Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).

Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale

di Massimo Onofri

Non saprei davvero che cosa attendermi, quanto allo studio delle nostre vicende letterarie, da quello che Machiavelli chiamava il «benefizio del tempo». La variante più ottimistica della teoria della ricezione su quel «benefizio» pare confidare molto: rileggetevi quel che scrive Hans Robert Jauss a proposito di due libri, apparsi a stampa lo stesso anno, entrambi incentrati sul tema dell’adulterio, come Fanny di Feydou e Madame Bovary di Flaubert. Secondo lo studioso, se il capolavoro di Flaubert fece fatica ad affermarsi per riuscire a creare poi un nuovo orizzonte d’attesa che l’avrebbe posto al centro del canone romanzesco moderno, il libro di Feydou, nonostante l’immediato e clamoroso successo, venne presto dimenticato, tanto che, se oggi ancora lo ricordiamo, lo facciamo per contestualizzare meglio l’opera flaubertiana. Ma le cose non sono così semplici: se persino La Divina Commedia, in non pochi momenti della sua lunghissima avventura ermeneutica, è stata violentemente espulsa dal canone. Prendiamo l’anno di grazia 1963. Se stiamo ai manuali scolastici d’uso corrente, quella resta ancora la data cui consegnare il Gruppo ’63, gli irresistibili fasti della neoavanguardia, magari in gloria d’una storia della letteratura ridotta a quella degli istituti linguistici. Se ci riportiamo invece alla generazione di critici cui appartengo, e dentro il cantiere aperto d’un giudizio storico in via di ridefinizione, non v’è dubbio che il 1963 sarà l’anno in cui, subito dopo Memoriale (1962) di Paolo Volponi, sono apparsi Nel magma di Mario Luzi, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, Libera nos a malo di Luigi Meneghello, i racconti di Un caso di coscienza di Angelo Fiore, e, appunto, La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo. Per dire di libri tutti sicuramente inclinabili su un versante di notevole sperimentazione linguistica, ma nella precisa consapevolezza che il problema del linguaggio non potrà mai esaurire, in sé stesso, quello assai più complesso della verità letteraria. Ecco perché non credo che si faccia giustizia a Consolo quando lo si intruppa tra i nipotini di Gadda. Lo dico chiaro: quando tramonterà uno dei più eclatanti dogmi della teoria letteraria novecentesca, quello secondo cui la letteratura, parlando del mondo, non farebbe altro che continuare a parlare soltanto ed esclusivamente di sé stessa (il dogma che ha messo capo all’altrettanto tenace mito dell’intertestualità), tramonterà con quel dogma, inevitabilmente, anche la fama di molti atleti dello stile oggi celebratissimi, i cui libri sembrano confezionati a bella posta per confermare le teorie di critici allevati a batterie dentro falansteri, ove la religione di Jakobson è stata al massimo sostituita dal culto di Bachtin. Sicché: si parli pure di Consolo, magari sotto la stella del grande Contini, come del notevolissimo «romanziere plurivoco e pasticheur», si distingua anche, come fa legittimamente Cesare Segre, tra «plurilinguismo» e «plurivocità», ma senza mai dimenticare che un’analisi linguistica, anche la più strenua e raffinata, dell’intero corpus di questo vitalissimo e sorprendente scrittore non potrà non arrestarsi ai soli preliminari. Consolo, in effetti, se non è un realista, è uno scrittore della realtà: uno scrittore preoccupato del mondo e delle verità che sul mondo possiamo pronunciare, ma anche dell’eventuale retorica della sua manutenzione, intendo la manutenzione del mondo, quella che possiamo identificare con il termine “ideologia”, una parola oggi tabuizzata, che però non lo spaventa affatto, semmai lo provoca, come dimostra in modo assai eloquente l’ultimo suo libro importante, Di qua dal faro (1999). Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile. Lo sappiamo tutti: Consolo discende prima di tutto da Vittorini, per quella forte tensione in direzione d’una parola-giustizia che resti agonistica, sganciata da ogni facile comunicazione e prossima agli ardui approdi della poesia. Eppure, lo spazio letterario entro cui s’accampa, come scrittore, conosce due grandi poli di tensione: Sciascia e Piccolo. Sciascia: e cioè una deontologia della ragione, una ragione prismaticamente capace di rifrangere tutte le ambiguità della Storia e della Vita. Piccolo: ovvero un’insopprimibile vocazione al canto, ed un rapporto con la verità che possa essere guadagnato attraverso le ragioni della poesia. Se ho parlato insomma di disposizione alla politica, dovrò dunque aggiungere che tale disposizione passa inevitabilmente per la singolare alleanza tra razionalità e prosodia. Non vorrei dimenticare, mentre lo sto impiegando, ciò che il sostantivo “politica”, unitamente a quello di “impegno”, ha significato nella storia di questo martoriato Paese: a cominciare dalla celeberrima polemica tra Vittorini e Togliatti. Sicché non credo sarà inutile un veloce chiarimento preliminare. E allora: in che senso cultura e politica, letteratura ed ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a sé stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria? Non ho dubbi in proposito: la grandezza (e la tenuta storica) di certi romanzi non potrebbe avere altro fondamento che politico, di una politicità che, per essere più rigorosi, chiamerei trascendentale: ad indicare semplicemente una delle precondizioni attraverso cui la letteratura sperimenta i suoi peculiari modi d’accesso alla conoscenza del mondo. Prendete I vecchi e i giovani di Pirandello, che è stato quasi sempre liquidato come un prodotto epigonale del naturalismo: si tratta invece d’uno straordinario romanzo politico, sull’Italia e sugli italiani, sul Risorgimento ed il sicilianismo, come Croce aveva capito subito, anche se per sospingerlo al di fuori delle siderali regioni della poesia. Dirò di più: talvolta quello ideologico e politico può risultare addirittura come l’unico criterio possibile per sanzionare la debolezza o la forza d’un testo, per misurne la sua peculiare qualità gnoseologica. Mi spiego: nessuno potrebbe dubitare dell’alta fattura linguistica d’un libro come Figurine di Faldella, soprattutto dopo che Contini, da par suo, ne ha garantito l’importanza all’interno del suo canone espressionistico. Ma quando si passa da un approccio formalistico ad uno storico-ideologico, dal dogma dell’autonomia del significante (con la conseguente svalutazione della referenza della letteratura) alla fede in una letteratura dialetticamente aperta alla società, la pochezza e l’inanità di un’opera come Figurine appare in tutta la sua evidenza: affollata com’è di bravi giovanotti dell’industrioso nord che si sposano la figlia del padrone, facili sostenitori delle sorti magnifiche e progressive del Paese, stucchevolmente ottimisti e, come si direbbe oggi, politicamente corretti. Un’opera conformistica e persino apologetica Figurine, che, se rapportata ad un romanzo di grande lucidità e ferocia politica come I Viceré di De Roberto, rischierebbe addirittura di scomparire. Proprio quel De Roberto, si badi, cui il sommo stilista Contini è stato del tutto sordo. Bisogna invece affermare che Consolo è stato uno dei pochi intellettuali italiani ad avere avvertito l’importanza di questa specialissima modalità del romanzo, nella convinzione che ciò non implicasse alcuna deroga dalle fondamentali funzioni della scrittura letteraria. In questo senso, certe sue dichiarazioni sono molto chiare, come quando, in conclusione del libro-intervista Fuga dall’Etna (1993), afferma: «Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico -anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no-, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo». Si tratta di parole perentorie dov’è ribadita, non senza implicazioni latamente marxiste, l’attitudine critica e demistificatrice del genere romanzesco -attitudine, lo sottolineo, potenziata, se non addirittura realizzata, attraverso una radicale disposizione metaforica (e, dunque, supremamente connotativa) della scrittura- proprio negli anni in cui il ritorno al mito, al suo potere incantatorio, quando non alcinesco, stava già trapassando dall’antropologia culturale alla letteratura. Il fatto più interessante è che questa rivendicazione del carattere ideologico della propria scrittura creativa passi attraverso una decisa presa di distanza da un altro e pernicioso mito, quello, appunto, dell’intellettuale engagé. Si veda quella fondamentale pagina di Nottetempo, casa per casa in cui il protagonista Petro Marano, personaggio vicario dello stesso Consolo, ormai esule della storia e della vita, si lascia alle spalle un’idea della rivoluzione quale quella propugnata dall’anarchico Paolo Schicchi, gettando in mare il libro del poeta Rapisardi, che lo stesso Schicchi gli aveva affidato come invito alla lotta e come viatico: «Cominciava il giorno, il primo per Petro in Tunisia. Si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare. Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore». Lasciamo stare quel che effettivamente potrebbe risultare da una lettura ravvicinata dei versi di Rapisardi: qualche pagina imprescindibile, e non certo a discredito del vate siciliano, ce l’ha già data un giovanissimo Luigi Baldacci nei due volumi ricciardiani dei Poeti minori dell’Ottocento (1958-1963). In Nottetempo, in effetti, Rapisardi non vale tanto in sé, e nella sua concreta vicenda umana, quanto come idolo polemico, nei modi d’un topos già codificato, nella storia della letteratura siciliana, da un sarcastico e brillante Brancati il quale, appunto, aveva opposto al facondo poeta catanese gli strenui silenzi e la severa moralità di Verga. Un idolo polemico, s’è detto e lo si sottolinea: a ricapitolare in sé tutti i tratti d’una poesia civile e politica per così dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione. Siamo dunque ad un primo risultato importante: Consolo è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. Se le cose stanno così, ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si giuoca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti: secondo modalità che si dispongono, come s’accennava già, sul livello della connotazione. Non è davvero un caso se Petro Marano, una volta gettato in mare il libro di Rapisardi, si volge al suo privatissimo quaderno, quello su cui ha appuntato idee e sentimenti, sogni ed utopie, maturandoli nel segno d’una tradizione che da Dante conduce a Leopardi. Né mi pare casuale che la sua scommessa di scrittore, quella propriamente politica appunto -ma d’una politica che dovrà involgere tutta intera l’esistenza-, consisterà nell’allestimento d’un «racconto», dove, insieme alle parole, conteranno soprattutto «il tono, la cadenza». Risulterà chiaro, adesso, che cosa s’intendesse quando s’è parlato di quel miracoloso fatto per cui, sulla pagina, la politica venga effettivamente esercitata attraverso un’oltranza di stile, e non mediante uno scandalo dei contenuti: ragione, questa, che approssima Consolo, prima ancora che a qualche romanziere (ma si potrebbe fare il nome dell’altrettanto politico Volponi), ad un poeta civilissimo, seppur dissimulato nelle sue fibrillazioni d’eremita della lingua, come Andrea Zanzotto, l’unico che, guarda caso, Giocchino Martinez, l’alter ego di Consolo dello Spasimo di Palermo (1998), invidi tra i letterati suoi contemporanei: un poeta appunto, non un romanziere. Ho detto Zanzotto: per dire d’un poeta di precisa e strenua consapevolezza ideologica, di un’ideologia che si esplicita nel linguaggio, e abituto a lavorare sull’ideologia per alchimie sintattiche, fermentazione lessicale, combustioni prosodiche. Ma le alchimie della sintassi, la fermentazione del lessico, la sovraeccitazione prosodica, dentro una più complessa «metrica della memoria», non rappresentano le stesse strategie cui ricorre il narratore Consolo, senza più compromessi, nel segno di un singolare estremismo della verità? Strategie che sono state poi il suo speciale modo di constatare il fatto che, quanto alla scrittura, il problema del come scrivere va ad inglobare inevitabilmente ed a riscaldare, a temperature quasi insostenibili, quello del che cosa scrivere, per una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza. Ma torniamo al personaggio Martinez, che pare avere esattissima percezione dei termini del problema. Si veda quanto scrive al figlio, esule a Parigi perché implicato in un’inchiesta sul terrorismo, ad avviare un processo di chiarificazione non più procrastinabile: «Rimaneva in me il bisogno della rivolta in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta -come avviene credo a chi è vocato a scrivere- il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli -confrères- più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale». Sia detto per inciso: è stato questo, dentro un’Italia che s’apprestava a decomporsi nelle sue istituzioni, a liquefarsi in magma, il grande assillo degli ultimi anni di Pasolini, il quale s’era attrezzato lucidamente a fronteggiare l’informe e l’irreale per restituirci il suo romanzo più irrealistico ed informale, il suo capolavoro, il postumo Petrolio. Quel Pasolini, si badi, che, già a partire dagli anni Sessanta, aveva teorizzato l’assoluta omologia tra le trasformazioni della lingua italiana ed i processi di ricomposizione neocapitalistica della società. Ma torniamo a Petro Marano, al suo proposito di trovare le parole, il tono, la cadenza per un racconto che avrebbe dovuto sciogliergli il grumo di dolore che si sentiva dentro. Si tratta d’un impegno di canto che da Marano passerà a Martinez, ma dentro un diverso e forse più degradato contesto storico: gli anni pseudodemocratici dell’attentato al giudice Borsellino che si sono sostituiti a quelli dell’incipiente fascismo, pur se sempre contemplati dalla specola siciliana. Martinez -la moglie morta dentro il precipizio della follia, il figlio ricercato dalla polizia- è tornato da Milano a Palermo, ripercorrendo a ritroso il viaggio che è stato dello stesso Consolo: ma si tratta di due città ormai omologate nell’orrore, che patiscono una medesima catastrofe civile. A differenza di Marano, che vive un clima culturale il cui massimo problema è D’Annunzio, Martinez ha alle spalle gli estenuati dibattiti sulla morte del romanzo degli anni Sessanta ed è approdato ad un’assoluta mancanza di fiducia nei confronti d’una lingua comunicativa, razionale e consequenziale, quella di venerati maestri su cui pure s’’è formato come Sciascia e Calvino, che ora rischiano di apparirgli, come abbiamo visto, «complici involontari» dell’apocalisse civile. Martinez aspira ad una parola ieratica e percussiva, che sia all’altezza della tragedia edipica, d’un edipo sociale e personale, che gli è toccato vivere: è assillato, per così dire, dall’utopia di un’antilingua, quella di chi ha letto tutti i libri di Foucault, sapendo bene che proprio il linguaggio, la retorica del discorso, sono i luoghi privilegiati entro cui si costituisce la sintassi del Potere, ecco perché quell’antilingua dovrà valere come il suo contropotere. Ma è incalzato, se non tentato, dal rischio dell’afasia. Vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco, quello di chi troppo facilmente sovrappone all’autore Consolo il personaggio Martinez: ravvisando nell’esito dell’afasia un approdo di tipo esistenziale. Non sono certo un fanatico d’un altro mito novecentesco, quello dell’autonomia del significante e della morte dell’autore, rivendico anzi l’importanza delle biografie intellettuali e dello studio delle poetiche: ma ritengo che la distinzione proustiana tra l’«io che vive» e l’«io che scrive» rappresenti un punto di non ritorno nel dibattito teorico sulla letteratura. So altrettanto bene che questo grande tema dell’afasia ci potrebbe condurre ad un’altra ineludibile questione: quella che mette in campo una riflessione di tipo metaletterario sull’irreversibile crisi del romanzo. Una questione che implica la distinzione, in Consolo, tra scrivere e narrare, su cui Giuseppe Traina ha scritto qualche pagina risolutiva nella sua monografia pubblicata per Cadmo nel 2001. A noi interessa qui il Consolo scrittore politico e sperimentale: l’afasia cui ci si riferisce non ha né una valenza psicologica, né estetica, ma solo storica ed antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro. Ancora una precisazione, in conclusione di queste mie considerazioni solo preliminari: Attraverso tre opere strettamente connesse, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Nottetempo, casa per casa, Lo Spasimo di Palermo, Consolo, in linea con una tradizione che comincia con la Sicilia della nuova Italia, ha tracciato tre capitoli di un’incandescente autobiografia della nazione, dal Risorgimento alla nostra contemporaneità. Entro tale quadro, l’afasia di Martinez pare l’unica via d’uscita possibile d’una scrittura politica che ha registrato, al suo massimo grado, l’astrazione e la stereotipizzazione dei linguaggi a fronte della combustione della realtà, d’una realtà che registra ormai il suo più alto livello di depauperizzazione della vita a contrasto d’una sempre più invadente virtualità. Non so quali alternative abbia ancora la letteratura nell’epoca della falsificazione e dell’implosione dei significati: Consolo se n’è trovata una e l’ha percorsa a rischio della consunzione. Proprio per questo resta uno dei pochi scrittori, in Italia, ancora all’altezza delle domande che i nostri tempi impongono.

Foto di Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo: Le pietre di Pantalica

*

Di cose terribili e di perdite senza rimedio, o di riappropriazioni quasi miracolose, Vincenzo Consolo parla nel suo recente libro Le pietre di Pantalica, ma il senso generale che ne emana è quello di una strana, confidente dolcezza, di un respiro che permane giustamente ritmato, “sano”.

     Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati, da cui direttamente cresce la vitalità più intima dello “scrivente”, prima ancora che dello scrittore.

L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare; è incerto su quanto vi si può inserire, troppe altre cose premerebbero intorno, le voci degli altri si confondono con la sua stessa, in una continua (e seducente)  metamorfosi, “suggeriscono” da chissà che anfratti del tempo e dello spazio, pur sempre inesorabilmente caratterizzato e delimitato come siciliano. Ma non è questo un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano di una passione e di un’aura; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’ oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto.

     Ed è il permanere di una giustizia-fiducia insite nel fatto stesso dello scrivere, che colma, fa spazio e fa riapparire radici. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, tende a porsi quale parte del “libro” inconsumabile di un albero di tutti gli autentici viventi.  E invano qui si cercherebbero progetti di fuga dal vero nel surreale programmato, o in ingegnose e angosciose analisi destinate a bruciare, per la loro inutilità, i cervelli che le hanno generate, o in labirinti dei quali si sa e risà tutto, o nei referti antropologici “in quanto tali”, su una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia.

     Nemmeno è in primo piano qui il problema del linguaggio, delle sue tecniche, riguardo ai quali temi Consolo ha già dato prove della più acuta consapevolezza. Il linguaggio/lingua è quello che è, se ne può inventare uno ad ogni svolta di strada: ma, se si sta in questa sommessa assolutezza, è incessante e lieve litania nella quale le pulsioni espressive, i  soprassalti del dire, lessico o sintassi, non sono poi così importanti da dover costituire un’ansia, un corruccio pagati per una conquista. Gli spostamenti si verificano tempestivi e i passi s’infittiscono o cedono ad un trasognato riposo; così come il narrante, “io” o no che sia, e con i suoi diversi strati di esperienza (siciliana, ma pure milanese), entra ed esce dai personaggi o dai paesaggi, o dalle stratigrafie e dalle singolarità, sfiorando con noncuranza preteriti trattati, appunto, di narratologia.

     Si ritrovano allora temi quasi obbligatori della narrativa siciliana, dall’arrivo degli americani, alle già preistoriche occupazioni delle terre, fino alla grandiosa rēverie in cui si intrecciano, nella mancata identificazione della tomba di Eschilo, il più sottile pathos mistico e una quasi rabelaisiana, brutale comicità; mentre passano, entrati in una loro leggenda, personaggi “eponimi” come Leonardo Sciascia, o l’umile e amoroso antropologo Antonino Uccello, o il gran cantastorie Ignazio Buttitta, o, caro sopra tutti, Lucio Piccolo, lo straordinario poeta cugino del ben minore Lampedusa.  E come in Verga (o Vittorini), sempre all’orizzonte, compiono la loro bellissima parte quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. Altrettanto trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore di memoria, o perfino di necessario vuoto di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

     Ma il momento più alto del libro è quello in cui il bambino malato, in villeggiatura su verso i monti, incontra la selvatica fatina Amalia, una ragazzina che lo porta dietro porci e capre al pascolo nel bosco e rivela, anzi inventa, i nomi di ogni cosa in una sua lingua personale, “ma Amalia conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, illitterato con cui parlava alle bestie”, e poi tanti dialetti, e i nomi propri dei singoli animali. Varrebbe la pena di riportare tutto un campionario del fascinoso impero linguistico di Amalia: che sa essere anche dura con l’amico, che lo trascina a piedi scalzi per “zolle, sterpi, rovi, cespugli di spino agrifoglio ampelodesmo” e lo trasforma, iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto.

     Altrettanto sconvolgente, al punto opposto di tanta libertà ormai remota, è quello da cui si frana nell’oggi, in una Palermo che trasuda pus e disgregazione: “Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola”. E, in un incubo da Blade Runner, che pare proiettarsi sempre più dilatato dentro il futuro, la città appare come “febbre, schiuma velenosa di furia omicida, mentre ristagna su di essa un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo”.

     Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia sospeso il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, in cui si affacciano le violenze senza fine che vengono esercitate sul terzo mondo, sotto l’occhio di un giovane siciliano, marinaio per caso, che torna avvilito al paese. Ma non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere.

Andrea Zanzotto
“Scritti sulla letteratura “ pag.308
Aure e disincanti nel Novecento letterario.
Letteratura Oscar Saggi Mondadori
Ottobre 2001
nella Foto Andrea Zanzotto
04-scan_1_10ok-copia-copy

Vincenzo Consolo Catarsi



Ermetici suoni, versi bestiali o ululare
del vento fra picchi, gole o accordi
 d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio
 come il tuo di pietra, creatura mia,
solo questo è degno, la tua cruda assenza,
 la tua afasia, la tua divina inerzia.
Là, per il cammino impervio e fatale,
 per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa,
 pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero.
lo che sarò erba, fronda, uccello…
Io che sarò cenere.
 Il silenzio o solo la parola vergine
del folle o del poeta.
“ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia
il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,
 e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:
 gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti;
 perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai
per causa di uno solo
d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto.
 allá, theoi…
 ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén”
Dico queste parole d’una lingua morta,
di corpo incenerito, priva delle scorie
 putride dello scambio, dell’utile
come la lingua alta, irraggiungibile,
 come la lingua altra, oscura,
 della Pizia o la Sibilla
che dall’antro libera al vento mugghii, foglie,
come la formula introversa, transustanziante,
dell’unto attore, del sacrificante.
Voglio opporre così, da questo treppiede
del vulcano, in quest’ultimo momento,
all’ermetismo osceno e violento,
all’afasia del potere immondo,
 il sacro ermetismo d’una lingua scritta.
 Come s’oppose a me, vile Agamennone,
 il fiore più bello nato alla mia casa,
 la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!,
 volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo,
alla vittoria mia per il comando.
S’oppose, col suo volo d’angelo
 a capofitto, col terribile silenzio,
la ritrazione in un’oscura lontananza,
con l’apparente morte, la paraplegia inumana.
Lo voglio dire qua,
a parole chiare e nette,
 lo voglio dire alle pietre e al fuoco,
al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora
 che urge appresso: mia figlia Delia
così di me s’è giustamente vendicata.
 Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare,
 con il suo precipitare nell’assenza,
 vuoto alla mia espansiva tracotanza,
 alla mia cieca, corposa violenza?
Perché, o noi crudeli, è così:
 chi muore per suo volere o d’altri
 è la sacrificale vittima, l’agnello bianco
 sopra la dura pietra, sotto la lama
 della nostra sopravvivenza.
 Così ogni tempo, ogni società ha ucciso
 il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco
 d’un colpo di pistola; Federico
 tra gli ulivi e i cardi (splendeva,
 contro il nero dei fucili, dei colbacchi
 la sua camicia bianca, splendeva
 nella notte lo sciame nella lampada di lucciole);
 Pier Paolo tra l’immondizia e il fango
 d’un Getsemani, d’un desolato campo.
 Così le creature che in esilio vanno sulla luna,
che hanno rotto ogni legame
 col nostro linguaggio marcio e insensato.
Aaaaaah! Aaaaaaah!
 Pesano le nostre colpe sulle spalle
 come una plumbea Terra!
 […]
 Nell’età ferita e luminosa,
 fremente di lievito e di zagara,
 venni la prima volta a questo monte.
 Venni con la brigata d’allegria
 e di chiasso dei compagni,
 con il sorriso dolce di Pantea.
 Scendeva per la vallata
 il fiume rovinoso della lava,
 solenne piena di panico e d’incanto
 (torceva in un lamento, inceneriva
 la betulla, il cerro, il faggio,
 rovinava il muro a secco,
 la cisterna, la pergola,
 la casa tenera di rosa,
 giallo sopra quel mare nero.
 Torceva pel terrore il collo
e scalpitava il mulo,
 il cane si perdeva nei guaiti
 legato sotto il carro dei fuggenti).
Mi feci appresso a consolarla,
smarrita e tremula com’era
avanti allo spettacolo tremendo.
E avanti al fuoco, avvampando,
dissi del mio marasma, del mio fuoco.
Lei, dolce, si volse a consolarmi.
 Tutta una vita, Pantea amorosa,
 s’assume in un unico momento.
 La mia, in quell’antico,
 dolcissimo e solenne, di verità assoluta
 dentro la verità della natura
 Raccolsi e le offrii un verde
 tralcio di ginestra
 ch’ella conservò come segno
 e pegno d’un sacro giuramento.
 Pose quel ramo poi nella scatola
 di legno, bianco come avorio,
 scolpito da un pastore d’Eraclea,
che regalò, viatico e amuleto,
 a nostra figlia, a Delia,
nel giorno primo che diventò fanciulla
E ancora sul vulcano, davanti a te,
 Demetra sigillata dentro il manto,
madre e donna offesa,
incenerito e privo di poesia,
 sono questa volta in cerca
 d’un castigo, d’una quiete.
Dell’ultima verità, e indicibile.
 […]
 Alla luce viola dell’estremo raggio,
 alla luce spenta, voglio dire addio
 alle arpe senza suono, alle creature senza accento:
al fiore straziato, più che morto,
 al nardo, al gelsomino delicato
 reciso dalla mia, dalla furia del mondo;
alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore.
 Io pago la mia follia, la mia fuga
 da voi, dal sacro accordo, dall’armonia.
 Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto,
 che il deserto consola della vita,
 chiamatelo asfodelo, fiore della morte,
chiamatelo loto, fiore dell’oblio.
Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle
feroce, l’Empedocle sacrilego.
 L’odio di me, di questo tempo odioso
 mi separa da voi, da voi già separate.
 Io vado, Pantea, vado figlia mia,
nella notte d’assenza come la tua,
vado dove finisce questo monte,
dove finisce questa terra,
vado dove comincia il fuoco
ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa.
E questo il solo, il degno modo,
 mie perse figlie, di trovarvi.
 Di ritornare nel giardino vago,
 nella casa vostra di pietra e onore,
 alla serena mensa degli affetti.
 Addio.

Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.


foto Giovanni Giovannetti


Elogio della poesia
Intervista con Vincenzo Consolo


Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.

Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.

La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.

La concentrazione viene  dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.

 Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..

 Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.

Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?

È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.

Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?

Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.

 Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.

 È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.

L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?

Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.

 Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.

Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.

Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?

Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.

 Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?

lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.

a cura di Enzo Di Mauro

 Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).

Foto Giovanni Giovannetti