Guttuso. Pittura e letteratura (di Vincenzo Consolo)

gutnotte

Renato Guttuso, La notte di Gibellina

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, ’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta. Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione. Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato deLa zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo L’enorme realtà in “asud’europa”, Anno V, n.5, 14 febbraio 2011 – rivista del Centro Studi Pio La Torre

Pubblicato da Salvatore Lo Leggio

Vincenzo Consolo come Verga

Nel 1893 Giovanni Verga lascia Milano, “stanco di anima e di corpo”, per ritornare nella sua Sicilia. A Milano aveva soggiornato per circa vent’anni, essendovi giunto nel novembre del 1872, ma se ne andrà alquanto deluso e risentito. In Sicilia Verga ritroverà i sedimenti profondi della sua memorialità e soprattutto la lingua delle origini; primordiale, robusta, incorrotta, da cui trarrà linfa vitale e sangue la sua fantasia e con cui darà forza, spessore, virulenza alle sue storie e alla sua poetica, come non gli era ancora accaduto. Questo generoso amalgama si rivelerà una felice epifania e lo trasformerà nel potente scrittore che conosciamo. Stilisticamente una vera e propria rivoluzione, pari a quella di altri giganti della letteratura europea del suo tempo. All’archetipo del ritorno degli scrittori siciliani moderni nella loro isola, Vincenzo Consolo dedica un breve capitolo “I ritorni” che chiude la sezione verghiana degli scritti compresi in Di qua dal faro. Ritorno nelle sue molteplici declinazioni, che non è solo tópos, mito, visionarietà, storia o civitas, ma soprattutto memoria e lingua; vale a dire, il corredo più acconcio e prezioso per uno scrittore. Ora è giunto il momento anche per lui, il momento del nóstos e del ricongiungimento, come lo fu per Verga più di un secolo fa; anche Consolo ripercorre a ritroso il suo cammino, di uomo prima che di scrittore, e da Milano dove era salito nel 1968 vivendovi e operandovi per oltre un quarantennio, inverte la rotta per riapprodare nella sua isola. “Torno nella mia terra. Voglio morire nella mia isola”‘ , confida in un’intervista al settimanale palermitano “a sud’ europa” (1) nel dicembre scorso. Ribadita all’età di 77 anni, Consolo è del 1933, questa volontà suona perentoria, asseverativa, ultimativa. Quando questo avverrà, si sarà compiuta la parabola naturale di un uomo e di uno scrittore che non ha mai scisso, per sua e nostra fortuna, il legame profondo, primigenio, ancestrale, con l’ónfalos, con la terra, con la mater, che è impasto di lingua, carne, affetti e visione. E su quell’isola, non dimentichiamolo, c’è sedimentato il respiro di Sciascia e di Lucio Piccolo, di Verga e di Lampedusa, di Antonello e di Pirandello con la fantasia del Caos, il profumo perduto del suo pino. E c’è il mare, cioè il mito dei miti.
Ritorna, Consolo, con lo stesso risentimento, con la stessa delusione di Verga. Delusione per le aspettative tradite di una città divenuta, secondo le sue stesse parole, “città centrale della menzogna” (2). E non possiamo fare a meno di andare con la mente alla Milano di Tangentopoli e al tradimento che ne è seguito: al leghismo bieco e reazionario, al berlusconismo disinvolto e immorale, alla deriva etica, al degrado civile, all’indegnità opportunista della cosiddetta società letteraria, sempre più stomachevole. Il ritorno di Consolo non è un ritorno alla fonte salvifica (come fu per Verga); egli non ne ha bisogno; non ha bisogno di purificare la sua lingua alle fonti primigenie perché di quella lingua Consolo è impastato. Della sua oralità e della sua sostanza. Non torna per arginare la crisi dell’artista, perché di quell’universo vitale, labirintico e fecondo non si è mai separato. E rimasto, pur vivendo fuori dalla sua isola, il più siciliano degli scrittori siciliani: come Sciascia, come Buttitta. E questa è stata la sua forza e la sua fortuna. Egli non ha dissipato, e, in linea con la grande lezione della tradizione, ha tenuto salde le radici per non “disperdersi”, come dice Giuseppe Bonura, “in un ambizioso quanto vacuo internazionalismo’, senza anima e senza storia. In sintesi: senza verità. Se, com’egli scrive, “la letteratura è essenzialmente scrittura, è espressione linguistica; è tempo, ritmo delle parole, eco poetica di suoni” (3), il plurilinguismo, la poeticità, il suono, e direi anche il colore stesso della parola, non possono prescindere dalle lingue madri. Nessuna lingua artificialmente ricostruita può eguagliarne la potenza espressionistica, la densità sapienziale, la ricchezza significante, l’umoralità, l’irriverenza iridescente, l’ironia sovversiva. E lingua madre significa una lingua talmente antica e così arcaicada aver sfidato il divenire; che ha saputo tener testa all’omologante egemonia, al livellamento sterile e banale del linguaggio, nato dalla società consumistica e della pervasività televisiva.
Quest’opera di resistenza ha operato il Consolo artista, il Consolo creativo, attento alla parola quant’altri mai, attratto come direbbe Bonura “dalla passione inappagata del senso primitivo della parola” (4), da quella “nostalgia dell’inizio, dell’origine, quando un vocabolo poteva illuminare una vita” (5). Questa nostalgia, questa “regressione strategica” (sono ancora concetti di Bonura), si ricollega a radici antichissime e dai risultati espressivi sorprendenti. Valga per tutti l’Aristofane delle Tesmoforiazuse e della sua guardia, che argomenta in un misto di siculo-calabrese divertentissimo, e che non ha perduto nulla, a distanza di tanti secoli, della sua vis comica e della sua efficacia. Non si dimentichi che questa regressione strategica ci ha dato un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, da un lato, e come contrappeso quella favola barocca e notturna che è Lunaria. Un discorso approfondito meriterebbe anche il Consolo intellettuale, il ricercatore erudito, il filologo, il cultore di storia e di tradizioni, il saggista. Il Consolo che invidia la scrittura geometrica, rigorosa, analitica di sodali come Sciascia, Pasolini o Moravia è in realtà altrettanto illuminista, analitico, ragionatore. Chi vuole la prova di quanto sto sostenendo, si vada a leggere le oltre 280 pagine che hanno dato vita ad un libro composito come Di qua dal faro. Tutti assieme ora, quei saggi, quelle conferenze, quegli articoli, quelle prefazioni, compongono il corpo unitario di un volume che io trovo, oltre che bellissimo, assolutamente necessario.

ANGELO GACCIONE

NOTE (1) “a sud’europa” anno 3° n. 45, Palermo 21 dicembre 2009, pag. 18. Intervista a cura di Concetto Prestifilippo. (2) Idem. (3) Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, 1999, cit. pag. 137, nel saggio “Verga fotografo” (4) LE LUCI DEL BAUHAUS – Linee/Voci, a cura di Angelo Gaccione, Gutenberg, 2001, pag. 7, “I labirinti della poesia”. (5) Idem.

Le parole sono pietre

La notte del 15 gennaio 1969, un anno dopo il terremoto della Valle del Belice, mi trovai a Gibellina, tra le baracche dei superstiti di Gibellina, il paese più distrutto, di cui non rimaneva che un manto di macerie. Mi trovai con tanti altri, contadini di Santa Margherita, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa, e scrittori, pittori, scienziati, sociologi, sacerdoti, giornalisti, lì riuniti per un convegno, un pellegrinaggio in memoria e per appello, allo Stato e al mondo, che da lì, dal Belice, in nome dell’umanità, dei doveri dell’umanità, non bisognava distogliere lo sguardo, che alle popolazioni del Belice si doveva rispetto, solidarietà e aiuto. Vano monito e vano appello, che, poi, le cronache hanno dovuto puntualmente registrare l’ennesimo insulto a quella gente, non solo dimenticandola, ma miserevolmente tradendola con il solito sporco gioco delle corruzioni e dei furti.

Ma quella notte, tra le baracche di Gibellina, sotto un cielo invernale terso e stellato, tutti quei contadini lí convenuti, le donne, le vecchie e i bambini, con negli occhi ancora paura e dolore per i morti, guardavano i «forestieri» lí giunti per loro con l’antica diffidenza ma anche con malcelata gratitudine e speranza.

L’assembramento sulla spianata delle baracche si compose poi in un corteo, un lungo corteo luminoso come un fiume di fuoco per la fiaccola che ciascuno aveva acceso e reggeva in una mano, che si mosse e cominciò a salire sul colle di Gibellina. Fu lì, tra le macerie rese più sinistre e spettrali dal barbaglio delle fiaccole e dai fasci di luce dei proiettori che sciabolavano nel cielo, che vidi, alto sopra un rocchio di colonna abbattuta, Carlo Levi. Parlava a un gruppo di contadini che attorno a lui si erano disposti, e altri se ne avvicinavano e man mano il gruppo cresceva. Non sentivo le parole di Levi, ma vedevo i suoi gesti calmi e fraterni, il suo viso chiaro dall’espressione confortante, vedevo l’attenzione e la partecipazione dei contadini alle sue parole. E mi sovvennero in quel momento, come concentrate in un’unica parola, le pagine del Cristo si è fermato a Eboli, le pagine di Le parole sono pietre e tutte le pagine da lui scritte sul mondo contadino. Concentrate in quest’unica parola: amore. Questo è la forza e la poesia delle pagine di Levi: l’amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile. Da qui quella sua straordinaria capacità di guardare, leggere e capire la realtà, capacità di leggere la realtà contadina meridionale, di comunicare con essa. Da questo suo amore poi, l’ironia e l’invettiva contro il disumano, contro i responsabili dei mali, e la risolutezza nel ristabilire il senso della verità e della giustizia.

Le parole sono pietre – mai titolo di libro fu più felicemente duro e capace di colpire – è il frutto di un viaggio in Sicilia in tre tempi: nel 1951, nel 1952 e nel 1955, anno, questo stesso, in cui fu pubblicato per la prima volta il libro. Viaggio e non soggiorno, com’era stato per la Lucania. E proprio perché frutto di viaggio, Le parole sono pietre, al contrario del Cristo si è fermato a Eboli, ha dentro come un ritmo urgente, una tensione e quasi una febbre dello sguardo e dell’intelligenza nel cogliere voracemente la realtà e subito restituirla nella sua purezza e nel suo significato più vero.

Ultimo, allora, di una lunghissima e illustrissima schiera di viaggiatori in Sicilia, viaggiatori che spesso, in questa terra antica e composita, enormemente stratificata, sono stati ingannati e fuorviati da superfici arditamente colorate o da monumentalità incombenti, fino a giungere qualche volta allo smarrimento (come successe a quel povero inglese di nome Newman, divenuto poi cardinale, che dalla Sicilia scappò confuso e febbricitante), ultimo, dicevo, Levi, non ha distrazioni e incertezze.

Il 1951 non era, tanto per non cambiare, un anno particolarmente felice per l’Italia e ancor più per il Meridione e la Sicilia. Era un anno uguale o esattamente speculare a quello di cinquant’anni prima, al 1900. All’inizio di questo secolo, in Sicilia, dopo le ferite aperte dalle repressioni statali ai moti dei contadini e degli operai delle miniere di zolfo, era cominciata, col governo Giolitti, una terribile crisi agraria seguita da una grave crisi economica che aveva obbligato le masse diseredate e angariate dai creditori a salire sui bastimenti e salpare per l’America. Fu, quello, il primo grande esodo, la prima grande emigrazione. Mezzo secolo dopo, uscita, la Sicilia contadina, stremata dal fascismo e dalla guerra, ma accesa nella speranza di poter finalmente intervenire nella storia, di poter cambiare, essa, il corso della storia, subisce ancora la repressione e il sangue, da parte dello Stato, da parte delle eterne, oscure e prepotenti forze che da sempre l’hanno tenuta in soggezione: gli agrari e la mafia. Questi, nel 1947, armano la mano di un bandito, Giuliano, e lo fanno sparare contro contadini inermi che a Portella della Ginestra festeggiano il 1o maggio. Le elezioni nazionali del 1948 poi – sulle quali influirono pesantemente gli Stati Uniti e la Chiesa, per scongiurare, dissero, «il pericolo comunista» – e il conseguente governo centrista di De Gasperi, avevano vanificato i risultati e le speranze delle prime elezioni regionali siciliane, dell’aprile del ’47, in cui le forze popolari avevano ottenuto una grande affermazione. E nel 1951, ancora sotto un nuovo governo De Gasperi, nonostante gli aiuti americani del piano Marshall e nonostante l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, il divario fra le due Italie, quella del Nord e quella del Sud, si allargò sempre più. Nei primi anni cinquanta comincia così il secondo grande esodo delle masse contadine meridionali verso l’Italia settentrionale, verso il centro Europa, verso l’America, di nuovo verso quella mitica America nella quale erano approdati altri emigranti cinquant’anni prima.

Tra questi emigrati in America dell’inizio del secolo, vi fu un calzolaio siciliano, con moglie e sei figli. Uno di questi figli, Vincent, Vincent Impellitteri, cresciuto negli Stati Uniti, un giorno diventa sindaco di New York. Nel 1951, a distanza di mezzo secolo, questo primo cittadino della «più grande città del mondo» ritorna, quasi come una divinità, per una breve visita, al suo paese natale: Isnello, un paesino desolato sopra le Madonie, 600 metri d’altitudine, 4000 abitanti.

Carlo Levi segue Impellitteri in questa giornata di commozione e di trionfo a Isnello, guarda tutto, ascolta, annota, e ci fa subito capire, con la sua lieve ironia, che dietro la bella favola, dietro la mitologia dell’uomo di umili origini che può diventare importante in una nazione, come quella americana, «dove c’è libertà e uguaglianza», una ben altra realtà si nasconde. Quella per esempio del feroce gioco politico in una città come New York, gioco per cui un «estraneo» come Impellitteri può diventare sindaco solo con l’appoggio dell’Italian American Labor Council, il potentissimo consiglio del lavoro del settore dell’abbigliamento che vanta legami con la mafia. Ci fa capire che, contro il successo «pulito» di un Impellitteri o contro il successo sporco di un gangster come Lucky Luciano, ci sono stati Sacco e Vanzetti, c’è una massa enorme di immigrati che lavora e sgobba e non si arricchisce, non ha successo, resta povera. Che non ci sono Eldoradi, non ci sono nazioni innocenti, non esistono l’azzardo e la fortuna. Esistono i diritti e la giustizia: quelli bisogna far rispettare, questa reclamare. Se non l’hanno capito i contadini di Isnello, frastornati dalla Pontiac, dai discorsi reboanti delle autorità e dall’invasione dei petulanti giornalisti americani, lo hanno capito gli zolfatari di Lercara Friddi.

È qui che a Levi si apre l’antico mondo siciliano delle zolfare. Di cui bisognerebbe conoscere la storia: dei carusi ceduti dalle famiglie ai picconieri che su questi lavoratori bambini hanno ogni potere (ma il potere sommo, e sui picconieri e sui carusi, è esercitato dal proprietario, dal gabellotto, dal sorvegliante); del lavoro disumano dentro quelle fosse dantesche, delle esplosioni frequenti e dei crolli che vi avvenivano e delle vittime che dentro rimanevano sepolte; e la storia, anche, delle ribellioni e degli scioperi degli zolfatari, come quelli del 1893, che Pirandello raccontò nel suo romanzo I vecchi e i giovani.

A Lercara, dunque, nonostante la chiusura politica che sull’Isola e la Penisola in quegli anni si andava effettuando, nonostante la crudeltà, l’arroganza e la mafiosa sicurezza del proprietario della miniera Ferrara, detto Nerone, gli zolfatari, col loro primo sciopero che dura ormai da un mese, hanno appena acquistato una nuova coscienza, sono appena entrati «nel mobile fiume della storia». La causa di questo miracolo era dovuta al sacrificio di un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice, morto schiacciato da un masso dentro la miniera. «Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata»: «Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò». Con poche parole secche Levi ci racconta un fatto tragico ed enorme. Trovato ora, qui a Lercara Friddi, il filo, lo scopo del viaggio, e del libro – la nuova coscienza e l’ingresso nella storia del mondo contadino siciliano – Levi corre su una precisa direzione. Non potendo però fare a meno di indugiare su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, su quanto di violento investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di storico di mitico di poetico torna alla memoria. Ed è Palermo, la fastosa e miserabile Palermo, con i suoi palazzi nobiliari che imitano le regge dei Borboni tra i «cortili» di tracoma e di tisi, con le ville-alberghi in stile moresco-liberty di imprenditori come i Florio che s’alzavano sopra i tetti dei tuguri; la Palermo dalle strade brulicanti d’umanità come quelle di Nuova Delhi o del Cairo e dei sotterranei dei conventi affollati di morti imbalsamati, bloccati in gesti e ghigni come al passaggio di quello scheletro a cavallo e armato di falce che si vede nell’affresco chiamato Trionfo della morte del museo Abatellis. È la nera Catania di lava, l’azzurro-nera Aci Trezza di Verga, la Segesta d’oro o la bianca Erice di Venere; è Partinico con le buie case dei pazzi del quartiere Spine Sante, dove si muove Danilo Dolci, incomodo accusatore di mali e suscitatore di speranze; è Montelepre, con le sue aspre e orride montagne, teatro di imprese banditesche.

Ma vediamo, con Levi, Bronte e la ducea di Nelson.

Questo feudo, ottenuto dal cinico ammiraglio inglese per aver versato il sangue dei giacobini rivoluzionari napoletani (egli personalmente impiccò all’albero della sua nave l’ammiraglio Caracciolo), fu sempre difeso dai suoi discendenti con la repressione e il sangue. Come nel 1860, quando, per ordine di Bixio, vengono fucilati cinque rivoltosi, fra cui un povero, innocente pazzo. E questa resta una delle pagine più nere della cosiddetta epopea garibaldina. Ora, in questo 1955, dopo quasi un secolo da quell’impresa, i braccianti e i contadini che lavorano la terra della ducea sono ancora lì, nei tuguri, nei vicoli e nei cortili fetidi e malarici dagli ironici nomi di fiori, di muse e di poeti, che suonano come «ingiuria», insulto per loro. Sono lì, e i discendenti di Nelson, tramite il braccio forte e la furbizia dei loro amministratori e campieri, difendono ancora il feudo dalla legge di riforma agraria ingannando e derubando i contadini.

Ma la disperazione dei contadini di Bronte, come la disperazione di tutta quella Sicilia che ha sofferto per i morti e le ingiustizie, trova riscatto e senso nella forza, nella lucida consapevolezza, nella ferma determinazione di entrare nella storia, di restare nella storia, di una donna: Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia.

Anche qui, come a Lercara Friddi con la morte del ragazzo Michele Felice, «il senso antico della giustizia fu toccato» e Francesca Serio, ferita nelle viscere sue antiche di madre mediterranea, invece di ripiegarsi nella tragica disperazione che annienta, trasferisce la sua furia nella ragione: l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole – quelle parole che diventano pietre – in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo; e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un «linguaggio eroico».

A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio sono indimenticabili, sono pagine di commozione rattenuta dal pudore, pagine di parole scarne e risonanti, pagine di poesia.

Sono passati più di cinquant’anni dalla prima pubblicazione di questo libro. In questo mezzo secolo la realtà siciliana si è trasformata, e non nel senso indicato da Francesca Serio e nel senso sperato da Carlo Levi, in quello cioè del progredire della storia verso la giustizia e la serenità per tutti. I braccianti e i contadini di Bronte sono emigrati in Germania, la ducea di Nelson è stata venduta alla Regione siciliana per un buon numero di miliardi; le miniere di zolfo di Lercara Friddi e tutte le altre miniere siciliane sono state chiuse perché improduttive: restano lì, gialle sotto la luna, come cavi monumenti di antiche morti e antiche sofferenze.

Di Francesca Serio, vecchia di oltre settant’anni, si sono avute le ultime notizie molti anni fa dalle colonne di un quotidiano dell’Isola. Si ricordava, su quel giornale, che venti anni prima, al processo di Palermo contro i mafiosi assassini di Salvatore Carnevale, l’avvocato di parte civile era Sandro Pertini. E su quel giornale era fotografata lei, com’era allora, alta e sottile, nobile nei lineamenti del volto incorniciato dallo scialle nero, che si appoggiava al braccio di Pertini. Diceva, sul giornale, di colui che sarebbe diventato presidente della Repubblica: «È un uomo giusto, un uomo giusto». I giusti, la giustizia: erano ancora le sue uniche certezze.

VINCENZO CONSOLO

Gennaio 2010

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– Da bambino mi mangiavo i ricci interi, con la scorza e le spine e il guscio, tanta era la fame: perché la nostra bocca è un mulino; e anche i fichi d’India mi mangiavo con la buccia e non mi facevano male, tanta era la fame; perché il nostro stomaco è un calderone e sotto la gola c’è una vampa che brucia ogni cosa, – mi diceva lo scoparo dell’Aspra aprendo per me dei ricci di mare che era stato a pescarmi sulle rocce di quella costa fra Bagheria e Capo Zafferano, sotto le rovine dell’antica città di Solunto, che è forse il luogo più bello dove un corpo umano possa stendersi al sole. Rocce scoscese terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell’onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista dalle rocce strapiombanti e scavate sotto all’acqua in mille invisibili anfratti, è forata qua e là da larghe buche rotonde o in forma di cuore, come dei piccoli laghi o delle vasche naturali tappezzate di alghe tenere e piene di un’acqua appena mossa. Qui, in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in getti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa, e, avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null’altro davanti che un impenetrabile azzurro.

La capanna dello scoparo sta in alto sopra le rocce, ci si sdraia per asciugarsi, come su un morbido letto, su mucchi di giunchi, mentre egli li intreccia a triplici scope di palma che sembrano cimieri di Paladini o di guerrieri selvaggi, con tre criniere, e costano settanta lire. Questo luogo paradisiaco mi era stato indicato dalla duchessa di S., madre di una mia amica, che, avendo saputo del mio passaggio per Bagheria, mi aveva fatto pregare di salire nella sua villa perché voleva assolutamente conoscermi, e io, che avevo trovato chiusa la bottega dei carri dei fratelli Ducati (provvisoriamente chiusa perché il lavoro scarseggia anche per questi che sono i migliori pittori della costa, perché i carri calano di numero di mese in mese, sostituiti, a poco a poco, dai camion), ero salito alla villa, meravigliosa di architettura e di giardini alti sul paese davanti al mare, dove stava svolgendosi il banchetto di nozze di una delle cameriere, con volo di uccelli dalla torta nuziale, e ballo, e un pranzo fatto, secondo l’uso, di un solo piatto di pasta al forno con ragú di carne, seguito immediatamente dai confetti, dalle torte, dai croccantini, dai bigné, dai desserts colorati, dagli amaretti, dagli africanelli, dai pavesini, dagli svizzeri e da una sterminata quantità di spumoni, di cassate, di bombe Etiopia, di Moka, di nocciole Chantilly e di fragole imbottite. La duchessa troneggiava con bonaria autorità in mezzo alla festa; mi portò a visitare la villa piena di bizzarre statue dello Ximenes, ricordo di ottocentesche esposizioni internazionali, mi mostrò la sua stanza, dove vive lontana dal mondo, che, mi disse, ella odia. Una antica beltà per cui credo abbiano battuto molti cuori, e se ne vede ancora sul suo viso il chiaro ricordo; piena di energia vitale e di bizzarra violenza. Con questa energia e violenza mi assalí di domande. Da quanto tempo, mi disse, voleva sapere se io ero meglio o peggio dei miei libri; e io dovetti sottopormi, non so con quale risultato, al confronto e all’esame, che non lasciò da parte nessun punto e si volse alla letteratura, alla pittura, e perfino all’amore, e a Dio. Come resistere a quella scatenata forza della natura? Mi fece promettere che, in bene o in male, in tutti i modi, avrei scritto sinceramente qualche cosa di lei: e io, troppo brevemente, mantengo la promessa. Prima che mi congedassi ci raggiunse un giovane principe, suo amico o parente non so, che raccontò inaudite stravaganze e follie di spettacolosi membri della sua famiglia: personaggi morti da poco, con stature e barbe imponenti, pieni di disprezzo feudale, di manie smisurate, di proterva e folle vitalità. Avventure, scherzi, mistificazioni, travestimenti, pieni tutti di un grano di genio e di pazzia, e del senso della vita come di un teatro illimitato. Il discorso a un certo punto cadde su Sciara, dove egli aveva passato lunghi periodi della sua infanzia nel castello di una sua parente, la principessa Notarbartolo. Gli dissi della mia intenzione di andarci, e dell’uccisione del capolega. Non ne sapeva nulla di preciso, gli pareva vagamente di averne sentito parlare: doveva essere un violento, un esaltato… – Sciara, – mi disse, – è un paese ricco, c’è lavoro, bestiame, non ci sono poveri, ci si fanno delle cacce meravigliose, le campagne sono piene di quaglie. Da ragazzo stavo su al Castello, li conosco tutti quelli di Sciara, si saliva a caccia sul monte San Calogero, si prendevano le quaglie, una volta abbiamo ammazzato un’aquila reale.

Cosí oggi ero sulla strada per Sciara con Alfio e la sua Appia, e rifacevo ancora una volta, dopo quattro anni, la via della costa, nel grande sole di luglio. Passato Porticello e Casteldaccia, e Altavilla Milicia, bianca sulla collina, e San Nicolò, ci dovemmo fermare a lungo al passaggio a livello di Trabia, sempre chiuso per i lavori del doppio binario e per le manovre dei treni. Un bambino venne a offrirci un cestino di fragole freschissime. Si discusse sul prezzo, e Alfio, abituato a vedere quel ragazzo, in quel suo commercio che profittava della fermata obbligatoria al passaggio a livello, gli chiese, cosí a caso per farlo parlare, come era andata la lite coi suoi rivali. La lite immaginaria c’era stata davvero e il bambino l’aveva risolta a suo vantaggio applicando spontaneamente la regola della forza e del prestigio che regge tutto il paese. – Mi sono preso un socio, – disse. – Quell’altro, che voleva vendere le fragole qui dove spetta a me, era piú grande, ma adesso che siamo in due comandiamo noi e non ci viene piú.

Dopo Trabia e Termini Imerese, è la stessa strada di Isnello, fino a un bivio sulla destra. Qui si lascia la costa e si sale per una strada sbrecciata, polverosa e piena di buche, verso l’interno. Subito l’aspetto del paese cambia, si apre una grande valle di monti nudi, compare, lontana sul monte di faccia, Cerda, grigia nelle nude distese dei campi, con quel colore di terra e di stoppie, di silenzio e di antica malaria che accompagna come una nota continua e patetica la fatica contadina. A destra si leva altissimo il monte San Calogero, isolato e torreggiante, avvolto di nubi verso la cima. Dal suo interno scendono al mare le calde acque termali. Sotto la Sicilia, si racconta, sta sdraiato in eterno un Ciclope, là schiacciato sotto quel peso, per vendetta degli Dèi. La sua bocca è sotto l’Etna e lancia fiamme di lava, le sue spalle a Siracusa e allo Stretto, i suoi piedi sotto il monte di Erice, e, sotto il San Calogero, i suoi reni stillanti in eterno quelle acque benefiche.

Si sale a giravolte, tra i campi di stoppie del feudo. Passiamo in un uliveto di grandi alberi centenari, contorti, grigi e argentei sul giallo delle stoppie. È un uliveto della principessa, come tutte le terre circostanti. – Qui, – dice Alfio, – per queste olive, cominciò la prima azione di Salvatore Carnevale. Per queste olive e per questo grano. Quando lo hanno ammazzato, il grano era alto –. Ora, il grano era stato mietuto; qua e là, lontano, sulle distese del feudo, sorgevano i pagliai, come torri quadrate, e l’ombra grigia dei grandi olivi si stendeva sulla terra.

– Salvatore Carnevale io l’ho conosciuto, l’ho visto molte volte quando era vivo, qui a Sciara, e nelle riunioni contadine. Aveva trentadue anni, alto, bruno, scuro di pelle, nero di occhi e di capelli, pieno di fuoco e di energia, anche buon oratore era, deciso, violento, estremo, ma insieme molto equilibrato e con una visione precisa e semplice delle cose. Era uno dei migliori, un vero capo contadino. Era il solo di quella qualità qui a Sciara, e gli altri lo hanno capito benissimo. Fu lui a fondare la sezione socialista di Sciara, nel ’51, e a mettere in piedi la Camera del lavoro. A Sciara non c’era mai stato nulla, nessun partito, nessuna organizzazione per i contadini, niente mai. Era un paese feudale, lo vedrai. Fermo nelle stesse condizioni da chissà quanti secoli, terra di feudo, con la principessa, i soprastanti, i campieri; e i braccianti che non sapevano neanche di esistere, immobili da secoli. È un paese poverissimo, naturalmente (ti diranno che non è vero) in mano alla mafia. Non è un grosso centro di mafia come Caccamo, Termini, o Trabia o Cerda che le stanno tutto attorno, perché è poco piú di un villaggio. Ma quei pochi mafiosi sono i padroni e fanno la legge. È la condizione elementare dei paesi del feudo. Carnevale fu il primo, e mosse ogni cosa con l’esempio e il coraggio. Perché aveva una mente chiara, e capí che non si può venire a patti, che i contadini dovevano muoversi con le loro forze, che il contadino per vivere deve rompere con la vecchia struttura feudale, non può fare le cose a mezzo, non può accettare neppure il minimo compromesso. Capí che l’intransigenza è, prima che un dovere morale, una necessità di vita, e che il primo passo è l’organizzazione, e che ci si può fondare e appoggiare soltanto sulle organizzazioni che non hanno nulla a che fare con il potere. Per questo poteva apparire talvolta eccessivo, estremista. Aveva capito che in queste condizioni primitive e tese, di fronte a un potere organizzato e ramificato che arriva dappertutto, che controlla tutto con la sua legge, l’essenziale è non lasciarsi sedurre, né corrompere; né accettare mai, come cosa reale, la paura, l’omertà, la legge del terrore. L’ha pagato con la vita. Ma il paese è cambiato, lo vedrai.

– Proprio qui, queste olive della principessa, sono state la sua prima vittoria, e forse lo hanno condannato a morte. Era usanza antica che i contadini di Sciara che seminavano il grano sotto l’oliveto non avessero parte nel raccolto delle olive. Il grano era diviso secondo le vecchie proporzioni. Le olive erano tutte della proprietaria che ne affidava il raccolto a gente forestiera, a coltivatori e raccoglitori di Caccamo e ai loro soprastanti. Carnevale si fece forte della legge, e chiese che il raccolto delle olive fosse affidato agli stessi contadini che coltivavano il grano, e che la divisione fosse fatta come vuole la legge, in modo che la parte dei contadini fosse il sessanta per cento e quella della principessa il quaranta. Era il primo movimento contadino organizzato. E a Carnevale fu subito offerto da un amministratore del feudo, se avesse abbandonato la lotta, tutte le olive che egli avesse voluto. I contadini vinsero, ottennero quasi tutto quello che chiedevano; la mafia fu offesa e ferita nel suo fondamento, il prestigio, non tanto per la questione sindacale in sé, quanto per il modo intransigente e fiero con cui era stata condotta. Poco dopo cominciarono le occupazioni delle terre. Mi pare fosse l’ottobre del ’51. Tu sai come avvenivano queste cerimonie familiari e solenni, con le donne, i bambini, le bandiere, che andavano come a una festa a prendere il possesso simbolico della terra e poi tornavano alle loro case. Carnevale li guidava. Erano andati qui, sopra questi campi che si chiamano contrada Giardinaccio (è lí che poi è stato ammazzato). Al ritorno al paese il corteo fu fermato dal brigadiere, e Carnevale con tre altri contadini fu chiamato in Municipio per discutere, arrestato e mandato per otto giorni alle carceri di Termini Imerese; e di nuovo, anche questa volta, comparvero le minacce e le seduzioni della mafia. Un soprastante si rivolse alla madre offrendole la migliore tenuta di olive se il figlio avesse lasciato stare il partito, e oscure e chiarissime minacce se non fosse sottostato alle offerte. Ma queste cose te le racconterà assai meglio sua madre.

L’oliveto era finito, il terreno era aperto, il grano mietuto fino a perdita d’occhio, fino a un lontano dosso dietro a cui d’un tratto apparve il paese. Veramente il paese non si vedeva, ma erano sorti, come spuntati dalla terra, il castello, alto sopra una roccia, e, sotto di lui, piú in basso, la chiesa. Fra il castello e la chiesa stava, invisibile, il paese. Pareva un’immagine araldica della Sicilia feudale, troppo semplicistica, troppo simbolica per essere vera, con quei due soli neri profili verticali, stagliati sul cielo, come i segni del potere, piú protervo e alto il primo, sottomesso e aguzzo il secondo, e, in mezzo, quasi inesistenti, nelle casupole confuse con la terra, i contadini.

Un valloncello senz’acqua si apriva come una fessura nella polvere bruciata dei campi, verso il monte, dove Carnevale era stato ucciso. Lasciammo la macchina e cominciammo a inerpicarci sul pendio. Incontrammo un orto e una casupola: quattro piccoli cani bastardi ci vennero incontro abbaiando furiosamente e il contadino si fece sull’uscio, guardandoci diffidente. Ma quando capí dai nostri passi dove eravamo diretti, ci salutò, e, indicandoci col gesto di un principe i quattro alberelli di frutta del suo podere, ci disse di raccogliere tutto quello che avessimo voluto, che era nostro. Salimmo tra i cardi e le erbe spinose, tornammo tra il grano, piú in alto, fino a un sentiero orizzontale, visibile di lontano, nell’uniforme terreno, per un cippo di pietra. Qui Carnevale morí. Il cippo lo ricorda, con una semplice scritta, dove però due parole, le piú modeste e innocenti, dove si parla del pianto di tutto il popolo, sono leggibili solo sotto la calce che le ricopre, cancellate per ordine del prefetto.

Ora il grano è tagliato e l’occhio vede lontano lungo il sentiero che da Sciara, a mezz’ora di strada di qui, porta alla cava di pietra dove lavorava Carnevale. Ma quando, all’alba del sedici maggio, gli assassini lo attendevano, il grano era alto, e li copriva. Devono essersi fermati qui ad aspettarlo per lungo tempo, si vede ancora il terreno pesticciato sopra il sentiero. E avevano fatto passare quell’ora di attesa, prima di sparare, mangiando delle fave, ci sono ancora per terra le bucce rinsecchite. Mi pare che parlino maligne come antichi ruderi di un incendio, o vecchi documenti ingialliti. Le cose cosí cambiano natura, diventano prove, piene di senso, della realtà, buone o cattive, non piú oggetti, ma testimoni e partecipi. Mi chino a raccogliere una di quelle bucce. Scendono dai campi, come uccelli che scorgono di lontano e si buttano improvvisi, o mobili abitanti del deserto, dei contadini che ci hanno veduto vicino al cippo. Si fermano rispettosi a qualche passo di distanza, ci salutano, senza chiederci chi siamo: – Buon giorno, compagni.

– Carnevale è stato l’ultimo, finora, – disse Alfio, – dei contadini ammazzati sul feudo dalla mafia. La lista è lunga in questi anni, tu lo sai. Era stato due anni lontano di qui, a Montevarchi, a lavorare. Quando tornò era cominciata la Riforma. Settecento ettari erano stati scorporati, ma solo duecento distribuiti, e gli assegnatari avevano avuto una serie di «avvertimenti» dalla mafia perché non credessero di godersi impunemente le terre ricevute. A chi bruciarono il pagliaio, a chi sfondarono la porta, o rubarono le pecore o le capre, o l’aratro. La mafia e il feudo si difendono, tanto piú violenti se è una battaglia perduta. Appena tornato, Carnevale ricominciò con l’occupazione delle terre, per far applicare la legge: e per questo ha avuto un processo e una condanna. Poi lavorò alla costruzione della strada tra Sciara e Caccamo, e poi alla cava della pietra per la costruzione del doppio binario tra Termini e Trabia, quello che ci ha fermato al passaggio a livello. Anche la cava che è quassú, nel Giardinaccio, appartiene alla principessa, e i lavori sono di una ditta di Bologna; ma chi fa tutto sono gli appaltatori locali legati alla mafia. Carnevale era segretario degli edili e chiese le otto ore dovute per contratto mentre se ne lavoravano undici, e il pagamento dei salari arretrati. Scrisse a Palermo, fece comizi attaccando la mafia, venne di nuovo minacciato e infine ucciso mentre andava al lavoro. L’assassinio era, per cosí dire, firmato, con la simbologia delle uccisioni di mafia: i colpi al viso, per sfigurare il cadavere, in segno di spregio; e il giorno seguente il furto di quaranta galline, per il banchetto tradizionale. Ma tutto sarebbe finito nel silenzio, come tutte le altre volte. L’autorità avrebbe fatto le viste di indagare, nessuno avrebbe parlato. Si sarebbe, come tutte le altre volte, parlato di un delitto privato, per ragioni personali, o di onore, o di interesse, o di vendetta. Ma questa volta, per la prima volta nella storia della Sicilia, non è stato cosí. La madre di Salvatore ha parlato, ha denunciato esplicitamente la mafia al tribunale di Palermo. È un grande fatto, perché rompe il peso di una legge, di un costume il cui potere era sacro. Qualche cosa è davvero cambiato. Il giorno della morte di Carnevale il paese era terrorizzato, nessuno osava andare a vedere il morto, abbandonato all’obitorio. La denuncia ha scacciato il terrore, al funerale c’erano tutti, si sentivano solidali e sulla strada giusta, come al centro del mondo.

Eravamo discesi sui nostri passi: tornati sulla strada, in pochi minuti giungemmo a Sciara. Una strada la traversa salendo e scendendo da un capo all’altro, interrotta nel mezzo da una piazza con l’aquila del monumento ai caduti, e una assurda chiesa di stile olandese goticizzante al posto della chiesa antica. Da questa strada salgono verso il castello e scendono verso la valle le vie trasversali, larghe, ripide, sassose, come dei letti di torrente. Sono delle sciare, delle strisce, sono dei fiumi di pietra che rovinano a valle. Risalendole, tra le capre e gli asini e le vacche, e le basse casipole di pietra, si vede il castello dove tutte convergono. È, visto da vicino, un modesto castelluccio, quasi una villa signorile abbandonata e cadente; ma l’alta roccia a picco su cui è costruito e le siepi spinose di fichi d’India che lo circondano gli dànno un’aria militare e grifagna, come una rocca segregata e imprendibile, un luogo di separazione sanguinosa, e di disprezzo.

A salirci, che pace! La campagna digrada fino al monte San Calogero ammantato di nebbie, un silenzio solenne si stende sui campi, un intatto incanto pastorale lega gli alberi, le piante, le rocce, l’oro delle paglie, le azzurre lontananze, fino al cielo vuoto. Affacciandosi di lassú, tutto il paese circostante è come un libro aperto, e nulla è celato allo sguardo. Nell’immobilità della campagna il minimo moto di un uccello, di un animale, di un cristiano appare nitidissimo. Tutte le strade di Sciara, tutte le case, tutte le porte di tutte le case, tutti gli scalini davanti alle porte, tutte le persone sedute sugli scalini, si vedono ad una ad una, come in un grande quadro senza ombre. Chi sta qui non ha bisogno di interpreti o di spie, ma ha, col solo sguardo, il dominio. Sa chi esce e chi entra, chi è andato al lavoro e chi ne è tornato, chi ha acceso il lume e chi ha mangiato, chi ha munto la vacca, chi ha chiuso la porta. E chi sta sotto, su quelle soglie, in quelle case, sente sopra di sé gli occhi di questo uccello da preda appollaiato.

In una di quelle strade in discesa, di quelle specie di scoscendimenti sassosi che dirupano a valle, è la casa di Salvatore Carnevale e di sua madre, Francesca Serio, nella parte bassa del paese; vi si giunge dalla via principale scendendo degli alti e stretti scalini di pietra. Un vecchio stava sulla soglia, col viso rugoso bruciato dal sole, con un cappello stinto in testa: abituato alle visite, ci fece cenno di entrare. È una sola stanza stretta e lunga che prende luce dalla porta, con un soppalco nella parte di fondo, un forno di mattoni per il pane, vicino all’ingresso, qualche attrezzo appoggiato al muro nudo e bianco di calce, e un letto accostato alla parete, sotto il soppalco. Vicino al letto, seduta su una sedia, coperto il capo di uno scialle nero, sta, sola, Francesca, la madre. È una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana. Chiede a Alfio se io sono un compagno o un amico, ci fa sedere vicino a lei, presso quel letto bianco che era quello di Salvatore, e parla. Parla della morte e della vita del figlio come se riprendesse un discorso appena interrotto per il nostro ingresso. Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’italiano, la narrazione distesa e la logica dell’interpretazione, ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadina, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, e la morte del figlio, e la solitudine, e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Cosí questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono piú lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose.

Francesca racconta: – Su mio figlio morto venne il pretore a fare la perizia, sembrava urtato. Non bada che c’erano operai assai che ti guardano. Fai almeno come solito di legge, non diciamo come affetto perché era carne umana e perché era come te. Ma tu ti senti persona elevata, e quella a te ti sembrava niente. Allora fece con la testa un segno di disprezzo, e disse: «Ah, non era il momento di fare questo!» Come lo sento parlare cosí, mi volto e gli dico: «O vigliacco, hai ragione di dirlo che non era il momento, perché pensi alle elezioni e tu perdi terreno. Allora quando sei al potere vieni fin dentro e mi uccidi? È questa la disciplina che porti? Perché fai questa perizia per ingannarci? Perché non te ne vai a casa? Certo, non era il momento».

Di fronte all’ingiustizia che è nelle cose sta dunque la giustizia, che è una certezza. Ma la risposta di Francesca non è quella anarchica e individuale che arma la mano del brigante e lo spinge al bando, al rifiuto, al bosco: è una risposta politica, legata all’idea di una legge comune che è un potere a cui ci si può appoggiare, un potere nemico del potere: il Partito. La legge che dà certezza a Francesca non è l’autorità né i suoi strumenti: questi appartengono per natura al mondo nemico.

Racconta della prima pacifica occupazione delle terre nel ’51, quando suo figlio la prima volta guidò i contadini e venne poi arrestato:

– Eravamo andati alla montagna, eravamo piú di trecento persone; mentre eravamo là che stavamo mangiando un poco, chi era seduto, chi passeggiava, e non c’era nessuno che danneggiasse, venne un brigadiere di Sciara con un carabiniere, dice: «Per favore, per favore, per favore togliere la bandiera». Perché c’erano le bandiere che tenevamo sventolate. I contadini dicono: «No, perché dobbiamo togliere le bandiere, per quale motivo? Non è che le bandiere fanno male. Qui non è che stiamo facendo guasti». Ma il brigadiere dice: «Allora andiamo al paese, andiamo al paese». Ce ne andammo al paese. Quando arrivammo un po’ di via lontano, vedemmo di sotto la polizia col commissario e ci fermarono: «In alto le mani». Noi non avevamo né fucili né scoppette, niente. Ci fermarono e presero tutti i nomi e cognomi, a mio figlio, a Polizzi, a Tirruso, a Ceruti, a Lentini che chiamiamo il sindaco di Favara. A me mi chiesero il nome. Dice:

– «Lei come si chiama?»

– «Scritta sono io».

– «Passassi», dice. Alcuni prendemmo da una via, altri da un’altra, c’erano cinque o sei carabinieri. Disse uno di loro:

– «Ci avete pensato proprio a questa giornata. Ci siamo fatti le scarpe molli e i pantaloni tutti pieni di terra».

– «Ma per noi, – risposi, – per noi questa giornata è la piú bella giornata del mondo: bella, tranquilla, col sole. Questo è un divertimento che noi non abbiamo preso mai. Se non ci date le terre incolte, secondo la legge (perché si devono perdere?) ne avrete da fare di queste giornate. Questa è la prima che state facendo». E cosí ce ne andammo al paese. Arrivati al paese, invitarono mio figlio e altri quattro ad andare al Municipio in commissione per discutere e chiarire i fatti. E mio figlio venne a casa, si cambiò per andare al Municipio, credendo che doveva fare questo, perché noi non è che eravamo imparati di fare queste dimostrazioni. Mentre erano al Municipio a discutere, venne la polizia con la camionetta, li misero sulla camionetta e se li portarono a Termini, alla prigione.

La legge è una cosa, l’autorità è un’altra. Suo figlio, dice, voleva far rispettare la legge, il sessanta e quaranta, le otto ore, ma le autorità stanno dalla parte di quelli che violano le leggi. Quando, pochi giorni prima della morte, Salvatore aveva iniziato l’azione per le otto ore nella cava e venne provocato dai soprastanti, andò a raccontare il fatto al brigadiere di Sciara, e il brigadiere rispose: – Non è competenza mia, – e rifiutò di intervenire. Il giorno seguente ci fu lo sciopero, la ditta promise di rispettare le otto ore, e di pagare i salari arretrati. Francesca racconta che mentre lavoravano venne il maresciallo di Termini accompagnato da Mangiafridda Antonino, che faceva per la principessa il controllore dei camion.

– Il maresciallo fa chiamare fra tutti Carnevale, mio figlio. «Carnevale, venisse qui. Bada bene che tu sei il veleno dei lavoratori». Mentre mio figlio gli rispondeva che lui non era il veleno dei lavoratori, ma soltanto difendeva la legge, Mangiafridda si voltò e gli disse:

– «Picca n’ai di sta malandrineria!» (Durerai poco a fare lo spavaldo).

– Il maresciallo non fa il testimone contro Mangiafridda. Se le parole le diceva mio figlio, allora il maresciallo lo arrestava e se lo portava, ma siccome le ha dette Mangiafridda, che è il delinquente, il malfattore di Sciara, che era il magazziniere della principessa, non lo arrestò e se ne andarono. Questo fu il giorno tredici, venerdí.

Di questi episodi e di questi sprezzanti giudizi sulle autorità, lo sterminato discorso di Francesca è fitto, a ogni momento. Essa è tutta piena di ostilità e di violenza, la sua rottura è totale e senza mezzi termini, fondata sull’incrollabile certezza. È la rottura di una situazione secolare, del riconoscimento passivo che contro quella realtà non c’è nulla da fare. Senza quella certezza sarebbe possibile soltanto la disperazione, la rottura non sarebbe pensabile altro che nella forma poetica di un lamento funebre, o nel rifugio mitologico, nella fede nell’altro mondo, nella identificazione del morto con Cristo. Anche per lei il figlio è Cristo, ma in un modo tutto realistico (col brigadiere che come Pilato dice: – Non è competenza mia –), legato alla terra, e che non chiede amore, ma giustizia. Di qui questa passione fredda, questo impulso d’azione, questo slancio, che ha un poco la stessa natura della spinta che ha mosso a emigrare, per altre vie e con altri destini, i contadini ebrei di San Meandro Garganico in cerca di giustizia su questa terra. Ma per Francesca la terra non è altrove, è qui, a Sciara, in Sicilia, e la guerra si conduce con la parola, nel tribunale di questa stanza.

– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – aveva detto Salvatore al mafioso che era stato mandato a minacciarlo cinque o sei giorni prima della sua morte. – Era notte, mio figlio tornava dal lavoro, quando in un angolo buio sentí chiamare con un sussurro: «Ps, ps». Non si voltò e non rispose. Quello allora, spuntato dall’ombra, gli si avvicinò. Gli batte una mano sulla spalla. «Oh, – dice, – Totò, ti sei fatto superbo». «Ho un nome che mi ha dato Dio».

– «Bene, – dice quello, – ti voglio bene, se non ti volessi bene non mi metterei in questi inciampi. Hai da levarti dal partito e stracciare tutte le carte e non pensarci piú. Avrai una buona somma, che mentre campi non avrai piú da lavorare».

– Disse mio figlio: «Io non sono carne venduta, e non sono un opportunista».

– «Pensaci, che altrimenti farai una mala morte».

– E allora Salvatore rispose: «Vieni tu ad ammazzarmi, ma di’ a questi che ti ci mandano che quando hanno ammazzato a me hanno ammazzato a Gesú Cristo».

– Quando mio figlio arrivò a casa era agitato, e mentre mangiava, qui su questa tavola, si dava dei colpi in testa, cosí, con le mani, ma non parlava, diceva solo: «A me non mi convincono». Ma era pallido come un morto. Dette solo due cucchiaiate giuste giuste di pasta e smise di mangiare. «A tua madre non vuoi dire che cosa è successo?» Non voleva. Ma poi me lo raccontò. Ma non mi disse il nome di quello. Mi disse che lo avrebbe detto in pubblico, al comizio, la domenica. Ma la domenica il comizio non si poté tenere perché era proibito, per la festa del Santo Patrono, e il lunedí mattina, all’alba, lo ammazzarono.

– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – ripete Francesca. Ma sa che la sua Chiesa è in piedi tuttavia («se muore un monaco non si chiude il convento»). E questo potere, questa chiesa terrestre che la fa viva, che le ha asciugato il pianto, che le ha sciolto la lingua, le ha dato un linguaggio. Non è il linguaggio poetico della madre lucana che racconta la vita del figlio morto: è un linguaggio di rivendicazione, di oratoria, di discussione, un atto di accusa, è un linguaggio di partito. Anche i suoi termini suonano nuovi e strani nel dialetto: termini giuridici e politici, la legge, la riforma, il sessanta e quaranta, la lotta, l’organizzazione, gli opportunisti, e cosí via. Ma nella sua bocca, davanti alla morte, questo linguaggio, questo convenzionale e monotono linguaggio di partito, diventa un linguaggio eroico, come il primo modo di affermare la propria esistenza, l’arido canto di una furia che esiste per il primo giorno in un mondo nuovo. La nuova esistenza nasce con la forma della tragedia, è oscura, minuziosa, opaca e feroce. È una rivelazione, nel teatro del tribunale della coscienza, e del tribunale vero, quello di Palermo; un punto di verità raggiunto che dà vita e moto a tutte le cose e va ripetuto senza stancarsi, in un racconto ormai fissato, che non si perde piú, come non si perde quella raggiunta certezza. La morte del figlio le ha aperto gli occhi, ha fatto di lei una persona nuova e diversa, fortissima, indifferente agli altri, superiore a tutte le cose perché sicura di questa sua nuova esistenza. Prima, era una donna qualunque, una povera donna contadina, una forestiera qui a Sciara, che veniva da un paese della provincia di Messina, abbandonata dal marito, che scomparve e poi morí. Era venuta con questo figlio di cinque mesi, forse malvista in principio perché forestiera e sola.

– Andavo a lavorare per campare questo figlio piccolo, poi crebbe, andò a scuola ma era ancora piccolino, cosí tutti i mestieri facevo per mantenerlo. Andavo a raccogliere le olive, finite le olive cominciavano i piselli, finiti i piselli cominciavano le mandorle, finite le mandorle ricominciavano le olive, e mietere, mietere l’erba perché si fa foraggio per gli animali e si usa il grano per noi, e mi toccava di zappare perché c’era il bambino e non volevo farlo patire, e non volevo che nessuno lo disprezzasse, neanche nella mia stessa famiglia. Io dovevo lavorare tutto il giorno e lasciavo il bambino a mia sorella. Padre non ne aveva, se lo prese mio cognato qualche anno a impratichirsi dei lavori di campagna. Lo mandai alla scuola fino alla quinta, aveva il diploma e andava a giornata, e ci industriavamo la vita per campare fino a quando andò soldato.

Cosí Salvatore era venuto su senza il padre, e aveva dovuto superare già da bambino una condizione particolare anche piú difficile di quella degli altri bambini contadini, ed era cresciuto pieno di orgoglio. Aveva fatto due tentativi di uscire da quel mondo ristretto: un concorso per entrare nella polizia, dove non fu ammesso per la fedina penale di uno zio, un altro per diventare autista militare, che non riuscí perché, per il ritardo a preparare i documenti, passò il limite di età stabilito. Non era uno da accettare la condizione servile, il movimento contadino gli evitò la protesta individuale, la rivolta del bandito; e si fece organizzatore sindacale. La madre non lo seguiva, legata ancora al vecchio costume.

– Quando ci furono le prime elezioni, – racconta Francesca, – allora non c’era ancora il partito qui a Sciara, e Salvatore mi disse: «Madre, vorrei metteste il voto per Garibaldi, non si può sbagliare, è quello con la berretta, si riconosce, non ve lo scordate».

– «No, non me lo scorderò». Se lo fece promettere. Ma io quando andai a votare e vidi quel Dio benedetto di Croce, pensai: «Questo Dio lo conosco. Come posso tradirlo per uno che non conosco?» E misi il segno sulla Croce. A lui non dissi nulla: ma i voti per Garibaldi, in tutto il paese, furono appena sette, e il conto non tornava. Salvatore si arrabbiò. Era un poco nervoso: diventò un Lucifero. Ma io non gli dissi mai nulla di come avevo votato. Poi, quando si formò il partito qui a Sciara, la sera che firmò e si mise a capo come segretario, io feci una seratina di pianto. «Figlio, mi stai dando l’ultimo colpo di coltello, non ti ci mettere alla testa. Il voto daglielo, ma non ti ci mettere alla testa, lo vedi che Sciara è disgraziata, è un pugno di delinquenti, vedi che sei ridotto senza padre e dobbiamo lavorare». Ma lui rispose che erano tanti compagni e che non avessi paura. Io non volevo; ma ormai, madre di socialista ero, che dovevo fare?

Cosí cominciò il lavoro politico del giovane contadino, fondato sul senso di una nuova legge e del suo libero esame; e cominciò nello stesso tempo la lotta contro la mafia, le sue lusinghe, le sue minacce tante volte ripetute. Ma la madre allora non era ancora quella di oggi, non era staccata dall’antico costume e dalle antiche paure. La zia, che ora è entrata nella casa, è rimasta ancora oggi in parte quella di prima. Si siede vicino a noi e non parla, ma capisco che non può evitare il vecchio pensiero che la colpa della morte del nipote era nella sua attività politica. È piú giovane della sorella, ha un viso piú umano, gli occhi piú umidi di sentimento. Era anche lei madre a quel bambino che aveva allevato mentre la sorella lavorava nei campi; e sembra, a vederla, nel suo accorato silenzio, piú visceralmente legata a quel morto, piú indifesa, come un animale ferito. Ma Francesca non si arresta di parlare, racconta dell’infanzia del figlio, delle prime lotte, dei due anni passati da lui a Montevarchi (– Maledetto il giorno che lo mandai a chiamare –), dei suoi gesti, delle sue risposte ai funzionari, del suo lavoro tra i compagni contadini. Quando racconta dei detti del figlio, delle sue grandi e nobili frasi (come quando, a un tenente dei carabinieri che gli puntava contro la pistola, al ritorno da una occupazione di terre, a cavallo con la bandiera, disse: – Spara. Io sono qui soltanto per l’onore del popolo, – e mille altre), non altera la verità, per gusto teatrale, ma se ne accorge per la prima volta, e questo basta a dare alle frasi nobiltà e grandezza. Il suo discorso è un Vangelo, un povero, poliziesco vangelo di verità, una testimonianza di verità. Questo solo conta per lei; mentre parla giungono dalla chiesa vicina i rintocchi della campana. Non arresta il suo dire, ma vedo che fa rapidamente il suo segno di croce e mormora: – Santa campana, testimone di verità.

Avvisi di morte, offerte e minacce, Salvatore ne aveva avute molte, e di ciascuna il racconto è lungo, circostanziato, preciso, documentato, fin da quelle degli inizi o da quando era in prigione a Termini, e venne Tardibuono dalla madre e le disse: – Che ci guadagna con questo partito? si mette le grate davanti, e gli altri si raccolgono le olive. È un partito di «scanazzati». Se si leva, noi gli daremo la meglio terra, le olive –. Le ultime furono quelle dell’uomo che gli parlò all’oscuro, il dieci o undici di maggio, e quelle di Mangiafridda, il tredici. La domenica non poté tenere il comizio dove voleva fare i nomi di quelli che dovevano ucciderlo. La sera c’era festa nel «baglio» della principessa; là lo aspettavano: quasi per un presentimento, non volle salire: andò invece al cinematografo con la madre e la zia.

– Era un po’ disturbato, perché il comizio non lo aveva fatto, poi vanno a fare una pellicola cosí disgraziata, c’era un marito, una moglie, un altro con una accetta e gli hanno calato l’accetta in testa e gli hanno stroncato la testa. Mio figlio disse: «Guardate come li ammazzano gli avversari», si alzò con la faccia come la morte, mi disse: «Vado a dormire, restate qua». Quando finí il cinema, verso l’una, me ne venni a casa con la sedia e trovai mio figlio sul letto, che leggeva. Lui dormiva qui, io sopra nel soppalco. Sempre studiava la notte nel letto, tutte le sere per due, tre ore, fino a tardi. Quella notte io feci un sogno, sognavo di cantare, che voce bella che avevo, che applausi. Il canto della notte sarà il pianto del giorno. La mattina dovevo andare a lavorare. Alle cinque e mezza l’ho lasciato che si faceva i capelli e sono andata al pagliaio. Quando sono tornata, mio figlio stava nello stradale e se ne andava. Io dovevo andare in campagna, ma era mattina presto e mi misi a fare il pane. Facevo il pane quando mio figlio moriva.

– Mentre facevo il pane è arrivato mio cognato: correva già in paese la voce che c’era stato un morto, ma io non ne sapevo niente. Mi chiese se Totò era andato alla cava, a che ora era partito, se era solo. Aveva la faccia pallida e mi insospettii. Pensai a qualche disgrazia, e mi misi a piangere. Mi disse che c’era stato un morto, ma che era un vecchio, e che si andava a informare. Io corsi per il paese a chiedere notizie, vidi gente che piangeva, ma nessuno voleva dirmi nulla. E allora presi la via che aveva fatto mio figlio, con una donna che aveva alla cava il marito. Camminavo in fretta, guardando se vedevo tornare mio cognato, mio fratello; se tornavano, non era mio figlio, ma se non tornavano, era lui. Quando fui nella strada, intesi il rumore di una macchina. Girò la curva, vidi che era Mangiafridda. Lo fermai e gli dissi: «Dimmi la verità, chi è questo morto?»

– «Da come è messo non si può conoscere, – disse Mangiafridda, – c’è il brigadiere e i carabinieri che non fanno avvicinare nessuno. Davvero, sull’onore di mia madre, non me lo fecero vedere».

– Quando mi disse: «C’è il brigadiere e i carabinieri» che erano meglio che fratelli, erano sempre insieme, mangiavano insieme quando andavano in campagna, quando trebbiavano insieme a tutta la partita della principessa: «A te non ti disse il brigadiere questo morto chi era? Tu?»

– Mi si mossero tanto i nervi che a me sembrava di essere in un apparecchio che camminavo, e non piú a piedi, e camminavo; quella donna che era con me ogni tanto correva e mi prendeva per il braccio: «E lévati, e fammi camminare, fammi questo favore». Finí che arrivai dove era quel morto. Ma chi fui? Un fulmine, camminai come una disperata, nemmeno i piedi li posavo piú in terra. Quando sono arrivata, prima è venuto mio cognato: «Non correre che non è tuo figlio». Ma aveva la faccia come i morti. Mentre davo un altro passo, si avvicina il brigadiere di Sciara: «Signora, non è suo figlio». Mentre mi dicevano che non era mio figlio, ho fatto un altro passo e ho visto i piedi del morto, che era messo a testa sotto e coperto, e spuntavano solo i piedi, ma io ho visto le calzette bianche, erano le calzette che ho lavato ieri a mio figlio, che mio figlio ha messo nei piedi, e i piedi erano messi come metteva i piedi mio figlio, cosí. Non mi lasciavano avvicinare. Viene il maresciallo di Termini: «Se lei ha figli ed è cristiano, – (il maresciallo si mise a piangere), – mi deve portare da mio figlio, che questi vigliacchi dicono che non è mio figlio, ma è mio figlio». «Lei sa che non si può toccare», mi disse. «Non lo toccherò, lo voglio solo vedere: è mio figlio, nelle gambe è mio figlio, nei piedi è mio figlio, nello stare è mio figlio, voglio vedere la sua faccia». Tre volte mi infilai per potergli vedere la faccia: era nascosta. A lato mi si erano messi quei carabinieri e mi tenevano e mi guardavano.

– «Quando vennero ad ammazzare mio figlio non ci vennero a guardare, e ora guardano me. Io non è che ho ammazzato nessuno, che lo ho allevato per trentadue anni, e ora per andarlo a vedere mi guardate, a me mi guardate, e a quelli li lasciate liberi». Intanto, girando di spalle, dissi: «Figlio, e come ti ammazzarono, e cosí ti misero bello sistemato?» Nella terra non c’era nessun segno, niente, uno che è sparato, che è stato ammazzato, certo un movimento lo deve fare, o resta con il collo torto, o con le braccia aperte, o con una gamba allargata… certo non è che come spira resta. Finché era freddo il sangue qualche movimento lo deve fare. Uno spasimo, una convulsione in terra la deve fare; là, niente, pare che di sera si coricò lui, era messo bello aggiustato, la faccia bocconi che non si guardava in faccia, bello, diritto come una candela. Io tre volte mi infilai per potergli cercare la faccia.

– Mi hanno levata da vicino a mio figlio e mi hanno mandata a casa. Ero seduta sopra una pietra, prima mi sono seduta su una pietra nella parte di sopra e poi, visto che non lo potevo vedere, mi sono seduta di lato, e piangevo. Poi vennero i carabinieri, volevano farmi dire se aveva dei nemici per donne o per interessi, ma loro erano consapevoli di chi lo aveva morto, e poi la sera lo presero dal cimitero e me lo portarono in casa, passò dalla chiesa, gli abbiamo dato l’acqua benedetta, gli hanno fatto tutte le esequie che hanno potuto, lo hanno portato in paese e poi al Municipio. Quattro hanno arrestato, ma dovranno prendere anche quelli che li hanno mandati. L’ho sempre davanti agli occhi; non mi ricordo piú come entrava, come camminava, solo lo ricordo bocconi, per terra, sul sentiero.

Nella stanza sono entrati, a uno a uno, dei contadini, dei vecchi, dei giovani dagli occhi accesi di carbone lucente; stanno addossati al muro e ascoltano in silenzio quel vangelo. Ma è ormai notte fonda, e dobbiamo partire. Scendo dallo scalino della soglia, risalendo la strada buia. Qua e là per terra delle grandi masse nere fanno piú scura l’ombra, come macigni sparsi in un prato. Sono le vacche, le grandi vacche scure di Sciara che dormono sdraiate per la via: quando l’occhio si assuefà alla notte le distinguo come nere statue di animali arcaici in una Cina immaginaria. Piú avanti, una chiazza bianca sta immobile per terra, e vi ravviso un cane; ma non dorme: è morto.

Sopra gli scalini che portano alla via principale, al lume fioco di una lampadina elettrica con il suo piatto bianco, come le lampadine delle stanze, mi aspettano dei giovani contadini. Parlano di Salvatore, cosí onesto, tutto per il popolo, pulito, lavoratore; e vogliono che vada con loro alla Camera del lavoro. È una casa di contadini, una stanza che dà sulla strada, tappezzata di manifesti. Le galline dormono in un angolo. È l’abitazione del segretario, un vecchio contadino asciutto: il tavolo della famiglia è quello dell’ufficio. I contadini stanno seduti attorno a parlare come congiurati. Si riconoscono dal viso i violenti e gli incerti, tutte le maniere diverse di essere in un mondo che si muove e di cui essi, oscuramente, si sentono i protagonisti. Ma in un modo cosí difficile, avvolti in un labirinto di corde antiche e di antichi terrori, che la morte doveva ribadire, e ha inaspettatamente troncato. Il piú vivace è un bambino, il figlio del segretario, attivo, allegro, entusiasta, fiero di essere un falco, l’unico falco rosso fra tutti i gialli falchi del feudo di Sciara. Torno a uscire sulla strada, si affacciano tutti sull’uscio e mi salutano: – Compagno, compagno –. Nella loro bocca è una parola magica, una formula di scongiuro che dà la forza e il potere, e basta, come le trombe bibliche, a far crollare le mura della città.

Voglio girare un po’ le strade, ma è difficile essere soli. Un giovane contadino mi accompagna. Studiava, dice, con Salvatore, la sera. Studiavano il vocabolario. Là ci sono le parole, le parole che hanno scoperto e che solo adesso sono diventate necessarie. Vuole assolutamente pagarmi un caffè, e non posso schermirmi, per non ferirlo, quando estrae dalla tasca quegli spiccioli cosí preziosi. Lo lascio nella piazza, e risalgo solo verso il castello, girando attorno alle vacche addormentate. Una capra dorme appoggiata a uno stipite, con le zampe abbandonate, con la languida stanchezza di una donna. Sotto il castello, nel buio, due suonano invisibili l’armonica da bocca, e si rispondono da lontano. Passa un campiere a cavallo: il top-top dei ferri risuona sulle pietre. Sul cielo pieno di stelle si leva il profilo del San Calogero, una lampada elettrica fa apparire i bordi obliqui delle casette a un solo piano, le ultime del paese, davanti al vuoto della campagna. Il cielo è immenso, salgono vaghe nebbie dal mare, sul paese, sulle vacche addormentate, sui fiori di pastinaca nei campi. Scendo verso la macchina. Nel buio sento il clamore di una lite, qualcuno appoggiato a un muro mi dice: – Lite tra padre e figlio, non ci vuole consiglio –. Si chiudono le porte, si spengono i fuochi dei focolari, cala il sonno su Sciara, e partiamo nella notte.

Nei giorni seguenti tornai molte volte alla casa di Sciara. Qualche cosa mi attirava là, come un nero vortice, e ogni volta ritrovavo il paese, e la maligna pace del castello, e la chiesa con le tombe dei Notarbartolo, principi di Sciara e di Castelreale, gentiluomini di Camera; e quella stanza nuda col piccolo letto in fondo, e alle pareti bianche la Madonna di Altavilla, santa Rita, Gesú, la Sacra Famiglia e il Calendario del Lavoratore, e quella donna che muoveva il velo nero con le mani parlando, e quella voce oscura e ininterrotta che parla come se non dovesse cessare di parlare fino al giorno del Giudizio.

L’ultima volta, da Termini avevo preso la strada di Caccamo; mi portava un autista nuovo, un giovane dai baffetti sottili, dai modi rispettosi di un impiegato. La via sale dalla costa tra pendici che stillano l’olio, poi si entra tra i monti e lo sguardo spazia tra le azzurre distese dei feudi, quando, solenne e enorme, si leva sulla sua roccia il castello di Caccamo. Anche Caccamo, come Sciara, sta fra il castello e la chiesa, in mezzo ai campi di grano; ma non è, come quello, un villaggio, ma si allarga a coprire tutta la costa del monte. Ci fermammo a guardarlo dalla rotabile, compatto come un solo corpo di mille case, con la forma di un grande uccello o di una colomba con le ali chiuse posata sulla montagna. Il cielo si oscurò all’improvviso, e non eravamo ancora ripartiti che cadevano le prime gocce di pioggia. Era un temporale d’estate, rapido e selvaggio, e già la strada nuova di Sciara, quella dove aveva lavorato Salvatore, era un torrente, e i fulmini cadevano sulle pendici del San Calogero, e una nebbia d’acqua oscurava i profili lontani dei monti di Cerda. Passavano a cavallo, sorpresi dall’uragano, coperti con teli impermeabili, i campieri, la paglia sui campi fumava. Improvviso come era venuto, il temporale cessò, quando, passando tra pozze e ruscelli, scendemmo sulla piazza di Sciara. Francesca mi salutò ancora una volta, seduta vicino al letto, e mi diede una cartolina, un ritratto del figlio, ragazzo di sedici anni, vestito con gli abiti della festa, una grande cravatta americana, e un viso rotondo di bambino, coi neri occhi pieni di decisione e di fuoco, simile forse un poco alle immagini di Giuliano giovane, ma con una sorta di rettitudine, di fierezza modesta nello sguardo diritto come di chi vuol costruire il proprio destino. La madre mi chiese, salutandomi, sicura e imperiosa, che io scrivessi «il romanzo» della morte di suo figlio. Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, uguale, nera.

Correvamo ancora una volta sulla tiepida costa verso Palermo. L’autista mi raccontava di sé e della sua vita. Era stato carabiniere al tempo delle repressioni. Una vita dura, un sacrificio inutile. Ora guadagnava ventinovemila lire al mese, aveva moglie e una bambina, per fortuna che sua madre lo ospitava e non doveva pagare l’alloggio. La politica non lo interessava: non c’è nessun partito che gli vada bene. Tuttavia, con un po’ di esitazione, perché non sapeva come la pensassi, mi confessò di aver avuto in passato simpatie per il MSI. Perché, disse, è un partito «sociale». Ci vuole qualche cosa di sociale, perché cosí non si può andare avanti con la miseria; però questo partito ha fatto cattiva prova, e allora nelle ultime elezioni lo aveva abbandonato e aveva pensato di votare per i socialisti. Per poter risolvere la vita, la sola via è quella sociale, quella del socialismo. Come si può campare? Veramente egli credeva anche in un’altra via. Aveva la passione del gioco, di tutti i giochi, ma soprattutto dei cavalli. – Ci metto tutto quello che posso risparmiare, e un giorno mi toccherà bene vincere. Una signora mi ha detto: «Ma con quelle mille lire che giochi ai cavalli, potresti comperare marmellata per la tua bambina». Lo so, ma la marmellata rimane sempre marmellata, e i cavalli possono diventare carne, bistecche, una casa, tutto quello che occorre –. Cosí egli sperava nella Giustizia o nella Fortuna, e non aveva scelto tra le due, i due soli modi mitologici per sopportare la miseria.

Palermo mi accolse nella sera, colorata e drammatica, come un grande formicaio, piena di splendore e di desiderio. Sta là, davanti al mare, assediata dalle montagne e dai feudi, in mezzo, tra i deserti dei banditi, i pescatori di Trappeto, gli uomini chiusi nelle gabbie di Partinico, la labirintica architettura della mafia, la protesta disperata e individuale del brigante a cui risponde l’iniziativa personale degli uomini come Dolci, e, dall’altra parte, la nera madre di Sciara, con la sua accusa, il suo Partito, il movimento contadino.

Sul molo, alla partenza del piroscafo di Napoli, si assiepa una grande folla, si levano saluti, si sventolano fazzoletti, per un vero distacco, per un abbandono. La notte ci avvolge sul mare e ci accompagna fino a Napoli, al primo sole, cosí chiaro, cosí azzurro. Per scendere a Napoli si passa dogana come se si andasse in un altro paese. La città si apre bianca e grigia nell’alba e pare piena di una tenerezza nervosa, nelle sue strade già fitte di commerci e di uomini intenti, con antica armonia, a un destino incerto. La Sicilia è lontana. Ma già il treno, nel mattino luminoso, mi porta a Roma, troppo consapevole e troppo ignara, addormentata nella sua storia senza limiti e nel torpore della calda estate. […]

Carlo Levi
Le parole sono pietre, Einaudi
1955

Le musiche della mia vita, intervista a Vincenzo Consolo, Raitre Milano, 22 febbraio 2009

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Un moderno Ulisse tra Scilla e Cariddi

di Vincenzo Consolo

Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno si è formato il “modo d’essere” , dove cioè la realtà da “descrivibile” è divenuta narrabile e quindi storicizzabile. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma è il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia, che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla letteratura. Il romanzo: che cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha. E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono a spiegare le cose e le ragioni delle cose. A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di leggere un romanzo. Qui solo vogliamo dire che quell’equazione povertà – infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per quella letteratura che si chiama siciliana. E quando una storia della letteratura dell’isola si farà, oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa, Addamo, Castelli, Bonaviri… ultimo nel tempo, e da ascrivere a questa anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in libreria il poderoso romanzo «Horcynus Orca», edito da Mondadori Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana. E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema alla realtà siciliana e dice «storicizzabile» la Sicilia di dopo i normanni, e da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola proprietà nel Val Demone hanno fatto sì che le popolazioni delle due zone fossero in qualche modo diverse. E diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa occidentale e orientale, marino e dell’interno continentale, ha per noi significato riguardo agli scrittori, nella misura in cui essi specchiano nelle loro opere, nella materia che assumono e esprimono queste diversità. Verga ci sembra marino (e non per via dei Malavoglia), De Roberto continentale come Pirandello e Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo romanzo si svolge sullo Stretto). Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (diversi sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al modo d’essere siciliano. Sciascia, sintetizzando Castro, dice che è descrivibile «una vita che si svolge dentro un mero spazio vitale». E ci soccorre anche Addamo scrivendo: «…Nella prevalenza della natura c’è esattamenente il limite della storia». Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia, o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che, scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’e-pos, la bellezza, il dolore, la vita, la morte… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono siciliane per sostanza. Ma questa non è che una semplicistica classificazione nella quale, come nel letto di procuste, la realtà scappa da tutte le parti. Tuttavia: una città come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi dentro un mero spazio vitale. E figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo stretto, quella dei pescatori della costa calabra e della costa siciliana di Scilla e Cariddi, Scilli e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. «Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?» dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge Il romanzo di D’Arrigo.

LA MORTE MARINA

«Horcynus Orca» è un romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni. E la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria, marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante l’ultima guerra, nell’autunno del 43 a piedi percorre la costa della Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare, lo stretto, lo ferma. Tutto è devastato, distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche. Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di riprendere come prima il loro contrabbando di sale. Ferme e in attesa sotto i giardini d’aranci e bergamotti in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge. Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara Ciccina Circé che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare notturno di cadaveri e di fere bestine. Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’Isola appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra, ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre deludente e atroce. Ritrova il padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta. Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della «Ricchia», compare improvvisa l’orca, l’Horcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia, l’orcaferone «quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola». Solitario, terrificante scorritore di oceani e mari, puzza lontano un miglio, lo precede il terrore, lo segue il deserto e la devastazione. Il mostro arenato, scodato e irriso dalle fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli inglesi e dai pellisquadre. Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato, corrotto: viaggio verso la morte. Ma viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus è anche orcio, grembo materno, liquido rifugio, mare, principio e fine della vita. ‘Ndrja Cambria morira ucciso sul mare dello stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura «naturale» tra una terra e le altre, tra una «storia» e le altre, ucciso da un colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte. E quasi impossibile riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure. Romanzo dentro il quale tuttora siamo immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante. E per poterne riferire in termini pacati e chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore e l’incanto. Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla Lingua usata dallo scrittore. Lingua che è il dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi con ritmo e musicalità complessa, larga, polifonica. Una lingua che è ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che procede circolarmente per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose. E riferire vogliamo anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Ali nel 1919, passa subito a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie. Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a oriente verso il sole. Si sarà incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia, terra, e in tutto, che si sfalda e ritorna al mare.

L’INCONTRO CON VITTORINI

A Messina, all’università fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva e un suo amico, Felice Canonico, disegnava. Vittorini, chissà per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perche vuole vederlo, vuole leggerlo. Gli mandano un numero con un interessante articolo di D’Arrigo, «La crisi della civiltà». E il 1946. Laureatosi in lettere con una tesi su Höderlin («Doveva forse sembrarmi di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono civiltà e poesia»), nel 1947 parte per Roma. Qui si occupa d’arte. Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del periodo di Scilla), Mazzuo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti, Ciarletta. Nella soffitta dello scultore di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a testa, e mangiano panini e bevono vino. Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul delfino. Canonico va dal direttore dell’istituto talas-sografico di Messina e poi può avere trattati scientifici, storie antiche sul delfino, leggende. E fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a inchiostro di china, come quelli che faceva il Durer dei granchi, dei cetacei.
Nel 1957 D’Arrigo pubblica un libro di versi, «Codice siciliano», presso l’editore Scheiwiller di Milano. Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica nella rivista “Menabò 3” due parti, cento pagine, de “‘ giorni della Fera”. come si chiamava prima il romanzo. Scrisse allora Vittorini sulla rivista: «Quanto qui ora pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di una “Work in progress” ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio. Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza.

IMPEGNO TOTALE

La rivista di Vittorini era uscita nell’agosto del 60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a Messina, in una Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla libreria di Giulio D’Anna sul viale San Martino. Ci tro-vammo, non ricordo bene come, a parlare, a chiacchierare. lo avevo appena finito di leggere le sue pagine sul Menabò e ne avevo ricevuto una grande impressione. D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore «messinese»: sul linguaggio, il ritmo, i personaggi… Lo incontrai l’anno dopo sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni alcuni modi di dire dei Pescatori, parole, frasi. Era pieno di fervore, di vita. Si capiva che il lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo. E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai a trovarlo a casa, a Monte Sacro. Era già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il libro era là nel suo studio, in bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe strisce di carta, scritte a mano, incollate al margine inferiore del foglio e che arrivavano fino al pavimento. D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a Messina. Era tutto calato dentro il suo libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro. Mi disse che soffriva di cattiva circolazione alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da attaccante nella squadra di calcio del Messina. Sono passati anni. Di tanto in tanto leggevo, come tutti di lui sui giornali, brevi note che annunciavano l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori Nel 73 sono ancora andato a trovare D’Arrigo a Roma. Mi apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede nessuno ormai da anni. Dopo un lungo tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto, memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento. Mi parla della moglie Jutta (è assente perché al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui, senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spro-nandolo, con speranza intatta e chiara. «A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano» c’è scritto ora sul frontespizio del libro. Parla degli amici che se ne sono andati, quelli morti (Niccolò Gallo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma. E parla di Messina, delle sua Messina, della Sicilia. – Perché un giorno non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i politicanti, gli affaristi, i mafiosi. – E poi, dopo una lunga pausa; – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia. Ma del libro non parla e io non oso fargli domande. E il libro è lì, sempre in bozze sparse sul tavolo e anche sul divano. E c’è anche la prima pagina, la controcopertina col titolo. «Horcynus Orca» si chiama ora e non più «I giorni della fera». E poi di Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico. La Divina Commedia è il mio libro De Chevet. Mi è servito molto, soprattutto per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo «Bagno» in Arno. Al momento che devo partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me, in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti. Certo, D’Arrigo rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno di impegno totale alla letteratura, alla poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi. Non si sa ancora che ripercussioni avrà il suo libro nei lettori, nei critici. Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio. E questo lui lo sa e lo teme. Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, di portare a termine il libro, di staccarsene, non lavorarci più, consegnare col «va bene, si stampi», quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore. Perché, quando opere come «Horcynus Orca» possono dirsi concluse? Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?

L’illuminista – Rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà
numero 25/26 gennaio/agosto 2009

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

Giuseppe Tornatore fotografo Vincenzo Consolo

 

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Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema.
Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui  esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.

Ya la esperanza es perdita
Y un solo ben me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto al vida.

Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono  ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria,  abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come  Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.

Indiscrezioni
Giuseppe Tornatore fotografie
Edizioni Fratelli Alinari 2008

Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia
foto di Giovanni Giovannetti

Giuseppe Tornatore, Vincenzo Consolo world copyright Giovanni Giovannetti/effigie

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Consolo “Le ombre della nostra cultura”

L’INTERVISTA

Consolo “Le ombre della nostra cultura”

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Il suo viaggio di ritorno in Sicilia è iniziato nello stesso momento in cui è partito da Sant´Agata di Militello, sulla spinta di quella verghiana «fantasia dell´ignoto». Vincenzo Consolo nei sui quarant´anni e passa poi vissuti a Milano non ha fatto altro che rimuginare sull´Isola e a scriverne. Il passato e il presente della sua terra sovrapposti alla quotidianità di un luogo altro. La storia è antica. Verga in una lettera a Capuana scriveva che bisogna partire per andare alla «grand´aria» per vedere da lontano la realtà siciliana e così poterla capire meglio. Ma poi, aggiungeva, occorre ritornare per verificare. «Il mio è un eterno ritorno – dice Consolo – Non sono d´accordo con Quasimodo, che asseriva che nessuno lo avrebbe più portato in Sicilia. Oggi tra l´altro in questo mondo riavvicinato, oltre che con la fantasia si può viaggiare con comodi aerei. Io vivo dentro la storia isolana». Lo scrittore de “Il sorriso dell´ignoto marinaio” è il testimonial del convegno di “Repubblica” per fare il punto sui dieci anni dell´edizione di Palermo che si terrà martedì 20 novembre al teatro Biondo. “Dalla Sicilia al mondo, il viaggio della cultura”, è il tema su cui si confronteranno i personaggi dell´arte, della letteratura e dello spettacolo isolani. Con l´intervista a Consolo diamo il via al dibattito.

Consolo, c´è oggi una letteratura siciliana?
«No. Non esistono più letterature radicate in uno specifico territorio. Né del Nord né del Sud. La globalizzazione ha omologato tutto. Funzionano solo i modelli che detta il mercato a cui tutti ormai sembrano asserviti. Sono i potentati editoriali o della distribuzione che hanno il monopolio dell´offerta e quindi decidono i temi da consumare. Basta entrare in una qualsiasi libreria per provare un giramento di testa di fronte a quelle pile di libri, moltissimi cloni negli argomenti e nel linguaggio».

Quali sono i generi più frequentati dagli scrittori?
«Gialli, polizieschi che dir si voglia, intimismo, sesso, storia addomesticata, maghi e maghetti e fantasy vari».

Quindi ci sta dicendo che la Sicilia è stritolata da questo meccanismo?
«Sicuramente. Ormai quel che conta è apparire. In Sicilia e altrove. Non sembrano più esserci margini per una narrativa che esplori in lungo, in largo e in profondità, un´area circoscritta, per capire e non per mettere insieme una trama da fiction finalizzata a fare cassetta. Ed è il numero a determinare la qualità».

In una delle sue ultime interviste, il poeta Mario Luzi ci disse che la letteratura del Novecento sarebbe povera cosa senza gli autori siciliani. Dopo tanta grandeur dobbiamo ora rassegnarci a una marginalità senza futuro?
«La crisi è iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, quando è diventata visibile quella mutazione antropologica teorizzata da Pasolini. Il nostro Paese si modernizzava velocemente, subendo però modelli importati dall´esterno. Da qui un asservimento culturale, linguistico, negli usi, nei costumi e nei consumi. Oggi ogni luogo è per molti versi intercambiabile con ogni altro. Quindi, la letteratura perde quella capacità di esplorazione, di introspezione di un contesto unico. Da qui la perdita di ogni forza espressiva e di ogni verità storica».

Molti dicono che il “noir”, abbastanza praticato nell´Isola, ha suonato a morte le campane della narrativa. Cosa ne pensa?
«Con Sciascia ho discusso parecchie volte di questo argomento. Io sostenevo che il “noir” fosse il genere più conservativo, perché con la sua filosofia consolatoria forniva un grosso sostegno alle società capitalistiche».

Si spieghi.
«Qual è lo schema che seguono Agatha Cristhie, Rex Stout e altri? C´è un assassinio, poi un´indagine caratterizzata da colpi di scena, alla fine la scoperta del colpevole. Con la condanna tutto torna al suo posto. Il corpo sociale resta protetto e quel mondo continua a essere, citando Voltaire, il migliore dei mondi possibili. Le magagne della società restano ben nascoste. Con Sciascia questo teorema viene completamente rovesciato: con lui – vedi “Il giorno della civetta”, “A ciascuno il suo”, ma anche gli ultimi suoi “gialli” – c´è il morto, c´è un´indagine, ma non si arriva mai alla verità. Perché così succede nella realtà. Mafia e politica al potere riescono ad occultare ogni verità. Ed è quello che è accaduto nell´ultimo secolo nel nostro Paese. Sciascia, che viveva in una realtà permeata dallo strapotere mafioso, ricorreva all´espediente del giallo per denunciare queste commistioni e l´eterna mancanza di verità».
Sciascia però amava il poliziesco tout court a prescindere da ogni valenza politica e sociologica. Come lo spiega?
«Leonardo era uno scrittore razionale e quindi era portato ad apprezzare le dinamiche logiche della dialettica poliziesca. Il fatto che mi consideri un allievo di Sciascia, non significa essere però d´accordo con lui su tutto. Un critico russo, Victor Slowsky, ha sostenuto che la storia della letteratura è una storia di parricidi. Quasi sempre c´è un rovesciamento dell´assunto del padre da parte dei figli. Parricidi sono stati, ad esempio De Roberto nei confronti del suo maestro Verga, Pirandello per De Roberto e io per Sciascia. E lui stesso nella prefazione de “Il sorriso dell´ignoto marinaio” rimarca questo parricidio. La devozione a Leonardo non mi ha impedito di cercare una mia verità».

Parricida in che modo? Sui contenuti, sul linguaggio?
«Sui contenuti condivido tutto di Sciascia. A cominciare dalla sua capacità di leggere le cose del passato, facendone metafora della contemporaneità. Sul linguaggio, invece, lui e altri grandi scrittori degli anni Sessanta, penso a Calvino, Moravia, Elsa Morante, continuavano sul solco di una pulizia linguistica che partiva da Manzoni. Un gruppo di giovani, io, Luigi Meneghello e Lucio Mastronardi, allora abbiamo ritenuto che la mutazione in atto della società, anche linguistica, abbisognava di un nuovo idioma per poterla raccontare. È nato sotto questi auspici il mio primo libro “La ferita dell´aprile” nel 1963. Una ricerca che poi ha trovato più consistenza nel “Sorriso”».

Figli o nipotini di Gadda e di Pasolini?
«No. I due grandi autori muovevano da Manzoni per ritornare al dialetto. Io invece partivo, e parto ancora, dalla profondità del nostro lessico per approdare alla lingua nazionale. Col siciliano convivono tante lingue “sepolte”, quelle delle varie dominazioni che si sono succedute. E allora io ne dissotterravo, e ne dissotterro, frammenti – di greco, spagnolo, arabo – per tradurli in italiano, ritrovando così grande vigore espressivo».

In questi giorni si parla molto de “I vicerè” di Federico De Roberto, riletti per il cinema dal regista Roberto Faenza. Sciascia, contravvenendo alla scomunica di Benedetto Croce, scrisse che era il romanzo più importante di tutta la letteratura dopo “I promessi sposi”. È d´accordo?
«Completamente. È un grande romanzo che ci racconta le utopie e le disillusioni dell´Unità, le stesse che contraddistinsero il Risorgimento. Ma in quel momento storico – “I vicerè” uscì nel 1894, l´anno della feroce repressione dei Fasci dei lavoratori – De Roberto era scomodo. Anche gli altri suoi libri “L´illusione” e “L´imperio” erano fuori dalle poetiche del tempo, seppure specchio di quella società. Non dimentichiamo che eravamo in pieno dominio del decadentismo dannunziano, per cui bisognava parlare dei trionfi e non dei fallimenti».

Anche il “Gattopardo” racconta il fallimento di quella rivoluzione annunciata da Garibaldi. Ma lei su questo capolavoro da sempre esprime riserve. Dove è la differenza con “I vicerè”?
«Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che aveva un conto in sospeso con De Roberto, spietato con la nobiltà del tempo, ci propone una sua visione meccanicistica e pessimistica della storia, a suo dire incapace di registrare cambiamenti. In realtà lui nel “Gattopardo” non fa altro che assolvere la classe nobiliare di cui fa parte. Quando dice che ai gattopardi succederanno le iene e gli sciacalli, dimentica di aggiungere che quelle iene e quegli sciacalli li hanno allevati loro, gli aristocratici, ricevendone in cambio le risorse per continuare a fare la bella vita. Loro hanno creato i Sedàra. Loro hanno armato la mafia nei loro feudi. Non si può autoassolversi così come se non ci fossero responsabilità».

È una lettura ideologica che forse non rende giustizia alla grandezza del romanzo. Lo stesso errore che ha fatto Vittorini bocciandolo. O no?
«Mettiamo i puntini sulle “i”. “Il Gattopardo” è un grandissimo romanzo scritto da un uomo sapientissimo, ma esprime un punto di vista che ritengo inaccettabile. In quanto a Vittorini, ha portato addosso una croce che non si meritava. Le cose sono andate così: Fausto Flaccovio gli ha mandato il romanzo. Vittorini pensando che glielo segnalasse per i suoi “Gettoni” Einaudi, e ritenendolo inadatto per quella collana sperimentale, lo ha inviato alla Mondadori segnalandolo per la “Medusa”, una “contenitore” più congeniale. Lì, il solito burocrate non capendo la qualità del manoscritto, lo ha rimandato indietro. Me lo hanno raccontato i due collaboratori di Vittorini testimoni del tempo. Ma la verità come sempre fatica a farsi strada».

da Repubblica del 16 novembre 2007