Consolo, la Sicilia come missione.

Cesare Segre “Diario civile”
A cura di Paolo Di Stefano



Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.

Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.

In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.

Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.

Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.

Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.

22 gennaio 2012 – Corriere della sera

Vincenzo Consolo come Verga

Nel 1893 Giovanni Verga lascia Milano, “stanco di anima e di corpo”, per ritornare nella sua Sicilia. A Milano aveva soggiornato per circa vent’anni, essendovi giunto nel novembre del 1872, ma se ne andrà alquanto deluso e risentito. In Sicilia Verga ritroverà i sedimenti profondi della sua memorialità e soprattutto la lingua delle origini; primordiale, robusta, incorrotta, da cui trarrà linfa vitale e sangue la sua fantasia e con cui darà forza, spessore, virulenza alle sue storie e alla sua poetica, come non gli era ancora accaduto. Questo generoso amalgama si rivelerà una felice epifania e lo trasformerà nel potente scrittore che conosciamo. Stilisticamente una vera e propria rivoluzione, pari a quella di altri giganti della letteratura europea del suo tempo. All’archetipo del ritorno degli scrittori siciliani moderni nella loro isola, Vincenzo Consolo dedica un breve capitolo “I ritorni” che chiude la sezione verghiana degli scritti compresi in Di qua dal faro. Ritorno nelle sue molteplici declinazioni, che non è solo tópos, mito, visionarietà, storia o civitas, ma soprattutto memoria e lingua; vale a dire, il corredo più acconcio e prezioso per uno scrittore. Ora è giunto il momento anche per lui, il momento del nóstos e del ricongiungimento, come lo fu per Verga più di un secolo fa; anche Consolo ripercorre a ritroso il suo cammino, di uomo prima che di scrittore, e da Milano dove era salito nel 1968 vivendovi e operandovi per oltre un quarantennio, inverte la rotta per riapprodare nella sua isola. “Torno nella mia terra. Voglio morire nella mia isola”‘ , confida in un’intervista al settimanale palermitano “a sud’ europa” (1) nel dicembre scorso. Ribadita all’età di 77 anni, Consolo è del 1933, questa volontà suona perentoria, asseverativa, ultimativa. Quando questo avverrà, si sarà compiuta la parabola naturale di un uomo e di uno scrittore che non ha mai scisso, per sua e nostra fortuna, il legame profondo, primigenio, ancestrale, con l’ónfalos, con la terra, con la mater, che è impasto di lingua, carne, affetti e visione. E su quell’isola, non dimentichiamolo, c’è sedimentato il respiro di Sciascia e di Lucio Piccolo, di Verga e di Lampedusa, di Antonello e di Pirandello con la fantasia del Caos, il profumo perduto del suo pino. E c’è il mare, cioè il mito dei miti.
Ritorna, Consolo, con lo stesso risentimento, con la stessa delusione di Verga. Delusione per le aspettative tradite di una città divenuta, secondo le sue stesse parole, “città centrale della menzogna” (2). E non possiamo fare a meno di andare con la mente alla Milano di Tangentopoli e al tradimento che ne è seguito: al leghismo bieco e reazionario, al berlusconismo disinvolto e immorale, alla deriva etica, al degrado civile, all’indegnità opportunista della cosiddetta società letteraria, sempre più stomachevole. Il ritorno di Consolo non è un ritorno alla fonte salvifica (come fu per Verga); egli non ne ha bisogno; non ha bisogno di purificare la sua lingua alle fonti primigenie perché di quella lingua Consolo è impastato. Della sua oralità e della sua sostanza. Non torna per arginare la crisi dell’artista, perché di quell’universo vitale, labirintico e fecondo non si è mai separato. E rimasto, pur vivendo fuori dalla sua isola, il più siciliano degli scrittori siciliani: come Sciascia, come Buttitta. E questa è stata la sua forza e la sua fortuna. Egli non ha dissipato, e, in linea con la grande lezione della tradizione, ha tenuto salde le radici per non “disperdersi”, come dice Giuseppe Bonura, “in un ambizioso quanto vacuo internazionalismo’, senza anima e senza storia. In sintesi: senza verità. Se, com’egli scrive, “la letteratura è essenzialmente scrittura, è espressione linguistica; è tempo, ritmo delle parole, eco poetica di suoni” (3), il plurilinguismo, la poeticità, il suono, e direi anche il colore stesso della parola, non possono prescindere dalle lingue madri. Nessuna lingua artificialmente ricostruita può eguagliarne la potenza espressionistica, la densità sapienziale, la ricchezza significante, l’umoralità, l’irriverenza iridescente, l’ironia sovversiva. E lingua madre significa una lingua talmente antica e così arcaicada aver sfidato il divenire; che ha saputo tener testa all’omologante egemonia, al livellamento sterile e banale del linguaggio, nato dalla società consumistica e della pervasività televisiva.
Quest’opera di resistenza ha operato il Consolo artista, il Consolo creativo, attento alla parola quant’altri mai, attratto come direbbe Bonura “dalla passione inappagata del senso primitivo della parola” (4), da quella “nostalgia dell’inizio, dell’origine, quando un vocabolo poteva illuminare una vita” (5). Questa nostalgia, questa “regressione strategica” (sono ancora concetti di Bonura), si ricollega a radici antichissime e dai risultati espressivi sorprendenti. Valga per tutti l’Aristofane delle Tesmoforiazuse e della sua guardia, che argomenta in un misto di siculo-calabrese divertentissimo, e che non ha perduto nulla, a distanza di tanti secoli, della sua vis comica e della sua efficacia. Non si dimentichi che questa regressione strategica ci ha dato un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, da un lato, e come contrappeso quella favola barocca e notturna che è Lunaria. Un discorso approfondito meriterebbe anche il Consolo intellettuale, il ricercatore erudito, il filologo, il cultore di storia e di tradizioni, il saggista. Il Consolo che invidia la scrittura geometrica, rigorosa, analitica di sodali come Sciascia, Pasolini o Moravia è in realtà altrettanto illuminista, analitico, ragionatore. Chi vuole la prova di quanto sto sostenendo, si vada a leggere le oltre 280 pagine che hanno dato vita ad un libro composito come Di qua dal faro. Tutti assieme ora, quei saggi, quelle conferenze, quegli articoli, quelle prefazioni, compongono il corpo unitario di un volume che io trovo, oltre che bellissimo, assolutamente necessario.

ANGELO GACCIONE

NOTE (1) “a sud’europa” anno 3° n. 45, Palermo 21 dicembre 2009, pag. 18. Intervista a cura di Concetto Prestifilippo. (2) Idem. (3) Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, 1999, cit. pag. 137, nel saggio “Verga fotografo” (4) LE LUCI DEL BAUHAUS – Linee/Voci, a cura di Angelo Gaccione, Gutenberg, 2001, pag. 7, “I labirinti della poesia”. (5) Idem.

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

L’ape Iblea. Elegia per Noto

Invocazione

eterno transito,
segno della fine e dell’inizio,
d’ogni sciame mi dici
del cielo e della terra.
Dimmi dell’asse rotto,
dell’antico scuotimento
della plaga orientale
che ondeggia come mare
Dimmi dell’arnia d’oro
ricomposta al piano,
di Ibla e di Megara
della ragione e del compasso,
di Noto replicata
per apicule tenaci,
sfida a ulteriori scuotimenti,
sogno di scalpellini e architetti

Antica melodia

Per la porta reale
entra ora nel sogno,
nel teatro delle meraviglie,
inizia il tuo viaggio
nell’eco d’Aretusa,
nel coro vibrante delle api
vai tra le quinte di luce,
i fondali celesti,
le prospettive audaci,
il gioco di specchi sulla pietra opulenta,
il raggio che s’inombra nella spirale
Nell’oscillare della campana,
nel rintocco grave, sciamano uccelli,
svolano dalle canne, dai pantani,
migrano gli aironi, sfiorano la cupola ma la lanterna,
contro il cielo di cobalto

Favola della luna che si sfalda

Ma la Luna la Luna la Luna
la maculata Luna è dissonanza,
è creatura atonica, scorata,
caduta dalla traccia del suo cerchio,
vagante negli spazi desolanti.
È saturnina la Luna, atra,
malinconica, sospesa
nell’attesa infinita della fine
che non arriva mai
Esci, vola Regina degli Iblei
da questo labirinto,
da questo teatro che si disfa,
crolla per sordo terremoto…
… ricerca le dimore,
le arnie dimentiche sul ciglio dei burroni
Labirinto e crollo
E subito il boato,
lo schianto spaventoso,
il crollo della cupola
materna. La polvere
imbianca il cuore
della notte, il mio mantello
asciuga in gola
urlo, gemito
Il nome tuo NO
TO s’è spezzato.
L’ape, crisalide trafitta,
pupilla vuota, ombra

frammenti poetici di, Vincenzo Consolo incisioni di Daniele Montis
L’Ape Iblea maggio 2008 Carlo Delfino Editore

Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

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Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

 

27 LUGLIO 2011 NATALE TEDESCO TOPOGRAFIE LETTERARIE

di Natale Tedesco

 

Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

20 giugno 2007

Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

20 GIUGNO 2007
TOPOGRAFIE LETTERARIE

di Natale Tedesco

Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore.Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo,La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di PantalicaFascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagementDi quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si gioca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

20 giugno 2007

Nicolò Messina, Lunaria dietro le quinte

NICOLÒ MESSINA

UNIVERSITAT DE GIRONA

Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta […]

VINCENZO CONSOLO, Le pietre di Pantalica1 È manifesto il debito di Lunaria con L’esequie della luna di Lucio Piccolo2. Nella Nota che funge da Postfazione al libro,Consolo lo ammette, anzi lo dichiara apertamente e svela anche il processo che da quell’opera l’avrebbe portato al suo cuntu:“Di quella prosa di Lucio Piccolo, de L’esequie della luna s’era innamorato un giovane palermitano, Roberto Andò, voleva farne un’opera teatrale e si rivolse a me per lavorare a quel progetto3. Con lui discussi allora impostazione scenica, soluzioni teatrali,consultai libri e mi trovai poi inevitabilmente di fronte alla scrittura, solitaria avventura, alla creazione cioè di un pianetino 1 CONSOLO, V. (1988: 141): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori (d’ora in poi Pantalica).2 PICCOLO, L.: «L’esequie della luna», Nuovi Argomenti, N. S. 7-8 (1967): 152-169; nunc:L’esequie della luna e alcune prose inedite, ed. G.[IOVANNA] MUSOLINO, «Acquario», Milano:All’insegna del pesce d’oro, 1996. Si cita dalla princeps, purtroppo infestata di refusi(d’ora in poi Esequie).3 Il progettò si arenò, ma nel 1991 a Gibellina, nella rassegna delle Orestiadi, andò in scena L’esequie della luna, Narrazione fantastica di R. ANDÒ da L. PICCOLO, Musica di F.[RANCESCO] PENNISI. L’opera poetica di Piccolo ha ispirato anche altri allestimenti teatrali,tra cui: Il raggio verde… o dell’esequie della luna, di Ninni BRUSCHETTA (con Pino Censi);Cerchio di melodie per Lucio Piccolo, di e con Pino CENSI, prodotto dal Centro Culturale Mobilità delle Arti e rappresentato al Teatro Comunale di Marsala il 14 ottobre 2004 e al Teatro Quadro di Città Giardino (Siracusa) il 15 e il 16 dello stesso mese.180 indipendente che, come quello di Piccolo, ruotasse attorno a Leopardi”4. Il processo scrittorio fu cosí di contaminatio ed amplificatio di varie fonti: non solo Piccolo e la fonte comune a Piccolo e Consolo, il Leopardi dell’Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno5 e di tanti altri indimenticabili Idilli lunari, ma anche, indietro nel tempo, e con una citazione letterale, l’Ariosto della luna meta del “protoastronauta” Astolfo6.Il sempre puntuale Cesare Segre –in un saggio di Intrecci di voci– registra con precisione i non pochi passi in cui Lunaria riecheggia L’esequie. Perciò stesso, per il dettaglio, basterà rimandare a questo studio, sia per trovarci la collatio delle due opere,sia per derivarne un regesto delle consonanze7. Di piú; da par suo, efficacemente, Segre tiene anche ad indicare dove e come Consolo va oltre: il sogno, si direbbe, non solo sognato, ma per giunta rappresentato del Vicerè, quale persona, cioè latinamente ‘maschera’, attore. Si scorge, insomma, nel cuntu l’ombra di Calderón de la Barca, ma in buona compagnia, viene da aggiungere,di Pirandello: un La vida es sueño che approda a Sei personaggi o piuttosto all’apparente delirio di un Enrico IV8.Milano: Mondadori (1996: 134). Si cita da ambedue le edizioni: il primo rimando sarà a Lunaria1, il secondo (tra parentesi) a Lunaria2.5 Registrato con i titoli Il sogno (1819) e Spavento notturno (1826); in ultimo, finito acefalo tra i Frammenti (XXXV, 1835 e infine XXXVII, 1845). Del cadere degli astri Leopardi si era occupato anche nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (capp. IV e X).6 ARIOSTO, L.: Orlando furioso, XXXIV, 73, 3-8 in Lunaria, pp. 47-48 (67). Per la presenza lunare nella letteratura, non solo italiana, ben a proposito TRAINA, G. (2001: 73), Vincenzo Consolo, «Scritture in corso», Fiesole (Firenze): Cadmo, rimanda alla documentata recensione di H.[ÉCTOR] BIANCIOTTI, «Vincenzo Consolo de la Sicile à la Lune», Le Monde (22 aprile 1988), ora in versione tradotta in Nuove Effemeridi, VIII, 29 (1995: 107-109).7 SEGRE, C. (1991: 87-102): «Teatro e racconto su frammenti di luna», in Id., Intrecci di voci.La polifonia nella letteratura del Novecento, «Einaudi Paperbacks 214», Torino: Einaudi.Il saggio è, insieme a quello proemiale, l’unico inedito tra i dieci che compongono la raccolta e sembra perciò scritto ex professo per Intrecci.8 Pirandello s’intravede d’altronde in almeno due passi dietro una parafrasi o citato direttamente.Da un lato, cfr. Lunaria, p. 48 (68): «Hai guardato nello squarcio, anche tu hai visto dietro le scene del teatro?» e PIRANDELLO, L. (1973: 467) Il fu Mattia Pascal, cap.XII (Tutti i romanzi, ed. G. MACCHIA, con la collab. di M.[ARIO] COSTANZO, I, «i Meridiani»,Milano: Mondadori): «Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che 181 Tuttavia, ciò detto, per questo nostro curiosare dietro le quinte di Lunaria (e en passant per chiarire il senso del titolo e l’oggetto di queste pagine), preme qui e subito sottolineare come quest’opera sia nel corpus di Consolo soltanto l’espressione letteraria più risolta del riconoscimento del magistero di Piccolo, ma certo non l’unico suo atto di riconoscenza. Ci si limiterà così ad alcune manifestazioni –precedenti e successive a Lunaria– di quella che si potrebbe definire con il Contini esegeta di Montale «una lunga fedeltà»9. È una fedeltà10 che si materializza in una fitta rete di giochi intertestuali: in primo luogo, naturalmente, Consolo-Piccolo (però al riguardo le cose andrebbero per le lunghe, sarebbe esteso il terreno da dissodare e al momento non ne verrebbero che intuizioni impressionistiche, nulla di fondato e verificabile), ma anche Consolo-Consolo, quindi una intertestualità tutta interna alla sua prosa e i cui segni è dato intravedere chiari dove subito chiunque frugherebbe, nel trittico Il barone magico di Le pietre di Pantalica11, ma anche meno evidenti nella storia del capolavoro consoliano, Il sorriso dell’ignoto marinaio12.Di fatto, Lucio Piccolo sembra in Consolo una presenza carsica:una sorta di corrente che affiora, scompare, riaffiora. Visto dall’osservatorio del Sorriso, che è quasi una trincea dalla quale si rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.» Dall’altro, in Lunaria, pp. 60-61 (83): «“allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giú per il sentieruolo tra le grida di tutti. Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero”.» è citazione virgolettata dell’intera didascalia della scena finale di PIRANDELLO, L.: ’A giarra (1916) e La giara (1925).9 CONTINI, G. (1974): Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino: Einaudi.10 La frequentazione è cosí ricordata in Pantalica, p. 141: «Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sedeva con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’estate (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva “conversazione”, ch’era un lungo monologo di quell’uomo che “aveva letto tous les livres”, come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza,di memoria, di sottigliezza, di ironia.» E piú avanti, p. 149: «Lo frequentai per tanti anni,fino a quando non decisi di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nell’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta.»11 Pantalica, pp. 133-1a49.12 Un profilo dei momenti chiave del decantarsi dell’opera in (mihi liceat): MESSINA, N.: «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Quaderns d’Italià 10 (2005: 113-126).182 spera –da editori– di uscire indenni, il filo rosso di Il barone magico si dipana dall’ipòstasi unica dell’omonimo, cronologicamente alto, articolo su L’Ora13 al più basso trittico di Pantalica, e tra il primo punto e l’altro s’incrocia e s’intreccia con il farsi del dettato multiforme del libro che impose Consolo all’attenzione generale.In principio, dunque, è l’articolo apparso su L’Ora con quattro inediti del barone di Calanovella, tra cui proprio un frammento delle Esequie14. Il testo viene recuperato, sfoltito e tesaurizzato ad altro fine, ora decisamente commemorativo15, in quel dattiloscritto intitolato Carte per gioco, che rappresenta un seme non destinato a germogliare, un rogetto di cui costituisce il «Terzo Tempo – Magico (o poetico)»: la terza carta, allora, come le altre,non certo ‘ludica’, ‘per celia’, nuga o nugella, ma à jouer, to play,13 CONSOLO, V. (1967: 9).14 Il quarto degli inediti, intitolato esattamente «Esequie della luna» e presentato come:«Balletto in tre tempi di Lucio Piccolo di Calanovella per le musiche di Emanuele d’Astorga », è un brano del «II Tempo: Fantastico o Conventuale», con limiti testuali: «[…] era lei che scivolava sullo smalto delle fronde delle muse […] tutt’altro che una giovinetta,–aprile calmo già insediato– tra la malvetta e il garofano.», che qualche mese dopo (luglio – dicembre) si sarebbe potuto leggere in Esequie, pp. 165-166, di cui aiuta peraltro a emendare due refusi: foses [p. 165] : fosse; suricolari [p. 166] : auricolari. L’idea del balletto è carezzata e perseguita da Piccolo, il quale era buon conoscitore dei più noti compositori primonovecenteschi e ambiva a far musicare la sua operetta da Gian Francesco Malipiero, il suo preferito. Da ultimo, cfr. TEDESCO, N.: «I versi di Lucio Piccolo come armonie musicali. Così la poesia diventò politonale», La Repubblica, ed. Palermo (Mercoledì 27 luglio 2005): XIII: «[…] alla formazione di Piccolo concorrono gli studi musicali che egli intraprese e portò avanti fino ad un certo punto della sua vita: la scrittura di un testo liturgico, un Magnificat, di stile malipieriano, a detta di Gioacchino Lanza Tomasi, mescolava interessi per epoche diverse. A questo proposito, va tenuto presente il particolare rapporto di studio che nel tempo egli istituì con alcuni musicisti degli anni Dieci, Venti e Trenta, precisamente con Alfredo Casella, Ildebrando Pizzetti, Goffredo Petrassi, Franco Alfano e in particolar modo con Gian Francesco Malipiero le cui opere quasi tutte possedeva. Quel Malipiero che curò Monteverdi, altro interesse musicale del poeta nostro che leggeva e rileggeva l’Orfeo. Ma il rapporto con Malipiero si svolse oltre questi anni iniziali e a questo compositore si pensò per mettere in musica le “Esequie della luna”, forse per il ricordo dei “Poemetti lunari” del 1918 del musicista veneziano.In una lettera a Gioacchino Lanza Tomasi […], per la verità Lucio accenna pure alla possibilità che il balletto venga musicato da Sylvano Bussotti.» Si noti inoltre che Emanuele d’Astorga è il musicista siculo-spagnolo studiato da Chino Martinez, protagonista del consoliano Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1999).15 Basta leggere la dedica: «In ricordo del barone/ Lucio Piccolo di Calanovella/ autore dei Canti Barocchi», curiosamente quasi identica (unica variante: «In ricordo del cavaliere ecc.») a quella di «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, N. S., n. 15

(1969: 161-174). Il testo avrà allora nella morte di Piccolo (26 maggio 1969) e nella prima uscita del Sorriso (luglio-settembre 1969) i suoi termini a quibus.183 quindi da ‘giocare’ ed ‘eseguire’, da ‘recitare’ come un copione o ‘suonare’ come uno spartito, nel quale a Piccolo si attaglia il felicissimo pseudonimo di «barone Merlino», un hapax rimasto purtroppo tale. La prima di queste Carte sarebbe il Sorriso della lezione di Nuovi Argomenti [1969], aumentata però dell’«Antefatto»a tutti noto e della prima delle due Appendici del futuro capitolo I («Primo Tempo – Narrativo»). La seconda consiste invece in una serie già programmaticamente16 grezza di materiali documentari diretti e indiretti: certificati, bollettini, stralci di pamphlets contemporanei alla strage di Alcara Li Fusi e ai suoi postumi («Secondo Tempo – Storico»), cioè all’evento storico catalizzatore delle dinamiche del Sorriso17.Il progetto di Carte per gioco, però, non si realizza e, con un buon margine di approssimazione, è dato supporre che nel frattempo (fine di questi anni Sessanta – prima metà anni Settanta)Consolo dovesse riprendere e sviluppare in quel che sarà il capitolo II del Sorriso gli appunti sparsi delle pagine iniziali di un primo Quaderno in cui lo spazio scenico è Cefalù, con il Duomo e lo scampanio delle sue chiese, il fervore della marina, e in primo piano si prospetta l’arrivo di un naviglio (un S. Bartolomeo che si trasformerà poi in S. Cristoforo) e con una zoomata non si scorge però Enrico Pirajno, come i lettori del Sorriso si aspetterebbero,ma un tale marinaio Onofrio Palomara (sic, sarà poi ribattezzato Giovannino), l’accompagnatore del deuteragonista Giovanni Interdonato, nascosto sotto le mentite spoglie del mercante Gaetano Profílio. Insomma, è proprio la carrellata d’apertura di L’albero delle quattro arance (cap. II). Allora, con la conoscenza che si ha adesso del libro, posto che questo Quaderno tramanda, in una 16 Non è da escludere. Risale agli anni Sessanta-Settanta il sorgere dell’attenzione consoliana per i tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui lo scrittore aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta. Cfr. la testimonianza diretta in CONSOLO,V. (1993: 49): Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, «Interventi / 7», Roma: Donzelli, ed anche C.[ARLA] RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in PAPA, E. (ed.) (2004: 91), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni.17 Nel regesto dei testimoni dell’edizione critico-genetica del Sorriso il dattiloscritto è stato denominato Ds 11.184 lezione di getto che sarà solo lievemente ritoccata, il celeberrimo passo in cui Consolo descrive il sorriso dell’inquietante marinaio incontrato sulla nave dal Mandralisca nell’ouverture del cap. I, è come se nel magma creativo iniziale le materie narrative dei futuri primi due capitoli non fossero decantate, si confondessero e non fossero ancora esattamente delineate le sequenze temporali interne del Sorriso (il prima e il poi, i protagonisti, le motivazioni delle due scene marinare, dei due viaggi Lipari-Cefalù: l’uno poi fissato al 1852 e l’altro al 1856). Ed è, volando d’ipotesi in ipotesi,come se questo fosse il possibile incipit del libro, con un Interdonato destinato da Consolo ad arrivare a Cefalù, non a portare al Mandralisca il dono della Kore, ma a “consegnargli” il ritratto di Antonello, per mitigare le pene e le furie della fidanzata Catena Carnevale o, con maggiore fondamento testuale, a regalargli il nettare delle Eolie, giacché l’Autore titola i due attacchi: «I / La Malvasia» e «Capitolo I / –La malvasia di Lipari–»18.Un secondo affioramento di Piccolo nella storia del Sorriso è rappresentato dalle quasi “prove di penna”, non piú di un flash di avvio di stesura di un quid indefinito in cui si presagisce l’incipit di una rimembranza del poeta, forse un articolo commemorativo,o qualcosa di simile, a giudicare dalla possibile datazione dei due Quaderni in cui le note albergano insieme alle attestazioni autografe superstiti, nel primo, dei futuri capitoli III Morti sacrata,IV Val Dèmone, V Il vèspero e di interpolazioni del cap. I; e, nel secondo, dei capitoli IV e VI Lettera di Enrico Pirajno a Giovanni Interdonato19. Negli appunti volanti si accenna al primo incontro Piccolo – Sciascia avvenuto a Villa Vina di Capo d’Orlando, dimora dei Calanovella, nel giorno capitale della celebrazione della prima messa in italiano (7 marzo 1965)20.18 Il Quaderno è stato registrato con la sigla Ms 1. I due avvii sono traditi rispettivamente dai ff. 3 e 4.19 I cosiddetti Ms 3 e Ms 4 potrebbero precedere la stessa ed. Manusè del 1975 e, in forza del tenore di questi appunti, datarsi post 1965 (la messa) e 1969 (26 maggio, morte di Piccolo). Cfr. MESSINA, N. «Per una storia …» cit., p. 124.20 In particolare, i due autografi riportano rispettivamente, Ms 3, f. 17v, un primo appunto:«Data cambio di liturgia (dal latino in italiano) – 7 marzo (domenica) 1964 [sic]./ —/185 Il fiume qui –siamo nella prima metà degli anni Settanta– si risommergerebbe per sfociare, da un lato, e prima, in quel chiaro omaggio che è Lunaria, con tutta l’intenzione di emulare L’esequie e l’ambizione di voler trasformare in atto quel che in potenza sarebbe nella prosa piccoliana. Qua e là, infatti, nel testo che per il poeta è «relazione» e «racconto»21, ma anche «balletto»22, si scorgono quasi delle didascalie da canovaccio da rappresentare:Ora sarebbe utile che non fossero più le parole a cercar di far muovere il Vicerè, ma che si muovesse lui da sè medesimo.[Esequie, p. 155].La narrazione del Villano viene immaginata come la proiezione d’una lanterna magica dell’ottocento23: disegni a mano, colori d’ametiste, di rubini, di zaffiri e di topazi simili a quelli delle corone nei racconti di fate.La descrizione verrà quindi fatta in quadri. [Ib., p. 160].La [scl. la luna] si può rappresentare come quei disegni infantili:un cerchio la faccia e semplici linee gli arti. [Ib., p. 161].La Fontana della Nocera è in centro, ma la visione o scenario si è molto ampliata, si scorgono aie, casali, vallette, ecc. [Ib.,p. 161].Dall’altro lato, e poi, Piccolo rispunta nel trittico di Le pietre di Pantalica, piú volte citato, che adatta e ingloba l’articolo di presentazione degli inediti e lacerti del necrologio firmato da Consolo per lo stesso giornale24, e in cui non poche sono le spie Incontro Piccolo – Sciascia / dopo 16 secoli che nella [ex abrupto explicit]»; f. 20, un secondo appunto: : «Il Era il giorno del 196 [spazio intenzionato], domenica, la prima domenica in cui si celebra la messa in italiano, dopo [explicit]»; e Ms 4, f. guardia 1v, altri due appunti: «7 marzo 1965 -/ 1ª domenica di [q]Quaresima// // È il giorno in cui si celebra per la prima volta dopo – – – – – – secoli, la messa in italiano. [explicit]». Cfr.Pantalica, p. 142: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano».21 Esequie, pp. 166 e 169.22 Cosí vengono definite L’esequie in CONSOLO, V. (1967: 9).23 Sarebbe un chiaro anacronismo, se il riferimento non s’intendesse come un inciso didascalico.24 CONSOLO, V. «Con Lucio Piccolo a Capo d’Orlando. Ricordo del poeta scomparso», L’Ora (Martedì 27 – Mercoledì 28 Maggio 1969). In particolare, vi si rimemora l’ultimo incontro avuto con Piccolo nel quale il barone racconta un aneddoto di risonanze iberiche: «L’ho 186 intertestuali con il Sorriso25, in una dinamica di autocitazioni che fa venire in mente la scrittura e i modi di contaminatio musicale di un Bach. Solo qualche esempio. Si collazionino:Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un avolinetto.Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio;piú in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza.Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del Màlvica, bassorilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tutte le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a ricamo o fatti dalle monache coi fili di capelli. [Pantalica, p. 141].e:Il salone del barone Mandralisca aveva quasi ormai l’aspetto d’un museo. I monetarî d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati,i medaglioni del Màlvica26, tutto era stato rimosso e ammassato nell’ingresso e nello studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina.E porcellane di Meissen e Mennecy, le frutta d’alabastro,visto, l’ultima volta, nello scorso aprile. Mi diceva di un suo recente viaggio a Roma,ultima grande avventura di un uomo che viveva nella solitudine. Mi raccontò del suo incontro con Rafael Alberti<:> “In un primo momento il poeta spagnolo era diffidente.Sentiva in me l’odore dei miei terribili antenati Moncada. Ma quando cominciammo a parlare di poesia spagnola, quando si accorse che conoscevo ed amavo la poesia spagnola,allora ci intendemmo”./ Mi parlò di altre cose, di molte altre cose. Mi disse ancheche non stava molto bene, la salute non andava bene. E vidi, per la prima volta, sul suo volto, una incrinatura di tristezza».25 Per la piú facile accessibilità, si cita da Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni 193», Milano: Mondadori, 2004 (d’ora in poi Sorriso), riedizione dell’ultima licenziata dall’A.: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, «Scrittori italiani», Milano:Mondadori, 1997.26 Nella sua edizione scolastica del Sorriso (Torino-Milano: Einaudi-Elemond Scuola, 1995:18, n. 74), Giovanni TESIO annota cosí: «il barone Giuseppe Màlvica che, sotto il patrocinio di Ferdinando I, fondò nel 1781 una fabbrica di maioliche artistiche, in località La Rocca di Palermo, sulla strada che conduce a Monreale.»187 fagiani chiocce e gallinacci di jacob-petit27, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro. [Sorriso, p. 18].Nella descrizione degli ambienti principali delle case dei due baroni sono singolari le coincidenze, dovute forse alla presenza di analoghi arredi in certe dimore patrizie. Ma come escludere che gli interni ideali di Palazzo Mandralisca possano essere stati modellati da Consolo sull’immagine realmente sperimentata del salone della Villa dei Piccolo?E ancora si confronti:Mi favoleggiava del libro28 Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade erano passati lasciando impronte, segni poetici e regali.Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo.O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi (“biondo era e di gentile aspetto”). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?» [Pantalica, p. 145].con:Al castello de’ Lancia, sul verone29, madonna Bianca sta nauseata30.Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce31. Federico confida al suo falcone Deonomastico, dal nome del creatore di queste porcellane. Diversa (jacobpetit) la lezione delle edd. 1995, 1976, 1975 e dei Dss 4, 3 e 2. Identica a quella di Pantalica ( Jacobpetit), la lezione dell’ed. 1969.28 Si tratta di C.[ARLO] INCUDINE, Naso illustrata. Storia e documenti di una civiltà municipale (1882), rist. anast., Milano: Giuffrè, 1975.29 Lemma poetico per antonomasia. L’eco leopardiana risuona chiara, e. g.: D’in su i veroni del paterno ostel lo / Porgea gli orecchi al suon della tua voce (A Silvia, 19). Lo sguardo di Bianca si perde nell’orizzonte vuoto per l’assenza e la lontananza del suo innamorato.Il sospiro, reazione tra le piú umane in simili circostanze, sarà pure e comunque, per i personaggi qui coinvolti, da ricondurre tra i topoi dei canti di se parazione e lontananza di quel tempo e luogo. Tra tutti, e piú consono a quel particolare ambiente cortese,come non ricordare: Già mai non mi conforto / nè mi vo’ ralegrare; / le navi sono al porto / e vogliono collare di Rinaldo d’Aquino, o: O dolze mio drudo, e vatène dello stesso Federico II?30 Bianca Lancia d’Agliano, di cui si è invaghito Federico II Hohenstaufen, ha le nausee tipiche della gravidanza: porta in grembo Manfredi, il monarca con il quale soccomberà il progetto di unità e afferma zione imperiale del padre.31 Citazione dantesca. Nel ventre di Bianca si agita il frutto del seme di Federico II, per Dante il terzo ed ultimo monarca svevo (Soave, Soàvia <Schwaben ‘Svevia’). Cfr. Par.3,118-20: Quest’è la luce della gran Costanza / Che del secondo vento di Soave <Enrico VI> / Generò il terzo e l’ultima possanza.32 È nota la passione dell’imperatore per la caccia al falcone, tanto da essere considerato autore del Tractatus de arte venandi cum avibus. O Deo, come fui matto quando mi dipartivi là ov’era stato in tanta dignitate E sí caro l’accatto e squaglio come Nivi…33 [Sorriso, pp. 6-7].A quanto si vede, i luoghi sono propizi alle rievocazioni poetiche,nella fattispecie due-trecentesche, e Consolo e Piccolo s’incontrano sul sintagma dantesco.Gli echi interessano anche la toponomastica delle due opere:Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena,Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi,alle origini della civiltà. [Pantalica, p. 147].Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni,fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni34. [Sorriso, p. 7].I due brani sembrano postulare un rapporto  bidirezionale: da antiquiore a recenziore e viceversa, se si considera che l’ultimo ne varietur consoliano sostituisce nel Sorriso del ventennale [1997]all’originaria coppia Alunzio – Calacte quella Alunzio – Apollonia derivata da Pantalica35.33 È la canzone fridericiana Oi lasso! non pensai di cui si citano alcuni versi della st. 3(ed. Panvini, XLIII, 12,21-25). L’attribuzione è però incerta (Panvini 1962), perché i mss discordano: per il Vaticano Latino 3793 l’autore sarebbe Rugierone di palermo, per il Laurenziano-Rediano 9, Rex Federigo.34 Non può passare inosservato che alcuni di questi toponimi volteggiano anche in una delle tirate finali del Viceré. Cfr. Lunaria, p. 61 (84): «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno,Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti. Malinconica è la storia.» È l’orizzonte da terra desolata di tante altre pagine consoliane, in cui la civiltà soccombe ciclicamente alla forza della natura e alle aggressioni autodistruttive dell’uomo.Si rileggano almeno quelle del Cap. I del Sorriso con “cerniera” testuale Quindi Adelasia,regina d’alabastro [pp. 10-11].35 Per l’esattezza, il binomio è Alunzio e Calacte nelle edd. 1995, 1987, 1976, 1969, nelle bozze dell’ed. 1975 e nei dattiloscritti preparatori denominati Dss 4, 3, 2. La lezione preferita dall’ed. 1997 e confermata da quella del 2004, oltre a concordare con la serie di Pantalica, p. 147, sembra quasi rispondere alla sollecitazione implicita nel commento di G. TESIO, ed. cit., p. 6, n. 9: «Fantastici e stranianti suonano anche i nomi sonori dei luo189 Concludendo, in questo fugace scrutare dietro le quinte di Lunaria,l’opera senz’altro più piccoliana di Consolo, si sono intraviste tracce del decantarsi della commemorazione piú compiuta del poeta, il trittico di Pantalica, e ne sono stati anche rilevati i punti che hanno forse avuto piú a che vedere con la storia del Sorriso.Ora, stando alla nostra incompleta escussione dei documenti del Fondo Consolo, di questo trittico, del suo farsi, non si può dire che, oltre quelle indicate, emergano altre pezze d’appoggio testimoniale. Tuttavia, sorprese, si sa, non se ne possono escludere,nell’assoluto ecdotico. E nel relativo consoliano, lo scrigno delle carte del Fondo personale milanese può sempre riservarne,sorprese, a chi erto possa e sappia guardarci dentro, Catharina et Vincentio faventibus36.ghi evocati, ai quali l’occhio sognante del Mandralisca si abbandona (tutti nomi, tranne uno, curiosamente inizianti con la prima lettera dell’alfabeto).» Non sono da escludere però, insieme al riuso del segmento di Pantalica, l’omaggio da parte dell’A. all’erudizione enciclopedica del Mandra lisca, ma anche la parodia della meticolosità e precisione scientifiche e un po’ pedanti di chi, come il protagonista, tutto vede e ripone nella sua memoria come volumi ben ordinati sugli scaffali della propria biblioteca. E cosa c’è di piú ordinato di un elenco alfabetico? Qui forse basterebbe solo il ritocco di una doppia inversione: Abacena e Agatirno, Alesa e Alunzio, Apollonia…, che però avrebbe soppresso l’effetto del doppio settenario suggerito dai binomi prescelti.36 Ancora un’altra manifestazione di fedeltà si può scorgere nello scritto consoliano che accompagna l’edizione del centenario della nascita del poeta: PICCOLO, L. (2001): Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano: Scheiwiller, in cui si puntano di nuovo le luci sul ritratto del 1967.190

BIBLIOGRAFIA
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Incontro con Vincenzo Consolo La voce della storia

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Insieme ai resti dei templi i viaggiatori del Grand Tour trovavano le rovine della società siciliana»

«Con gli Arabi iniziò una nuova civilizzazione»
«La Sicilia è metafora dell’essere italiani»
«I Romani ci trattarono come una colonia e io sarei stato dalla parte di vinti»
«Amo la multiculturalità dei tempi di Ruggero il Normanno»
«Non condivido il meccanicismo sociale di Tomasi di Lampedusa»

Si dice che la modestia sia virtù dei grandi. Restare un po’ bambini quando tutto intorno fa rumore. Anche questo è un privilegio assoluto. Difficile non pensarci quando si è a contatto con una persona come Vincenzo Consolo. Negli occhi l’umiltà della cultura, quella vera, che vale anche e soprattutto al di fuori del tempo. Nel cuore il ricordo vivissimo di Leonardo Sciascia (1921-1989), l’amico, la guida nella e per la vita. Consolo ne parla spesso. Ricorda i loro momenti, le giornate di primavera passate alla Noce, la casa di campagna poco fuori Racalmuto (Ag), città natale dello scrittore scomparso.

In qualche modo anche per questa intervista siamo a casa sua: alla Fondazione Sciascia; in molte delle foto appese i due amici sono insieme. L’occasione è quella del Premio Parnaso (direttore artistico Piero Nicosia), manifestazione di teatro, cinema e letteratura organizzata da Comune di Canicattì, Associazione culturale Kairos e Fondazione Sciascia, riproposto per la seconda volta nel proverbiale comune siciliano sul tema “Scherzare col fuoco, ovvero con il potere legittimo e illegittimo”.
Consolo è ospite d’onore. È contento di essere intervistato per Archeologia Viva: «Prima che faccia buio, però, vorrei fare visita alla tomba del mio maestro se non le dispiace».

Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello (Me) nel 1933. Dal 1968 vive e lavora a Milano, sua patria d’adozione. Romanziere e saggista, ha pubblicato numerose opere di narrativa ambientate soprattutto nella sua Sicilia. Ha vinto il Premio Pirandello per il romanzo Lunaria nel 1985, il Premio Grinzane Cavour per Retablo (1988), il Premio Strega (NottetempoCasa per casa, 1992) e il Premio Internazionale Unione Latina (L’olivo e l’olivastro, 1994). I suoi libri sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno.

D: Nel suo Retablo è possibile rintracciare molto della Sicilia archeologica e delle civiltà che vi hanno lasciato segni importanti. Come nacque l’idea di quest’opera?

R: Il libro è sulla linea del Grand Tour e dei grandi viaggiatori del Settecento e Ottocento. Una tradizione che andò intensificandosi a partire da Goethe. Naturalmente questi viaggiatori eruopei avevano un’idea mitica della Sicilia. Solitamente s’imbarcavano a Napoli per Palermo, da dove iniziavano il loro giro passando dai siti archeologici del centrosud (Segesta, Selinunte, Agrigento, Siracusa, Catania), per poi giungere a Messina da dove tornavano in continente. Così lasciavano sempre scoperta la parte tirrenica settentrionale dell’isola, che è ricchissima d’interesse (e alla quale io appartengo!).

Ecco, il tour tipico era quello, alla ricerca della grecità e della classicità e, comunque, nell’ignoranza di ciò che era vermaente questa terra. Goethe quando arriva a Napoli scrive alla sua donna: «Vado in quella parte d’Africa che si chiama Sicilia…»; poi, però, al termine del suo “tour” afferma che «non si può comprendere l’Italia senza vedere la Sicilia che è la chiave di tutto, è qui che sono contenuti tutti i raggi della storia».

Fatalmente, i viaggiatori europei finivano per confrontarsi con la realtà. Al di là dei templi e dei teatri, oltre il mito, emergeva una Sicilia inedita condita dal barocco (che Goethe giudica letteralmente “osceno”), ma anche dalla società sciliana con tutte le sue contraddizioni. Dunque, questi viaggiatori venivano sì con in testa l’idea della Sicilia classica, ma se ne ripartivano con altre sensazioni.

C’era questa volontà esclusiva di visitare le rovine, ma poi evidentemente non si poteva fare a meno di osservare altri ruderi, quelli della società, con le sue distanze paurose. Soprattutto nelle grandi città, per esempio a Palermo, era macrospopico il fasto delle residenze nobiliari rapportato al degrado dei quartieri popolari. Inoltre, era impossibile non rendersi conto che in Sicilia la civiltà greca, l’Arcadia, era ormai lontana, cancellata prima di tutto dalla dominazione romana, poi dai bizantini, con le loro devastazioni. Quelli furono momenti duri, infelici per la mia terra. Basta leggere le Verrine di Cicerone. E la desertificazione… L’isola divenne il granaio d’Italia, ma le foreste scomparvero, tagliate per coltivare frumento e costruire navi. […]

Archeologia Viva n. 116 – marzo/aprile 2006
pp. 80-82

Vincenzo Consolo, a Segesta estate 2005

Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).