Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo Rossend Arqués

copertina-nottetempo

 

Quaderns d’Italià 10, 2005 79-94

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia:
Nottetempo, casa per casa di Consolo

Rossend Arqués

Universitat Autònoma de Barcelona

Abstract

L’articolo vuol essere una lettura di Nottetempo, casa per casa che prende spunto dall’analisi del sostrato mitico e iconografico delle rappresentazioni teriomorfiche più importanti del romanzo (il «luponario» e il «caprone») per sottolineare il cammino del protagonista dall’afasia animale e malinconica in cui è immersa la sua famiglia, e lui stesso, all’accesso al linguaggio accompagnato dalla presa di coscienza della decadenza della società siciliana che coincide anche con il suo esilio. Parda chiavi: Vincenzo Consolo, licantropia, Pan, malinconia, letteratura siciliana.
Abstract

The article aims at providing a reading of Nottetempo, casa per casa, starting with the analysis of the mythological and iconographic substrata of the most significant theriomorphic representations within the novel (the «lycanthrope» and «goat») in order to emphasise the path taken by the protagonist from that animal, melancholy aphasia in  which he and his family are immersed, through to the access to language, accompanied by the growing awareness of the decadence of Sicilian society that also coincides with his exile.

Key words: Vincenzo Consolo, lychanthropy, Pan, melancholy, Sicilian literature.

  1. Nottetempo… all’interno del trittico consoliano
    La notte, la notte mitica, ha tutti gli elementi dell’incubo. Nottetempo, casa
    per casa (1992)1 nella trilogia che ha inizio con Il sorriso dell’ignoto marinaio
    (1976) e si conclude con Lo spasimo di Palermo (1998), occupa il secondo momento del periodo storico che Consolo ha dedicato alla Sicilia, il primo essendo il Risorgimento e gli anni che precedono l’assassinio del giudice Borsellino.
    2 Si tratta di un periodo della storia siciliana (siamo negli anni Venti),quello di Nottetempo, nero come le camicie dei fascisti che piano piano riempiono le piazze dei paesi e delle città d’Italia. Più concretamente, ci troviamo a Cefalú, già scenario de Il sorriso…3 Anni difficili, non solo per le vicende politiche, ma anche e soprattutto per quelle morali, come tanti altri della storia italiana. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo… Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso…tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo…tra gli anni 30 e l’inizio degli anni 90, con le morti di Falcone e Borsellino. Fasi storiche tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione. «Traversare la Sicilia intera —scrive Consolo in un articolo intitolato «Paesaggio metafisico di una follia pietrificata »
    4 — , visitare quelle città e quei paesi un tempo vitali per umanità e cultura, carichi dunque, ancora fino a pochi anni addietro, di volontà e di speranza, luoghi che il moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica, l’autostrada, ha tagliato fuori dallo spazio (…); visitare oggi Enna, Caltanissetta (…)più che accenderti furori, inutili ormai, ti infonde sconsolazione e pena. Sono paesi che si sono svuotati d’uomini e significato».5 Seguendo gli esempi di Manzoni, Verga e, soprattutto di Tomasi di Lampedusa e Sciascia, l’autore sceglie la formula narrativa del romanzo storico con questo obiettivo: collocare in figure, luoghi e trame del passato problemi e sentimenti del presente, che altrimenti risulterebbero non solo difficili da trattare ma addirittura pericolosi. Ne era ben conscio Calvino quando stabilì un parallelismo tra la narrazione realista e la Medusa. Per sfuggire allo sguardo pietrificante del mostro mitologico non resta nessun altro modo che osservare   la realtà attraverso la corazza-specchio di Perseo. La narrazione storica di Consolo ha questa funzione di corazza-specchio: proprio allontanandosi dal presente, essa è in grado di coglierlo, analizzarlo e giudicarlo, mentre riesce contemporaneamente a immergersi con spirito critico e analitico nel momento storico preso di volta in volta in esame, senza mai tralasciare la dimensione del mito nelle sue diverse sfaccettature, soprattutto di quei miti arcaici che hanno dato essenza e forma alla natura umana e morfologica della terra di Sicilia Come lo stesso Consolo ha dichiarato in «Le interviste d’Italialibri» 2001, anche se molte altre sue opere percorrono episodi ed eventi dell’isola: quello greco (Le pietre di Pantalica), quello dominato dagli spagnoli (Lunaria), quello illuministico (Retablo), ecc.«E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione. Perché Cefalù e non Palermo? Cefalù perché microcosmo, antifona di quel gran mondo che è Palermo […]. Io ho scelto Cafalù. Sono piccoli mondi così ricchi dentro il cui viaggio, la scoperta può non finire mai.» «La corona e le armi», Giornale di Sicilia, 14 marzo 1981.Pubblicato il 19 ottobre 1977 su Il Corriere della sera, cit. da Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 165-176.Lo stesso messaggio possiamo trovarlo in altri articoli e testi suoi. Citiamo a mo’ di esempio «La cultura siciliana è tramontata per sempre», L’Ora, 31 maggio 1982 e «Flauti di reggia o fischi di treno?», Il Messaggero, 19 luglio 1982. lia. Una narrazione storica, cioè, rivolta programmaticamente a evitare ognirealismo politico e storico, e alla ricerca di un nuova lingua letteraria capace di unire, condensare e quindi conservare fuse tra loro tutte quelle tracce. Di questo aveva già parlato Giovanardi in una sua bellissima recensione a Nottetempo…in cui sostiene che piú che a una storia questo romanzo sembra dar vita a una contrapposizione tra due diversi modelli di vita e di cultura, due modelli antropologici da sempre compresenti nello spazio insulare,6 e cioè la cinica accettazione dell’esistente e il pervicace ricorso alla fantasia come fuga dalla realtà.
    7 Ciò detto, però, non si può dimenticare che lo stesso Consolo ha insistito piú volte sulle fratture prodottesi nel tessuto sociale, ambientale e antropologico insulare in periodi concreti della storia siciliana piú recente (si veda a questo proposito il citato articolo Paesaggio metafisico… in un punto del quale leggiamo: «È il paesaggio della nuova umanità siciliana, uguale ormai, per perdita di cultura e di identità, alle altre realtà regionali italiane nate dallo squallore consumistico degli anni del cosiddetto boom economico»).
    8 Per stabilire fin dall’inizio la metodologia di questo mio lavoro, devo informare che la mia lettura di Nottetempo… parte dalle teorie analitiche junghiane e, in particolar modo, di quelle di Hillman, non perché io abbia una particolare predilezione per questo approccio critico, ma perché credo che effettivamente questo testo narrativo, come gran parte dell’opera consoliana, trovi spunto nell’universo degli archetipi di derivazione junghiana.
    9 Stefano GIOVANARDI, «Dalla follia alla scrittura», in La Repubblica, 25 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 152]. Si vedano anche Giulio FERRONI, «Bestie trionfanti», in L’Unità, 27 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 153-157]; Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 168; Francesco GIOVIALE, op. cit., p. 168; Lorenzo MONDO, «Invasati e dolenti», in La Stampa, 4 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 147-148]; Attilio SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna:

Il Lunario, 1997; Giuseppe TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole: Cadmo, 2001.

  1. L’autore stesso in un articolo del 1986 intitolato «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001, p. 175-181), tenta di dividere la letteratura siciliana in due grandi rami: «occidentale e orientale, storico e esistenziale, poetico-lirico e prosaico, mitico e razionale, simbolico e metaforico», con tutti gli spostamenti e le contraddizioni del caso, fino ad ipotizzare una letteratura siciliana che riesca a fondere i due mondi: «E poi a me sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione — dice La Ciura a Corbera» [i due personaggi del racconto Lighea di Tommasi di Lampedusa]. Quella sintesi che lui stesso tenterà in Nottetempo…, se non in tutta la sua opera.
  1. Un argomento simile si legge nell’articolo di Vincezo CONSOLO, «La cultura siciliana è tramontata per sempre», pubblicato su L’Ora (31 maggio 1982): «Con la seconda rivoluzione industriale, con la rivoluzione tecnologica, con i movimenti umani avvenuti nel nostro Paese in questi ultimi trent’anni, con i cambiamenti antropologici che questi movimenti hanno comportato, sono finite le culture locali, quelle che avevano una loro precisa individualità, una loro storia, una loro realtà «realtà». La cultura siciliana secondo me è tramontata».
  1. L’influsso hillmaniano è accertato. Lo stesso Consolo mi ha informato che un suo amico, Giovanni Reale, analista e filosofo junghiano, l’aveva introdotto a questo tipo di letture, tra cui c’erano anche alcuni libri di HILLMAN di cui qui mi preme sottolineare in particolarmodo, Saggio su Pan, Animali del sogno e Il sogno e il mondo infero. In un articolo intitola
    2. Licantropia: dolore e cosciencia
    Di che notte si tratta e quali sono le creature che vivono quella pittura notturna
    dominata dalla animalità e dal teriomorfismo? Passiamo ad analizzare,
    dunque, dettagliatamente e in profondità le diverse facce della bestialità e le
    funzioni che esse hanno nel testo oggetto della nostra attenzione. Non avrebbe
    senso, infatti, ridurre a una sola tutte le forme di animalità presenti nell’opera,
    omettendo di mettere in luce le differenze morfologiche e mitologiche di ciascuna di loro.
    10 Il romanzo ha inizio con la descrizione di un notturno lunare dominato
    da un uomo in pieno delirio, il cui terribile ululato squarcia il silenzio delle
    tenebre. Dietro a lui vaga attenta e angosciata un’altra figura, che in seguito sapremo essere il figlio, vero protagonista del romanzo. Il licantropo è Marano
    (il cognome derivato dallo spagnolo marrano ci dice delle sue origini di ebreo convertito a forza), padre di Pietro, vedovo. Il suo dolore straziante, insieme a quello di tutta la sua famiglia, è causato sia dal lutto per la perdita della sposa, sia dalla «memoria genetica» della violenza subita dagli antenati ebrei obbligati a cambiare cultura e religione,11 sia dall’ascesa sociale che lui e la sua famiglia hanno recentemente sperimentato grazie all’eredità lasciatagli da un eccentrico possidente locale, una specie di libertario tolstoiano che ha voluto beneficare la famiglia Marano al posto del suo legittimo erede, il nipote imbecille. Questo cambio repentino e non voluto di classe sociale sarà responsabile di una specie di schizofrenia comportamentale, almeno per quei personaggi femminili che si sentono obbligati a osservare scrupolosamente le regole sociali della piccola borghesia, per quanto diverse da quelle in cui sono nati e cresciuti.
    12 Un chiaro esempio di questo ci è offerto dal rifiuto di Lucia non solo di accettare ma neppure di ascoltare la dichiarazione d’amore di Janu, il capraio e amico d’infanzia, ora considerato solo un puzzolente pezzente. La famiglia Marano corrisponde a un catalogo di figure malinconiche, a una «follia dai molti volti», come scrive Segre.
    13 Serafina, la sorella maggiore di Pietro, rappresenta l’immagine stessa della fenomenologia depressiva che la porta all’immobilità corporale, alla pietrificazione autistica o alla schizoto «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, cit., p. 175-181) che prende spunto dal racconto Lighea, di Tomasi di Lampedusa, per parlare di altre sirene siciliane, tra cui Giovanni Reale, leggiamo (p. 181): «Se è vero, come sostiene Hilmann, che la pratica analitica non è altro che poiesis, quella di Reale lo è pienamente». Come fa, invece, Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa», in Enzo PAPA (a cura di), Per Vincenzo Consolo, San Cesario di Lecce: Manni, 2004, p. 23-58, che considera l’intero testo di Nottetempo… solo dal punto di vista della licantropia, senza avvertire la dialettica tra questa forma di animalità e le altre forme di trasformazione umana in bestia che sono presenti nello stesso testo consoliano.
  1. «Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro le vene» — si legge a p. 42.Come chiarisce Vincenzo CONSOLO in «Le interviste d’Italialibri» 2001. Cesare SEGRE, «Una provvisoria catarsi», in Corriere della sera, 19 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 150]. frenia catatonica,14 così come ci è stata rappresentata iconograficamente nei secoli.
    15 La figlia minore, Lucia, invece, psichicamente alterata dal nuovo status della sua famiglia, è affetta da una psicosi maniaco-depressiva, in preda, com’è, a un continuo delirio paranoico.16 Parleremo di Pietro in seguito, dedicandogli più ampio spazio, per adesso occupiamoci del padre e del suo male «siciliano», come lo definisce Cervantes nel Persiles (I, 18).17 Non c’è dubbio che la descrizione cervantina, lasciando da parte il particolare del movimento in gruppo («en manada») dei lupi, è presente sia nell’immaginario narrativo di Mal di luna di Pirandello18 che nel testo di Consolo, pur con la presenza in entrambi dell’elemento lunare,19 assente, invece, in Cervantes. Colpisce, «E Serafina, ch’aveva preso il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni giorno, immmobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza soste.» — si legge a 42. Per una tassonomia attuale di questa malattia depressiva si veda Eugenio BORGNA, Malinconia, Milano:Feltrinelli, 1992 e Marie-Claude LAMBOTTE, Esthétique de la mélancolie, Paris: Aubier, 1984.Quest’ultima vede nell’inibizione il tratto più significativo della malinconia moderna.Ricordiamo qui le incisioni del Maestro F. B. (Franz Brun?) (1560), A. Janssens (1623),Feti (1614) o C. Friedrich (1818), si veda Raymond KLIBANSKY, Erwin PANOFSKY, Fritz SAXL, Saturno e la malinconia, Torino: Einaudi, 1983.
  1. Il narratore ci parla della sua malattia a p. 45-48, da dove prendiamo le seguenti frasi: «Lei era innocente, immacolata come la bella madre. E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi» (…) Finché un giorno, un mezzogiorno (…) non si mise a urlare disperata sul balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre le sipale, c’eran uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare (…) «Mi parlano, mi parlano!» diceva stringendo la testa fra le mani». «Nell’orecchio, nel cervello, vigliacchi!’e torbidi erano i suoi occhi, più neri nel pallore della faccia.». Per una tassonomia moderna della sua delirante afezione psicotico-paranoica si veda Eugenio BORGNA, Op. cit.«Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quienlos médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que sehaya convertido en lobo, y se junta con otros heridos del mismo mal, y andan en manadaspor los campos y por los montes, ladrando ya como perros o ya aullando como lobos; despedazanlos árboles, matan a quien encuentran y comen la carne cruda de los muertos, y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género,a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedadlo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que losaten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan,si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.», Miguel de CERVANTES, Lostrabajos de Persiles y Sigismunda, ed. di Carlos Romero, Madrid: Cátedra, 2002, p. 244. D’altronde l’autore del Quijote poco si allontana dalla iconografia tradizionale dell’uomo lupo, così come è attestata nel Licaone di Pausania o di Ovidio. Si veda Paola MICOZZI, «Tradición literaria y creencia popular: el tema del licántropo en Los trabajos de Persiles y Segismunda de Cervantes», Quaderni di filologia e lingue romanze, III serie, n. 6, 1991, p. 107-152.Luigi PIRANDELLO, «Mal di luna», in Novelle per un anno, vol. II, t. I, a cura di M. Costanzo,Introduzione di G. Macchia, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495.La presenza della luna, invece, diventa elemento costante e ricorrente in particolar modo a partire dal XIII secolo, anche se nel Satyricon di Petronio era già stata descritta una metamorfosi lupina al chiaro di luna. Si vedano Gaël MILIN, Le chiens de Dieu, Centre de Recherche Bretonne et Celtique, 1993 (trad. it. El licantropo, un superuomo?, a cura di Jose Vincenzo Molle, Genova: ELCIG, 1997: p. 60-64) e P. MENARD, Les lais de Marie de France, París:P.U.F., 1979. In quest’ultimo leggiamo a p. 222-223. «So bene — scrive Gervasio di Tilbury al capitolo CXX (De hominibus qui fuerunt lupi) della terza parte degli Otia — che nel in merito a questo, la supplica che il malato dirige ai familiari di allontanarsi da lui quando arriverà l’attacco del male. Inoltre è importante qui sottolineare che il male della licantropia20 viene attribuito da Cervantes alla terra siciliana, 21 e abbiamo già visto che Consolo nel citato articolo Paesaggio metafisico…dichiara che l’identità arcaica dell’isola risiede appunto nell’esistenza di forme di bestialità terrorifica: nostro paese càpita ogni giorno che certe persone siano mutate in lupo sotto l’influsso delle lunazioni (per lunationes mutantur in lupus)». Con il corpo coperto di pelo, l’infermo correva per i boschi, in preda al delirio, celandosi allo sguardo altrui e attaccando ferocemente persone o animali con cui s’imbatteva. Passata che era la crisi, la persona malridotta, di solito un uomo (è una malattia prettamente maschile, per quanto ci siano versione femminili di trasformazioni zoomorfe, come la donna-pantera), tornava in sé dimentico dell’attacco di follia. Questa versione del problema ha alimentato molta letteratura scritta e cinematografica, fino al punto che Boris Vian (Le loup-garou) ne fece una versione inversa, il lupo che si trasforma in uomo, cioè, il lupo-uomo. Chiamati anche ulfhednar (uomini vestiti di pelli di lupo), i lupi mannari facevano parte tranquillamente delle truppe delle antiche popolazioni germaniche e scandinave in quanto eccezionali combattenti. La licantropia (dal greco lykos, lupo, e anthropos, uomo), cioè la trasformazione di un uomo in «lupo mannaro», il «luponario», per effetto di una forza malvagia o di uno spirito animale capace d’impossessarsi di un essere umano e agire attraverso di lui, non solo ha riempito leggende e storie di tutto il mondo, ma è stata da alcuni considerata una vera e propria infermità mentale. Una malattia che portava a chi la soffriva ad assumere l’aspetto di un lupo, almeno per un periodo di tempo non troppo lungo, coincidente il più delle volte con il plenilunio. Si veda Gabriele CHIARI, «Il lupo mannaro», in Lützenchirchen, Mal di luna, Roma: Newton Compton, 1981, p. 57-81; J.A. MAC CULLOCH, «Lycanthropy», in J. HASTING (a cura di), Enciclopedy of Religion and Ethics, tomo VIII,206-220; Gaël MILIN, Op. cit. e Ermanno PACAGNINI, «Uno sguardo amaro e memoriale», in Il Sole-24 ore, 5 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 148-149];P. BLUM, The Bordeline Childhood of the Wolf-Man, in Freud and his patients, a cura di Kanzer e J. Glenn, II, New York-London, 1980, p. 341-58; S. CAMPANELLA, Mal di luna e d’altro, Roma: Bonacci, 1986; Gilbert DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, Bordas, 1969; M. GARDINER (a cura di), The Wolf-Man by the Wolf-Man, New York, 1971; Carlo GINZBURG, «Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari», in Id, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino: Einaudi, 1992, p. 239-251; F. HAMEL, Human animals, Wellingborough: The Aquarian Press, 1973; Th. LESSING, Haarmann. Storia del lupo mannaro, trad. it. Milano: Adelphi, 1996; Guglielmo LÜTZENKIRCHEN et alt., Mal di luna, con un saggio introduttivo di Alfonso M. Di Nola, prefazione di Nando Agostinelli, Roma: Newton Compton editori, 1981; R. VALENTI PAGNINI, «Lupus in fabula. Trasformazioni narrative di un mito», in Bolletino di studi latini, n. 11, 1981, p. 3-22. Ringrazio l’amico Giosuè Lachin, esperto in luponari, l’arricchimento della mia biblioteca sull’argomento. Carlos ROMERO (en su edición de Miguel de Cervantes, Los trabajos de Persiles…, cit, 244-245) commenta a nota 15 de la p. 244: «[Cervantes] tendría oído y memoria suficiente para recordar un termino siciliano, aunque no privativo, desde luego, «de la mayor isla del Mediterráneo», en la que — no lo olvidemos — vivió bastantes meses y pudo tenerefectivo conocimiento de casos de licantropía o manía lupina. En DEI, art. lupomannaro, se lee: «V[oce] di orig. merid., che raggiunge la Sicilia, cfr. abr.[uzzese], lopëmënarë, dal molfett[ano] lëpòmërë, cal[abrese] sett. lëpuómmërë, dal la.t. regionale lupus homines (…) Si error de transcripción sigue habiendo, por parte de C., es ahora mínimo — y comprensible dada la ardua fonética de los dialectos del sur de Italia.» Io penso, invece, che l’etimologia di «luponario» provvenga dal latino lupus hominarius. Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. Il licantropo s’aggirava per l’abitato, a quattro zampe, ululando, grattando, le porte, con le sue unghie adunche. Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici. La rappresentazione del licantropo che ulula alla luna all’inizio della narrazione consoliana non lascia indifferenti. La metafora dell’uomo lupo ci parla del dolore straziante di alcuni esseri umani — forse anche dell’intera umanità intesa come singoli individui, famiglie o intere società — contro i quali il destino si è accanito da decenni, se non addirittura da secoli, sotto forma di sfruttamento,depredazione, violenza fisica e morale. Condizione aggravata, nel caso dei Marano e della società siciliana degli anni Venti, dall’avvento del capitalismo selvaggio e soffocante e dall’ascesa del fascismo. La metafora dell’uomo lupo ci parla ancora dell’impossibilità di reagire da parte delle vittime di tale accanimento, se non attraverso la pazzia (di Lucia), la metamorfosi e le urla bestiali (di Marano padre) o il silenzio (del protagonista, Pietro, e di sua sorella Serafina). La licantropia di Marano padre si pone al di là della densità mistica e folclorica della licantropia e del licantropo in generale, già studiata da alcuni autori. C’è infatti in essa una eco di afflizione amorosa che ricorda l’acme dello stato di malinconia d’amore, descritta dal medico catalano Arnau di Vilanova, e da lui denominata cicubus, nel De parte operativa (1271). Tra i sintomi del male non vi è soltanto l’orrore e l’odio irrazionale per la società, ma la convinzione di essere «galli, lupi, cani, vasi di vetro, o di avere la testa di vetro o persino di essere senza testa o anche morti».22

Anche il lessico e il ritmo poetico del primo capitolo ci ricordano i poeti lunari che sono, per sua stessa ammissione, i preferiti di Consolo e che non a caso formano con le loro opere la biblioteca ereditata dalla familia Marano e quella privata di Pietro. Penso in particolare a Leopardi (ma riferendoci all’autore, dovremmo citare anche Lucio Piccolo) i cui idilli notturni sono l’ipotesto di alcuni dei momenti di altissima poesia delle descrizioni di questa parte. Basti un esempio: «Nelle solinghe case sopra il colle, scossi nel pietoso sonno del ristoro, credettero ai passi di mali cristiani, ladri o sderegnati che la notte e il vuoto covrono e incorano». Alla base di questo nucleo narrativo-descrittivo c’è dunque la rappresentazione del malessere dell’umanità o almeno, di quella parte di essa, vittima di soprusi sociali, senza però mai perdere di vista i riferimenti di tipo mitico e archetipico. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 85 «Alienatio, quam concomitatur horror, vel odium irrationabile sive immoderatum, et frequenter haec species manifestatur in errore societatis humanae, vel cuiuscumque individui humani (…) Verbi gratia: de melancholicis, utrum aestiment se gallos esse, vel lupos, aut canes, etc. vel utrum esse vitrea vasa, vel caput vitreum, aut non habere caput: et sic de membris aliis: aut se esse mortuos, et non debere comedere.» Tenendo ben presente questi due ultimi aspetti, a questo punto dell’analisi emerge prepotentemente la tipologia bestiale di Pan, il grande caprone, figura mitica e archetipica, contrapposta per morfologia e comportamento al luponario che, con le sue zanne e in solitudine, è costretto a vivere il suo calvario lunare. A Pan è dedicata qui di seguito una particolare attenzione. Janu o il ritorno e la nuova morte di Pan «Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie», scrive Verga parlando del pastore protagonista della novella omonima.23 E si potrebbe sostituire «Jeli» per «Janu», tale è il collegamento tra il personaggio verghiano e quello di Consolo. Janu, però, è molto di più. Si tratta, innanzi tutto, di uno dei personaggi principali e dei più simbolici della narrazione, visto che le sue vicende occupano gran parte del testo, senza le quali non avremmo diegesi. Egli, come Jeli, è figlio, fratello, amante degli animali con cui vive. Entrambi i protagonisti delle  ispettive

narrazioni sono anche i pastori che, tra le altre cose, iniziano i giovani figli di famiglia agiata alla conoscenza della natura: Petro (e anche sua sorella Lucia), nel romanzo oggetto di questa analisi. Anzi, l’iniziazione sessuale di Petro, a imitazione dello stesso Janu, avviene con le capre en plein air. Petro aveva imparato tuttto dalla mandra (…). Avanti Janu, che aveva più di Petro un paio d’anni. E l’aiutò per questo, là alla mandra, a provare una volta con la capra. «Io la tengo,» disse «sta’ sicuro che non guardo… «Meglio che niente, è cosa naturale…» Una capra lui stesso, Janu («la faccia lunga come quella di una capra»), non proprio incarnazione del dio Pan, ma certo di uno dei suoi fauni. Janu, inoltre, ha un nome che denuncia l’ambivalenza della sua condotta. Giano è infatti il nome del dio bifronte che annuncia i transiti dal passato al futuro e i cambiamenti da una condizione a un’altra. Janu nel racconto è il protagonista principale del passaggio da un mondo nel quale il mito è vissuto ancora in forma pressocché «naturale», con i suoi riti e rappresentazioni cicliche, a un mondo in cui, invece, il mito è forzato a rinascere imparentato con il diavolo o, meglio detto, trasformato nello stesso Satana. Janu è sì la divinità panica («Piace your divine prick, a real satyr’ tool. This sicilian caprone entrare in nostro ovile… Vene, prego, a nostro Tempio, a villa di La pace, all’Abbèi de Thelèm», dice Cronwell, p. 80) che Aleister Crowley — la Grande Bestia 666, to mega therion— cercava negli antenati dell’isola dei satiri, ma anche la vittima propiziatoria del nuovo culto al dio Pan nella sua versione decadente di stregone o diavolo, propria dei costrutti mitici delle contemporane teorie della liberazione. Ma Pan è morto ormai da tempo e il suo ritorno non dipende da Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 86
23Cit. da Giovanni VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano: Mondadori, 1979,137-172. queste forme superficiali e decadenti di rievocazione mitica, tutte intrise come sono di erotismo sadomasochista e pertanto non soltanto incapaci di guarire, ma al contrario, buone solo ad ammorbare corpo e anima. Il mito della morte di Pan (Pan, le Grand Pan, est mort) già ascoltato nella tarda antichità, indica che la natura ha finito di parlarci e che tutto è reificato, cessando di essere divinità e diventando semplicemente cosa.24 La morte di questo dio che distrugge e insieme preserva, annuncia la scomparsa della società.25 Per questo, il povero Janu, oltre a prendersi una malattia venerea, viene accusato di abigeato. Il dio Pan, il caprone divino, è stato degradato a puro pastore, anzi, a mera capra. Janu è, nella sua ingenuità, un essere ambiguo, senza alcuna malizia, puro istinto («restò solo nel rifugio della mandra. Privo di pensiero, di volere», p. 71). Nella sua degradazione senza pensiero, Janu coincide pienamente con l’immagine di Pan che il nuovo ordine ideologico insegue per i propri sfoghi falsamente liberatori. Ciò appare chiaramente nella scena dell’orgia panica nella quale Janu, il divine prick (il Pan redivivo), rischia di mancare al suo compito, quando, in piena performance priapica, non riesce a raggiungere l’erezione per penetrare la Cortigiana del Mondo. L’impasse è risolta, insieme alla sensazione di ridicolo che Janu vive, grazie alla cocaina. Tra i partecipanti all’orgia si trova anche il dannunziano Baron Cicio, nemico giurato dei Marano, oltre ad altri seguaci delle diverse manifestazioni dell’irrazionalità dell’epoca. Le quali manifestazioni confluiscono poi nell’ideale fascista e negli ambienti fascisti trovarono anche stimoli rappresentati dalle nuove mode, come l’ostentazione di marche e di marchingegni d’oltralpe (che hanno nella Targa Florio il suo acme), lo snobbismo e la violenza cieca. Arrivati a questo punto è evidente lo scontro tra due atteggiamenti contrapposti da ogni punto di vista (antropologico, culturale, ideologico, morale e persino mitico) che si concretizza nella descrizione delle due opposte biblioteche (chiaro riferimento alle biblioteche del Fu Mattia Pascal): quella di Mandralisca, cioè del defunto Michele, «zio» di Pietro Marano, e quella del suo avversario, don Nenè Cicio, patrizio di Cefalù. Quest’ultima un coacervo di tradizioni locali, cinismo, volgarità intellettuale e edonismo dannunziano e decadente, quanto la prima è «esercizio ostinato e appassionato della fantasia», fuga della mente verso altre realtà, con la presenza di grandi autori, tra cui brillano in modo particolare Leopardi, Dante, Pascoli, accanto a Tolstoi e Hugo.
26 Scrittori che alla fine del romanzo Petro contrapporrà anche alla letteratura
politica e ai poeti e letterati realisti e dialettali. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 87 James HILLMAN, Saggio su Pan, Milano: Adelphi, 1977. «La société tombe en dissolution. Le riche se clôt dans son égoïsme et cache à la clarté du jour le fruit de sa corruption; le serviteur improbe et lâche conspire contre le maître; l’homme de loi, doutant de la justice, n’en comprend ples les maximes; le prêtre n’opère plus de conversions, il se fait séducteur; le prince a pris pour sceptre la clef d’or, et le peuple, l’âme désespérée, l’intelligence assombrie, médite et se tait. Pan est mort, la societé est arrivé au bas» — scrive Proudhon, cit in Jean CHEVALIER— Alain GHEERBRANT, Dictionaire des symboles, Paris, Robert Laffont, 1969, p. 724.

  1. Stefano GIOVANARDI, op. cit., p. 152.
    «Ora — leggiamo in Nottetempo… — sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nella insania. E corrompeva il linguaggio, strancangiava le parole, il senso loro — il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senso sonno…» (p. 140). L’oltraggio e le sue diverse forme, insieme alle svariate reazioni ad esso, è il grande tema di questo romanzo. E l’offesa che ha già colpito le persone (i Marano, Janu) fa scempio anche degli oggetti, come appare chiaramente nel capitolo intitolato «L’oltraggio», in cui degli sconosciuti penetrano in casa Marano per frantumare giare, rovesciare fusti, trafiggere otri. Il desolante spettacolo che lascia dietro di sé la furia devastatrice degli uomini non suggerisce al narratore né amare lamentazioni né veementi denunce contro gli «occulti» mandanti dello scempio, bensì una minuziosa descrizione del processo di realizzazione di un oggetto, una giara, che è stata vittima di tanta furia appunto: l’impasto di creta e acqua che l’artigiano plasma e modella, l’azione solidificatrice del fuoco a cui l’artigiano l’affida, gli asini che la trasportano per i mercati dell’isola e continentali. Dall’evocazione della materialità oltraggiata dell’oggetto scaturisce la spaccatura tra arcaicità e modernità. Tradizioni e geometrie di civiltà soccombono alla violenza cieca dei tempi moderni. In senso più lato è la spaccatura già annunciata simbolicamente dalla morte di Pan che nel romanzo acquista le fattezze di Janu. «Trapassa così l’ignaro pastorello dentro l’irrealtà, viene ridotto a maschera, figura, a bruto strumento di cerimonia» si legge nel capítulo «La calura» (p. 79).  Petro o la malinconia positiva E giungiamo finalmente a Petro, protagonista e a tratti voce narrante di Nottetempo…. Anche se la narrazione è a prima vista eterodiegetica, in realtà in molti punti, soprattutto per la focalizzazione costante e per le pause riflessive, risuona la voce di questo personaggio che diventa occhio e penna del narratore, e anche dello stesso autore, quando il romanzo lascia il posto all’autobiografia. Petro attraversa questa storia notturna della Sicilia con quella sua malinconia che lo porta alla fuga dall’isola, deluso dalla politica e dal suo linguaggio, ma destinato a trovare un approdo nella vera letteratura e nella nuova parola. Consideriamo in primo luogo il nome, Petro. Si tratta della variante semidotta e meridionale del nome latino Petrus, dovuta anche all’influsso del greco ecclesiastico. La pronuncia retroflessa della consonante dentale è un ulteriore marchio di sicilianità. Nella scelta del nome si potrebbe vedere un riferimento al Vangelo di Matteo, là dove Gesù consacra l’Evangelista capo della chiesa cristiana: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa… e ti darò le chiavi del regno dei cieli». Non tralasciando questa metafora della fondazione che sta alla base del nome Petro e comunque al di là di qualsiasi riferimento ecclesiastico, non è da scartare che il nome alluda a un altro tipo di fondazione, quella dell’illuminazione conoscitiva, essa pure associata alla tradizione biblica. Petro, però, è qui soprattutto una specie di Sisifo, obbligato a vivere costantemente con la pietra addosso («’No, io non sopporto più, più dentro di me questo cotogno», lamentava Petro «sopra di me questo macigno!» e la sua voce sembrava vorticare per le pietre della torre», si legge a p. 37). Lo stesso peso che ha paralizzato Serafina, ha reso pazzo suo padre e sua sorella Lucia.27 Un dolore nato molto prima di lui e dei suoi famigliari («da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri.» p. 106), un freddo nell’anima, qualcosa che «era successo al tempo tangeloso dell’infanzia, una rottura, un taglio mai più rimediato» (p. 135), ripete la voce narrante poco prima dell’incontro di Petro con Grazia (non sfugga la grande valenza simbolica anche di questo nome proprio), la donna con cui egli tenta di «frantumare, con furia, senza posa, la pietra del dolore» (p. 135). Petro, dunque, si trova in una situazione opposta a quella dell’apostolo Pietro, perché la sua pietra è dentro di lui e su di essa si ergerà una più profonda conoscenza del mondo: pietra del dolore o della follia che non pietrifica ma che fonda un nuovo linguaggio che non lascia niente d’inesplorato (sentimenti, credenze arcaiche, gesti e volti, movimenti irrazionali e possibilità di redenzione). Forse per questo, all’inizio del capitolo «La torre», Petro che rappresenta la propria dimora come «casa della dolora, patimento, casa dell’innocenza», rifiuta la visione di Dio che gli è sopraggiunta.
    28 Non c’è dubbio che, in questo senso, l’opera è anche un romanzo di iniziazione a un tipo concreto di saggezza, quella letteraria e linguistica che passa, comunque, per la comprensione generale e particolare dell’umano (casa per casa, appunto). Basta leggere, a questo proposito, un frammento del capitolo «Pasqua delle rose»: «Dal piano di essa [la Rocca], da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padre figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri». Essendo dunque la scrittura e il linguaggio il fulcro del romanzo, è fondamentale seguire con speciale attenzione le tappe attraverso le quali Petro vi accede: dall’impotenza di esprimersi iniziale all’epifania finale. Quasi tutto il capitolo «La torre» gira intorno allo sforzo del protagonista di lasciarsi dietro l’afasia, il grido, l’ululato (anche lui licantropo, in preda al «male catubo»), per appropriarsi finalmente dei nomi («rinominare, ricreare il mondo», p. 39) e con essi del senso, dato che a lui è concesso di non inabbissarsi completamente nella follia, di poter ancora tornare indietro. La luce della candela che compare in queste pagine è metafora della possibilità, non ancora solidamente fondata: sem-Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 89
  1. E che ha petrificato, se vogliamo, la stessa Sicilia, come Consolo non manca di ripetere ponendo particolare enfasi sulla metáfora della «petrificazione». «’No, no!… Non voglio!’ e sventagliò le mani per frantumare, fugare quell’immagine, l’immenso dio di tessere che invadeva il cato della fortezza del suo Duomo». Vale a dire il pantocrator del mosaici della cattedrale di Cefalù. plicemente «un lume, nella bufera». Questo stesso capitolo registra il tentativo frustrato di accesso alla scrittura: E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli, stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento (p. 53). A questa straziante dichiarazione d’impotenza segue, alcune pagine più avanti (nel capitolo «Il capretto»), quella della descrizione di una catabasi, una discesa, accompagnata inizialmente dal «chiaror di una lanterna»,
    29 dentro «i sotterranei del tempio diruto della Rocca», ma, in realtà, nei luoghi della memoria mitica e materiale dell’isola. Qui ha luogo «un passo nel silenzio»,
    come dice il narratore alla fine di questa scena, vale a dire «un passo all’interno
    del silenzio e al fine di uscirne». È questo un momento centrale: assistiamo a
    un inabissamento in una «zona incerta» della memoria che recupera assenze,
    mondi arcaici, miti e età sepolte; negli «spazi inusitati» illuminati da «una luce labile» ma «nuova», grazie alla quale sembra ancora ipotizzabile la narrazione, per quanto fatta di «frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie». Il narratore, a un certo punto, ricorda, quasi con le parole di Petro, il momento in cui in un passato imprecisato scoprì l’angelo, assorto e fermo, il cui attento sguardo di accecante luce, enuncia enigmi, misteri ed è «preambolo d’ogni altro spettro». Quest’angelo che Petro dice di aver visto nei sotterrani della torre è, in realtà, uno dei bellissimi nunzi dei mosaici del Duomo di Cefalù,30 come risulta dalla descrizione: «Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve». Ma quest’angelo collima con l’altro, lo Scriba, meno esternamente lucente, ma più illuminante internamente, dell’incisione Melencolia I di Dürer: «lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocchi. (…) È l’ora questa degli scoramenti, delle iner-Ricordiamo, a riprova dell’importanza di quest’immagine del lume, la sua ripresa in una sequenza di chiara ascendeza pascoliana: «Lo guardò Petro allontanarsi [al padre], dietro una finestra, l’altra [Lucia], trapassa, per le stanze un lume, palpita, s’è spento. L’assale l’infinita pena, lo sgomento, si smuove, spande il dolore che ristagna dentro». Inoltre Consolo aveva voluto inserire l’opera di un anonimo Maître de la Chandelle sulla copertina della prima edizione dell’opera. «È un lume che esprime una fede, e questa fede è la letteratura, l’unico antidoto alla pazzia», scrive FRANCHINI 1992: XII. I mosaici si trovano nell’abside e nella crociera. I primi raffigurano Cristo pantocratore a mezzo busto nel catino, la vergine orante fra i quattro arcangeli: Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele nel registro inferiore e i dodici apostoli, raggruppati per sei nei due registri inferiori. Nelle vele della crociera, invece, hanno posto le figure dei serafini e dei herubini,questi ultimi accompagnati dalle figure degli angeli del Signore.
    zie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie
    perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia….(…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita.» (p. 65) Lo stesso Consolo ha confermato la fondatezza del rapporto tra il suo angelo e quello dureriano, per quanto alcuni particolari della descrizione non l’avallino; soprattutto il riferimento al volto bianco, poiché è noto che quello dell’angelo della malinconia è nero.31 A meno che non si voglia ritenere che alcune di queste divergenze appartengano alle zone d’intersezione tra le due immagini angeliche, se non addirittura a una vera e propria contaminazione fra le due iconografie il cui risultato sarebbe un lettura in positivo, un vero e proprio superamento, di quella dureriana. Il resto della descrizione dello «Scriba» «in bianca tunica» con il «il libro appoggiato sui ginocchi» nell’ «ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia » ci porta, invece, inesorabilmente alla citata acquaforte dell’incisore di Norimberga. Per non parlare della luce crepuscolare di per sé sufficiente elemento di collegamento fra le due immagini. Un crepuscolo, quello dell’incisione dureriana «magicamente illuminato — detto con parole degli studiosi tedeschi — dal chiarore di fenomeni celesti, che fanno sí che il mare nel fondo brilli di una fosforescenza, mentre il primo piano sembra illuminato da una luna alta nel cielo che proietta ombre profonde ». È una «doppia luce» (significato letterale di twilight, crepuscolo) altamente fantastica che domina tutta l’immagine, la quale non intende riprodurre le condizioni naturali di una data ora del giorno, ma alludere piuttosto al misterioso crepuscolo di uno spirito, che non riesce a cacciare i suoi pensieri nella tenebra, né a «portarli alla luce».32 Il contenuto concettuale di quest’immagine è doppio, come lo è chiaramente la rappresentazione della scena da parte del narratore consoliano («l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita »). È doppia anche la natura stessa di Crono o Saturno, dio del Tempo, dominatore dell’età dell’oro e divinità triste e detronizzata, generatore e divoratore contemporaneamente di tutto l’esistente; spirito maligno e dio antico e saggio dei malinconici, esseri divini e bestiali allo stesso tempo. Così come l’ambivalenza del verso di Ungaretti citato qualche volta da Consolo: «la notte nelle vene ti sveglierà». Tutti questi elementi iconografici dureriani (il libro, la geometria e gli oggetti di misura e calcolo), presenti persino in gran parte della tradizione iconografica della malinconia,33 rappresentano oggetti già predisposti alla scrittura, alla strutturazione dello spazio in linee e vettori, al calcolo, ma non ancora utilizzati, poiché l’attenzione del protagonista è previa all’azione, cioè tutta rivolta alle profondità della sua mente. La saggezza dei malinconici è figlia delle profondità. Ma ci vuole l’angelo della luce per passare a uno stadio superiore Si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 272-273 y 300. KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 300.
  1. Walter BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino: Einaudi, 1980, p. 145-161. Per quanto riguarda gli oggetti si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 287-297. di linguaggio e conoscenza. Un angelo bianco che era stato annunciato pagine addietro dalla figura vestita di bianco di Lucia, sorella di Petro, quando questi la consegna al ricovero di malati mentali di Bàida (in arabo, bianco) in preda alle allucinazioni («Mi parlano, mi parlano»).34 È anche indubbio che nella scena narrativa a cui ci siamo dedicati vengono esplorate le rovine di quella Sicilia cantata in diversi luoghi delle Metamorfosi ovidiane e nell’Eneide di Virgilio (soprattutto nel libro III). A essi rimandano gli «abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri occhi» dai quali emergono «frammenti, schegge», giacché per un istante il mondo lascia scorgere le sue profondità. Si tratta sicuramente di una scena importante per il suo legame con la malinconia generosa o positiva che è il fondamento psicologico di tutte le arti, la conditio sine qua non di ogni invenzione poetica; un fascio di luce intensissimo che fa risplendere le cose e l’esperienza che di esse abbiamo. 35 È lo sguardo fisso dell’Angelus novus con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali dispiegate. «L’angelo della storia — scrive Benjamin nella Tesi IX delle note “Tesi della Filosofia della Storia”36— deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera.» La malinconia è dunque la dimensione dalla quale è possibile comprendere la profondità del mondo; è quindi il tentativo disperato di salvare le cose dal loro precipitare nelle fauci del tempus edax (Che non consumi tu Tempo vorace, ripete il narratore citando Ovidio). Scrive Benjamin in una pagina che amo citare e che qui mi sembra piuttosto pertinente: «La melancolia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.» La fuga di Petro è anche una fuga sia dal silenzio sia dal grido, per aprirsi finalmente alla possibilità di accedere alla parola. Se quella del padre, il luponario, era la fuga nella notte della ragione, nella nera irragionevolezza, nel grido della disperazione, quella di Petro può raggiungere finalmente l’espressione vera che rivela fino in fondo l’angoscia. La Tunisia, in cui approda Petro, è certamente un omaggio dell’autore a una delle prime destinazioni degli espatriati siciliani,37 ma è anche, e soprattutto, la prospettiva dalla quale, liberi dall’oppressione ambientale, si può finalmente guardare e capire la martoriata Sicilia, così come insegnano tanti grandi scrittori siciliani, quali Verga, Capuana, Vittorini che hanno potuto parlare della loro terra solo quando si trovavano lontano da essa. Il libro finisce come è cominciato, con un plenilunio che illumina il camposanto. Selene, però, non diffonde il suo distaccato candore sui passi disperati di un licantropo, ma è il lume amico che rischiara la strada, non dico verso la guarigione, ma verso un sapere che aiuti a capire il mondo; invece di accompagnare con fredda luce una delle sue creature condannate, ispira un futuro poeta, giacché la conoscenza è fulgore — folgorazione — lunare. Per giungere al punto in cui la luna è sole che illumina il mondo interiore del soggetto, è stato necessario passare attraverso il dolore e la disperazione, conoscere tutte le case e le cose, le pareti, le pietre; leggere tutti i libri, assistere alla degradazione bestiale di amici e nemici, alla degradazione delle tradizioni, dei costumi e dei miti, alla depravazione dei presunti liberatori dello spirito, alla violenza criminale dei fascisti, alla cieca ottusità dei millenaristi politici di qualsiasi specie («Petro costernato aveva visto ancora in quel vecchio la bestia indomita. La bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze» — p. 170). Petro ha dovuto attraversare il silenzio e il grido: «Ma prima è l’inespresso, l’ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto. È il sibillino, il mùrmure del vento, frammento, oscuro logo, profezia dei recessi. È la ritrazione, l’afasia, l’impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l’urlo disumano» — si legge a p. 164, giusto prima che le parole e lo

    stile adeguati escano finalmente dalla penna, si stampino sulla pagina. Da qui deriva, per conseguenza, la critica sia del realismo che del decadentismo letterari. Un nuovo tipo di letteratura è necessario. Dalla catabasi, dal descensus nella memoria addolorata del mondo siciliano deve sorgere un nuovo stile che riunisca senza distinzioni gerarchiche tutti i livelli di realtà della  faro, p. 219: «Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento.
    È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia […]. A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri […]. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno nelle coste maghrebine. // Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. […] Alla Goletta, a Tunisi, in varie città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati «“Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. » È una storia troppo complessa, quella delle conseguenze che hanno avuto, in seguito, la guerra di Libia, il fascismo, la seconda guerra mondiale sulle comunità siciliane e italiane di Tunisia per poterla riassumere qua. Lo stesso Consolo rimanda al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia. storia. Non una narrazione lineare, ma una storia piena di tortuosità, a strati sovrapposti, con personaggi, sensazioni e sentimenti del presente, del passato prossimo e di quello più remoto, che attinge a miti a cui si rifanno i comportamenti, in una frantumazione caleidoscopica. Non una lingua standard, ma quella più vicina al punto dal quale sgorgano le emozioni, alla gola strozzata di chi sta per emettere un grido che, invece, si trasforma in una frase, mozza e imperfetta, ma già intelligibile; una lingua piena di terrori e di incertezze di chi si dibatte tra l’impossibilità dell’esprimersi e la necessità di parole, di storia, di narrazione.38 La verticalità poetica opposta alla piatta orizzontalità della lingua standard. L’enumerazione, il pastiche, il miscuglio formato da italiano, inversioni, iperbati) e una accozzaglia di termini siciliani, spesso impenetrabili per un lettore non isolano, non rispondono al gusto di un mero «edonismo linguistico», di un puro artificio, ma a una scelta linguistica concreta che obbedisce al mondo interiore di questo Figlio del Lupo, il Wölfing. Egli esprime il dolore e la rabbia con il nuovo linguaggio asformato la sua pietra del dolore, la sua tristezza abissale. L’identità Petro-narratore è, credo, la conseguenza logica di quello che abbiamo appena detto: la fine del romanzo coincide con il suo stesso inizio, vale a dire che la storia inizia quando la voce narrante può finalmente raccontare il suo travagliato accesso alla scrittura. Nottetempo… è dunque l’autobiografia di Petro Marano, il figlio del bastardo, il capro malinconico che ha attraversato il dolore, la storia notturna sua e del suo paese, la Sicilia.39 «Forme e funzioni del linguaggio», in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 15-29.per quanto essenziale per capire il valore del linguaggio con il quale entrambi tentano di recuperare Pan e l’irrazionalità dell’istinto, considerati parte della nostra stessa realtà. Non si tratta di un programma di recupero superficiale degli istinti, come quello ideato dal satanista Crowley, ma di riappropriarsi delle caverne di Pan e di Licaone come parte della nostra mente notturna. Se anche essa non potrà ridarci la salute, ci renderà comunque più chiaroveggenti.
    Le riflessioni di Massimo CACCIARI, L’Angelo necessario, Milano: Adelphi, 1986 sull’angelo nuovo hanno molti punti di contatto con questi nostri angeli, in particolar modo il capitolo II («Angelo e demone»), dove leggiamo: «Il paradiso è perduto per sempre cercato, ma la ricerca si svolge “sin luz para siempre”. Essi [gli angeli] inondano il quotidiano, la loro dimora non è più in nessun modo inseparabile dall’ aria che l’uomo respira». Si veda ancheJosé JIMÉNEZ, El ángel caído, Barcelona: Seix Barral, 1982.Eugenio BORGNA, Op. cit., 1992, P. 149 Walter BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino: Einaudi, 1997.Come ci ricorda lo stesso Vincenzo CONSOLO in «Il ponte sul canale», ora in Di qua dalPer una ricerca più approfondita della lingua di Consolo, si veda Salvatore C. TROVATO,Invece l’identità Petro — Consolo è più complessa, e in un certo modo meno interessante,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).

Conferenza all’Accademia di Belle Arti di Perugia1

Vincenzo Consolo

Metto le mani avanti dicendo che non sono addetto ai lavori, non sono un esperto d’arte, come ha detto il professor Caruso, sono uno scrittore. Uno scrittore che però nella stesura di quasi tutti i suoi libri (Caruso ha citato Lunaria, ma forse fin dal primo libro) ricorre sempre a una citazione pittorica. Anche Calvino, che sembra meno implicato con la pittura, ha dichiarato che da sempre l’immagine di un dipinto lo ispirava nella scrittura dei suoi libri. Allora comincio teoricamente col dire che la letteratura è un discorso assolutamente lineare che ha una sua dinamica temporale nella quale bisogna saper leggere anche la sua verticalità, cioè la complessità. Bisogna dunque nella linearità del discorso letterario saper individuare le molteplicità dei significati oltre naturalmente dei significanti, cioè oltre al significato della parola bisogna anche ascoltarne il suono e comprendere che si propaga nel tempo.
Significante che si riporta ancora nella dimensione temporale: la scrittura si svolge nel tempo. Nell’arte figurativa, pittura o scultura, al contrario il discorso non è lineare, si svolge non nel tempo, ma nello spazio: sono due dimensioni diverse. Le due arti hanno essenze diverse. Ora cito un illuminista che non è il Lessing filosofo che conosciamo, ma un illuminista tedesco di nome Lessing che aveva analizzato la differenza tra letteratura e pittura. Egli afferma che la pittura usa figure e colori nello spazio, mentre la letteratura suoni articolati nel tempo, la pittura rappresenta oggetti che esistono uno accanto all’altro e sono colti con la loro proprietà visibile. È chiaro che qui si parla di pittura figurativa, non della pittura astratta, e quindi di figure di corpi, mentre la letteratura rappresenta oggetti1 che si susseguono uno dopo l’altro, la letteratura rappresenta un’azione nella quale gli oggetti o i corpi sono uno accanto all’altro e nella rappresentazione si segue una sintassi; questi oggetti o corpi sono legati, appunto come dice la parola, da una sintassi che regola la rappresentazione. Sia la pittura che la letteratura ubbidiscono alla legge della sintassi e dei legami. C’è però da osservare che spesso la sintassi pittorica e la sintassi letteraria si possono incrociare, si possono incontrare, e questo significa che vi può essere in pittura una componente temporale e dicendo questo non voglio riferirmi ai quadri medievali dove vi sono delle parole scritte. Mi riferisco soprattutto alle Annunciazioni dove l’angelo che annunzia ha le parole che escono dalla bocca e la Madonna risponde. Credo che le scritte dipinte si chiamassero filatteri. C’è una tradizione altissima di testi letterari dipinti da grandi pittori; basta pensare alle illustrazioni della Divina Commedia, ma anche per esempio al Boccaccio illustrato da Botticelli e in particolare ai due quadri famosi della novella di Nastagio degli Onesti. Vi sono delle pitture in cui vengono affiancati momenti successivi di un’azione e questo è evidente in quel genere di pittura soprattutto religiosa che si chiama Retablo. Il Retablo è un racconto pittorico che si svolge in più quadri, così come nelle narrazioni letterarie dei romanzi o racconti sono inserite narrazioni implicite, esplicite di esempi pittorici, pitture che possono fare da motivo ispiratore o da leitmotiv di una narrazione. Fatta questa premessa teorica facile e scontata voglio dire di me come scrittore, come la pittura mi ha influenzato, quali sono stati i temi pittorici che mi hanno segnato e mi hanno portato a scrivere. Devo iniziare dai primi passi che ho mosso in campo letterario e questo risale a parecchi anni fa, al primo libro La ferita dell’aprile, del 1963 pubblicato in una collana sperimentale, di ricerca letteraria. A quei tempi gli editori si permettevano di mantenere delle collane di ricerca che non avevano fine di profitto, così come le grandi aziende hanno il laboratorio di ricerca. Vittorini dirigeva la collana dei Gettoni presso Einaudi e cercava le nuove voci della letteratura italiana; per mezzo delle collane di ricerca si scoprirono grandi scrittori come Primo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia e tantissimi altri. Mondadori ha voluto con la chiusura della collana dei Gettoni di Einaudi continuare questa esperienza aprendo una collana che si chiamava il Tornasole, diretta dal poeta Vittorio Sereni e da un grande critico che si chiamava Niccolò Gallo. Quando ho scritto il mio primo libro sapevo già che il libro si sarebbe potuto collocare benissimo in quella collana. Credo che quando si opera in qualsiasi campo letterario, pittorico o musicale, chi comincia deve avere consapevolezza di quello che si è svolto prima che lui nascesse come artista, come autore, quindi conoscere la tradizione letteraria nel momento in cui comincia ad operare, essere consapevole degli autori contemporanei e soprattutto della grande letteratura italiana ed europea, ma anche degli autori che immediatamente lo hanno preceduto e sapere cosa stava succedendo negli anni ‘60 in campo letterario in Italia. Questi autori, Moravia, Morante, Bassani, Calvino, Sciascia e moltissimi altri, in massima parte avevano scelto di scrivere in un registro assolutamente comunicativo, razionalista o illuministico. Io mi sono sempre chiesto perché loro avevano scelto questo registro, questo stile illuministico o razionalistico e mi sono dato una risposta. Ho pensato che le persone che avevano vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, da Primo Levi a Nuto Revelli, a Rigoni Stern e a tantissimi altri che hanno scritto sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia e che hanno restituito la loro esperienza in forma referenziale e comunicativa, avevano scelto quel registro proprio perché speravano che con la fine del fascismo, con la fine della guerra si sarebbe potuta formare in Italia una società civile con la quale comunicare, per cui questi scrittori avevano adottato un registro di speranza, lo stesso registro di speranza che aveva teorizzato e che aveva voluto il padre sacramentale della narrativa italiana, Alessandro Manzoni. Manzoni scrivendo la seconda stesura dei Promessi Sposi, aveva adottato appunto il linguaggio toscano – ricordiamo la famosa frase “sciacquare i panni in Arno” – dopo aver scritto Fermo e Lucia con ancora dei dialettismi, dei localismi lombardi, perché sperava che con l’unità d’Italia gli italiani avrebbero potuto avere anche un’unità linguistica. È stata un’utopia molto generosa, però nonostante l’opera di Manzoni evidentemente questa unità linguistica non si è raggiunta. Per tornare a me, nato dopo le generazioni di scrittori che avevano nutrito questa speranza, nascendo come scrittore nel ’63 ho trovato i giochi politici già fatti. In Italia era avvenuto un profondo mutamento, una mutazione possiamo dire antropologica che nessun paese europeo aveva avuto. Era finito il millenario mondo contadino, c’erano stati spostamenti di massa, di braccianti meridionali verso il mondo industriale, c’era stato il processo di industrializzazione del Nord, un processo rapido che ha portato dei cambiamenti straordinari. Naturalmente il cosiddetto miracolo economico ha liberato il meridione dalla fatica contadina, ma nel contempo ha costretto i contadini a trasformarsi in operai, minatori, carpentieri. Miracolo economico è stato chiamato, (in un paese dove c’è il Papato tutto diventa miracolistico). C’è stata la fine del nostro mondo contadino e della cultura contadina alla quale è succeduta la cultura industriale. Intellettuali come Vittorini e Calvino da una rivista che si chiamava «Il Menabò» invitavano i giovani autori a lasciare i vecchi mestieri, i mestieri liberali dell’insegnamento o dell’avvocatura e di inurbarsi per cercare di spiegare da vicino, nei centri come Milano, o Torino, soprattutto Torino, dove c’era la Fiat, il mondo industriale. Studiare il fenomeno dell’Olivetti dove molti scrittori e poeti sono entrati, come Franco Fortini, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e studiare proprio dentro l’industria, quella che Vittorini chiamò l’industria a misura d’uomo, le strutture per una condizione sociale dignitosa per gli stessi operai. Dicevo che questo nostro paese è cambiato profondamente anche nella lingua, nel senso che la vecchia lingua italiana, quella unica ipotizzata da Manzoni che era stata ripercorsa dagli scrittori della generazione che mi aveva preceduto, quella si era assolutamente trasformata. Pasolini nel 1964 aveva scritto un saggio intitolato Nuove questioni linguistiche dove aveva analizzato il cambiamento profondo della nostra lingua italiana perché col “miracolo economico” era avvenuto quel fenomeno nuovo della esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto della televisione. I due affluenti che avevano arricchito la nostra lingua, cioè la lingua popolare dal basso e la lingua colta dall’alto, si erano quasi prosciugati, si era formata una lingua media di comunicazione dove si perdevano le radici memoriali della lingua stessa. Sul problema della lingua italiana, oltre Pasolini, andando indietro nel tempo ci sono stati molti scrittori che ne hanno scritto. Ma ci sono stati anche scrittori che non avevano sentito il bisogno di riflettere su questo strumento che erano obbligati a usare. Non credo che ci siano stati nella storia della pittura pittori che abbiano sentito il bisogno di analizzare i colori che dovevano usare, io credo che solo in letteratura questo sia avvenuto, cioè che gli scrit- tori abbiano sentito il bisogno di riflettere sulla lingua che di volta in volta devono usare. La riflessione sulla lingua parte da Dante che sente il bisogno di scrivere un saggio, il De vulgari eloquentia, che è il primo saggio di linguistica italiana e di poetica personale, dove Dante parla di una lingua di primo grado, che è la lingua che noi parliamo da bambini quando noi sentiamo i primi suoni e della lingua grammaticale, cioè della lingua colta. Dopo Dante ci sono stati tantissimi altri scrittori che si sono occupati del problema della lingua, ma quello che l’ha analizzata profondamente è stato Leopardi. Nello Zibaldone scrive un saggio di linguistica in cui studia il rapporto tra società e letteratura, e fa un continuo confronto tra la lingua italiana e la lingua francese. Leopardi sostiene che la lingua francese è una lingua geometrizzata, cioè racchiusa in una serie di regole già dal tempo di Luigi XIV, e quindi lamentava la perdita di infinito che questa lingua aveva prima dell’avvento di Luigi XIV. Con questo sovrano in Francia si era formata una società, ancora prima della rivoluzione, e quindi si aveva bisogno di uno strumento linguistico che fosse estremamente comunicativo. Leopardi invece esalta la ricchezza e la profondità della lingua italiana e naturalmente dice che l’unico momento di unità linguistica nel nostro paese, parliamo di lingua letteraria, non di lingua strumentale, è stato quello del Rinascimento toscano. Il momento in cui tutti gli scrittori da tutte le periferie italiane, sia dai conventi sia dalle accademie si attenevano e usavano la lingua ideale, cioè il toscano. Con la Controriforma l’unità linguistica si disgrega e si comincia di nuovo a ritornare a quelle che erano le espressioni localistiche dialettali: quindi c’è una grande fioritura soprattutto in poesia, poesia dialettale con i grandi nomi di Belli, di Porta o di un narratore napoletano il Basile, autore de Lo cunto de li’ cunti. Si possono fare tantissimi altri nomi. Comunque in Italia non c’era mai stata fino ai nostri anni ’60 una lingua unica che poteva chiamarsi lingua nazionale e Pasolini alla fine del suo saggio Nuove questioni linguistiche porta come esempio di questa nuova lingua italiana, di questa lingua ormai tecnologizzata, assolutamente rigida e orizzontale, un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo della inaugurazione dell’autostrada del sole. E riporta questo brano in un italiano che sino a quel momento non era stato scritto, infarcito di tecnologismi, quasi impenetrabile, in un registro linguistico pseudo afasico, che non raggiunge il suo referente, cioè l’oggetto della parola. E Pasolini conclude con ironia e amarezza «Che finalmente è nata la lingua italiana come lingua nazionale». Era una lingua nazionale assolutamente impoverita ed è quella che ascoltiamo alla televisione, che non è solo una lingua di comunicazione quotidiana, non è una lingua che sentiamo soltanto nei media, ma è una lingua che viene anche praticata nella scrittura letteraria. Dopo questa lunga riflessione voglio tornare a dire di me. Quando appunto ho cominciato a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto scegliere quella lingua comunicativa, lingua assolutamente impraticabile in letteratura e quindi la scelta consapevole e in qualche modo anche istintiva è stata di scegliere un registro altro, diverso, che non fosse la lingua coniata dal potere. Ho scelto un contro codice linguistico che fosse appunto di difesa della memoria linguistica del nostro paese. E quindi il registro che si chiama sperimentale, espressivo; questa scelta mi metteva fatalmente in una linea che era sempre esistita (accanto alla linea razionalistica illuministica), che partiva da Verga, perché il primo che aveva rovesciato l’assunto della lingua ideale del Manzoni era stato Verga che aveva scritto in una lingua fino a quel momento mai scritta. L’italiano che Pasolini definisce irradiato di dialettalità era l’italiano con cui Verga faceva parlare i pescatori di Aci Trezza e i contadini di Vizzini, che non era l’italiano centrale toscano, ma che esprimeva il modo di essere, di sentire, di pensare delle classi non borghesi, delle classi popolari, delle classi umili, quindi il periodare, l’esprimersi per proverbi dei personaggi dei Malavoglia. Ma da Verga in poi naturalmente c’era tutto un filone di scrittori espressivi sperimentali che passava attraverso il grande Gadda, che appunto aveva orchestrato nel modo più vasto e polifonico tutti i dialetti italiani per dare proprio un’ immagine di quella che era l’Italia prima del miracolo economico, prima del processo di industrializzazione, specialmente nel libro Il pasticciaccio brutto di Via Merulana. Nel filone gaddiano si erano mossi poi tanti altri scrittori sperimentali da Lucio Mastronardi a D’Arrigo a Meneghello fino a Pasolini. Pasolini era uno scrittore sperimentale che era partito da un’esperienza dialettale, quella della poesia friulana scritta, in questa lingua-dialetto, e poi arrivando a Roma scrive i romanzi, ma non la poesia, nel romanesco del sottoproletariato romano. Anch’io mi colloco subito in questo filone. Scrivo in un mistilinguismo o quello che Cesare Segre ha definito plurivocità, per una difesa della memoria, perché la letteratura è memoria, memoria linguistica nel cercare di non far seppellire e cancellare tutti i giacimenti linguistici della terra dove mi ero trovato a nascere e a vivere e a capire i suoni, perché la Sicilia che citava il professor Caruso, che ci accomuna, è una terra dove sono passate tutte le civiltà, dagli antichi fenici, ai greci, ai romani, agli arabi. È inutile fare della retorica sulla Sicilia in un luogo come Perugia, in questa Umbria e Toscana, luoghi di grande civiltà. Gli antichi hanno lasciato i monumenti, templi greci, chiese arabo-normanne, ma anche giacimenti linguistici molto preziosi. Io ho fatto un lavoro da archeologo, ho cercato di disseppellire parole che provenivano da queste lingue ormai dimenticate, che erano di volta in volta il greco, l’arabo, il latino, lo spagnolo, il francese, immettendo, innestando nel codice linguistico italiano vocaboli che avessero un loro significato, molto più vasto che il termine italiano poteva darmi, ma anche che avesse una sua valenza di significante, cioè di sonorità, che si potesse incastrare nella frase,
nel discorso per creare un’armonia sonora, che si svolge nel tempo, come dicevo poco fa. La mia scrittura, per la mia ricerca, è contras segnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia. Ho diffidenza verso la comunicazione, verso la comunicazione che ha in sé la narrazione. La scrittura in prosa è una scrittura ibrida perché la letteratura è nata in forma poetica: i grandi narratori dell’antica Grecia erano poeti orali. I poemi omerici prima erano poemi orali e poi con i grammatici alessandrini sono stati portati sulla carta. Anche la Bibbia era un racconto orale. L’oralità comportava l’organizzazione della frase sia per un fatto mnemonico e sia per un fatto di seduzione degli ascoltatori e le frasi avevano una loro componente ritmica e poetica. In questa epoca, in questa nostra civiltà di massa penso che l’elemento comunicativo che in sé fatalmente ha la scrittura in prosa debba essere sempre più ridotto, che il registro della scrittura debba spostarsi verso la parte ritmica, verso la parte espressiva. Uno scrittore sud americano dice che la scrittura in prosa ha una parte logica e una parte magica, la parte magica è la parte espressivo poetica; parliamo di forma, non di sostanza poetica. Mi sono perso in molti rivoli. Voglio tornare alle citazioni, e alle ispirazioni della pittura nei miei libri. Parlo del mio secondo libro Il sorriso dell’ignoto marinaio dove l’elemento ispiratore è il ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Racconto un aneddoto per quanto riguarda questo titolo. Avevo scritto i primi capitoli di questo mio romanzo a metà degli anni ‘70, nel ’73-’74. Per l’ispirazione pittorica che aveva il libro avevo man dato i primi due capitoli alla signora Banti la direttrice della rivista «Paragone», e il cui marito era Roberto Longhi, che dirigeva anche lui la rivista, in parte di critica letteraria e in parte di critica d’arte. Mi sembrava quindi la sede più giusta per avere un riscontro su questi due primi capitoli. Non ho avuto risposta dalla rivista. Un giorno Roberto Longhi è venuto a Milano per presentare la ristampa del suo libro Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Sono andato alla presentazione e alla fine gli ho detto con molta timidezza: «Professore le ho mandato due capitoli del mio romanzo. Mi chiamo Consolo. Non ho avuto risposta». Longhi mi ha guardato severamente e mi ha risposto: «Sì, mi ricordo perfettamente, mi ricordo dei bei racconti, mi ricordo il suo nome. Non voglio assolutamente entrare nel merito letterario dei racconti, però questa storia dell’ignoto marinaio deve finire». Sapevo quello che lui aveva scritto nei suoi saggi su Antonello da Messina. Longhi diceva che popolarmente era detto L’ignoto marinaio il ritratto che si conserva al museo Mandralisca di Cefalù, ma Longhi sosteneva che Antonello non era un pittore che faceva quadri di genere, era un pittore molto affermato e che si faceva pagare profumatamente, e quello era un ritratto di un signore, di un proprietario terriero, di un barone, ecc. Io sapevo bene quello che il critico d’arte aveva scritto, ma a me serviva la dizione popolare, la vulgata dell’ignoto marinaio, perché volevo svolgere il tema proprio in questo senso. Naturalmente avevo molta dimestichezza con questo quadro: mi aveva molto incuriosito perché il ritratto dell’uomo aveva un’espressione a me familiare che riscontravo in molti visi di persone che mi stavano intorno, insieme familiare e sfuggente. Ma quando pensai di rimettere insieme vari elementi per scrivere questo romanzo, da una parte il ritratto che avrebbe fatto da filo conduttore, poi la scoperta dei cavatori di pomice delle isole Eolie che si ammalavano di silicosi, e le rivolte popolari del 1860, il personaggio storico di Mandralisca, il protagonista Giovanni Interdonato, erano tutti elementi che mi hanno portato a unire i fatti storici secondo la lezione manzoniana: attingere alla storia e inventare altri personaggi che avessero i colori del tempo. Devo aggiungere che in questo libro ho mancato un’occasione, che sarebbe stata straordinaria, dell’incontro, che ho scoperto dopo la pubblicazione del libro, del barone Mandralisca con il Cavalcaselle. Il Cavalcaselle era anche lui un rivoluzionario risorgimentale che per ragioni politiche era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Lo straordinario critico d’arte clandestinamente proprio negli anni delle rivolte era andato a Cefalù alla ricerca delle opere di Antonello da Messina. A Cefalù si era incontrato con il barone Mandralisca e aveva steso uno schizzo di questo ritratto dipinto da Antonello. Volevo leggere il brano in cui racconto del quadro portato dall’isola di Lipari nella casa di Cefalù del barone Mandralisca e di quando viene presentato agli amici. Il barone oltre ad essere uno scienziato e uno studioso di malacologia, cioè studiava lumache, era anche un collezionista di opere d’arte, ma la gemma del suo privato museo era il ritratto di Antonello da Messina.

Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal basso e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso interrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
2



Ecco qui la descrizione dove lo scrittore diventò un po’ critico d’arte, ma naturalmente questo mi serviva per fare della metafora. Il libro che è ispirato a un genere pittorico che si chiama retablo è appunto Retablo, dove la struttura del libro è come fosse un polittico. C’è un primo pannello, un pannello centrale e poi un altro pannello. In tutti e tre i pannelli si racconta la storia. Retablo è un termine catalano che viene dal latino retro tabulo. Nel retablo non c’è più la fissità, ma un’azione che si svolge pittoricamente.2 Il Sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 143-144. Questo libro nasce da un’occasione: era venuto in Sicilia il pittore Fabrizio Clerici, testimone in un matrimonio a Palermo dove anch’ io ero testimone. Dopo questo matrimonio avevamo fatto un viaggio nella Sicilia classica, il famoso tour che facevano i viaggiatori stranieri da Goethe a Brydone a un’infinità di altri viaggiatori che partendo da Napoli, arrivando a Palermo facevano poi il giro della Sicilia da Segesta a Mozia a Selinunte ad Agrigento a Siracusa e spesso facevano l’ascensione sull’Etna e poi s’imbarcavano a Messina per fare il viaggio di ritorno. Durante questa escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale vedevo Fabrizio Clerici che prendeva degli appunti, faceva dei disegni. Clerici era un pittore surreale, metafisico, era già diventato un personaggio di un romanzo di Alberto Savinio nel libro Ascolto il tuo cuore, città. Di lui Savinio diceva che era un personaggio stendhaliano e che si chiamava appunto Fabrizio come Fabrizio del Dongo, poi addirittura che potevano essere parenti perché lui si chiamava De Chirico e il pittore Clerici, quindi tutti e due avevano una matrice clericale. Da questo pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale. Un pittore del ‘700,
Fabrizio Clerici, lascia la Milano illuministica di Beccaria e dei Verri, innamorato e non corrisposto di una fanciulla, Teresa Blasco, che sposerà poi Cesare Beccaria l’autore Dei delitti e delle pene. Da questa unione nasce Giulia Beccaria, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Faccio muovere Fabrizio Clerici dalla Milano illuminista per andare in Sicilia, non solo perché il suo è un amore infelice e quindi compie un viaggio alla ricerca delle tracce della bellezza della donna di cui è innamorato, ma per fare un omaggio alla letteratura. Negli anni in cui scrivevo il libro, a Milano c’era un’accensione politica molto forte, non c’era spazio per la dimensione umana, per i sentimenti. Io rivendicavo il primato della letteratura attraverso questo libro, passando dall’illuminismo al romanticismo manzoniano attraverso Teresa Blasco e il pittore Fabrizio Clerici. Clerici arriva nei luoghi classici con i suoi metri, come faceva Goethe, arriva in Sicilia pensandola come una sorta di eterna arcadia dove vi erano soltanto monumenti greci, i templi di Segesta e di Selinunte, di Agrigento. I viaggiatori avevano l’idea romantica di trovare i satiri e le ninfe. Senonché viaggiando per le zone della Sicilia occidentale Fabrizio Clerici insieme al suo accompagnatore siciliano, frate Isidoro, che aveva gettato il saio alle ortiche proprio perché sconvolto da una passione d’amore per una fanciulla, Rosalia, si accorge che la Sicilia non era soltanto arcadia. L’arcadia non c’era più. La Sicilia era una terra di forti contraddizioni, di grande miseria, di afflizione, di sopraffazione, di violenza. Clerici incontra banditi, corsari saraceni, ma scopre una dimensione che lui non sospettava, incontra persone dai sentimenti profondi e di grande umanità. Attraverso l’immagine pittorica del retablo ho voluto scrivere una rivendicazione del primato della letteratura nei confronti della politica, ho voluto descrivere la complessità dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue passioni. Nel libro c’è l’ironizzazione di certa pittura imbrogliona, prendendo spunto dall’opera teatrale di Cervantes che si chiama appunto El Retablo de las meravillas. In Spagna la parola retablo è un termine che indica sia un’opera pittorica, sia un’opera teatrale. Nel Don Chisciotte c’è il “retablo del maestro don Pedro”, che è un teatrino di marionette portato in giro per la Mancha da don Pedro e che don Chisciotte nella sua follia distrugge. Cervantes mette in ridicolo il
conflitto di allora tra cristiani vecchi e cristiani nuovi, tra spagnoli ed ebrei, e mori convertiti. Questo intermezzo, o atto unico teatrale, lo riprendo nel mio libro Retablo, dove il conflitto questa volta è tra persone ingenue, oneste e fedeli alla chiesa e disonesti, infedeli o traditori:

Irreali come il retablo delle meraviglie che lo scoltor d’effimeri Crisèmalo e il poeta vernacolo Chinigò facean vedere sopra un palco. Un trittico a rilievo basso di cartapesta o stucco coperto d’una polvere dorata (terribilmente baluginava al sole come l’occhio adirato del padre Giove o quello pietrificante di Gorgonia), privo di significato e di figure vere, ma con increspature, rialzi e avvallamenti, spuntoni e buchi, e tutto nell’apparenza d’una arcaica scrittura, di civiltà estinta per tremuoto, diluvio o eruzione di vulcano, e sotto le ruine, in fondo all’acque o nella lava ardente si perse la chiave di sua lettura.

Vide chi pote e vole e sape
dentro il retablo de le maraviglie
magia del grande artefice Crisèmalo,
vide le più maravigliose maraviglie:
vide lontani mondi sconosciuti,
cittate d’oro, giardini di delizie,
[…].
Vide solamente il bravo cristiano,
l’omo che fu tradito mai dalla sua sposa,
la donna onesta che mai tradì il suo sposo…3
3 Retablo, pp. 395-396.

Nella mia scrittura, nello spostamento della prosa comunicativa verso la prosa espressiva ci sono dei momenti di arresto della narrazione, ci sono delle digressioni che io chiamo cantica, come fosse una parte corale, quella dei cori greci. La mia idea oggi di letteratura, di scrittura in prosa, è di una
scrittura dove, come nella tragedia greca non appare sulla scena il messaggero o l’anghelos, cioè il personaggio che comunicava con il pubblico che sedeva nella cavea, che raccontava di un fatto avvenuto prima, in un altro luogo, e da quel momento, dopo questa comunicazione, con un linguaggio assolutamente comunicativo, poteva incominciare la rappresentazione della tragedia, potevano agire i personaggi e intervenire il coro. Credo che oggi in questa nostra civiltà di massa il Messaggero, cioè lo scrittore che comunica con il lettore non può più apparire sulla scena e quindi la scrittura si riduce alla parte corale, alla parte poetica in cui si commenta, si lamenta la tragedia… Diciamo è una rappresentazione priva di catarsi. Ora vi leggo un brano di un altro mio romanzo Nottetempo casa per casa dove con la memoria descrivo un luogo sotterraneo nel quale
sono stati scoperti affreschi romani. Questo brano mi è stato ispirato da una mostra che ha fatto Ruggero Savinio anni fa. Le figure di Ruggero Savinio mi apparivano come venute fuori da una profondità, da un ipogeo, come nelle scoperte di scavi archeologici, e quindi nel racconto del romanzo ci sono interruzioni per raccontare un viaggio dentro un mondo antico:

Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati
(dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura
d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al
confine bevemmo il nostro lete).
Ora in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade –, in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte dove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età se polta,
immemorabile.
In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio
di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto ? È
possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un Nunzio lampante, una lama, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quale paradiso? O risale prepotente da quale abisso? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai portenti, si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bru ni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocch
i. Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia…(la luna suscita muffe fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. Oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri delle vuote dimore, del volo di vespertili, verso della civetta.
Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. 4 Che non consumi tu…Che non consu…”5

È la poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci
commuovono ogni volta che le vediamo.

Prof. Caruso. Volevo ringraziare. È qualcosa di più di una conferenza, è anche una confessione stupenda e soprattutto hai dato una prova di come la pittura e la letteratura siano strettamente connesse, fraterne e vicine. Poi hai parlato delle rovine che ci commuovono tanto: ci commuovono perché sono il nostro passato, i nostri ricordi. 4
«Riprende una frase che “i paesaggisti del Cinque-Seicento scrivevano
dietro i paesaggi con rovine” (Villa, p. 177)». Così nel dattiloscritto. D.
O’Connell da parte sua commenta questa frase come segue: « A detta dello
scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi / Paulatim lenta consumitis omnia morte! (Id., Consolo narratore e scrittore palincestuoso, cit., p. 173). 5 Nottetempo, casa per casa, pp. 686-687.

Hai anche detto che i pittori non analizzano i loro strumenti. Non è assolutamente vero. Purtroppo i vari strumenti linguistici dell’arte figurativa, dell’arte visiva vengono fin troppo analizzati. Questa è una puntualizzazione. Poi io direi a proposito del tuo ritmo di scrittura e anche di come tu parlavi delle origini della letteratura che la grande matrice di tutte le arti è la musica; anche le prime parole nascono da un ritmo musicale. Il ritmo musicale in qualche modo ci guida in qualsiasi attività artistica, perché se non c’è ritmo non c’è scansione e non c’è parola, né pagine, né spazio. Hai parlato in modo da provocare una quantità di associazioni. Ti ringrazio. Consolo. Mi scuso per l’errore che ho fatto, data la mia ignoranza pensavo che i pittori trovassero i colori a portata di mano, che andassero in un colorificio e in modo rapido comprassero i loro colori. Sono stati tanti i pittori che mi hanno ispirato. Però mi hanno ispirato anche molti libri o pagine di libri, ma c’è un pittore che più degli altri mi ha impressionato e che compare nel Sorriso dell’ignoto marinaio, è Goya. Goya dei Disastri della guerra, Nel mio libro c’è la descrizione di una strage che hanno fatto i rivoltosi popolani di un paesino dove appunto mi servo delle didascalie delle incisioni di Goya per scandire la tragedia. E insieme c’è anche la malinconia del Dürer. Ho parlato di un altro pittore, Caravaggio, ne L’olivo e l’olivastro, che non è un libro di invenzione narrativa, è un viaggio nella realtà siciliana, dove sono inseriti frammenti narrativi, tra cui la sosta di Caravaggio a Siracusa dopo la fuga da Malta, e la commissione che gli viene data dal senato di Siracusa tramite un erudito locale, Mirabella, del quadro del seppellimento di S. Lucia. Volevo leggere il brano dove descrivo il quadro:

Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. Nel sentimento della morte che ormai l’ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l’assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota. 6

Il vescovo di Siracusa, dicono i documenti, non ha trovato questo quadro di suo gradimento e glielo ha fatto correggere; sempre secondo i documenti, la testa di Santa Lucia era staccata dal corpo, la santa era stata decapitata, e il vescovo gli ha fatto congiungere la testa con il corpo, lasciando una piccola ferita nel collo. Nel quadro oggi si vede soltanto questo piccolo squarcio. Dicevo che c’è il passaggio, da questa lama di luce che c’è nella pittura caravaggesca che squarcia le tenebre controriformistiche, alla forma necrofila di arte del ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo, il quale componeva dei teatrini rappresentanti la morte e la corruzione del corpo umano. Il cereo corpo di Lucia si decompone insomma negli ipogei della
morte, negli avelli, nelle catacombe dei liquami; nella ferita del collo
bianco s’è insinuato il bacillo della peste che cova e germina nelle
volute, nei ghirigori del barocco».

6 L’olivo e l’olivastro, pp. 828-829.

Il testo di questa Conferenza, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003, mi era stato affidato alcuni anni orsono da Caterina Pilenga, vedova dello scrittore, come un prezioso inedito che io ho gelosamente custodito. In calce al testo dattiloscritto, sotto la firma di Vincenzo Consolo, si legge la data: Milano, 19.3.2004, verosimilmente apposta da chi ha dattilografato il manoscritto, forse la stessa Caterina


Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale

di Massimo Onofri

Non saprei davvero che cosa attendermi, quanto allo studio delle nostre vicende letterarie, da quello che Machiavelli chiamava il «benefizio del tempo». La variante più ottimistica della teoria della ricezione su quel «benefizio» pare confidare molto: rileggetevi quel che scrive Hans Robert Jauss a proposito di due libri, apparsi a stampa lo stesso anno, entrambi incentrati sul tema dell’adulterio, come Fanny di Feydou e Madame Bovary di Flaubert. Secondo lo studioso, se il capolavoro di Flaubert fece fatica ad affermarsi per riuscire a creare poi un nuovo orizzonte d’attesa che l’avrebbe posto al centro del canone romanzesco moderno, il libro di Feydou, nonostante l’immediato e clamoroso successo, venne presto dimenticato, tanto che, se oggi ancora lo ricordiamo, lo facciamo per contestualizzare meglio l’opera flaubertiana. Ma le cose non sono così semplici: se persino La Divina Commedia, in non pochi momenti della sua lunghissima avventura ermeneutica, è stata violentemente espulsa dal canone. Prendiamo l’anno di grazia 1963. Se stiamo ai manuali scolastici d’uso corrente, quella resta ancora la data cui consegnare il Gruppo ’63, gli irresistibili fasti della neoavanguardia, magari in gloria d’una storia della letteratura ridotta a quella degli istituti linguistici. Se ci riportiamo invece alla generazione di critici cui appartengo, e dentro il cantiere aperto d’un giudizio storico in via di ridefinizione, non v’è dubbio che il 1963 sarà l’anno in cui, subito dopo Memoriale (1962) di Paolo Volponi, sono apparsi Nel magma di Mario Luzi, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, Libera nos a malo di Luigi Meneghello, i racconti di Un caso di coscienza di Angelo Fiore, e, appunto, La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo. Per dire di libri tutti sicuramente inclinabili su un versante di notevole sperimentazione linguistica, ma nella precisa consapevolezza che il problema del linguaggio non potrà mai esaurire, in sé stesso, quello assai più complesso della verità letteraria. Ecco perché non credo che si faccia giustizia a Consolo quando lo si intruppa tra i nipotini di Gadda. Lo dico chiaro: quando tramonterà uno dei più eclatanti dogmi della teoria letteraria novecentesca, quello secondo cui la letteratura, parlando del mondo, non farebbe altro che continuare a parlare soltanto ed esclusivamente di sé stessa (il dogma che ha messo capo all’altrettanto tenace mito dell’intertestualità), tramonterà con quel dogma, inevitabilmente, anche la fama di molti atleti dello stile oggi celebratissimi, i cui libri sembrano confezionati a bella posta per confermare le teorie di critici allevati a batterie dentro falansteri, ove la religione di Jakobson è stata al massimo sostituita dal culto di Bachtin. Sicché: si parli pure di Consolo, magari sotto la stella del grande Contini, come del notevolissimo «romanziere plurivoco e pasticheur», si distingua anche, come fa legittimamente Cesare Segre, tra «plurilinguismo» e «plurivocità», ma senza mai dimenticare che un’analisi linguistica, anche la più strenua e raffinata, dell’intero corpus di questo vitalissimo e sorprendente scrittore non potrà non arrestarsi ai soli preliminari. Consolo, in effetti, se non è un realista, è uno scrittore della realtà: uno scrittore preoccupato del mondo e delle verità che sul mondo possiamo pronunciare, ma anche dell’eventuale retorica della sua manutenzione, intendo la manutenzione del mondo, quella che possiamo identificare con il termine “ideologia”, una parola oggi tabuizzata, che però non lo spaventa affatto, semmai lo provoca, come dimostra in modo assai eloquente l’ultimo suo libro importante, Di qua dal faro (1999). Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile. Lo sappiamo tutti: Consolo discende prima di tutto da Vittorini, per quella forte tensione in direzione d’una parola-giustizia che resti agonistica, sganciata da ogni facile comunicazione e prossima agli ardui approdi della poesia. Eppure, lo spazio letterario entro cui s’accampa, come scrittore, conosce due grandi poli di tensione: Sciascia e Piccolo. Sciascia: e cioè una deontologia della ragione, una ragione prismaticamente capace di rifrangere tutte le ambiguità della Storia e della Vita. Piccolo: ovvero un’insopprimibile vocazione al canto, ed un rapporto con la verità che possa essere guadagnato attraverso le ragioni della poesia. Se ho parlato insomma di disposizione alla politica, dovrò dunque aggiungere che tale disposizione passa inevitabilmente per la singolare alleanza tra razionalità e prosodia. Non vorrei dimenticare, mentre lo sto impiegando, ciò che il sostantivo “politica”, unitamente a quello di “impegno”, ha significato nella storia di questo martoriato Paese: a cominciare dalla celeberrima polemica tra Vittorini e Togliatti. Sicché non credo sarà inutile un veloce chiarimento preliminare. E allora: in che senso cultura e politica, letteratura ed ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a sé stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria? Non ho dubbi in proposito: la grandezza (e la tenuta storica) di certi romanzi non potrebbe avere altro fondamento che politico, di una politicità che, per essere più rigorosi, chiamerei trascendentale: ad indicare semplicemente una delle precondizioni attraverso cui la letteratura sperimenta i suoi peculiari modi d’accesso alla conoscenza del mondo. Prendete I vecchi e i giovani di Pirandello, che è stato quasi sempre liquidato come un prodotto epigonale del naturalismo: si tratta invece d’uno straordinario romanzo politico, sull’Italia e sugli italiani, sul Risorgimento ed il sicilianismo, come Croce aveva capito subito, anche se per sospingerlo al di fuori delle siderali regioni della poesia. Dirò di più: talvolta quello ideologico e politico può risultare addirittura come l’unico criterio possibile per sanzionare la debolezza o la forza d’un testo, per misurne la sua peculiare qualità gnoseologica. Mi spiego: nessuno potrebbe dubitare dell’alta fattura linguistica d’un libro come Figurine di Faldella, soprattutto dopo che Contini, da par suo, ne ha garantito l’importanza all’interno del suo canone espressionistico. Ma quando si passa da un approccio formalistico ad uno storico-ideologico, dal dogma dell’autonomia del significante (con la conseguente svalutazione della referenza della letteratura) alla fede in una letteratura dialetticamente aperta alla società, la pochezza e l’inanità di un’opera come Figurine appare in tutta la sua evidenza: affollata com’è di bravi giovanotti dell’industrioso nord che si sposano la figlia del padrone, facili sostenitori delle sorti magnifiche e progressive del Paese, stucchevolmente ottimisti e, come si direbbe oggi, politicamente corretti. Un’opera conformistica e persino apologetica Figurine, che, se rapportata ad un romanzo di grande lucidità e ferocia politica come I Viceré di De Roberto, rischierebbe addirittura di scomparire. Proprio quel De Roberto, si badi, cui il sommo stilista Contini è stato del tutto sordo. Bisogna invece affermare che Consolo è stato uno dei pochi intellettuali italiani ad avere avvertito l’importanza di questa specialissima modalità del romanzo, nella convinzione che ciò non implicasse alcuna deroga dalle fondamentali funzioni della scrittura letteraria. In questo senso, certe sue dichiarazioni sono molto chiare, come quando, in conclusione del libro-intervista Fuga dall’Etna (1993), afferma: «Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico -anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no-, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo». Si tratta di parole perentorie dov’è ribadita, non senza implicazioni latamente marxiste, l’attitudine critica e demistificatrice del genere romanzesco -attitudine, lo sottolineo, potenziata, se non addirittura realizzata, attraverso una radicale disposizione metaforica (e, dunque, supremamente connotativa) della scrittura- proprio negli anni in cui il ritorno al mito, al suo potere incantatorio, quando non alcinesco, stava già trapassando dall’antropologia culturale alla letteratura. Il fatto più interessante è che questa rivendicazione del carattere ideologico della propria scrittura creativa passi attraverso una decisa presa di distanza da un altro e pernicioso mito, quello, appunto, dell’intellettuale engagé. Si veda quella fondamentale pagina di Nottetempo, casa per casa in cui il protagonista Petro Marano, personaggio vicario dello stesso Consolo, ormai esule della storia e della vita, si lascia alle spalle un’idea della rivoluzione quale quella propugnata dall’anarchico Paolo Schicchi, gettando in mare il libro del poeta Rapisardi, che lo stesso Schicchi gli aveva affidato come invito alla lotta e come viatico: «Cominciava il giorno, il primo per Petro in Tunisia. Si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare. Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore». Lasciamo stare quel che effettivamente potrebbe risultare da una lettura ravvicinata dei versi di Rapisardi: qualche pagina imprescindibile, e non certo a discredito del vate siciliano, ce l’ha già data un giovanissimo Luigi Baldacci nei due volumi ricciardiani dei Poeti minori dell’Ottocento (1958-1963). In Nottetempo, in effetti, Rapisardi non vale tanto in sé, e nella sua concreta vicenda umana, quanto come idolo polemico, nei modi d’un topos già codificato, nella storia della letteratura siciliana, da un sarcastico e brillante Brancati il quale, appunto, aveva opposto al facondo poeta catanese gli strenui silenzi e la severa moralità di Verga. Un idolo polemico, s’è detto e lo si sottolinea: a ricapitolare in sé tutti i tratti d’una poesia civile e politica per così dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione. Siamo dunque ad un primo risultato importante: Consolo è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. Se le cose stanno così, ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si giuoca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti: secondo modalità che si dispongono, come s’accennava già, sul livello della connotazione. Non è davvero un caso se Petro Marano, una volta gettato in mare il libro di Rapisardi, si volge al suo privatissimo quaderno, quello su cui ha appuntato idee e sentimenti, sogni ed utopie, maturandoli nel segno d’una tradizione che da Dante conduce a Leopardi. Né mi pare casuale che la sua scommessa di scrittore, quella propriamente politica appunto -ma d’una politica che dovrà involgere tutta intera l’esistenza-, consisterà nell’allestimento d’un «racconto», dove, insieme alle parole, conteranno soprattutto «il tono, la cadenza». Risulterà chiaro, adesso, che cosa s’intendesse quando s’è parlato di quel miracoloso fatto per cui, sulla pagina, la politica venga effettivamente esercitata attraverso un’oltranza di stile, e non mediante uno scandalo dei contenuti: ragione, questa, che approssima Consolo, prima ancora che a qualche romanziere (ma si potrebbe fare il nome dell’altrettanto politico Volponi), ad un poeta civilissimo, seppur dissimulato nelle sue fibrillazioni d’eremita della lingua, come Andrea Zanzotto, l’unico che, guarda caso, Giocchino Martinez, l’alter ego di Consolo dello Spasimo di Palermo (1998), invidi tra i letterati suoi contemporanei: un poeta appunto, non un romanziere. Ho detto Zanzotto: per dire d’un poeta di precisa e strenua consapevolezza ideologica, di un’ideologia che si esplicita nel linguaggio, e abituto a lavorare sull’ideologia per alchimie sintattiche, fermentazione lessicale, combustioni prosodiche. Ma le alchimie della sintassi, la fermentazione del lessico, la sovraeccitazione prosodica, dentro una più complessa «metrica della memoria», non rappresentano le stesse strategie cui ricorre il narratore Consolo, senza più compromessi, nel segno di un singolare estremismo della verità? Strategie che sono state poi il suo speciale modo di constatare il fatto che, quanto alla scrittura, il problema del come scrivere va ad inglobare inevitabilmente ed a riscaldare, a temperature quasi insostenibili, quello del che cosa scrivere, per una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza. Ma torniamo al personaggio Martinez, che pare avere esattissima percezione dei termini del problema. Si veda quanto scrive al figlio, esule a Parigi perché implicato in un’inchiesta sul terrorismo, ad avviare un processo di chiarificazione non più procrastinabile: «Rimaneva in me il bisogno della rivolta in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta -come avviene credo a chi è vocato a scrivere- il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli -confrères- più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale». Sia detto per inciso: è stato questo, dentro un’Italia che s’apprestava a decomporsi nelle sue istituzioni, a liquefarsi in magma, il grande assillo degli ultimi anni di Pasolini, il quale s’era attrezzato lucidamente a fronteggiare l’informe e l’irreale per restituirci il suo romanzo più irrealistico ed informale, il suo capolavoro, il postumo Petrolio. Quel Pasolini, si badi, che, già a partire dagli anni Sessanta, aveva teorizzato l’assoluta omologia tra le trasformazioni della lingua italiana ed i processi di ricomposizione neocapitalistica della società. Ma torniamo a Petro Marano, al suo proposito di trovare le parole, il tono, la cadenza per un racconto che avrebbe dovuto sciogliergli il grumo di dolore che si sentiva dentro. Si tratta d’un impegno di canto che da Marano passerà a Martinez, ma dentro un diverso e forse più degradato contesto storico: gli anni pseudodemocratici dell’attentato al giudice Borsellino che si sono sostituiti a quelli dell’incipiente fascismo, pur se sempre contemplati dalla specola siciliana. Martinez -la moglie morta dentro il precipizio della follia, il figlio ricercato dalla polizia- è tornato da Milano a Palermo, ripercorrendo a ritroso il viaggio che è stato dello stesso Consolo: ma si tratta di due città ormai omologate nell’orrore, che patiscono una medesima catastrofe civile. A differenza di Marano, che vive un clima culturale il cui massimo problema è D’Annunzio, Martinez ha alle spalle gli estenuati dibattiti sulla morte del romanzo degli anni Sessanta ed è approdato ad un’assoluta mancanza di fiducia nei confronti d’una lingua comunicativa, razionale e consequenziale, quella di venerati maestri su cui pure s’’è formato come Sciascia e Calvino, che ora rischiano di apparirgli, come abbiamo visto, «complici involontari» dell’apocalisse civile. Martinez aspira ad una parola ieratica e percussiva, che sia all’altezza della tragedia edipica, d’un edipo sociale e personale, che gli è toccato vivere: è assillato, per così dire, dall’utopia di un’antilingua, quella di chi ha letto tutti i libri di Foucault, sapendo bene che proprio il linguaggio, la retorica del discorso, sono i luoghi privilegiati entro cui si costituisce la sintassi del Potere, ecco perché quell’antilingua dovrà valere come il suo contropotere. Ma è incalzato, se non tentato, dal rischio dell’afasia. Vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco, quello di chi troppo facilmente sovrappone all’autore Consolo il personaggio Martinez: ravvisando nell’esito dell’afasia un approdo di tipo esistenziale. Non sono certo un fanatico d’un altro mito novecentesco, quello dell’autonomia del significante e della morte dell’autore, rivendico anzi l’importanza delle biografie intellettuali e dello studio delle poetiche: ma ritengo che la distinzione proustiana tra l’«io che vive» e l’«io che scrive» rappresenti un punto di non ritorno nel dibattito teorico sulla letteratura. So altrettanto bene che questo grande tema dell’afasia ci potrebbe condurre ad un’altra ineludibile questione: quella che mette in campo una riflessione di tipo metaletterario sull’irreversibile crisi del romanzo. Una questione che implica la distinzione, in Consolo, tra scrivere e narrare, su cui Giuseppe Traina ha scritto qualche pagina risolutiva nella sua monografia pubblicata per Cadmo nel 2001. A noi interessa qui il Consolo scrittore politico e sperimentale: l’afasia cui ci si riferisce non ha né una valenza psicologica, né estetica, ma solo storica ed antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro. Ancora una precisazione, in conclusione di queste mie considerazioni solo preliminari: Attraverso tre opere strettamente connesse, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Nottetempo, casa per casa, Lo Spasimo di Palermo, Consolo, in linea con una tradizione che comincia con la Sicilia della nuova Italia, ha tracciato tre capitoli di un’incandescente autobiografia della nazione, dal Risorgimento alla nostra contemporaneità. Entro tale quadro, l’afasia di Martinez pare l’unica via d’uscita possibile d’una scrittura politica che ha registrato, al suo massimo grado, l’astrazione e la stereotipizzazione dei linguaggi a fronte della combustione della realtà, d’una realtà che registra ormai il suo più alto livello di depauperizzazione della vita a contrasto d’una sempre più invadente virtualità. Non so quali alternative abbia ancora la letteratura nell’epoca della falsificazione e dell’implosione dei significati: Consolo se n’è trovata una e l’ha percorsa a rischio della consunzione. Proprio per questo resta uno dei pochi scrittori, in Italia, ancora all’altezza delle domande che i nostri tempi impongono.

Foto di Giovanna Borgese

La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo

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La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.

In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.

Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.

“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003

Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:

“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”

“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”

l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006.
Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4
dicembre del 2003.

Nei mari estremi con Lalla Romano.

 

 

Tutta l’opera di Lalla Romano è contrassegnata dalla dialettica tra natura e cultura, istinto e ragione, oblio e memoria. Il suo nativo moralismo, la sua “severità paesana e subalpina”, come dice Cesare Segre, che le viene da un luogo di aspra natura e di contratta comunicazione, da una regione, fra poche di solida struttura sociale e di ineludibili regole, la porta a scegliere subito un registro linguistico quanto mai economico, chiaro, lineare. Trovava poi, questa sua scelta, consonanza e verifica nella patria immaginaria di ogni nostro scrittore di ansia loica e laica, nella Francia dei Lumi, nell’Europa della grande letteratura moderna.

Afferma Luigi Russo che la poesia di Verga nasce dal conflitto linguistico, dall’opposizione al codice dato di un codice inventato, all’italiano, di una lingua altra irradiata di dialettalità. In Lalla Romano il conflitto, e la poesia che da esso ne scaturisce, è tra la dispiegazione logica, civile, articolata, e la ritrazione, la severa economia lessicale, la sintesi e il ritmo della frase, la reticenza e l’implicito che verticalizza la sua scrittura, rimanda a interne, profonde risonanze.

I suoi temi sono quelli eterni dell’esistenza, della vita umana, indagata soprattutto nei momenti cruciali della nascita, dell’amore, della morte. Il suo paesaggio è quello umano prossimo con cui la scrittrice si è trovata nel miracoloso viaggio della vita: la famiglia d’origine, il marito, il figlio; e quello intorno, come mare che circonda l’isola di rifugio e di stupore: parenti, amici, conoscenti, famiglia; e ancora quello fisico, materiale: la campagna, la città, la casa, le cose.  Dice, in un sogno del racconto Pomeriggio sul fiume: “Faccio un tremendo sforzo per tradurre in parole le cose, ma mancando i nessi non riesco a combinare un discorso. Cerco di inventare, ma sento sempre più che il senso mi sfugge, mentre tanto più pesano con la loro massiccia evidenza, le cose.  È una sensazione al tempo stesso di oscurità e di impotenza”. Passata poi, la scrittrice, dal sonno alla veglia, l’angoscia è uguale: ha davanti agli occhi la realtà, le cose che deve tradurre in parole, mutare in racconto.

 

È certo che siamo in quel sogno di fronte al dramma dello scrivere, al miracolo di dare nome alle cose, senso allo stupore del mondo. Siamo certo, in quel sogno, in un’epifania, al momento della creazione di nuove parole, di nuovi nessi, della poetica di uno scrittore.  Il paesaggio è visto di volta in volta nel suo sfondo storico ( gli anni Venti in Piemonte, Trenta a Torino, la guerra, la Resistenza – una Resistenza intimista, come l’ha chiamata la stessa autrice – il Dopoguerra e gli anni seguenti a Milano), visto nelle sue implicazioni sociali (la borghesia e l’ambiente intellettuale e artistico, il mondo contadino e subalterno, di dolore e rassegnazione verghiani, che è anche quello di Pavese e di Nuto Revelli, vissuto attraverso quel “cuore semplice” che è la stupenda Maria).   La scrittura laica e logica della Romano non può non far leggere un’orgogliosa, tenace volontà di superare sgomento, disperazione, abbandono; un’ostinazione a dare ordine al caos, significato al fenomeno; un’ardita indagine e ricerca della verità al di là di ogni velo di emozione e convenzione.  Non può non restituire, quella scrittura, un’ardente solidarietà umana, una celata scontrosa pietà.  Per quell’imprescindibile bisogno di verità, per la tenace ricerca di ordine, senso, l’esperienza in lei, ogni esperienza, si trasferisce ineluttabilmente nella scrittura, solo regno ove si scioglie ogni conflitto, si rinviene l’unica verità incontestabile.  “Io non temo il vissuto.  La parola scritta, il ritmo delle frasi non dipendono da esso.  L’arte è astrazione” dichiara la scrittrice nella presentazione all’ultima edizione einaudiana di Nei mari estremi, 1996.

Così nel cammino verso la trasfigurazione dell’esperienza nella scrittura, elimina man mano i molteplici punti di vista, suggeriti dai vari personaggi, e arriva all’unico punto di vista, che è quello dell’io narrante, dell’autrice.  La svolta stilistica avviene necessariamente nell’affrontare l’esperienza, il tema acuto, assoluto della nascita del figlio, della sua maternità.   Le parole tra noi leggere segna questa svolta, questa nuova resa poetica.  Le parole tra noi leggère, titolo montaliano, si può volgere in Le parole tra noi léggere, le parole tra madre e figlio; léggere, cioè scegliere le parole dell’indagine sul grande mistero della maternità.

Nell’indagine si scopre allora che ogni figlio è un Minotauro che la natura provvede a nascondere nel labirinto della visceralità (è la parola qui più esatta), dell’amore, nel buio dell’istinto, del “morboso”, come dice l’autrice.

E lei, la madre, la scrittrice, con lucidità e coraggio, ha voluto liberare il fenomeno dall’occultamento, ucciderne l’ambigua natura, portare fuori dal labirinto, alla luce della ragione, la verità natura umana della creatura.

Le parole tra noi leggère è il mare delle origini, è il racconto speculare a Nei mari estremi, in cui si affrontano gli altri due temi acuti e assoluti dell’esistenza: l’amore e la morte.

Il racconto, del 1987, è diviso in due parti, che portano rispettivamente i titoli di Quattro anni e di Quattro mesi, di cui la prima è come un flash-back, una disgressione memoriale, un controcanto – il controcanto dell’amore – alla seconda, al canto, all’”allegro tragico” della morte.

Nei mari estremi, titolo preso da Andersen, trova il suo referente visivo in una immagine.  “Ho due immagini incorniciate nel mio studio da anni (…)  Una l’avevo ritagliata da un giornale. È un paesaggio, non penso di dover dire simbolico, reale di un al di là. È un iceberg spaccato: una nave passa nel mezzo fra le due pareti di ghiaccio, come attraverso una valle”

scrive Lalla Romano. Ecco, la scelta istintiva di quell’immagine da parte dell’autrice, ricordiamo che trova consonanza, parola e cadenza in una lirica di un grande poeta, di Aleksandr Block.

 

Tutto muore al mondo, madre e giovinezza: (…)

Prendi la tua barca, salpa verso il polo

fra mura di ghiaccio, e in silenzio oblia

come l’uomo ama, lotta e muore solo:

dimentica il paese dell’umana follia.

 

La prima parte dunque è il racconto dell’amore tra l’io narrante e il deuteragonista, che diventa protagonista, Innocenzo. Un personaggio, questo, di grande spessore, di grande racconto, che si delinea man mano per brevi tocchi, per accenni, per bagliori e visioni.  Fra cui, quella centrale ed epifanica che innesca la storia, che accende amore e passione, possesso, gelosia, isolamento, di lui che in montagna spacca la legna. Immagine e situazione lawrenciana, ma spogliata di mitologia naturalistica, di vertigine panica, ridotta a un piano di realtà in cui si equilibrano natura e cultura, passione e amore, forza e tenerezza, abbandono e sapienza, furia e pazienza, di armonia infine fisica e spirituale.  La seconda parte è il racconto della morte di Innocenzo.

È preceduta, questa, da un’epigrafe della stessa autrice: “Da una ruvida mano siamo spinti … “.

Molti scrittori hanno raccontato la morte.  Fra tutti, e i più alti, ricordiamo Tolstoj de La morte di Ivan Il’ič e Verga del Mastro-don Gesualdo.  Qui, Nei mari estremi, siamo certo nella zona tolstojana, il cui Il’ič  è citato e messo come in esergo dallo stesso protagonista:  “Il primo che ci ha insegnato a  morire è stato Tolstoj”.  Ma la situazione è certo diversa.  Qui non c’è incoscienza, attorno a chi sta intraprendendo l’ultimo viaggio, non c’è la crudele indifferenza della vita che continua a scorrere negli ottusi binari delle abitudini e delle forme.  Qui il ruolo umano, soccorrevole e consolatorio del mužik Gerasim è assunto dalla deuteragonista, dall’io narrante, che non rappresenta solo la generosa naturalità del giovane contadino, “fresco, pulito, sempre allegro, chiaro”, ma è la donna che ha amato quell’uomo morente per tutta la vita, ed è anche la scrittrice che vuole indagare e sapere su quell’atroce mistero, su quell’assenza insopportabile che si fa sempre più imminente.  Qui “l’estremo – scrive Segre – è quello della sincerità, coraggiosa, spietata. Sempre meno allusiva, meno reticente, la scrittrice dice, ora, tutto.  Questo il rischio supremo, affrontato o superato “.

Siamo, in questo romanzo, per l’urgenza del dolore, nella volontà di strappare quel velo di mäyä che, secondo Schopenhauer, copre il fenomeno.  E siamo certo nella tragedia, in cui si manifesta il grado più alto della volontà umana. Una tragedia però senza sfondo mitologico, senza colpa, che diventa quindi, per lo spirito socratico che la permea, secondo la tesi di Szondi, un moderno dramma dialettico: quello della vita, della sua fatale conclusione.

 

Vincenzo Consolo
31 marzo 1997

Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

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Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

Roberto Andò

L’intervista postula tra chi pone le domande e chi le subisce il vago stagliarsi di un’impersonale vibrazione in cui aleggiano due voci in cerca di echi, pensieri, ricordi, probabili pudori intorno a un mestiere impossibile. Ci si accosta al rito teatrale dell’intervista con un certo senso paradossale di sfida alla nicchia invisibile di chi scrive, immemori al cospetto della condizione ideale che rende autorevole e senza un volto lo scrittore, intenti a violare il vero desiderio di ogni grande scrittore che è quello di sparire. L’amicizia, la conoscenza o la confidenza, nella concitazione rituale, vengono deposti per lasciare il posto enunciati in cerca di oggettività. Tuttavia ci si accorge, a intervista conclusa, che si è accennato un ritratto, in forma di catalogo, dove la malinconia e quella dimensione salvifica della memoria che è la letteratura fanno dello scrittore, ovunque e comunque, un esiliato irriducibile, perfettamente a proprio agio solo nell’esilio della scrittura.

Ho incontrato Vincenzo Consolo e ne sono diventato amico molti anni fa per il tramite di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, per parlare di poeti dimenticati o rimossi dalla civiltà letteraria del consumo, poeti della luna. Ci possono essere mille ragioni per il senso di un incontro o per il suo bilancio. Di quel primo incontro ricordo il piacere immenso di poter riferire la letteratura a ciò che sta fuori dalla letteratura, la possibilità di insediarla al centro di un’emozione da fronteggiare e distanziare senza tradirne il senso sacrale misterioso. E ricordo anche una certa cupezza del momento, identica, per ragioni diverse, al momento in cui si è svolta questa intervista, che essendosi teatralmente compiuta in due tempi, a distanza di poco più di un anno, presagiva nella latenza di certi motivi quanto è successo in Italia, ciò che rende oggi il nostro Paese irriconoscibile, sfigurato e, se possibile, persino più smemoratamente cialtrone. A segnare il tempo, da Nottetempo, casa per casa, vincitore del Premio Strega nel periodo del nostro primo incontro, Consolo è approdato nel suo personale viaggio a L’olivo e l’olivastro, vale a dire dalla malinconia del racconto al furore di chi sa che nel disastro le strategie del racconto non sono più bastevoli e la letteratura senza puntelli può affrontare il rischio di nuovi confini, di un nuovo tono di voce.

ll malinconico, con la sua segreta e dolorosa interiorità, è un esiliato in potenza. Leggendo i tuoi libri, e in modo accentuato Nottetempo, casa per casa, si assiste a uno sfaccettarsi di figure del dolore, malinconici più o meno furiosi, con gli altri, con sé. L’epigrafe della Kristeva, che attribuisce alla malinconia il ruolo del sacro nella nostra epoca, sembra avvertire che nei cicli della Storia I conti possono farsi e disfarsi incarnandosi nella singolarità del male, del dolore umano…

“Hai detto bene. Il protagonista di Nottetempo è un esiliato che rompe a un un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre a esempio

che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna una figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura dominata da un dolore insopportabile che equivale a un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa. Ma c’è un altro grado di follia, sotto forma di mania di persecuzione, di paranoia, che vive nel romanzo la sorella del protagonista, Lucia. E ancora un terzo grado di malinconia, di dolore, quello del personaggio intravisto nella penombra della stanza, racchiuso in un gesto meccanico, nello sgranarsi rigido di un rosario in cui la vita si pietrifica. Ho voluto rappresentare la follia dolorosa e innocente che questa famiglia ha pagato forse per una ragione atavica, esistenziale, di razza, e per ragioni storiche. È una famiglia infatti che ha attuato un passaggio, un salto di classe. La provenienza reale è quella del proletariato contadino. Li ho chiamati Marano, da Marrano, rinnegato. Si portano dietro un coagulo di razze. Oltre a essere ebrei il narratore dice che dentro, attraverso la madre, filtra una memoria di nomi greco – bizantini, spagnoli, insomma il crogiuolo della civiltà mediterranea. Ed è come se assommassero nel loro destino il peso di tanti esili diversi. Pagano il prezzo di un cambiamento, di un passaggio di classe: da contadini che erano diventano piccoli proprietari terrieri per un atto di generosità compiuto da un uomo a sua volta folle, in un gesto che è di distacco dalla propria classe. È il personaggio di Don Michele, lo zio dell’antagonista del romanzo, una figura tolstoiano, anch’egli esiliato. Un’antecedente di questa figura di autoesiliato in una famiglia potente lo si trova in De Roberto e nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Nei Viceré è uno degli Uzeda che, folgorato dalla lettura dell’Isola del Tesoro di Stevenson, si esilia in una campagna dove fa il falegname. È chiamato dai parenti il Babbeo. In Pirandello è tratteggiato in Don Cosmo Laurentano, ritratto d’eccentrico che si confina nella tenuta della contrada Valsanìa. Lì il personaggio è quello di uno studioso d’astronomia; e in qualche modo lo cito nel romanzo in quel passaggio in cui le stelle sono chiamate “i chiodi del mistero”. Dicevo che questa famiglia Marano, nel proprio destino di follia, svela una condizione che è nostra, l’approdo a una informe identità alienante, ricca, abbiente, in continuo movimento nel proprio delirio. Lo sfondo storico è quello della follia ideologica, collettiva, gli anni Venti dell’avvento inquietante del fascismo”.

Insomma, ci sono le fughe nella follia che non possono raccontarsi e quelle che possono trovare forma nel racconto. Il silenzio, l’afasia o l’esilio della parola chiara, delle ragioni per fronteggiare il dolore, del dolore che sa raccontarsi senza altri compagni di strada che la propria solitudine. In mezzo c’è la falsificazione, i contorcimenti e le parodie dell’ inautentico: Crowley, Don Nenè, D’Annunzio, Schicchi…

<< Si, è l’inautentico,la perdita della veritàil decadentismo. Nel romanzo ho usato molto la disgressione.Queste digressioni hanno un po’ la funzione del coro. In una di queste digressioni, quando c’è l’episodio Crowley conil suo seguito adorante che scende verso la spiaggia e sorprende il pastore Janu con la ragazza, questa discesa notturna con le torce in mano ricorda al narratore certa pittura vascolare in finzione, la sostituzione della verità con una sua rappresentazione, l’incidersi di una cesura, di un distacco definitivo dalla verità.  Quando il protagonista si allontanerà dal paese in  una sorta di eco dell’abbandono di Renzo e Lucia,  c’è la dolorosa consapevolezza di questa frattura insanabile e inaccettabile. La sua gente si allontanata dalla realtà, quella realtà con cui  intratteneva un rapporto armonico. E’ uno stato di sfasamento, di follia generale in cui gli è possibile volgere le spalle al paese senza rimpianto>>.

L’altro scacco viene subito dalla nozione mitica di ragione …

<< Sì, la ragione viene sconfitta.  Un barlume resta in quello che è Il deuteragonista del racconto, Cicco Paolo. C’è un dialogo significativo che s conclude con questa battuta: “ la fantasia è più bella della ragione “.  L’ irrazionale, la violenza, la falsificazione sono le modalità cui la ragione viene sconfitta, e dalla sconfitta fa capolino la follia. Questo  tema della follia d’altronde mi ha accompagnato in tutti i miei libri. Nel segno della follia si apre libro che non a caso si svolge anch’esso a Cefalù,  Il sorriso dell’ignoto marinaio. La prima azione di quel romanzo è un gesto di follia rintanato n antefatto in un’ azione  in limine alla narrazione, che in qualche modo la prec ede e l’orienta. E’ la comparsa di Catena, che sfregia quel quadro che sta li a simboleggiare il discorso della ragione, acquattato nelle pieghe di quel volto. Dalla ragione può uscire dal basso per corruzione, in modo speculare al gesto della ragazza, ed è Il caso del monaco pazzo personaggio della corruzione e della disgregazione che compare nel terzo capitolo in cui si narra dello stupro praticato nei confronti di una ragazza morta, o dall’alto, come fa Caterina sfidando la creazione, l’atto creativo. Lei è un’intellettuale, una che ha letto gli illuministi napoletani francesi  protosocialisti, e che ha vagheggiato una sorta di nuovo assetto sociale: la sua uscita dalla ragione è nelle pieghe dell’ utopia politica. In questo libro, invece, che accanto al  Sorriso un dittico, c’è la sconfitta, lo scacco storico – sociale: e l’unica luce è innocenza dell’umanità è la scrittura come possibilità di raccontare il dolore>>.
Questa possibilità di raccontare il  dolore ha modelli e antecedenti in cui si mescolano letteratura e solchi personali inevitabilmente …
<< In questo  libro c’è il rovesciamento di un rovesciamento. Quando  parlavo del Sorriso del Ritratto d’Ignoto di Antonello,  dicevo di uno segnato dal dolore della conoscenza. Avevo rovesciato la cognizione del dolore di Gadda.  Qui, in Nottetempo c’è veramente l’esposizione della conoscenza del dolore, non più il dolore della conoscenza >>.
A un certo momento del libro il protagonista il parla così: << Non so adesso … Adesso odio il paese,l’isola odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole … odio finanche la lingua che si parla >>. Mai adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui ci sono luoghi cui dedicare una  presunta fedeltà…
<< Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi  c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare. C’è risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non parlo solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della  lingua è chiaro, qui. Io ho sempre cercato di scrivere in un’altra lingua,ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di uscire dai codici, il  disobbedire ai di codici>>.
Questa  disobbedienza ai codici, nelle cose che scrivi, ha però un segno opposto  a quello dei percorsi linguistici dell’avanguardia, nei cui confronti hai sempre provato insofferenza e ostilità …
<< Pasolini, nelle sue invettive, ha detto tutto quello che si può dire contro l’avanguardia. Bisogna distinguere tra sperimentazione e avanguardia. lo credo che ogni vero scrittore dovrebbe essere sperimentatore dentro l’alveo di una tradizione. L’avanguardia è qualcosa di stupidamente in quietante, che io rigetto. Mi sembra un azzeramento e una ricostruzione artificiale, un atto di violenza. Ne ho avuto sempre Il sospetto,non  solo dal punto di vista letterario, ma  direi principalmente in senso etico, o se preferisci politico. Gli azzeramenti preludono sovente alla mediocrità o all’orrore. La tradizione non si può cancellare, e chi  pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa  la vera funzione della letteratura , nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria >>.

C’è una figura fondamentale nel tuo tragitto. Per rispetto alle origini più o meno casuali degli incontri mi piace ricordare che è una persona che ha fatto da tramite al nostro primo incontro che molte volte abbiamo frequentato insieme. La distanza di generazione e Il momento in cui l’ha incontrato e si è stabilita un’amicizia fa sì che io lo consideri , con tutte le zone ambigue del termine, un maestro. Per te potrei dire con più forte ambiguità che si delinei, cosi lontana nel tempo dei tuoi primi passi nella letteratura e cosi ingombrante, come un  figura paterna. Parlo di Leonardo Sciascia.

<< La Presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in  un certo senso, per un tratto della mia attività, di  concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se si vuole delle vacanze. Perché lui aveva una metafora certa – era la sua impostazione letteraria della vita storico-sociale del nostro paese. I Suoi libri erano tutti metafore e letture della contemporaneità politica scavate in una scrittura di tipo illuministico, dentro le strutture del giallo. La sua azione di scrittore civile consentiva  a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e  Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e Italiana. In quel momento  mi sono  accorto che avevano tirato un respiro di sollievo volevano sbarazzarsi della sua forza letteraria, che avevano fretta di fare i conti, di neutralizzarne l’eco. Il fenomeno paradossale è nel fatto che coloro che stanno producendo la barbarie , i detentori della comunicazione, i giornalisti scrittori, si sono sentiti liberati della presenza di uno che batteva sul loro stesso terreno d’investigazione loro, con ben diversi risultati letterari,  tra i più alti della letteratura contemporanea. Anche la mia presenza li irrita, proprio perché invece non combatto nello stesso terreno. I miei  libri, che sono anch’essi profonda mente metaforici, vengono invece attaccati sul piano formale,  mentre cresce il  fastidio per questa  querimonia sicula che continua ancora. Questa  voce siciliana che non si estingue li irrita>>.

Qual è Il tuo rapporto con la società letteraria, ammesso che ne esista una, con la più giovane leva di scrittori?

Una società letteraria non esiste più. Ai giovani  rimprovero la facilità con cui si sottopongono alla proposta omologante delle aziende editoriali . Lo scrittore come oggetto coltivato in serra è una evidenza. Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie. Lo scandalo che alcuni hanno sollevato intorno alla Storia della letteratura di Giulio Ferroni è consequenziale alle dimensioni di libertà di quel libro, libertà dalle aziende che invece riflettono il loro messaggio sulla cosiddetta critica militante dei giornali. In questo senso l’Università come luogo di ricerca di spiriti liberi può ritrovare una funzione liberatoria.

Perché nutri un interesse cosi esclusivo per la Sicilia?

Prima o poi finirò anch’io per scrivere un mio Per le vie. La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’e, ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce sino in fondo, è connaturato un uno stile che ingloba la memoria  attraverso il linguaggio. Un linguaggio si abita, nostro malgrado. Anche se non ho avuto la stagione mondana di Verga, a Milano mi sono ritrovato Nella sua stessa condizione di spaesamento, a contatto  con un mondo che non riuscivo capire. Verga lo scrittore  gigantesco c è, nasce da una regressione da una  paura, da un’impossibilità. Anch’io quando  mi sono trasferito a Milano avevo intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capii che per farlo avevo bisogno della distanza della metafora storica. E’ quello che acutamente ha sottolineato come peculiarità del mio modo di scrivere un critico come Cesare Segre: è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente.

Che cosa ti interessa della letteratura Europea  contemporanea?

Quando parliamo di letteratura dobbiamo circoscrivere discorso alla narrativa; la poesia ci porterebbe altrove. La narrativa resiste nei luoghi periferici, non colonizzati, se vuoi nei  terzimondi. Nel mondo post-industriale essa è  seriamente minacciata da un linguaggio che somiglia alla letteratura, un po’ come accade in politica: appaiono linguaggi copia, surrogati,imposture. Milan Kundera è uno degli scrittori più interessanti e di resistenza. I frutti più vitali del romanzo contemporaneo sono legati infatti a questo senso incombente di fine. La poeticità sta sparendo dal mondo e da solo il romanzo può raccontare questa fine. Una certa vivacità la si trova anche nella letteratura araba, come sino a qualche anno fa la si trovava nella letteratura sudamericana.
Il cosiddetto crollo delle ideologie ha ridefinito Il ruolo dell’ intellettuale, o piuttosto quella figura e quel ruolo sembrano stagliarsi piccoli e sperduti in un paesaggio in continuo cambiamento. Senza grandezza senza avventura

L’intellettuale ha avuto sempre angoscia di rimanere fuori dalla storia. Angoscia della cancellazione, oscillando fra opportunismo, cinismo ed entusiasmi. Questa storia del crollo delle ideologie è in conflitto con i nodi irriducibili dell’esistenza: il povero e il ricco esistono senza possibili equivoci e il postulato ideologico che s’è sostituito all’ideologia – la ricerca della felicità e del godimento –   è continuamente attraversato da un’inquietudine insanabile. Ingiustizia, Invenzione di nuovi confini, ritorno dell’orda tribale poveri che premono ai  cancelli, enormi frange di gente che si sposta alla ricerca di mezzi di sussistenza: il panorama reale che viene incontro a noi è questo. Le ideologie dei conservatori e degli esteti non mi sono mai piaciute. Preferisco l’ideologia degli esiliati che alita sul nostro benessere.

Il fatto indubbio è  la continua esibizione di aspetti miserabili della vita intellettuale.

E’ la televisione, la bomba atomica permanente che distrugge i linguaggi dopo avere già avuto distrutto la poesia del cinema. Attraverso la televisione si attua una perdita continua di pietas. E’ Il campo di sterminio della coscienza e dell’intelligenza del dolore. Ne ho orrore, e una certa e sinistra vi ha concorso a pari merito con il dilagare tronfio della conservazione.

L’olivo e l’olivastro un libro Importante, un libro indignato che fruga in quel male che la televisione cerca di divorare quasi sempre in modo avvilente,perfettamente intercambiabile con la posizione opposta.  E un libro dolente che piega la scrittura a un un tono che sta dentro e fuori dalla letteratura senza rinunziare alle tensioni del linguaggio muovendosi a zig zag Tra ciò che resta di un luogo, la Sicilia, dopo e durante il disastro. Il tono e quello della disillusa e intelligenza evocata dal viaggiatore del libro, disperata ma non rassegnata. Almeno cosi mi pare di averla avvertita, o mi sbaglio?

Ricordo una drammatica fotografia scattata da Ferdinando  Scianna dopo Il terremoto della valle del Belice; si vedeva un uomo sopra un cumulo di macerie di quella che forse era stata la sua casa, lo sguardo, un pugno chiuso rivolti contro il cielo; certo è l’immagine di un’imprecazione, di una bestemmia mossa dal dolore, dalla disperazione.

Ne L’olivo e l’olivastro il viaggiatore tra le rovine di Sicilia. o l’io che narra, se vuoi, è mosso, negli urli, nelle invettive, dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione.

Ti è capitato sempre più spesso di dover far sentire la tua voce pubblicamente, di rimettere nelle mani di chi te  l’aveva consegnato il mandato di Presidente di un teatro, a esempio. Perché  il ruolo dell’intellettuale in Sicilia rischia di essere sempre più di dimissionario o di scomunicato?

Ho accettato quell’incarico per ingenuità, con l’illusione che cosi avrei potuto portare sul piano della prassi  un contributo immediato alla cultura palermitana. Delusione e quindi tristezza. All’intellettuale non è ancora permesso nessun tipo di rapporto col potere.

Quali sono le cose che ti irritano maggiormente nelle vicende di potere in Sicilia e qual è lo spazio d’azione dell’Intellettuale? Parlo di uno spazio d’azione comune, che sfugga alla barbarie della duplicazione della guerra civile che si nota nelle relazioni tra intellettuali e a tutti i livelli della vita sociale.

Mi irrita l’aggressione costante che i mediocri mettono in atto nei confronti di persone o enti che hanno saputo realizzare qualcosa di valido: l’aggressione alla casa editrice Sellerio, l’unico fenomeno culturale vero venuto fuori dal l’Isola dal dopoguerra a oggi, è un esempio al di là di ogni vicenda politica o giudiziaria. Gli aggressori dovrebbero sentire una grande vergogna. Azione comune? Com’è difficile! Siamo, noi Intellettuali vanitosi e superbi, ferocemente individualisti, distruttivi e autodistruttivi .

Qual è il libro che ti racconta meglio e perchè?

Tutti: li considero capitoli di un unico libro. Ma più strettamente legati tra loro che più mi raccontano sono ll Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa timo libro casa per casa, e quest’ultimo libro L’olivo e l’olivastro
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Studi per Vincenzo Consolo


Conversazione con Vincenzo Consolo
Anna Fabretti


Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.

Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.

Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.

Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.

Il rapporto con le avanguardie, con diverse forme di sperimentazione letteraria

Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto (Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.

6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.

La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.

Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.

Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.

Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.

  • 3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.

Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano I Malavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.

Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.

Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.

Il rapporto con Luigi Pirandello

La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.

Il teatro, la teatralità, la «vastasata»

Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.

La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara (1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.

Pirandello, Sciascia e lo zolfo

Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.

È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.

La parodia, l’«abrasione»

Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.

Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.

La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.

La scrittura, la distanza memoriale

In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.

  • 4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)

L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.

Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:

Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…

e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.

Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…

Il rapporto fra segni verbali e segni iconici

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.

In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.

Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.

Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.

La religione, la religiosità

Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.

Vincenzo Consolo, Milano, 1986

Vincenzo Consolo, Milan, 1986

© photographie de Giovanna Borgese

BIBLIOGRAPHIE

Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.

Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.

Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.

Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».

Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.

Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.

Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.

NOTES

2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.

3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».

Sciascia come Sherlock Holmes

*
Sciascia come Sherlock Holmes
nei sotterranei del potere di Cosa nostra

Mafia e letteratura… un binomio sofferto. Tanto più dal dopoguerra in poi, quando si ha un rinverdire del tema. A cominciare da uno scanzonato, fiabesco, sensuale Antonio Amiante, il cui mafioso è dotato di straordinario potere sessuale e quindi sociale. E si giunge, nel ’47, al caso più famoso (grazie anche a un film di Pietro Germi) di romanzo sulla mafia, a Piccola pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo in cui – quasi anticipazione dell’antagonistica coppia Bellodi – don Mariano Arena
dello sciasciano Giorno della civetta – il mafioso, don Turi Passalacqua, fermo nella concezione della giustizia presociale o asociale, rende omaggio alla giustizia statale rappresentata dal piccolo pretore. Nel 1960 viene pubblicato il bel dramma di Paolo Messina Il muro del silenzio, in cui, forse per la prima volta, la mafia è vista in tutta la sua valenza antisociale, s’inscena lo scontro tra il protagonista e il suo ambiente, la sua famiglia, chiusi nella vecchia cultura della rassegnazione e del silenzio. Accenniamo infine alla poesia di Ignazio Buttitta, civile, antimafiosa – raro caso di poesia popolare e vernacolare poggiante su una ideologia civile e progressiva – e al gattopardo di Lampedusa, in cui a sfondi, a situazioni mafiose si allude qua e là ed esplicitamente quindi si dice: “Vincenzino era uomo d’onore, uno di quegli imbecilli capaci di ogni strage.” Infine, lo scrittore che ha messo al centro di buona parte della sua vasta opera narrativa il tema della mafia, sentendo il fenomeno sociale come urgente e devastante, ricorrendo a uno trumento narrativo collaudato, al romanzo poliziesco, piegato a una funzione politica, civile. Tutta l’opera di Sciascia è di ispirazione e tema civile, ma nei romanzi polizieschi viene direttamente esplicata quella che possiamo chiamare l’epopea della piazza: un dibattito sui fatti sociali e politici, una serrata, filosofica, laica “conversazione in Sicilia”. In questa speculazione, in questa assillante, pubblica inquisizione Sciascia è figlio di Pirandello. Sennonché, il poliziesco di Sciascia è il rovesciamento del genere: ci sono il delitto, l’investigatore, ma non si arriva mai all’individuazione del colpevole, alla sua condanna; non si arriva mai alla soluzione del dramma, alla sutura dello squarcio nel corpo sociale.
Lo scrittore immaginava di calarsi nei sotterranei del potere e, illuminando, ecco che si aprivano al suo sguardo, si scoprivano nuove, occulte gallerie, insondabili, paurosi meandri. I suoi polizieschi non erano dunque che metafore della realtà politica italiana. Erano specchio e speculazione del e sul mistero, mafioso e criminale. Erano spesso racconti che anticipavano fatti che da lì a poco sarebbero accaduti nella realtà. Tra il ’61 e il ’74 Sciascia pubblica quattro romanzi polizieschi: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo. I primi due, mafioso-politici, appartengono ancora all’epoca della mafia del feudo, della mafia rurale; i secondi due, politico-mafiosi, appartengono alla mafia urbana, alla società neocapitalistica. Attraverso i quattro racconti, si può vedere la storia dell’Italia di quegli anni, il processo di degenerazione del potere politico e degli organi dello Stato parallelamente all’evolversi e all’ingigantirsi della mafia, di questo cancro della società civile che sul corpo dello Stato sembra aver operato la sua metastasi. Il contesto – da cui Francesco Rosi ha tratto il film Cadaveri eccellenti – si svolge in un immaginario paese mediterraneo,
una sorta di Grecia che maledettamente somiglia all’Italia, in cui si sta attuando un golpe. Dei quattro polizieschi, il racconto di più alta tensione politica e letteraria ci sembra Todo modo. Nel quale Sciascia va al cuore del potere politico in Italia, al cuore del potere di un partito; alla matrice metafisica a cui il partito si ispira e da cui deriva il suo potere. Mai come in questo racconto la struttura poliziesca si è attagliata all’argomento, dialetticamente, come costruzione razionale contro la disgregazione della ragione, l’indagine contro lo sgomento, la memoria contro l’oblio, la cultura contro l’ignoranza, il logos, la parola contro l’inesprimibile, il silenzio. Ma è questo al contempo il poliziesco più misterioso di Sciascia, dove non è più possibile l’individuazione dell’assassino perché la ragione indagativa si arresta davanti al muro della metafisica: metafisica religiosa e metafisica del potere. Il mondo, il mondo civile, sembra dire lo scrittore, si è fatto
così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale, così mafioso, che non è più possibile, stando sulla piazza, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che con mortale rischio morale, se non anche fisico, non si voglia scendere nei gidiani sotterranei, nei bui meandri del potere e di misteriose e criminose sette o logge segrete di balzachiani Dévorants. Diciamo qui che ciò che non fu più possibile al narratore, fu poi possibile, cioè calarsi nei sotterranei del potere, a un gruppo di giudici di nuova cultura e nuova coscienza civile e morale. Fu possibile a Chinnici, a Falcone, a Borsellino, a tanti altri, i quali pagarono con la vita questo loro azzardo. È il momento poi della solitudine dello scrittore, solitudine che è evidente negli ultimi suoi racconti polizieschi: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice. Evidente, la solitudine, attraverso due citazioni iconografiche: di Dürer e di Klinger. Una famosa incisione del Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, fa da leitmotiv al racconto. Quel cavaliere, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, alla città ideale o d’utopia che mai raggiungerà. È disarcionato, cade dal cavallo il guerriero quando la società civile lo lascia solo nel cammino, perde tensione, volontà d’approssimarsi alla cittadella del diritto e della libertà. Il barbaro linguaggio del tritolo riprende a farsi sentire oggi, a esprimersi con la sua voce di paura e di morte in luoghi sacri alla nostra memoria storica, alla civiltà della lotta e del riscatto come Piana degli Albanesi, come Portella della Ginestra.

“Il Messaggero”, domenica 22 maggio 1994.
Pubblicato sul libro curato da Nicolò Messina
Cosa loro
Mafie tra cronaca e riflessione
Bompiani Editore

foto di Angelo Pitrone