Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato dello scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche giorno fa. L’appendice che segue sono gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica. di Fabio Stassi
Ho conosciuto Vincenzo Consolo nella biblioteca di Storia contemporanea della Sapienza di Roma. Era un giorno di maggio del 1995. L’avevamo invitato a parlare delle biblioteche frequentate nella memoria e nel sogno. A quell’incontro con gli studenti avrebbe partecipato anche José Saramago, se il dipartimento non lo avesse ritenuto un personaggio ancora non “di chiara fama”. Consolo intervenne dopo l’inconfondibile barba bianca a due punte di Vittorio Emanuele Giuntella, uno studioso a cui volevo bene e che mi aveva insegnato tutto quello che so sull’età dell’illuminismo. Giuntella aveva scelto di raccontare le biblioteche dei lager nei quali era stato internato, e lo fece in maniera toccante. Consolo parlò invece dei libri della sua infanzia, della biblioteca di Lucio Piccolo, della scoperta della stella polare della letteratura. La sua voce era mite ma affabulatrice, capace di esprimere con la stessa forza sia la nostalgia che l’indignazione.
Fu uno dei primi scrittori che vedevo in carne e ossa, avevo letto tutti i suoi libri e lo consideravo l’ultimo esponente della tradizione del romanzo siciliano post-unitario[1]. Leonardo Sciascia era morto da qualche anno e con Gesualdo Bufalino ci avevo parlato solo per telefono (il Grande Sedentario non usciva mai dalla Sicilia: ci saremmo scritti, ma non l’avrei conosciuto perché rimandai troppo a lungo un viaggio a Comiso). Restava solo lui. Quella sera scegliemmo un piccolo ristorante, in centro, dove poter conversare in pace. E per me fu come andare a cena con la lezione umanizzata di Verga, De Roberto, Pirandello e Borgese, più la luce luttuosa di Brancati, più gli astratti furori di Vittorini e di Sciascia e l’eleganza formale di Tomasi e di Bufalino declinati tutti insieme in un espressionismo dolente. Prendemmo un gelato dietro al Pantheon. Ricordo che Consolo si arrabbiò per come cambiava la letteratura, per la sua spettacolarizzazione, e anche per l’incomprensibile sciatteria delle nostre canzoni e della musica commerciale.
Sull’esempio di chi lo aveva preceduto, il suo lavoro portava avanti quella coerente e quasi cromosomica riflessione sui fatti italiani che gli scrittori siciliani hanno sempre condotto, dalla delusione del Risorgimento e dell’unificazione sino all’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una riflessione che tra vicerè, vecchi e giovani, gattopardi, esercizi spirituali e olivastri selvatici suona come un recitativo all’inverso, una implacabile chiosa ai secolari malanni e guasti della nazione. La dominante è una dissonanza cronica: un cosmico e sgomentato discredito della storia. L’eccentrico barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, protagonista de Il sorriso di un ignoto marinaio (Einaudi, 1976), si chiede allo stesso modo dell’abate Vella del Consiglio d’Egitto di Sciascia[2]: “Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico?” La risposta è esemplare e definitiva: “Una scrittura continua di privilegiati.” Per lui il mondo aveva la forma di una chiocciola o di una lumaca: una spirale di ingiustizie e di soprusi, il ripetersi di una stessa mancata speranza.
Si potrebbe dire che il tema privilegiato della narrazione romanzesca, per Consolo come per Bufalino o per Sciascia, è “il tempo febbrile delle pesti”[3]. È lo stesso “mal contagioso” di cui scrive Manzoni, “il seme della peste”[4]. I personaggi che ne faranno esperienza, sono cronisti di epoche tristi e inferme, contemporanei di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno. È il “colera di Palermo”, la pandemia della mafia e quella nera del rimorso e del tragico senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile e si ritrova ora a vivere in un paese franato, tra città stravolte, dove si cancellano memorie e nelle quali esala “un odore dolciastro di sangue e gelsomino”[5]. Segno che l’infezione, ancora, non è passata né che se ne potrà guarire.
Se Bufalino lavorò per decenni alla sua Diceria dell’untore, Consolo intitolò uno dei suoi ultimi libri con il nome dell’antico lazzaretto della città: Lo Spasimo di Palermo. Dalla valle “fetida, infetta” della Conca d’Oro, da questa Palermo immersa in “un sudario molle”, cielo lattiginoso e “mare d’un verdastro torbido”, e “fumi grassi” che s’alzano dalle spiagge, si può risalire fino alla Somalia del sergente di Ennio Flaiano in Tempo di uccidere o all’Algeria di Camus del dottor Bernard Rieux, che aveva proprio l’aria di un contadino siciliano. Lungo questa mappa delle metafore o cosmologia della peste, tutto ritorna all’uomo: la pena, e la rivolta, e il dovere della responsabilità e del bilancio.
Sarà un terremotato di Gibellina, emigrato nelle cave di Meirengen, vicino Basilea, a resocontare in L’olivo e l’olivastro il ritorno nell’isola odiosamata[6] ricoperta ora di gelsomini neri, un sudario di calce al posto del ricordo, una terra di massacro e una terra massacrata, dove di ciclopico è rimasta solo la demenza. Il suo viaggio, speculare a quello del Silvestro di Vittorini[7], è un dialogo con uomini e luoghi trapassati, con l’ansia divorante delle madri, un inoltrarsi nella rovina, un chiedersi cos’è successo, un sapere che si è destinati a ripartire… è l’ultimo mascheramento di Ulisse. Perché più vado avanti e più mi rendo conto che tutto quanto c’era da dire, scriverà in un altro piccolo libro Vincenzo Consolo, era già stato detto da Omero e dopo non si è fatto altro che ripetere: “l’Odissea è matrice di ogni racconto”[8].
Per qualche anno ci scambiammo solo dei biglietti, di tanto in tanto. Perché lo incontrassi nuovamente, il caso scelse un’occasione privilegiata: il cielo grigio di Parigi e il Salon du livre del 2001. Io ci partecipavo come bibliotecario: quell’anno l’Italia era il paese omaggiato. All’ingresso avevano esposto trentacinque enormi ritratti. In uno di questi, Vincenzo Consolo teneva in mano una lente d’ingrandimento che gli dilatava l’occhio e lo sguardo mentre Rigoni Stern camminava su un sentiero innevato di Asiago. Lessi che teneva una conferenza alla sala Victor Hugo: Une heure avec Vincenzo Consolo. Mi precipitai. La sala era accanto al Padiglione Italia. Una sala gialla, affollata. Dai vetri si vedeva la gente che passava. Entrai mentre un attore stava leggendo un brano di un suo libro. Presi posto e aprii il mio quaderno per gli appunti. Soltanto dopo un po’ mi accorsi che mi ero seduto accanto a Daniel Pennac.
La conferenza di Consolo fu ipnotica. Parlò di molte cose, della letteratura come metafora, delle sue scelte stilistiche, del Sud, di Omero, di Verga e del proverbio siciliano cu nesce arrinesce: chi esce, chi va via, riesce. Alla fine, Daniel Pennac si avvicinò al mio orecchio e mi disse sottovoce, con un gran sorriso entusiasta, che per lui Consolo era semplicemente magnifique. Ci alzammo e andammo ad abbracciarlo insieme.
Nel 2007 lo ritrovai a Siracusa, al Premio Vittorini. Era il presidente di giuria e furono le sue mani a benedire il mio primo romanzo. Ma l’ultima volta che l’ho visto fu a una serata tributo per Pino Veneziano, l’artista siciliano che un giorno dell’84 aveva cantato anche per Borges, commuovendolo. Consolo aveva firmato un appello per Selinunte e l’introduzione a un libretto dal titolo Di questa terra facciamone un giardino[9]. Prese la parola e tracciò un breve elogio della cultura orale. Me lo ricordo così, sotto la luce gialla che illuminava le colonne del tempio, piccolo e incanutito ma con gli occhi che non avevano mai smesso d’essere vivaci, un vecchio cantastorie in piedi tra i ruderi di un’acropoli.
APPENDICE
Un clandestino a Parigi : une journée avec Vincenzo Consolo (dai miei appunti, Parigi, Salon du livre, 24 marzo 2001) Sala Victor Hugo, ore 12
La letteratura è metafora. Nostalgia di un tempo e di una patria perduta, desiderio dei personaggi di tornare a un’Itaca che non esiste più. È la nostra condizione. Siamo degli ulissidi che anelano a raggiungere la patria perduta. La memoria di una patria. Io ho sempre avvertito nel mio lavoro di scrittore una discrepanza tra argomento e stile. Sin da quando iniziai a scrivere, nel 1963, capii che dovevo fare una scelta di campo dal punto di vista linguistico e stilistico. Non c’è innocenza in arte, bisogna avere consapevolezza di quello che si sta svolgendo. Io sapevo che gli scrittori della generazione appena precedente alla mia, avevano adottato un registro comunicativo, un codice linguistico comunicativo. Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Io penso che speravano che dopo la fine del fascismo sarebbe potuta nascere in Italia una società civile con la quale comunicare. E questa loro speranza risaliva all’utopia linguistica di Manzoni.
Ma quando cominciai a scrivere io, questa società non si era formata, non esisteva per me. Per questo ho adottato un codice non comunicativo, ma espressivo. Con questa scelta stilistica mi inserivo in una tradizione italiana che partiva da un mio conterraneo, Giovanni Verga. Lui aveva rivoluzionato il codice linguistico manzoniano. Sulla sua linea lo avevano seguito Gadda e Pasolini.
Avevano creato un controcodice espressivo.
In questo sono stato favorito dalla ricchezza della lingua della mia terra, da quel giacimento linguistico che con molta faciloneria viene chiamato dialetto. Nel siciliano sono presenti residui della lingua greca, araba, francese, spagnola e delle altre civiltà transitate dalla mia isola. Io ho utilizzato questo serbatoio, questi residui, per rompere il codice linguistico nazionale, organizzando la prosa in modo ritmico, lirico, più simile alla poesia. Per me non esisteva un rapporto tra testo letterario e contesto storico, situazionale, ma una rottura. L’esempio più efficace lo dà la tragedia greca. Il messaggero appare sulla scena e riferisce quello che è avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Solo dopo che lui racconta i personaggi si muovono e il coro commenta. Così, attraverso il rito del teatro, si ottiene la liberazione dalla colpa, la catarsi. Il messaggero, l’anghelos, è lo scrittore. Appare e dice di una vicenda, e cerca di far immedesimare personaggio e lettore. Ma oggi la cavea è vuota. Non c’è più il pubblico. L’unica possibilità è quella di spostare la narrazione sul commento della tragedia che ci riguarda tutti.
Nei miei libri, in tutti i miei libri, ci sono queste parti corali, che i latini chiamavano cantica. Si interrompe il racconto e si alza il ritmo, attraverso l’uso insistito delle assonanze e delle rime. Come dice Bachtin, il romanzo è sempre utopico perché ipotizza un mondo migliore.
Questa è stata la mia ricerca stilistica, una ricerca archeologica e filologica. Noi non abbiamo la fortuna di voi francesi. Leopardi, in un’analisi delle due lingue cugine, l’italiano e il francese, dice che il francese, attraverso la creazione di uno stato e la sua storia unitaria, si è “geometrizzato”. L’italiano, invece, non è una sola lingua, ma tante lingue. Questa è la nostra risorsa ma anche la nostra dannazione, da Dante in poi.
La letteratura, per me, è soprattutto una memoria linguistica. Ho ricercato le radici e usato la tecnica dell’innesto. Ma non ci si deve confondere. Trovo ingiustificato e regressivo l’inserimento dell’elemento dialettale. Come ha scritto Pasolini, Verga usava un italiano irradiato di dialettalità, ma non era un dialetto, era un’altra lingua. Una lingua nuova.
Considero la ricerca stilistica un impegno nei confronti della storia. Capisco che i miei testi non sono di facile lettura. Ma c’è in me un’esigenza di praticare una “letteratura d’intervento” (così l’ha definita Roland Barthes) anche sui giornali. Sento il bisogno di esprimere il mio giudizio sulla situazione politica del mio paese, ma anche su quella internazionale. Domani, insieme ad altri scrittori che fanno parte del Parlamento internazionale degli scrittori, tra cui José Saramago, parto per Tel Aviv e per Ramallah, per portare un appello per la pace. In Francia, l’esempio dello scrittore militante è quello di Zola, che pur pagando di persona alla fine riuscì a far riaprire il processo Dreyfuss. Oggi, in Italia, c’è un ministro della cultura che accusa gli intellettuali di vigliaccheria. Di fronte a tanta volgarità non vale nemmeno la pena di rispondere. Voglio aggiungere che non volevo alcuna ipoteca da parte del governo italiano sulla mia partecipazione a questo Salone del libro. Dopo le nostre dichiarazioni, io, Camilleri e Tabucchi siamo stati cancellati dal catalogo. Non troverete né la nostra foto né la nostra biografia. Per il mio governo, qui sono un clandestino.
Sala Dante Alighieri, pomeriggio. Vincenzo Consolo discute insieme a Erri De Luca, Giuseppe Bonaviri e Raffaele La Capria. Qualcuno gli chiede perché ha lasciato la Sicilia…
Appartengo alla storia infinita di meridionali che hanno abbandonato questa estremità, questo limite, per raggiungere il centro. Alcuni vennero in Francia, nel vagheggiamento di un nord mitico. Il primo è stato Verga. Approda a Firenze, poi a Milano, nella Milano dei salotti e delle contesse. Trova invece un mondo in grande subbuglio. In quegli anni si avvia la Pirelli. Lui rimane spiazzato. E qui si toglie la maschera di scrittore borghese e compie una rivoluzione stilistica. Dopo di lui, a Milano ci piovono Vittorini e Quasimodo. Io ci ho studiato, poi sono tornato in Sicilia. Ho insegnato nelle scuole agrarie. Ma presto mi sono reso conto che la mia presenza nell’isola era un’assurdità. Il mondo che volevo descrivere, il mondo contadino, si stava frantumando. Era in atto un esodo di braccianti che partivano per il nord e diventavano operai. Si pensava ancora che Milano fosse diversa e opposta alla realtà siciliana. Questa mitologia era stata alimentata da Vittorini. Lì ho lavorato in quella che definisco una fabbrica di armi, ossia la televisione, la Rai. Progressivamente il mito di Milano mi si è infranto, stagione dopo stagione, prima con gli anni di piombo, poi col riflusso craxiano, infine con l’era di Berlusconi. Questa è la mia storia.
La sala è strapiena. Gente in piedi, gente seduta per terra. L’affluenza è davvero impressionante. Sembra quella di un concerto. De Luca e La Capria relazionano in francese. Consolo riprende il microfono per spiegare che per la sua isola i Vespri siciliani sono stati una sciagura, al contrario di quanto ha creduto Croce. Perché i francesi se ne sono andati a Napoli, “e oggi i relatori napoletani lo parlano correttamente, mentre da noi sono arrivati gli spagnoli e l’Inquisizione, ma i siciliani non hanno imparato nemmeno lo spagnolo”. Suscita l’ilarità della sala. Poi pacatamente riprende il suo discorso sul recupero di una memoria linguistica, della memoria di un sud più profondo.
Il canale di Sicilia era un canale di grande comunicazione. I pescatori trapanesi andavano a pescare nelle acque del Mahgreb. Poi, con l’inizio dell’età dei conflitti, il Mediterraneo divenne un confine, un luogo di miserie e di atrocità, come ha spiegato Braudel, un mercato di schiavi, il centro di guerre economiche mascherate da guerre di religione. Oggi, purtroppo, assistiamo al ritorno di questi massacri. Ma non bisogna dimenticare che la storia delle civiltà è sempre una storia di incroci e di migrazioni e anche voi francesi ne sapete qualcosa.
L’intensa giornata di Vincenzo Consolo termina la sera, allo stand di France culture. Attorniati dai microfoni e dai giornalisti della radio francese, siedono allo stesso tavolo i membri del Parlament International des Escrivains. Vicino a Consolo riconosco i premi nobel per la letteratura Wole Soynka e José Saramago. Soynka è un po’ invecchiato, con una montagna di capelli bianchi sulla testa. Saramago elegante e autorevole, come sempre. Accanto a loro siedono il sudafricano Breyten Breytenbach, il cinese Bei Dao, Juan Goytisolo per la Spagna e Russel Banks per gli Usa. Con voce ferma e sicura, insieme consegnano a Parigi e al mondo il loro messaggio di pace.
[1] Un sommario elenco delle opere che hanno edificato questa linea siciliana del nostro romanzo comprende: I malavoglia (1881) e la novella Libertà (1882) di Verga, I vicerè (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Rubè (1921) di Borgese, Il gattopardo (1958) di Tomasi, Il Consiglio d’Egitto (1963) e il racconto Il quarantotto (Gli zii di Sicilia, 1958) di Sciascia. Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo è l’estremo tassello di questa antistoria del Risorgimento, un discorso che si protrae da oltre un secolo. Ma, estendendo la riflessione al fascismo, al dopoguerra e al cinquantennio democristiano, bisogna annotare almeno Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini, Il bell’Antonio (1949) di Brancati, Il contesto (1971) e Todo Modo (1974) di Sciascia, Diceria dell’untore (1981) di Bufalino, L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) di Consolo, a cui ora si possono aggiungere le opere e i nomi di Andrea Camilleri, di Giosué Calaciura e di Giorgio Vasta.
[2] L’abate Vella sosteneva “che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh, sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente…. La storia. E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce alta della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»” in L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 59-60.
[3] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 113. [4] Così suona, in francese, il titolo della Diceria dell’untore. [5] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 115.
[6] Consolo aveva già individuato in un piccolo paese nell’entroterra della Sicilia, Caltagirone, l’epicentro di una epidemia e l’emblema di una nazione, “della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.” (L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994, p. 71).
In un altro libro di Gesualdo Bufalino, il Guerrin Meschino, il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 cala addirittura il sipario, si chiude per lutto. L’Oprante, il puparo si ferma, smonta il teatrino, ripone con cura i legni e, alla fine, rompe la noce del collo al più derelitto degli eroi, al desdichado di cui stava raccontando le avventure: è un tempo, ormai, dove nemmeno per finta, nemmeno per gioco, “il buono vive e il maganzese muore”.
[7] Silvetro Ferrauto è il protagonista di Conversazione in Sicilia.
[8] Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1999.
[9] Di questa terra facciamone un giardino. Tributo a Pino Veneziano, con CD audio, a cura di Rocco Pollina e Umberto Leone, Trapani, Coppola editore, 2009.
di Sergio Buonadonna Dopo dieci anni di silenzio Vincenzo Consolo torna al romanzo. Considerato l’erede di Vittorini e Sciascia, ma dai più accostato a Gadda per la sua scrittura espressiva, il grande narratore siciliano (78 anni, più di quaranta vissuti a Milano, “il luogo dell’emigrazione come fu per Verga”) si ripropone con una metafora storico-sociale e una scrittura palinsestica (cioè scrittura su altre scritture) come nella sua famosa trilogia: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tema il Risorgimento, “Nottetempo casa per casa” (il fascismo), “Lo Spasimo di Palermo” (la contemporaneità fino alle stragi Falcone e Borsellino). Al grande ritorno sta accudendo da anni, ne è segno la fitta libreria d’epoca accumulata accanto al suo tavolo da lavoro che domina l’ampio studio carico di volumi, quadri e disegni tra cui quelli a lui carissimi di Guttuso e Pasolini. Racconta Consolo: “Il titolo di questo romanzo storico, lo dico con molto pudore, è Amor Sacro, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. Tuttavia non dico come Arbasino: sapesse signora mia la mia vita è un romanzo. I miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero”. Si parla del passato per dire del presente? “Sans doute, come dicono i francesi. Senza dubbio”. Sicché – pubblicato questo libro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – dovremmo vedere finalmente il Meridiano che raccoglierà la tua opera?“ Tutta l’opera completa, questo è l’accordo con Mondadori anche se devo chiarire che ho atteso a lungo perché il mio contratto iniziale era con Arnoldo Mondadori. Berlusconi è arrivato dopo e come si sa io non ho molto piacere di lavorare per il cavaliere. Ma rispetterò i patti. Nel Meridiano ci saranno anche i miei scritti giovanili. Giorni fa è venuto a trovarmi un professore dell’Università di Gerona, bravissimo, che sta curando tutti i miei racconti. Il primo risale al 1952”.È giusto definire un tuo libro romanzo o narrazione? Ne “Lo Spasimo di Palermo” appare infatti il tuo manifesto letterario quando avverti: ‘il romanzo è un genere scaduto, corrotto, impraticabile…’“Quando negli anni Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, ho visto cos’era accaduto nel nostro Paese soprattutto dal punto di vista linguistico, ma anche in campo letterario, politico, civile. C’era stata una forte mutazione, l’esodo dei contadini del sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé. La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata perciò il mio scrupolo è stato reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni, recuperare vocaboli immettendoli nel codice italiano. In Sicilia questi giacimenti linguistici significano greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno un dialettologo dell’Università di Catania mi chiese dove hai preso la parola “calasía” perché nei vocabolari siciliani non c’è? Gli risposi: viene dal greco kalós che vuol dire bello. Nella mia zona tra le province di Messina e Palermo, che è greco-bizantina si dice che calasía, che bellezza”. Insisto. Che cosa distingue il romanzo dalla narrazione? “È la distinzione che fa Walter Benjamin. Nella tragedia greca c’era l’anghelos, il messaggero che arrivava in scena, si rivolgeva al pubblico della cavea e narrava quello che era successo altrove in un altro momento. Oggi io dico che la cavea è vuota, non ci sono più i lettori. Quindi non sai a chi rivolgerti e perciò l’anghelos non appare in scena. Sono i lettori che scelgono l’autore”. Tu in Sicilia avevi scelto Lucio Piccolo e Sciascia. Come si collocano nella tua formazione? “Per me Piccolo e Sciascia erano due riferimenti fondamentali. Quando ho pubblicato “La ferita dell’aprile” l’ho mandato con una missiva a Leonardo Sciascia e lui mi ha risposto con una bellissima lettera invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta. È nato un rapporto di amicizia, quando ci incontravamo le nostre conversazioni sulla Sicilia erano davvero intense e avvincenti. Dall’altra parte c’era Lucio Piccolo, che era di Capo d’Orlando, stava nella villa in campagna con il fratello Casimiro, un esoterico, e la sorella Giovanna una botanica, Lucio poeta era cugino di Tomasi di Lampedusa col quale aveva un antagonismo incredibile. Quando andavo da Piccolo lui mi diceva salutami il caro Sciascia e quando andavo da Sciascia, Leonardo mi diceva salutami Piccolo. Poi ho fatto in modo di farli incontrare. Piccolo, che stava quasi sempre chiuso nella sua magione, quando arrivavano ospiti dava il meglio di sé. Era di una cultura infinita. Anni dopo Sciascia dichiarò che i due personaggi che più l’avevano colpito nella sua vita erano stati Borges e Lucio Piccolo. Poi è esploso il fenomeno del Gattopardo. In un’altra circostanza ho saputo che in un alberghetto di campagna vicino al mio paese c’era Salvatore Quasimodo con un’amica che presentava come figlia, sono andato a scovarlo e ho fatto in modo di accompagnarlo per fargli conoscere Lucio Piccolo, ma siccome questi era stato scoperto da Montale, acerrimo nemico di Quasimodo, allora il Nobel, uscendo dalla villa, mi fa: questo piccolo poeta”. Al nord stringi invece intensi rapporti con Pasolini e Calvino. Che cosa succede nella cultura italiana perché oggi sia così difficile trovare dei riferimenti che segnano veramente il tempo e la cultura? “Non voglio essere profeta di sventure ma credo che la letteratura italiana ormai sia al grado zero. Mi arrivano parecchi libri di esordienti. Leggo le prime pagine e rimango allibito dalla banalità della scrittura, delle storie, tutti che guardano il proprio ombelico, la propria infanzia, il papino, la mammina, le vicende personali, familiari, sessuali, non c’è uno sguardo nella storia nostra. La società è assente e ci si chiede ma ‘sta letteratura dov’è andata a finire? Negli anni Sessanta, dopo un’infelice esperienza alla Rai, che mi aveva cacciato perché mi ero rifiutato di mandare in onda un’autointervista su Cavour dell’allora direttore generale Italo De Feo (suocero di Emilio Fede), grazie a Calvino sono stato per più di dieci anni consulente della casa editrice Einaudi. Quando arrivavano i dattiloscritti, io dovevo essere il primo a leggerli, fare la relazione scritta e leggerla alla riunione del famoso mercoledì. Se io approvavo il libro, passava a Calvino. Quindi se lui l’approvava passava a Natalia Ginzburg per il giudizio conclusivo. Oggi basta andare alla televisione a sculettare o a fare il cantante, si scrive il romanzo e subito diventa best-seller. Questa è la letteratura italiana attuale”. La letteratura può far paura perché non è dominabile? “Senz’altro. La letteratura vera non è dominabile, se poi invece aspetti l’applauso e il successo sei dominabilissimo. Fai la volontà del padrone”. La Sicilia è sempre il cuore delle tue storie anche quando racconti il male di vivere, in certo modo l’inutilità di stare in Sicilia. “Diceva Verga che non ci si può mai allontanare dai luoghi della propria memoria. Lui l’ha fatto per parecchio tempo, i cosiddetti romanzi mondani quand’era a Milano, poi c’è stata la famosa conversione quando comincia il ciclo del verismo, ma anche Pirandello ha scritto che noi siamo i primi anni della nostra vita, cioè che quei segni sono incancellabili”. La distanza ti ha consentito una messa a fuoco migliore della realtà siciliana?“ Anche questo diceva Verga, e Capuana scriveva che la lontananza serviva a vedere più obiettivamente il luogo in cui si era nati e vissuti, il luogo della memoria”. E l’infinito presente del nostro tempo che cosa ci sta rubando? “Sia la memoria del passato che la visione di quel che può essere l’immediato futuro. Viviamo in questo infinito presente”.
* Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema. Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.
Ya la esperanza es perdita Y un solo ben me consuela Que el tempo que pasa y buela Lleverà presto al vida.
Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria, abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.
Indiscrezioni Giuseppe Tornatore fotografie Edizioni Fratelli Alinari 2008
Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia foto di Giovanni Giovannetti
Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .
1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).
Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:
5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).
“(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:
6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.
“Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che
11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.
avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa
13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19. gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e
14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.
dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.
17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.
Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il
18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).
Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.
Milano, 22 ottobre 2005
21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).
Chroniques italiennes n. 73/74 (2-3 2004), M. GIACOMO-MARCELLESI
Vincenzo Consolo : l’alchimie du logos
Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca ?
La transposition narrative du monde de Vincenzo Consolo, ce « Finistère » dont les frontières sont sans cesse repoussées dans l’espace et dans le temps, comporte une telle force dans les évocations langagière, qu’on a parfois l’impression de ne pas pouvoir comprendre le texte si on ne le lit pas à voix haute.
Il est sans doute difficile de trouver une production littéraire où la voix humaine aux mille parlers occupe autant de place que dans cet univers dont la dimension chorale exprime l’infinitude de la souffrance humaine. L’extrême richesse de la narration se développe dans la cristallisation métaphorique des mots, expressions, formules nées de la mémoire individuelle de l’écrivain qui renvoient à une culture populaire et savante, ainsi qu’à une sensibilité et une éthique forgées dans ce contexte.
Consolo définit lui-même la genèse de son oeuvre littéraire comme le projet d’une écriture de type sociologique, à la Carlo Levi, qui s’est inscrite dans la perspective d’une écriture expressive ou sentimentale quand il a compris que l’esthétique littéraire généralement qualifiée de néo-réalisme était dépassée. Son choix se porte donc sur cette écriture expressive, dont il voit l’archétype en Giovanni Verga, « il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna ».
Le critique Enzo Papa signale enfin une autre influence invoquée par Consolo, celle du groupe allemand ’47:
Vi resistono an cora gli echi della poetica neorealistica, già in congedo… ma vi appare evidente la lezione del tedesco gruppo ‘47, di quegli scrittori tedeschi che Consolo definisce analisti, come anche quella delle sperimentazioni linguistiche di Gadda e di Pasolini. 1
Dans cette lignée, Consolo manifeste dès son premier ouvrage La ferita dell’aprile ( bien qu’il ait fallu attendre Il sorriso dell’ignoto marinaio pour que la critique s’en aperçoive) une maîtrise des ressources de la langue et une originalité de style qui permettent de le reconnaître dès la première lecture, ad apertura di pagina, dit un critique2.
Nous verrons comment les voix populaires résonnent dans l’oeuvre de Vincenzo Consolo, les mots, les dialogues, mais aussi les interjections, les murmures, les balbutiements, les bruits. Il n’est pas jusqu’aux cris et au silence qui ne prennent une signification métaphorique dans cet univers.
1.Langue(s) et dialecte(s) :
1.1 La musique de l’inflexion dialectale:
La langue italienne dans ses inflexions dialectales diverses est évoquée avec émotion par l’écrivain Giacchino Martinez, héros du roman Lo Spasimo di Palermo (en partie autobiographique) quand il l’entend résonner dans le train, au retour d’un exil de plusieurs années : les voyageurs descendent à Florence et à Rome relayés par d’autres qui montent, le couloir est envahi par les soldats en permission qui hurlent, s’interpellent, se moquent les uns des autres d’un bout à l’autre du wagon dans un joyeux brouhaha, la baraonda : l’intellectuel se complaît à entendre résonner ces parlers qui ne sont plus le dialecte mais ne sont pas encore « la terrible nouvelle langue nationale que le malheureux Pasolini avait prophétisé pour le pays.
1 Enzo Papa, « Vincenzo Consolo : », in Id., « Ritratti critici di contemporanei», in: Belfagor, Firenze, Olschki, marzo 2003, LVIII, n.2, p. 179-198 : « on y trouve encore les échos de la poétique néoréaliste, …mais déjà apparaît en pleine évidence l’influence des écrivains du groupe allemand ’47…de ces écrivains que Consolo définit comme analystes, et aussi celle des expériences linguistiques de Gadda et de Pasolini ».
N.B. Cette traduction, comme toutes celles qui suivront, en note ou dans le texte, sauf mention spécifique, a été établie par l’auteure de la présente étude.
2 Gianni Turchetta, « Introduction » in : Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. V-XII
Vincenzo Consolo : l’alchimie du logos 199
Oltre l’eterna melodia napoletana, cercava di distinguere i suoni di Calabria, quello aspro dei monti e quello piano di Vibo e di Lamezia. Nelle parlate poi della sua isola, indovinava facilmente, nelle sue varianti, le città e i paesi da cui i ragazzi provenivano. Sentiva l’incolore e aggirante messinese, il rotondo e iattante palermitano, l’allusivo e cantilenante catanese, il pietroso e aspirato agrigentino, e l’antico lombardo di Piazza, Nicosia o San Fratello3.
1.2 Le sicilien
Le premier roman La ferita dell’aprile4, propose, dès 1963, une langue de ce type, italienne souvent fortement infléchie par le dialecte tandis que le dernier roman (à ce jour), Lo spasimo di Palermo, sépare la langue italienne académique des énoncés en sicilien qui sont le plus souvent des noms de lieux ou des proverbes. Il sorriso dell’ignoto marinaio5 et Retablo6 se rapprochent plutôt de cette deuxième solution, tandis que Le pietre di Pantalica7 accorde une place beaucoup plus importante au dialecte puisque ce livre évoque l’occupation des terres par les journaliers agricoles, I braccianti. Enfin le livre consacré au Baroque en Sicile présente de longs passages en sicilien, les récits de témoins du tremblement de terre d’Acireale et de celui qui a détruit Syracuse en 16938.
Le sicilien proprement dit résonne à travers les dialogues, les proverbes, les rituels des travaux des champs, les insultes, les slogans politiques, les joutes poétiques de la vie quotidienne, les chansons du « folklore », et de nombreux textes sont eux-mêmes en dialecte.
Les caractéristiques phonologiques et morphologiques du sicilien sont présentes aussi bien dans La ferita dell’aprile que dans d’autres teste de Consolo.
– Vocalisme : l’absence de diphtongue dans le suffixe –ère « -ièri » (cavalere « cavaliere » sciarmère, « mèi « miei », sui « suoi »), -les voyelles fermées en syllabe tonique (chisti « questi », sunno « sono », signuri « signore », vui « voi »), les voyelles semi-ouvertes en syllabe atone (sicolo « siculo », scoltori « scultori »)
– Consonantisme : le rhotacisme (Arcamo « Alcamo », ascortate « Ascoltate »), la séquence –nn- correspondant à la séquence italienne –nd- : (monno « mondo », granne « grande »), l’absence de l’élément labio-vélaire (chisti « questi »), la présence de la fricative palatale dans la séquence consonantique –str- (nosctro « nostro »), la non-assimilation du groupe –ntpour l’italien –tt- (pintori « pittori »)
En revanche, la morphosyntaxe du sicilien est plus particulièrement présente dans la prose italienne de La ferita dell’aprile, qui reprend le rythme de la langue dialectale, sicilienne mais aussi plus généralement méridionale : emploi systématique du passato remoto là où la langue emploie le passato prossimo, postposition systématique du verbe, soli restammo, cavaliere è, essa fu, io sono, etc., emploi systématique de l’indicatif dans des subordonnée introduites par des verbes exprimant
Le lexique sicilien apparaît dans La ferita dell’aprile, certains mots connus comme caruso, picciotto, d’autres moins répandus dans la péninsule : il dubotti (due colpi en italien, (« deux coups » en français ), d‘autres enfin si obscurs qu’ils sont éludés dans les traductions françaises, comme le balate9, « les roches lisses qui donnent un accès facile à la mer », « les dalles ».
3 Vincenzo Consolo, La spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p.94-95 :Au-delà de l’étzrnelle mélodie du napolitain, ilessayait de discerner les sons de Calabre, l’âpre calabrais des monts et de la plaine de Vibo et de Lamezia. Dans les parlers de son île, il devinait facilement, à travers ses diverses variantes, les cités et les bourgs dont provenaient les jeunes gens. Il entendait l’incolore et insinuant parler de Messine, le palermitain sonore e glapissant, le parler de Catania comme une cantilène discrète, le parler âpre et pierreux d’Agrigente, et l’ancien lombard de Piazza, Nicosia ou San Fratello. »
4 Id., La ferita dell’aprile, Torino, Einaudi, 1963
5 Id., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976
6 Id., Retablo, Torino, Einaudi, 1998
7 Id., Le pietre di Pantalica, 1988
8 Id., Il barocco in Sicilia : la rinascita del Val di Noto, Milano, Bompiani, 1991
9 Id., La ferita dell’aprile, p. 122
3 La différence linguistique comme vécu:
Cette expérience est autobiographique. Vincenzo Consolo tout en assumant son destin de grand intellectuel européen n’en finit pas de donner à entendre la différence linguistique qu’il a vécue dès son enfance. Comme le jeune héros de La ferita dell’aprile il est né dans un bourg en province de Messine, où on parle, aujourd’hui encore, un idiome « gallo-italique » qu’il appelle antico lombardo, qui s’est rapproché au cours des siècles du sicilien, tout en gardant de nombreux traits spécifiques. L’enfant prend conscience de cette singularité quand sa mère l’emmène vivre dans une autre localité, où la population le traite, lui et les siens, comme des étrangers, zanglé, zerabuini, « anglais », « arabes », êtres possédés du diable, affligés de tous les vices que même Mussolini n’avait pu convertir au christianisme. Alors que le paysage qu’il voit de l’institut où il est scolarisé lui donne l’impression rassurante de se rapprocher de son village, les collines entrevues comme un lion protecteur au repos, l’enfant se trouve confronté aux moqueries de ses camarades, pour sa différence de langue, celle d’un bourg « vieux comme le monde, où on parle d’une façon telle que personne ne nous comprend, et les illettrés, quand ils parlent, semblent être originaires du Nord » :
Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione.- Di’ un po’ : non sarai mica settentrionale ?
– E le risate di que’ stronzi mi fecero affocare. Glielo dissero che ero uno zanglé, che avevo una lingua speciale. Don Sergio volle sapere e fece la scoperta che poteva esse colonia francese, che zanglé storpiava lesanglé, non inglesi, ma normanno.
Ma non sono neanche uno zanglé, un civile di casino, facce smorte e pertiche di faggio, zarabuino, se ci tiene tanto.
-Zarabuini sono gli arabi, disse don Sergio.10
L’altercation donne lieu à une leçon d’instruction civique empirique, une leçon de tolérance et de respect de l’autre « étranger ». Don Sergio se risque à une analyse hasardeuse de la différence entre « les arabes zarabuini et les normands, deux races, deux classes bien distinctes » dit-il, « la seconde s’étant imposée sur la première provoquant une fracture nette qui dure encore aujourd’hui ». Puis il propose à l’enfant un échange métalinguistique qui montre les correspondances entre les deux idiomes, pen « il pane », mer « il mare », travai « il lavoro » et d’où il ressort que la différence n’est pas un problème :
Vedete, vedete ! Che c’è da vergognarsi, è storia, storia.11
Le camarade de classe Mùstica devient alors un ami, lui qui avait été le premier à l’appeler zanglé , et il reconnaît à son tour « que chacun est fils de son père, un point c’est tout, et que tous nous sortons du même terrier ». Un des prêtres de l’institut, Don Baraglio lui suggère fort judicieusement d’opposer des insultes de sa propre langue à ceux qui l’appellent zanglé.
La coexistence de plusieurs idiomes dans la narration est illustrée notamment par le récit de l’arrivée du voyageur lombard, le peintre Fabrizio Clerici, à la cour princière de Alcamo :
« Venisse, venisse… » soggiunse, facendo segno d’ascendere alla loggia.
« Ben vinuto, ben vinuto ad Arcamo ! » disse quando gli fui di fronte, e m’abbracciò e mi baciò sulle guance.
« L’amici di Sepporta sunno amici mèi. E chisti » disse quando gli fui di fronte presentandomi gli altri ch’avea s ‘intorno « sunno mèi amici, e dunca vosctri. »
« Vino, vino al cavalère di Milano ! » gridò il Soldano. E mi si offrì nel cristallo una bevanda spessa e giulebbosa che dopo il primo assaggio, rifiutai
10 Id., La ferita dell’aprile, Torino, Einaudi, 1963, p. 25-26 : « Don Sergio me le demanda, un jour où je récitais la leçon. –Dis-moi un peu, tu ne serais pas septentrional, par hasard ?. – Les éclats de rires de ces cons ont failli me faire suffoquer. Ils lui ont dit que j’étais un zanglé, que j’avais une langue spéciale. Don Sergio voulut en savoir davantage et il découvrit que c’était peut-être une colonie française, que zanglé était une déformation de lesanglé, non pas des anglais, mais des normands. Mais je ne suis pas non plus un zanglé, un clients de bordel, avec un visage livide et des cannes de hêtre, plutôt zarabuini, si vous y tenez tant à anglé – Zarabuini, ce sont les arabes, dit Don Sergio. »
11 Id., Ibid. p. 26 : Vous voyez, vous voyez ! De quoi avoir honte, c’est de l’histoire, de l’histoire. »
« si contrstava…se sia opportuno, nel poetare o pure rivolgere al sicolo idioma tragedia antiqua oppur poema, sia opportuno dicimo per nui nativi d’Arcamo , patria del primo e granne, onore de la cosca de’poeto e luce di cinnàca, di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtuto per nui de l’Academia ardente che al nome suo s’impenne, far crescere la cima sicola da ràdica toscana o puramente far sbocciare in aura toscana la semente sicola. Giudicate vui, vah, giudicate vui »
« Ma veramente, » balbettai vergognoso « mi so nient di lingua e di poesia»
« Checchecchè ? ! »fece il Soldano.
« Non m’intendo, non m’intendo » dissi allungando le braccia » 12
Cet épisode prend toute sa signification si on donne une valeur anaphorique à un paragraphe postérieur où l’auteur évoque avec soulagement, et même une allégresse qui n’est pas due seulement à la limpidité de l’aube et de l’ora antelucana, son départ de la cour d’Alcamo. Cette évocation confirme qu’il s’agit bien de Frédéric II:
Gai giannetti e novi letticari, nell’aere lieve dell’ora antelucana, presto ci portarono lontani dalle mura turrite del paese d’Alcamo, madre di lingua e cuna di poesia, dal grasso amante d’ogni lusso e arte, il castellano e ospite Soldano, dal protervo satiro suo figlio, dalla corte de’bardi, scoltori, pintori e teatranti servi, sciarmèri e questuanti13.
L’ensemble de la rencontre illustre en fait, de façon parodique, le ontraste entre l’apparence orientale et mauresque du Sultan et l’identité du souverain d’origine anglo-saxonne, germanique par son père Henri fils de Frédéric Barberousse, et normande par sa mère Constance de Lecce. L’intérêt de Frédéric II pour les langues, sa maîtrise de la langue arabe, sapassion pour l’astronomie e plus généralement, pour une experimentation scientifique linguistique mais aussi biologique, qui ne recule pas devant la cruauté, sont suggérés ici dans un anachronisme parodique. Le sicilien est utilisé dans une dimension caricaturale, mais il présente des traits intrinsèques, vocaliques, consonantiques, morphologiques, presents également chez les protagonistes populaires du roman.
En contraste avec la générosité princière et linguistiquement sicilienne du Sultan, la formule lombarde mi non so nient exprime l’émotion du peintre lombard Fabrizio Clerici, déjà fortement éprouvé par la dégustation forcée de fruits artificiels, surtout par la vue des foetus monstrueux macérant dans de bocaux, et terrorisé à la perspective de la nouvelle épreuve.
Le même effet comique et parodique naît du plurilinguisme qui se dégage également des allocutions des deux bardes en « contraste », nouvelle allusion aux joutes poétiques médiévales en usage à la cour de Sicile comme dans d’autres régions de Méditerranée où elles sont encore vivantes. Le premier barde, Don Emilio Chinigò, in Accademia inteso Abelio Zenòdotto, s’exprime sans doute dans l’idiome gallo-italique des anciennes coloniespiémontaises :
12 Id., Ibid., p. 40 : « Venez, venez », suggérait-il en nous faisant signe de monter dans la loggia. Bienvenu, bienvenu, » dit-il quand je fus en face de lui, et il me serra contre lui et m’embrassa sur les joues. –« Les amis de Sepporta sont mes amis. Et ceux-ci, dit-il quand je fus en face de lui, en me présentant ceux qui l’entouraient, ce sont mes amis et donc les vôtres.- Du vin, du vin pour le chevalier de Milan ! » cria le Sultan. Et il m’offrit dans un verre de cristal une boisson épaisse que je repoussai dès la première gorgée. – Nous débattions, pour savoir s’il est opportun de rédiger une poésie ou une tragédie en sicilien, pour nous natifs d’Alcamo, patrie du premier, le grand, l’orgueil de la compagnie des poète, je veux parler de Ciullo, célèbre dans le monde entier, et surtout pour nous de l’Académie ardente, faut-il cultiver les sommets siciliens avec une racine toscane, ou bien faire s’épanouir dans l’atmosphère toscane la semence sicilienne. Donnez votre jugement, allez, donnez votre jugement. – « Mais vraiment, balbutiais-je, plein de honte, – je ne sais rien en langue et en poésie.- Quoi, quoi, fit le Sultan. – Je n’y connais rien, je n’y connais rien, » dis-je en allongeant les bras.
13 Id., Ibid., p. 53 :De joyeux guides et de nouveaux jeunes porteurs nous emmenèrent, dans l’air léger de l’aube, loin des remparts crénelés de la ville d’Alcamo, mère de la langue et berceau de la poésie, loin de l’amant de tous les luxes et de tous les arts, le châtelain notre hôte, le Sultan, et loin de son arrogant satire de fils, loin de la cour des bardes, des sculpteurs, des peintres, des comédiens, des jongleurs et des mendiants.
Esultante quindi l’accademico, con voce forte, chiara, si mise a recitare versi oscuri, incomprensibili a me, a voi, a chicchessia, mi credo, non fusse nato in Alcamo, che rumorosi applausi si ebbero, e numerosi brindisi, di tutta l’adunanza14.
Le second barde, padre don Getulio Camàro, in Accademia Aristeo Apollonio, use d’une langue artificielle et ampoulée, peut-être celle du trobar clus et des poètes définis comme siculo-toscans :
Poscia seguì il prete, grevio, untuoso, che pur poetando nel più cercato e prezioso italico linguaggio, tanto dolz e pien di sghiribizz, di pess, e pazz, e pozz, e puzz, e pizz, come ridendo dice il nostro Maggi, erano i versi suoi gonfi di metafore e di immagini e di concetti sùi peregrini e falsi, e manierato il tono, e il ritmo artefatto…15
Dans la diversité des langues, il faut inclure l’argot, il gergo, gergo adolescenziale revendiqué par Consolo, l’emploi des mots fottere, minchione, etc.
Certains mots sont difficiles à comprendre parce qu’ils correspondent à une époque où se situe le roman, ainsi serraglio e mentòla pour les cigarettes « légères »
D’autres idiomes sont conviés, grec, arabe, espagnol, français, anglais, allemand, et même une langue inconnue, dans une comptine que le prêtre fait chanter aux enfants pour exorciser leur peur pendant les bombardements16 Ces idiomes apparaissent à travers des répliques ou mots isolés, souvent des toponymes, qui sont « la dent et la griffe de l’histoire dans la langue » comme disait un illustre géographe. Ces insertions prennent une valeur symbolique dans le déroulement de la narration que nous nous proposons d’évoquer plus longuement dans la troisième partie de notre étude.
Le choix du genre : roman, poème narratif ?
A travers la série d’interviews organisées à Rome, le 25 juin 1993, par l’Imes, l’Istituto meridionale di storia e scienze meridionali, et publiées dans le recueil Fuga dall’Etna17, Vincenzo Consolo affirme un point de vue selon lequel, dans les conditions actuelles de l’Italie, la fonction de l’écrivain connaît une grave mutation. Cette situation est due à l’absence d’ancrage national des intellectuels italiens, à la rupture du rapport entre la société et les intellectuels :
Gli scrittori italiani hanno sempre dovuto andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese, o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Morzavi18.
Cette analyse correspond, de manière significative, aux remarques d’Antonio Gramsci sur le clivage entre les intellectuels italiens et le peuple, leur éloignement de la vie « nationale-populaire »19. C’est dans le vide de cette relation entre la société et les intellectuels que s’est installé, selon Consolo, un type de communication qui est, en fait, une véritable imposture.
14 Id., Ibid. p. 41 : « Exultant, l’académicien se mit d’une voix forte et claire, à réciter des vers obscurs et incompréhensibles pour vous, pour moi, pour qui que ce soit croyez-moi, qui ne serait pas né à Alcamo, et il recueillit bon nombre d’applaudissements et de toasts »
15 Id., Ibid. p.41 : Puis le prêtre, d’une contenance grave et onctueuse, débitza des poesies dans le plus précieux et recherché des idiomes italiques, tout en dolz et plein de sghiribizz, de pess, de pazz, de pozz, et puzz, et pizz comme dit en riant notre Maggi, et ses vers étaient gonflés de métaphores , d’images , d’idées étranges et fausses, le ton maniéré, le rythme artificiel .»
16 Id., Lo spasimo di Palermo : p. 14
17 Fuga dall’Etna (La Sicilia e Milano, la memoria e la storia) Roma, Donzelli, 1993.
18 Ibid., p. 53-54 : « Les écrivains italiens ont toujours du se rendre à l’étranger pour pouvoir écrire en prose, de Manzoni à Calvino et à Sciascia, changer leur prose avec la prose française ou bien adopter une sorte de koiné fonctionnelle, de type transversal, comme Pirandello ou Moravia. ».
19 Gramsci Antonio, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 1975, 4 vol. , plus particulièrement, dans le volume II, le cahier 8, « Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali » , p. 922 et suivantes.
Il explique avoir adhéré au Manifesto per la difesa della lingua italiana parce qu’il estime que la langue italienne est menacée par la langue du pouvoir, langue « absolument horizontale », un pouvoir qui n’est pas seulement politique, mais aussi économique et technologique avec le développement d’une communication de masse dominée par Internet et Monsieur Gates. Seule la pratique de codes linguistiques qui plongent dans les couches profondes de la langue italienne, « le langage vertical » – dit-il- , peut sauver la langue italienne. Dans la même logique, il revendique le choix d’une forme d’écriture qui s’inscrit dans le refus de la forme romanesque, refus affirmé au cours de son itinéraire intellectuel et porté à l’extrême par son dernier ouvrage, Lo Spasimo di Palermo, tandis que l’ouvrage précédent, Il Sorriso dell’ignoto Marinaio, accueilli triomphalement par la critique, témoignant d’un langage prodigieusement inventif, mêlant étroitement langue et dialecte, tradition cultivée et tradition populaire, avait été classé comme « poème narratif ».
Voglio essere radicale per una volta, credo che nel nostro contesto non si possa più praticare questa forma narrativa che è stata di nobilissima tradizione in Europa20
Pourtant, Vincenzo Consolo écrira de nouveau au moins un roman, sa dernière oeuvre jusqu’à présent. Il y exprime quelques justifications par rapport à son impossibilité d’écrire quand son fils lui reproche son silence et lui donne en exemple « le castor ligure, l’indifférent romain, son ami l’amer sicilien », et le père écrivain répond ceci :
Hanno la forza, loro, della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi. Meno, meno talento, e poi mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono21
et dans les entretiens de 1999-2001 avec Fabio Gambaro, il rapproche les deux formes, roman et poème narratif et il développe de façon encore plus nette sa position par rapport aux deux lignées d’écrivains italiens.
Ainsi, le résultat final rappelle souvent le poème narratif. A ce propos, il faut rappeler que nous n’avons jamais eu de langue unitaire de communication, les particularismes ayant toujours gagné à tous les niveaux. Par conséquent, les écrivains ont toujours dû se poser la question de la langue et s’inventer un langage pour leurs ouvrages. D’un coté, certains écrivains – de Manzoni à Moravia, de Calvino à Sciascia- ont choisi une langue rationnelle et communicative, qui exprimait l’espoir de la naissance d’une société plus civilisée. D’autres écrivains ont préféré s’exprimer dans une langue que j’appelle « du désespoir », une langue très expressionniste. De Verga jusqu’à Gadda, en passant par Pasolini, Meneghello ou d’Arrigo, les écrivains qui ont choisi cette option forment une tradition à laquelle je suis heureux d’appartenir.22
C’est la lecture de Retablo qui a imposé à l’auteure de la présente étude le sentiment d’une étonnante solution narrative symbolisée par la métaphore de l’ « alchimie », impliquant à la fois la relation entre la langue et le monde qu’elle représente, et la fusion entre langue(s) et dialecte(s), expression employée lorsque l‘auteure a interrogé sur ce mystère23.
Vincenzo Consolo qui a alors récusé l’étiquette « dialecte », indigne de cette noble langue qu’est le sicilien24. Il a évoqué, en revanche, le processus de ré-appropriation des mots qu’il avait, enfant, entendu prononcer par sa mère et dont il a découvert, à l’âge adulte, qu’ils remontaient souvent au grec, ou à l’arabe, ou à l’espagnol. Le travail sur le matériau sonore des premières années de la vie convoque la recherche étymologique, mais il suppose aussi un rapport vivant, émotionnel avec la langue maternelle, opposée à « l’hypothétique code linguistique de la langue nationale ». Le parti pris d’écriture résulte d’un choix expérimental, intuitif et conscient à la fois, déjà à l’oeuvre dès son premier roman, La ferita dell’aprile :
20 Fuga dall’Etna, « Je veux être radical au moins une fois, je crois que dans le contexte qui est le nôtre, on ne peut plus pratiquer cette forme narrative qui relève de la plus noble tradition européenne. »
21 Id., Lo spasimodi Palermo, p. 88 : E ux, ils ont la force de la raison, la clarté, la géométrie civile des français. J’ai beaucoup moins de talent, et puis je me perds dans les eaux stagnantes de l’affection, l’opacité du lexique, la vanité du son. »
22 Fabio Gambaro, L’Italie par ses écrivains, Paris, Liana Levi, 2002
23 L’auteure de cette étude a posé à Vincenzo Consolo une question relative à ces problèmes de la présente étude au cours du débat au Colloque international qui lui a été consacré, organisé par Dominique Budor & Denis Ferraris, Ethique et écriture, 25-26 ottobre 2002, Sorbonne-Nouvelle-Paris III (Actes sous presse).
Mi ponevo con esso subito, un po’ consapevolmente, un po’ intuitivamente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impatto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un certo gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo ad un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile25 .
L’univers narratif de Vincenzo Consolo offre des solutions originales à l’ancienne interrogation qui hante l’histoire linguistique et culturelle de l’Italie : la questione della lingua, et la problématique de la mimesis, la résonance dans la trame du texte des voix populaires et dialectales C’est en tant qu’auteur du roman historique, pour la métaphore et non pour ses choix linguistiques, qu’Alessandro Manzoni est défini comme un auteur de référence 26 :
« La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo chiesto perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile ».
Consolo évoque aussi comme référents Sciascia e Piccolo, qui représentent respectivement ses deux Siciles, la Sicile orientale et la Sicile occidentale.
Dalla mia Finisterra, potevo muovere verso il Centro del Caos, verso il Vulcano o verso lo iatto dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati… E mi sembrò poi, questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo e approdare al presente alla superficie, l’essenza della narrativa : un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico27.
Dans cet univers « hybride », entre logique et magie, les mots étrangers, les mots étranges, le « parole peregrine » contribuent au processus créatif de cette oeuvre.
Le parole peregrine : le mystère des mots dans la métaphore:
La diversité des langues comme malédiction est évoquée par le spectacle que découvre le romancier à son retour à Palermo : ses livres ont été rangés par la vigoureuse et dynamique Michela, la fille des fidale Delfio et Cristina, en fonction de leur couleur (ils auraient pu l’être en fonction de leur taille !). Le babelico assemblaggio 28, insupportable pour un intellectuel qui utilise les livres en fonction de leur contenu et non en fonction de la couleur de la couverture, préfigure la tragédie finale puisque c’est le mari aussi mafieux que vulgaire de cette même Michela qui organise l’attentat contre le juge.
24 La même interrogation est formulée par le coordinateur de l’interview dans Fuga dall’Etna,. Après un assez long développement sur la mémoire historique et la mémoire personnelle, Renato Nicastò évoque le rôle du dialecte dans la mémoire personnelle et conclut par la question suivante : « Ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce ? »
25 Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, 1997.» Je me suis immédiatement situé sur la ligne de l’expérimentation, en mettant en oeuvre une écriture marquée par l’impact linguistique, par la récupération non seulement des stylèmes et des glossaires populaires et dialectaux, mais aussi, vu le thème de l’ouvrage, un certain argot d’adolescent. Un argot parodique, sarcastique, en contraste avec un hypothétique code linguistique national, et une langue paternelle, véhiculaire. »
26 Id . , Fuga dall’Etna, p. 46-47. « La leçon de Manzoni réside justement dans la métaphore. Nous nous sommes demandé pourquoi il a situé son roman au XVIIème siècle et non au XIXème. Justement pour donner une distance à l’incontournable métaphore. L’Italie de Manzoni est vraiment éternelle, indestructible. »
27 Id., Per una metrica della memoria: « De mon Finistère, je pouvais me déplacer vers le centre du Chaos, vers le Volcan et vers la fracture du Détroit, vers les fées Morgane et les tremblements de terre, ou avancer vers l’occident les signes profonds de l’histoire. Par la suite, ce mouvement, ce départ chaque fois renouvelé depuis l’éloignement, depuis la profondeur, jusqu’à la surface m’est apparu comme l’essence du récit : un hybride, un croisement dans la communication et l’expression, de la logique et de la magie. »
28 Id. Lo spasimo di Palermo, p. 102.
L’écriture de Consolo est profondément métaphorique, dans le sens où de nombreux mots, de nombreuses évocations ont une signification qui n’est pas liée au seul contexte immédiat, mais s’inscrit dans la relation anaphorique et cataphorique qu’un passage entretient avec l’ensemble du texte, parfois de façon très fugitive, de sorte que seules des relectures successives peuvent en révéler le mystère. Cet arrière-plan multiple s’inscrit dans la discrétion et le minimalisme chers à Consolo, et qui n’ont d’égal que l’extrême densité sémantique.
Dans La ferita dell’aprile, la « blessure » qui donne son titre au roman est évoquée, au détour du récit, à la fin du chapitre 10, presque à la fin de l’ouvrage qui en comporte 12 d’importance à peu près égale.
N’ammazzarono tanti in una piazza (c’erano madri e c’erano bambini) come pecore chiuse nel recinto, sprangata la porta. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia : negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto29.
Le récit pourrait être celui de bien des hécatombes passées ou des hécatombes à venir que prophétise, nouvelle Cassandre sicilienne, la vieille femme encore debout sur le lieu du massacre :
Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schoiuma in bocca ? Non è la fine : sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso !30
Le véritable message est suggéré par la couleur du tissu du drapeau rouge, toujours plus rouge au fur et à mesure qu’il s’imprègne du sang des victimes :
La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancore un’illusione31.
Le drapeau rouge, le « superbe drapeau rouge, rouge du sang des fusillés »32 retrouve sa signification réactualisée au moment où s’évanouissent les illusions sur la démocratie, une démocratie italienne don’t on sait aujourd’hui que son gouvernement a organisé le massacre d’une innocente, dans une mise en scène qui permet d’en imputer la responsabilità au populaire bandit Salvatore Giuliano. Cette signification ne peut être comprise que si on met en relation ce passage avec celui qui précède, les cris d’une manifestation populaire de 1er mai : « Con la bandiera rossa gridano, al Primo Maggio, ai Lavoratori evviva ! » mêlée à l’évocation statuaire d’un monument aux morts, un soldat qui s’élance pour la patrie de Piémont-Sardaigne, une liste de noms révoquant l’appel des recrues, etc.:
Vicino al fante verderame slanciato avanti, Savoja !, le balate e i nomi, presente !, scoloriti per il tempo che ci è passato sopra: le ruote grandi e i raggi neri mangiati dalla ruggine e i fusti dei cannoni, con la bandiera rossa gridano, al Primo Maggio, ai Lavoratori, evviva !33
La ruelle qui relie l’intérieur des terres à la mer, via Rotolo, dont le nom revient dans d’autres ouvrages, au bout de laquelle se trouve cette statue est elle-même précédée d’une description du paysage, voir comme un tableau de peintre à travers les yeux décillés d’un narrateur le héros luimême caruso, bastaso, devenu désormais jeune homme qui fume sa première cigarette en compagnie d’un jeune maçon, fixé dans la position du jeune désoeuvré qui « tient le mur » dans une attitude qui exprime l’ascendant qu’ont pu avoir les mafiosi sur la jeunesse34 (il ne faut pas oublier que mafioso est une appellation à l’origine positive, comme ‘ndrangheta ‘la société des hommes debout).
29 Id., La ferita dell’aprile, p. 122 : « Ils en ont tué beaucoup sur place (il y avait des mères et des enfants) comme des brebis enfermées dans l’enclos, la barrière fermée. Ils ont tourney comme des fous en quête d’un abri mais ils ont été jetés à la renverse sur les pierres, les uns après les autres, par une rose mauvaise qui les frappés à la poitrine et à la tempe : dans leurs yeux, un soleil jaune comme les genêts, un soleil vert, un soleil noir de poudre, de lave, de désert. ».
30 Id. Ibid. « Femmes, qu’est ce que ces lamentations et ces cris ? Epargnez votre souffle et votre robe en prévision des nombreux morts qui vont suivre ! »
31 Id., Ibid., « le tissu s’imbiba et rouge sur rouge c’est une illusion, encore une illusion .»
32 Chant de la Commune de Paris.
33 Id., Ibid., :: « Près du fantassin vert-de-gris qui s’élance, en avant, Savoie !, les balata, les noms, présent !, décolorés par le temps qui est passé dessus, les grandes roues et les rayons noirs rongés par la rouille ainsi quet les fûts des canons, avec le drapeau rouge, ils crient : vive le 1er mai, vive les Travailleurs ! »
Un nom étranger relie la signification immédiate que le mot prend dans le texte à d’autres significations, qui se superposent à elle dans le déroulement du texte. Nous ne donnons ici que quelques exemples :
-Il packet-boat :
L’insistance avec laquelle ce mot revient dans plusieurs ouvrages ne peut être fortuite, même s’il s’agit d’une façon sicilienne de désigner le navire. Les mots d’origine anglaise passé par le français, il packet-boat, symbolise l’éloignement de l’île, la distance qui le sépare du monde européen.
-Il marabutto :
Ce mot d’origine arabe est prononcé par le père de Gioacchino (Chino), en réponse à une question de son entourage, il dit où il va pour cacher un Polonais évadé de l’armée allemande. L’enfant ne peut s’empêcher de le ressortir quand les Allemands torturent Delfio pour le faire parler. Il occulte plus ou moins ce mot qui symbolise sa culpabilité pour n’avoir pas pu se taire, car son imprudence langagière a déterminé le destin tragique de ses parents, et peut-être celui de son propre fils, pense-t-il, car l’attitude rebelle celui-ci à l’égard de la société, à l’égard de son propre père incarne au-delà du problème oedipien, une punition pour la faute qu’il a commise enfant. Mais au-delà de cette névrose, c’est la signification même du mot que le romancier découvre à la fin du roman, puisqu’il apprend, au hasard de ses enquête sur l’histoire de la Sicile, que le mot marabutto est une adaptation du mot arabe qui signifie ermite, un religieux qui s’est luimême enfermé dans le silence.
-Il monello :
Bien que ce mot soit un mot italien, il est aussi significatif de la valeur métaphorique de la différence de langue. Ce nom est celui par lequel le film de Chaplin The Kid, est désigné en italien. Lorsque Gioacchino Martinez arrive dans son hôtel parisien, qui a été rénové sous le signe du cinéma, il voit immédiatement une affiche du film. Est-ce un hasard ? En français, le titre anglais n’est pas traduit. Or, le mot monello a une histoire significative : c’est à l’origine un mot d’argot, parola gergale, désignant celui qui doit être réprimandé35, fortement, un voyou, même, puis le mot a pris une signification moins forte, par euphémisme, celui qui n’est pas très sage et doit être grondé. Mais le rapport conflictuel entre le fils du romancier et la société, avec le père symbolisant la société, rapport difficile qui était déjà celui de Chino avec son propre père.
Les insultes en langue étrangère sont une forme de défense, que suggère un enseignant au jeune héros de La ferita dell’aprile et dans Lo spasimo di Palermo. Autre épisode significatif : Dans Lo spasimo di Palermo, pendant un bombardement, le prêtre propose aux enfants une comptine en langue inconnue, une arme contre la peur, mais aussi, peut-être symboliquement, l’arme des mots contre les armes de la guerre
« Fermi, fermi ! Tutti sotto le panche, le mani sulla testa » si mise a vociare il prete. E nella breve pausa, dopo le prime raffiche, ordinò di cantare l’aria con parole senza senso, ch’erano forse parodia, scherno d’una lingue :
Sukkerlain suttreklain
Kulì jutek ansamadain
Ma sei ni kuskei dublei
Kulì brudak mundai mundei
Suleik dindi moni dindindin
Suelik dindi moni dindindind36…
34 Id., Lo spasimo di Palermo
35 Gianfranco Folena, Semantica e Storia di « monello », in Lingua Nostra, XVII, 1956, p.
65-77, et Id., « Ancora maonello-famiglie », ibid., XVIII, p. 33-35
36 Id., Lo spasimo di Palermo : p. 14 : « « Arrêtez, arrêtez! Tous sous les bancs, les mains
sur la tête » se mit à crier le prêtre. Et dans la brève pause, a^rès les premières rafales, il
odronna de chanter l’air avec de sparoles dépourvues de sens, qui étaient peut-être une
parodie, la dérision d’une langue. – Sukkerlain suttrekalin… »
Le silence même suggère les cris, hurlements si terribles qu’ils sont muets, de toutes les victimes des catastrophes « naturelles » ou provoquées par la folie meurtrière des sociétés humaines, cris silencieux sortis de la bouche grande ouverte des victimes, dans un visage aux yeux exorbités par la peur que représentent tableaux, fresques et sculptures de l’art baroque :
Un cielo livido come nelle Crocefissioni di Antonello, piane colli monti privi d’ombre, sfumature, d’una insopportabile evidenza ; un tempo immobile, sospeso, e un silenzio attonito, rotto da ulular di cani, strider d’uccelli, nitriti di cavalli : un mondo che sembra attendere da un momento all’altro la sua fine : l’uomo, di consegnarsi ineluttibilmente all’ultima certezza. Il cui panico Michelangelo ha rappresentato nel Giudizio in un personaggio (in basso, sul lato dei dannati, un occhio reso cieco da una mano, l’altro sbarrato, con dentro lo sgomento)37.
Les cris se confondent avec les grondements terribles de la mer déchaînée et des ouragans en furie et des volcans et de la terre dans les éruptions et les secousses sismiques, sifflements des sirènes et des bombes, etc. A la fin du Spasimo di Palermo, est évoqué le tableau La montée au Calvaire, que Raphaël a peint à la demande des prêtres ulivetani, qui a ensuite été offert au roi d’Espagne de sorte qu’il est maintenant à l’Alcazar de Madrid38
La métaphorique, c’est aussi celle du cri muet de Munch, l’horreur de l’éruption du champignon atomique.
Mathée GIACOMO-MARCELLESI
,37 Id & Giuseppe Leone, Il barocco in Sicilia : l a rinascita del Val di Noto, Milano, Bompiani, 1991, p. v. : « Un ciel livide comme dans les crucifixions d’Antonello, platine collines montagnes sans ombre, sans nuances, d’une évidence insupportable ; un temps immobile, suspendu ; et un silence étouffé, interrompu par des hululements de chiens, des cris stridents d’oiseaux, des hennissements de chevaux ; un monde qui semble attendre d’un moment à l’autre sa propre fin ; l’homme qui semble attendre de pouvoir se confier inéluctablement à l’ultime certitude et dont la panique est représentée par Michelange, chez l’un des personnages de la fresque du Jugement, (en bas, du coté des damnés, un oeil obturé par une main, l’autre oeil exorbité reflétant l’effroi) ».
La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.
In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.
“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.
Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.
“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003
Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:
“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”
“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”
l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006. Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4 dicembre del 2003.
La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria. Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?
In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.
C’è una soluzione per continuare a scrivere?
Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”. Che cosa intende per “spirito socratico”?
Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.
Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.
Parlaci di Catarsi…
E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.
Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza… Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.
Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente… Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.
C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”
, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.
E la Sicilia di Pirandello?
Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono. Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera… E negli altri scrittori siciliani?
La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di
Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).
E Sciascia?
Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?
Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.
Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.
Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale. Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo.. Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.
Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.
Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione. E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso. Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.
Vincenzo Consolo
Prologo
Un velo d’illusione, di pietà, come il sipario del teatro, come ogni schermo, ogni sudario copre la realtà, il dolore, copre la volontà. La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola poetica e teatrale, la parola scritta e pronunciata.’ Al di là è la musica. E al di là è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala del pipistrello; è il dolore nero, senza scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. Così agli estremi si congiungono gli estremi: le forze naturali il deserto di ceneri, di lave e la parola che squarcia ogni velame, valica la siepe, risuona oltre la storia, oltre l’orizzonte. In questo viaggio estremo d’un Empedocle vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles malinconico e ribelle d’Agrigento, ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi. Per la nostra inanità, impotenza, per la dura sordità del mondo, la sua ottusa indifferenza, come alle nove figlie di Giove e di Memoria, alle Muse trapassate, chiediamo aiuto a tanti, a molti, poiché crediamo che nonostante noi, voi, il rito sia necessario, necessaria più che mai la catarsi. Tremende sono le colpe nostre e il rimorso è un segno oscuro o chiaro che in questa notte spessa tutto non è perduto ancora. In questo viaggio estremo d’un Empedocle vorremmo ci accompagnasse Pasolini, il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva. Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone, la chiara nudità, il gesto largo, che tutto l’aere abbraccia, l’armonia, del soave mimo, del santo mattaccino.
1 Pasolini, Affabulazione da Catarsi in Oratorio, 2002
Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.
Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.
Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.
Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.
Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto(Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.
6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.
La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.
Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.
Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.
Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.
3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.
Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.
Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano IMalavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.
Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.
Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.
La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.
Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.
La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara(1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.
Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.
È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.
Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.
Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.
La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.
In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.
4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)
L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.
Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:
Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…
e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.
Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…
Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.
In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.
Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.
Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.
Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.
Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.
Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.
Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.
Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».
Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.
Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.
Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.
NOTES
2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.
3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.
4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».
Ho sentito il bisogno di
incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due
dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto
marinaio del 1976 e Nottetempo casa
per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è
servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il
sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il
grande entusiasmo che mi era nato.
“Perché li hai letti uno di seguito
all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli
accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo
(Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione
diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica, nell’altro c’è il racconto del crollo di
questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è
il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il
secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”
Non so neppur io perché abbia letto proprio
quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino
mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:
Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne
quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale
della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto,
provocatoriamente contro la Lega.
Dolcevita di lana e golf (vestito allo
stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una
fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa
caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.
Allora penso subito al calore della sua
terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo
grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un
fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a
Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)
Le pareti della stanza sono coperte da
semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno,
segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di
Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione
illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione
marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo
Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e
libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della
Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di
maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno
dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente
l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della
cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)
si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger,
autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare,
completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di
conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa
misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono
esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno
ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti
plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.
Tra novembre e dicembre due sono stati
gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua
vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un
paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e
profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.
Il titolo di questo articolo è,
naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e
tanto amata.
Dove è nato, professore? A Cefalù?
C.: Sono nato in un paese vicino a
Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine
letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il
mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più
strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e
tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista,
perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla
natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello
dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho
potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente
diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia
occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al
canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di
Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna,
con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un
discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.
Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni,
come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte.
Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era
estremamente lirico. D’Arrigo, per
esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno
formale più accentuato.
Dalla parte occidentale, invece, gli
scrittori sono più logici.
All’inizio, quando mi sono
trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi
due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia
identità cercando di far unire questi due mondi: partire da un presupposto storicistico,
razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e
formale.
Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?
C.: Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto
a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo
fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare
lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di
tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…
Quando è arrivato a Milano?
C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che
avrei ritrovato più tardi.
Una città però molto viva, allora.
C.:
Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare
l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario.
Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho
scelto legge come via di compromesso.
In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano
tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i
De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era
Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!
Io approdai lì casualmente, seguendo
l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una
stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo
ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.
L’Università Cattolica era allora
frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo
cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e
tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai
parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato
di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.
Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi
ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà
importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il
Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio
convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di
Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di
meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate
lì.
Portate in questo Centro
Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei
vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in
Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in
Germania. Venivano raccolti a Verona.
A noi studenti poteva capitare di
incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da
poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba. Io ho incontrato un compaesano che giocava
con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col
manganello. Io non so se quelli che sono
diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io
osservavo.
Allora sarei potuto rimanere a Milano,
perché in quegli anni il lavoro si trovava.
Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e
c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…
C.:Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia
milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e
inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di
altri artisti.
Li conosceva già?
C.:No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato
conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…
Al finire degli studi, poi, me ne sono
tornato in Sicilia, per scrivere.
Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole
agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con
paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia;
erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava
Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto).
Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano
destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri
erano già emigrati.
Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60.
I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da
ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo
bene quella realtà.
C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta
la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le
terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le
pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di
industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.
Comunque io avevo preso questa decisione
di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63,
però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che
erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un
altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una
connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della
storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.
Nel primo libro parlavo degli anni di me
adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del
fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime
elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni
del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva
essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle
ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del
come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni
da noi…
E il libro narrava proprio questo, ma
visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto
trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono
costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono
immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San Fratello ed è un’antica colonia lombarda,
un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri,
anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle
Pietre di Pantalica e questo per
dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per
approdare poi alla lingua, al toscano.
Istintivamente, allora mi collocai proprio
come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che
era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica
nell’estrema diversità siciliana quindi).
Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice
linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro,
questa sorta di impasto linguistico.
Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle
parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i
diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la
pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno
que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e
giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti
dalle cose».
C.: Sì, e queste parole nuove sono parole
antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice
della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo…
Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la
letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito
codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta
di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere
così, la forma deve corrispondere ai contenuti.
Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68,
perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati
fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che
non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare;
l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere,
e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.
Quindi sono andato via.
Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche
due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone
emblematiche della mia formazione. Uno
era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta,
purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di
morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì
Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a
completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato
dall’esplosione del fenomeno Gattopardo. Lui veramente, quando lo nominavano come il
cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è
mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.
L’altra persona che ho frequentato è stato
Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo
mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a
Caltanissetta); poi siamo diventati amici.
Quando l’uno era il poeta puro, un barone,
con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di
tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico,
limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.
Per me sono stati veramente come due
maestri, due poli.
E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia,
presi le valigie e ritornai a Milano.
Non a Roma?
C.: No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono
due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese
che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia
politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era
la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in
qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al
luogo antitetico alla Sicilia.
A Roma invece approdavano degli scrittori
a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello. Un Pirandello che, con quella sua scrittura,
aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola
borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A
Milano sarebbe stato fuori posto.
E poi Sciascia, naturalmente, con il suo
discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo
senso, anche Moravia.
Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo
parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli
autori della parte occidentale.
C.: Per la parte occidentale, a fronte dei Verga,
dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome
che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un
romanzo, I vecchi e i giovani. In
Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie
locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma
forse, dopo l’uscita de I Viceré di
De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi
dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche
lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole
in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica
siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una
Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo
dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto
sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con
l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i
proprietari delle medesime.
È la rappresentazione amara, da parte di
Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono
tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via
discorrendo.
Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.
C.: Prima che
andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul
piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome
di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal
piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza,
dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in
antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo
immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il
suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era
impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto. E tutta la tematica verghiana è la tematica
dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.
Pirandello ha cercato, ha tentato di
ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi
metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un
contrasto verbale con l’entità destino.
E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere
questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello
diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi
chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che
tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro
l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in
una ricerca continua dell’ identità.
È poi anche, se si vuole
guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi
siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta
anche alla nostra storia.
Noi siamo tante culture messe insieme,
siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo
vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica
all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza. E in questa incertezza sta il nostro dramma,
ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico):
in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il
nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di
tutto questo.
Pirandello attinge proprio al modo
d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua
filosofia, la sua concezione. Nel Mattia
Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo
dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di
questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo
a furia di ammaccature.
L’io siciliano è ammaccato, e quindi
arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il
rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il
crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere
la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si
arriva con le ammaccature.
Quelli che precipitano da questo crinale
sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di
vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è
estremamente difficile ed è una fatica continua.
Ma, per tornare al romanzo storicistico,
oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore
storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la
letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con
la storia.
Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a
quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del
Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono
cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il
tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.
Quando vede, in Sicilia, quello che era il
grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e
affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa
diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive
tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica
del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il
rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi
stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora
non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del
potere mafioso.
Quando ha conosciuto Sciascia?
C.: Dal punto di vista biografico, avevo
conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le
mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono
tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo. Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è
sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando
io pubblicai il mio primo romanzo (La
ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo
con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché
era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio
Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e
di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi,
quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana
dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad
andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici. Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è
stato un continuo dialogo.
Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile?
C.: C’era uno
strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si
parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che
accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere
il titolo di un libro che si era letto…
Un suo rammarico era che io scrivevo poco.
Voleva che scrivessi di più.
Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di
Sciascia?
C.:
Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per
essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca
di distruggere la letteratura siciliana.
Il mio diventa quindi un impegno con la
letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà
di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le
imposture. E queste cose non sono sopportabili…
Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche
questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e
civile.
C.:Lui
era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una
scrittura di intervento, sui giornali. Scritti
corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di
intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.
Mentre lei ha sempre sentito la necessità della
letteratura come mediazione?
C.: Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i
tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta
più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui
anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece
Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui
giornali.
Lei appare come un signore pacato, ma la passione con
cui scrive denuncia una…
C.: No, non lo
sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta
di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché
desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste
masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come
Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.
Lei era venuto come insegnante?
C.: No. Avevo
fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in
treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.
Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.
C.: Sì. Allora
c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino
(“Il Menabò”), che dibatteva
proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo
mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione
sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra
rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare
le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e
altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo
vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.
Vittorini, per esempio, invitava a studiare i
nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale,
dall’incrocio dei dialetti coi dialetti
del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste
non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe
l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei
media e che si sarebbe sovrapposta…
Insomma l’Italia è un paese
veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così
rapidamente e radicalmente le vicende italiane.
È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e
contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di
masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che
è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di
Pasolini, questo…
Quando si fanno questi discorsi, sembra
che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano
a Pasolini era: «Ma come?».
No, nostalgia del mondo contadino credo
non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza,
di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo
progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di
atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il
senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi
politici che si dibattevano erano del mondo operaio.
Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un
isolato.
C.: Sì, erano
isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano
angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia
si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma
di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle
solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci
siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.
Io non ho nostalgia del mondo contadino
(questo l’ho anche raccontato nelle Pietre
di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo
avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.
Qui, invece, i valori umani
sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini
chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non
«progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo
sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di
petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano
innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.
In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono
ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739
a.C.). Io sono andato a rivederli,
ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni
culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.
Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori. Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato… Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord. I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie. La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.
Poi, quando ci si chiede dei mali
meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le
responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.
Non si deve pensare, come fanno certi
signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico,
quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della
‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.
Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di
manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato
sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più
rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.
Al potere politico interessava soltanto
fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei
feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare
il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre),
con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.
Ancora poco nel Sud, mi pare.
C.: Perché ci sono
state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene
di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al
secondo sipario, il sipario del malaffare.
Io spero che vengano
coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa,
perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.
C.: C’è ora nella
gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche
vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è
un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a
Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente
importanti.
Questo è un momento molto, molto delicato,
per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.
Delicato, ma, lei dice, di speranza.
C.: Di speranza, sì. È un momento di passaggio,
dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di
togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del
delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella
gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e
c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era
ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano
referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle
elezioni politiche il risultato era un altro.
Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe
di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.
C.: Sì. È saltato
anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.
Poi, al Nord, è venuta fuori anche la
Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del
resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti
in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.
Io queste forme, queste rivendicazioni
locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento
Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che
cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.
Quando, dopo tutti i disastri
democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord
un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra
che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono
un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono
visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle
scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme
perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano
questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di
aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come
quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha
cancellato il dialetto. Questo
rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso
«politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto
dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del
potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far
capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato)
al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla
incomunicabilità totali.
(Il dialetto si può scandagliare in
letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il
linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).
Ora, queste considerazioni, secondo me,
sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia.
L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie! Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le
hanno degenerate, questo è un altro discorso.
Queste forme regressive sono le «vandee»
di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri
Siciliani. Vespro Siciliano che, sulla
scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo
e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava
i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.
Il problema degli intellettuali in Italia è un triste
problema, mi pare.
C.: È un triste
problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese,
è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui
l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre
successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e
che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere
coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del
principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole
essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.
È successo sempre, fino a Pasolini, a
Sciascia e altri.
Tanti altri no.
C.: Durante il
fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in
tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese,
che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare
in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto
in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.
Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua
posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli
avvenimenti?
C.: No, guardi,
quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto
legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un
mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra
memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo
industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto. E quindi sopperivo a questa afasia letteraria
facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il
tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche
molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre
Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.
Poi ho capito che per tornare a scrivere e
raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma
almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale.
E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una
necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il
presente.
Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?
C.: A parte Gadda,
Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che
mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione
linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice
toscano.
La sua conversione è avvenuta proprio a
Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872
venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti
romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione
industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni
ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i
primi conflitti.
A Lodi si faceva un giornale
che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte,
c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle
masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il
Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.
Verga subì una sorta di spaesamento e da
questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella
di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e
intatta». Era una Sicilia un poco
cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo,
quella della irredimibilità del destino umano.
Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.
Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori. La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.
La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…
C.: Ci sono due
forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia,
compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è
un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo
risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina
proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire
fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere
anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).
E quindi l’assunto dal quale io sono
partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo
sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia
creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.
Oppure per la disgregazione della ragione,
dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di
questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come
personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di
Annunciazione.
L’ambizione mia è stata di dare una
struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo
ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda. Il mio romanzo parte dall’assunto
dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la
storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura
insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè
quello storiografico e quello letterario.
Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può
aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.
C.: Sì. Vorrei
dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente.
Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi
interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del
Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si
scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci
ha insegnato il Manzoni.
Altrimenti diventano storie romanzate e
allora si possono prendere infinite storie.
Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In
questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero
d’archivio, di lettura documentale?
C.: Ma i romanzi
storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla
lezione manzoniana. Il suo Consiglio
d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura
della Colonna Infame: niente di più
attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne,
della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento
perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica
per poter raccontare l’Ottocento.
Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter
raccontare…
C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia,
altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo,
della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di
tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.
Quello di Manzoni e di Sciascia è
chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un
assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso
anche di classe.
E di speranza nella storia.
C.: Di speranza
nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli
strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia,
l’utopia da cui parto io.
E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo
introduttivo alla relazione sui fatti…
C.: Sì. Il libro
parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella
sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi
sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico,
entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo
di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un
personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.
C’è un po’ di autobiografia in questo?
C.: Io sono
tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel
libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale
di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare
anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere
un romanzo storico.
Nottetempo, casa per casa è
ambientato invece negli anni Venti.
C.: Questo libro
l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di
tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica.
Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in
prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man
mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.
Certo ci sono anche dei capitoli di
sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di
connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è
la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa
perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa,
quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il
dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io
non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita,
che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore,
e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli
uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico,
con lo stare civilmente assieme.
Se, però, questo non avviene, allora
abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e
l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a
Marano. Ci sono tanti significati,
insomma. Il nome Marano viene da «marrano».
«Marrani» in Sicilia, come in
Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare
alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per
non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria
di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola
di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri
grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo
cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e
il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio
da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e
rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo
cambio di classe, a questa negazione all’amore.
E il senso, e qui è metaforico, il senso è
che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di
classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e
siamo diventati «massa».
E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo
perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa
forma di follia, di alienazione.
Questo voleva essere, non so se ci sono
riuscito…
Il ragazzo Marano è un piccolo
intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare,
aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era
impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova
anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba
ed è costretto a scappare, ad andare via.
L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva
sofferto, che aveva visto.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza
marxiana nella storia è ancora in vita?
C.: C’è stato il
crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci
eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa
grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.
Non c’è ancora un lume di speranza.
Le uniche cose che vedo, di
questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà
spontanea, come il volontariato dei giovani…
E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio,
che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.
Queste sono cose che veramente mi lasciano
sperare molto, però il ceto politico…
A cura di Lia De Pra Cavalleri Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994