e spesso patetiche apposte in molti libri d’oggi) fin nelle opere di due scrittori << illuministi>>, scarni e severi di come Calvino e Sciascia: in Calvino compare una dedica, ne  Il sentiero dei nidi di ragno e in Se una notte d’inverno un viaggiatore; in Sciascia, soltanto in Occhio di capra, avendo diversa collocazione e diverso senso altre due incorporate rispettivamente nella nota finale della Morte dell’inquisitore e nel titolo della Recitazione della controversia liparitana.

Rimanendo sulle soglie, al paratesto dell’opera di questi due scrittori, ultimi grandi testimoni e cronisti d’una fine, vicini nelle origini, nel terreno di coltura o cultura (la Firenze rinascimentale, il centro della lingua attica, della scrittura laica e limpida, della civile comunicazione, la Toscana rondista di Cecchi, Barilli, Savinio, l’acqua lustrale dell’Arno del Manzoni che, attraverso la Lombardia dei Verri e del Beccaria, portava oltralpe, alla Francia dei Lumi, alla lingua unica, geometrica ch’era espressione d’una formata e consolidata società), vicini nelle origini dicevamo, i due autori, ma divergenti, lontani negli esiti, colpisce nell’opera di Calvino l’assenza assoluta di epigrafie l’alta frequenza di esse, al contrario, in quella di Sciascia. Perché?, ci chiediamo. Avanziamo allora l’ipotesi che in Calvino rimane costante, disperatamente salda, in un luogo e in tempo in cui ateismi oppressivi e devastanti stanno per bandirla, la fede nell’affabulazione, nel racconto, nel suo assoluto valore, unico strumento di percezione, e conoscenza del mondo, di lotta contro la malinconia, l’impietrimento, e da questa fede ne viene il suo continuo cercare sapiente, sagace, infaticabile «castoro della penna», come lo chiamò Pavese, onnivoro e felice organismo metabolico nuovi sentieri, nuove piste, nuovi territori. In lui dunque ogni memoria letteraria, ogni citazione è messa en abime, è dissolta e occultata nel testo. Sciascia, meno chierico, più laico, a causa di un retroterra quello siciliano, che si fa paradigma, nucleo metaforico – di più drammatica storia, di più atroce realtà, perde man mano fede nell’affabulazione, perde speranza in una possibile sopravvivenza e incidenza del racconto e, dopo aver rovesciato e quindi distrutto un modulo narrativo collaudato e funzionale quale il romanzo poliziesco, arriva a spostare il testo nel paratesto, mutare il racconto in parodia, in saggismo, spingerlo verso le soglie, verso la citazione, la rimemorazione della letteratura, la grande letteratura d’altri tempi e d’altri contesti, cielo di verità sopra un mondo, contro una storia di menzogna e di sconfitta, di offesa all’uomo. Ambroise: Pratichi costantemente la riscrittura, la parodia, l’arte della citazione vera o falsa. Che senso dai a questo tipo di operazione che implica un rapporto singolare con il proprio testo: non tuo eppure tuo lo stesso, forse tuo nel suo non esserlo?
«Sciascia: Non è più possibile scrivere: si riscrive.

E in questo operare più o meno consapevolmente si va da un riscrivere che attinge allo scrivere (Borges) a un maldestro e a volte ignobile riscrivere. Del riscrivere io ho fatto, per così dire, la mia poetica: un consapevole, aperto, non maldestro e certamente non ignobile riscrivere, Tutto pagato». Così nelle 14 domande a Leonardo Sciascia, in apertura del primo volume delle Opere dei Classici Bompiani. «Un consapevole, aperto» riscrivere, dice Sciascia, E l’apertura più ampia, più costante – da Le tavole della dittatura fino A futura memoria – è sulle soglie, nell’epigrafe, chiave d’apertura del testo, epicitazione d’ogni altra citazione, lume, filo d’Arianna, ramo d’oro per percorrere i meandri dell’oscurità della realtà rappresentata, per uscire dal labirinto dell’inganno e dello smarrimento.
Le epigrafi. Le epigrafi delle opere di Sciascia: queste antologizza, legge, interpreta, « illustra» qui Pino Di Silvestro.
Cos’è ‘epigrafe? Così il sunnominato Genette: «Definirò approssimativamente l’epigrafe come una citazione posta “in esergo”, in genere all’inizio del l’opera o parte dell’opera; “in esergo” significa letteralmente fuori dall’opera, il che forse è un po’ esagerato: l’esergo consiste piuttosto, in questo caso, in un confine dell’opera, in genere molto vicino al testo…».

In Sciascia l’epigrafe, come il titolo, come l’illustrazione in copertina – sempre dallo scrittore scelta e indicata all’editore -, come la dedica, come ogni altro elemento del paratesto, è quanto di pia vicino, di più connaturato al testo ci sia. La sua epigrafe è sempre di un autore scelto per ammirazione e immedesimazione, è brano, frase d’un’opera sotto la cui luce bisogna porre il testo che ci accingiamo a leggere (epigrafati sono di volta in volta Orwell, Poe, Shakespeare, Montaigne, Courier, Pascal, Casanova, Brancati, Borgese, Borges, Canetti, Dürrenmatt, Bernanos…; ma è anche voce di dizionario, spezzone di documento storico, ed è inoltre frase d’ironico contrasto assunta per disarmo, per malinconico giudizio, come quella di Palazzeschi apposta a 1912 + 1 o quell’ineffabile « O Rousseau!» di Anonimo al Contesto: anonimia fin troppo scoperta, esclamativamente indicativa).

Epigrafatari, destinatari di questo prezioso testo fuori testo, «composto» e proposto dall’Epigrafatore, sono i lettori, siamo noi. Destinatario è, nel caso di cui vogliamo qui discorrere, Pino Di Silvestro, lettore privilegiato per l’appassionata, straordinaria capacità ch’egli possiede di percorrere il «testo» sciasciano, di riassumerlo e assumerlo nell’epigrafe, di stendere su di esso una sua ulteriore epigrafe, un suo visivo paratesto che è il corpo dei disegni, delle chine: il testo vale a dire di questo suo libro. Che è quanto di più sciasciano si possa fare, per ammirazione e per immedesimazione, per scrittura, per stile. Amava il disegno, Sciascia, le gravures, acqueforti e puntesecche, che, con il loro segno nero si potevano accostare alla scrittura, erano anzi per lui un’altra affascinante forma di scrittura, simile allo scrivere che è «imprevedibile quanto il vivere». In questo segno di china di Di Silvestro, quasi un «nero su nero» della realtà descritta da Sciascia, il bianco, a rinforzare ed esaltare ancor più il nero, emerge dal fondo, s’insinua da maglie di stretti reticoli, sorge da cave occhiaie o vitree lenti, da fori di corpi crivellati, fumoso lampeggia da bocche di armi, lattiginoso piove da globi di lampade, s’effonde da corpi di donne, balugina in riquadri di porte o grate, s’espande da una mesta luna che suscita facce di cristallo, squadra tetti, muri di case d’un villaggio perduto. Il segno sottile, secco di queste chine, le figure espressive o espressioniste creano un mondo in negativo, un universo privo di luce e pietà. E sono quasi sempre inscritte, figure e scene, in spazi chiusi, tribunali, prigioni, celle, luoghi del potere e della pena, stanze della tortura, dello strazio. È uno spazio, questo creato da Di Silvestro, quasi riferito alla più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, quella di Pirandello: la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta.

Vincenzo Consolo
Milano, 6 novembre 1996


Per un po’ d’erba al limite del feudo

Via del Sole scende stretta tra il muro laterale del Pa­lazzo e una ringhiera di ferro sul dirupo. Era in ombra a quell’ora. Il sole batteva invece sulle pietre di via Muro­rotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo. La ringhiera di ferro di via del Sole era quella d’un terrazzo sospeso, navigante.

Il vecchio con lo scialle sporse nel vuoto il braccio e con l’indice a corno percorreva la linea ondulata che dise­gnavano nel cielo terso i monti tutti attorno, dalle spalle del paese fino al mare.

– Motta – diceva fermando il dito su un punto bian­castro lungo la costa dei monti. E poi – Pettineo, Castel­luzzo, Mistretta, San Mauro… – Posò lo sguardo sul mare, ripiegò il braccio, si tirò sulla spalla lo scialle scozzese che gli era scivolato. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la rin­ghiera e indicai il mare. – Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Con­tinente, Roma…

– Roma – ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuò a indicare le montagne, ora con un breve cenno del capo: – Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Fo­ieri…

L’ulivo, fitto ai piedi dei monti, diradava, spariva verso l’alto. Poi vi erano costole nude, scapole, e qua e là ciuffi di sugheri, di castagni.

Il vecchio sedette sulla panchina di pietra e, la fac­cia tra due sbarre della ringhiera, appuntò gli occhi sullo spiazzo erboso sotto il dirupo. Ragazzi vi giocavano, tra pecore al pa­scolo, piccoli, appiattiti sul prato, silenziosi. Uccelli con larghe ali planavano sulla valle. La strada a serpentina, grigia di fango rappreso, partiva dalle prime case del paese, passava tra alberi d’eucalipto e d’acacia, circondava il prato, accostava una vasca d’acqua stagnante e finiva in un cancello di lamiera arrugginita. Il sole di questo primo pomeriggio era tutto ammassato nella tenera valle, su­scitava tremuli vapori.

Al di là del cancello, dentro, il cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmelo Battaglia, il sin­da­calista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mat­tina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginoc­chioni, con la faccia per terra. La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agorà, i cocci d’an­fora e le colonne spezzate affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). In fondo, Tusa Marina, col suo castello sull’acqua sma­gliante e triangoli di vele sui merli.

Nel ventitrè ammazzarono il padre Battaglia, con colpi a lupara, su una trazzera, e gli riempirono la bocca di pietre e di fango. Il vecchio s’era tirato fin sulla nuca e gli orecchi lo scialle scozzese, avevachiuso gli occhi e recli­nato il mento sul petto.

Il piano della Piazza era tagliato a rettangoli e tra­pe­zi di luce. La torre medievale,al centro, massiccia, qua­dra­ta, avevadue facce illuminate. Uccelli neri, con lievefruscio, facevano la spola tra la Matrice e la torre. Via Pier delle Vigne si perdeva tra vecchiecase. Via Matteotti, dall’ogiva dell’antica porta, scendevaripida e larga versole case nuove. Un vecchio cantavanella piazza, seduto al sole davanti alla porta della società Agricola. Un altro vec­chio stavaimmobile dall’altra parte; e altri tre dentro, nel vanointerrato della società, immobili attorno a un piccolo tavolosu cui battevail sole. Il vecchio sulla porta cantavacon gli occhi in cielo e un sorriso sulle labbra. Cantava: – Al natio fulgente sol / qual destino ti furò –; e poi dac­capo: – Qual destino ti furò / al natio fulgente sol –; sempre avanti e indietro su quelle parole.

Un’automobile nera venne giù da viaAlesina, attra­versò la Piazza e scese per viaMatteotti. Vi era dentro un ufficiale dei Carabinieri con le stelle d’argento sulle spalle e altri signori col cappello. Il vecchio interruppe il suo can­to e poi riprese.

Via Alesina era tutta in ombra, stretta e lunga, tra alte case, dalla Piazza fino al Belvedere. I vicoli verticali erano assolati. Cespi di bàlico fiorito, viola e giallo, spun­tavano dalle crepe delle case e ficodindia da sopra i tetti. Da un balcone del vicolo penzolava la testa d’un asi­no, pensosa nel sole. Il municipio e la cooperativa Risve­glio Alesino. Sul portone del municipio era scolpito lo stem­ma della città: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avven­tarsi, i denti scoperti (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e al­tro­ve, i Consigli municipali, costituiti dai Go­vernatori di­stret­tuali, erano composti di elementi della grossa borghe­sia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»).

Una giovane bellissima, dietro i vetrid’una piccola finestra, ricamava. Divenne viva,aprì la finestra, si sporse, allungò il braccio bianco e fece segno che dovevoancora andare avanti e poi salire per il vicolo.

Bussai e venne ad aprire una donna in nero. Mi fece strada per uno stretto corridoio celeste che sbucava in una grande stanza celeste. È il celeste, abbagliante per le mo­sche, latte di calce mischiato con l’azolo. Sei donne tutte nere erano attorno alla ruota della conca: la figlia, la moglie, due sorelle e altre due parenti di Carmelo. Parlava la giovane figlia, il fazzoletto nero annodato sotto il mento e ancora il velo nero che le scendevaper le spalle, gestiva con le sue mani guantate di nero. La madre, accanto, non parlava perché muta, muta e paralitica. Solo gli occhi ave­vavivi.

– Sì, fece il soldato e, finita la guerra, venne a piedi da Trieste. Passò lo Stretto su una barca e, a Messina, pri­ma che attraccassero, si buttò in acqua per toccare prima la Sicilia, ma non sapevanuotare. Il pescatore calabrese lo dovetteafferrare per i capelli per salvarlo. Rideva molto quan­do raccontava questo. Dicevache allora, a vent’anni, era sventatocome un caruso.

– Sempre l’ha avutaquesta idea socialista, ma di più quando tornò dalla guerra. Dicevache i contadini, i bovari sono sempre state malebestie. Sempre a limosinare un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo. Ma non parlava molto in casa, avevale parole giuste, contate. Questa di mia madre era una pena forte che portava in cuore: venti anni che è allogo, un male di nervi.

– Partiva alle quattro, alle cinque, secondo la sta­gio­ne, col mulo, per il feudo. A voltesi restavalà e si por­tava un poco di pasta e una boatta di salsina. Questa voltado­vevarestarci per due giorni.

– Sì, voglio che si scopra al più presto l’assassino. Voglio conoscerlo. Voglio vedere in faccia questo che in­sulta i morti, che li mette in ginocchioni.

– No, neanche i vivi s’insultano. Ma di più i morti, specie se in vita sono stati sempre latini, diritti, cava­lieri.

La madre mugolò e cominciò a piangere. La figlia le prese le mani, se le portò sulle gambe e, tenendovi sopra le sue, si mise a cullargliele.

La stanza era piena di penombra. C’era solo la luce rossa di un lumino davanti alla fotografia di Carmelo ve­stito da soldato, sopra il comò. Le donne stavano tutte chiuse nei loro scialli e mute. Una prese la paletta di rame e rimestò la brace nella conca.

– Nessun desiderio, nessun progetto. L’unica sua idea era quella di aggiustare questa casa».

Il sole era tramontato e, all’uscita del paese, sopra un muretto della strada, erano seduti un prete grosso e un prete magro. Quello magro, scuro, era venuto da Cesarò per predicare il quaresimale. Quello grosso, chiaro, era del paese.

– Un uomo buono, benvoluto da tutti. Parlava po­co ma spartano. No, in chiesa mai. Ci andavo io a casa sua, una volta al mese, per confessare e comunicare la moglie. Poveretta, mi scriveva i peccati su un foglio di carta.

Passavano i contadini per la strada, tornavano a grup­pi dal lavoro, gli uomini sul mulo e le donne a piedi. – Vos­sia benedica – salutavano.

– Benedetto – rispondeva il prete.

– Tra loro, si ammazzano, tra loro bovari.

– Benedetto.

Le montagne là di fronte erano diventate viola, di un viola tenero sfumato.

Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della se­ra, si udivano per la campagna ringhiare e abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.


[i] «L’Ora», 16 aprile 1966, p. 6. Stesso testo, col titolo: Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia e S. Gu­gliel­mino (a cura di), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, pp. 429-434. Il testo del 1966 è ripreso tal quale – sotto forma di «Prima appendice del curatore», con fonte: L’Ora, 16 aprile 1966 (p. 6), autore: Vincenzo Consolo, occhiello e titolo: Tra cronaca e racconto un giorno a Tusa. Un filo d’erba ai margini del feudo, sottotitoletti redazionali in­fram­mezzati: Il tabuto fre­sco di vernice, Sei donne tutte nere – in Mario Ovaz­za, Il caso Battaglia. Pascoli e mafia sui Nebrodi, a cura di Fernando Cia­ramitaro, Palermo: Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, 2008, pp. 124-126

Acquaforte di Liliana Conti Cammarata

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Nei giorni di luglio

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Nei giorni di luglio, quando Lipari e Salina scivolano sull’acqua e tornano alla costa (gli aprono la strada schiere di pomice e meduse), passava sulla spiaggia, sotto il faro del Capo ( luceva al sole la sua giacchetta d’alpagà  ) e poneva sopra l’occhio velato d’una lacrima quel tubo nero che conteneva solo la notte, parlando nell’ orecchio : scorgi se vuoi, ad ovest, caicchi levantini, il brigantino svevo, la danza dei delfini; ad est, nel nero delle terre, cisterne senza acqua, colonne di calce reggenti il pergolato, infino il fiore di cappero e l’uva vizza della malvasia.

Questo brano scrivevo nel 1964
Vincenzo Consolo

Un terremotato a Milano racconto a cura di Vincenzo Consolo fotografie di Ferdinando Scianna

Sono nato a Gibellina, di anni ventitré. Imparai il meccanico a Salemi, non mi ricordo niente, sentii un gran boato e il tetto che s’aprì, ho visto il cielo per un attimo, le stelle.La zappa l’ho lasciata a chi gli pare, con la meccanica si può espatriare. Stava Gibellina sopra la timpa tutt’attorno al castello e alla chiesa, a San Nicola. Al castello ci andai per la scuola:c’erano dammusi, catoi murati, passi e sospiri, voci di spirti, d’anime legate. Anche qui, in questi sotterranei alla stazione, i treni fanno un rintrono come il terremoto. Ho lasciato nelle baracche la madre e la sorella. Gli altri sono rimasti sotto terra. Le bambine, gonfie, occhi invetrati, erano pupe, bambole di fiera. La sorella più non parla, sì e no con la testa è il massimo che dice. I passaporti a vista, sotto la tenda: via, senza tante storie. Con me ci sono paesani, una incinta si lamentò tutta la notte. Altri non so di dove sono, ma qualcuno mi sembra conoscente. Molti ci vengono a guardare. Siamo profughi,sì, terremotati, con le borse, i sacchi, le coperte. Ci aiuteranno,sì, però l’affronto resta. Dicono che ci daranno alloggio e un lavoro. Io, per me, voglio emigrare in Svizzera. C’è la nebbia qua, che mangia case, gente, come là mangiava pàmpini, racemi.
da L’olivo e l’olivastro
vincenzo consolo

dalla rivista Nuovo Sud maggio 1962