Vincenzo Consolo: Le pietre di Pantalica

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Di cose terribili e di perdite senza rimedio, o di riappropriazioni quasi miracolose, Vincenzo Consolo parla nel suo recente libro Le pietre di Pantalica, ma il senso generale che ne emana è quello di una strana, confidente dolcezza, di un respiro che permane giustamente ritmato, “sano”.

     Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati, da cui direttamente cresce la vitalità più intima dello “scrivente”, prima ancora che dello scrittore.

L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare; è incerto su quanto vi si può inserire, troppe altre cose premerebbero intorno, le voci degli altri si confondono con la sua stessa, in una continua (e seducente)  metamorfosi, “suggeriscono” da chissà che anfratti del tempo e dello spazio, pur sempre inesorabilmente caratterizzato e delimitato come siciliano. Ma non è questo un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano di una passione e di un’aura; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’ oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto.

     Ed è il permanere di una giustizia-fiducia insite nel fatto stesso dello scrivere, che colma, fa spazio e fa riapparire radici. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, tende a porsi quale parte del “libro” inconsumabile di un albero di tutti gli autentici viventi.  E invano qui si cercherebbero progetti di fuga dal vero nel surreale programmato, o in ingegnose e angosciose analisi destinate a bruciare, per la loro inutilità, i cervelli che le hanno generate, o in labirinti dei quali si sa e risà tutto, o nei referti antropologici “in quanto tali”, su una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia.

     Nemmeno è in primo piano qui il problema del linguaggio, delle sue tecniche, riguardo ai quali temi Consolo ha già dato prove della più acuta consapevolezza. Il linguaggio/lingua è quello che è, se ne può inventare uno ad ogni svolta di strada: ma, se si sta in questa sommessa assolutezza, è incessante e lieve litania nella quale le pulsioni espressive, i  soprassalti del dire, lessico o sintassi, non sono poi così importanti da dover costituire un’ansia, un corruccio pagati per una conquista. Gli spostamenti si verificano tempestivi e i passi s’infittiscono o cedono ad un trasognato riposo; così come il narrante, “io” o no che sia, e con i suoi diversi strati di esperienza (siciliana, ma pure milanese), entra ed esce dai personaggi o dai paesaggi, o dalle stratigrafie e dalle singolarità, sfiorando con noncuranza preteriti trattati, appunto, di narratologia.

     Si ritrovano allora temi quasi obbligatori della narrativa siciliana, dall’arrivo degli americani, alle già preistoriche occupazioni delle terre, fino alla grandiosa rēverie in cui si intrecciano, nella mancata identificazione della tomba di Eschilo, il più sottile pathos mistico e una quasi rabelaisiana, brutale comicità; mentre passano, entrati in una loro leggenda, personaggi “eponimi” come Leonardo Sciascia, o l’umile e amoroso antropologo Antonino Uccello, o il gran cantastorie Ignazio Buttitta, o, caro sopra tutti, Lucio Piccolo, lo straordinario poeta cugino del ben minore Lampedusa.  E come in Verga (o Vittorini), sempre all’orizzonte, compiono la loro bellissima parte quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. Altrettanto trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore di memoria, o perfino di necessario vuoto di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

     Ma il momento più alto del libro è quello in cui il bambino malato, in villeggiatura su verso i monti, incontra la selvatica fatina Amalia, una ragazzina che lo porta dietro porci e capre al pascolo nel bosco e rivela, anzi inventa, i nomi di ogni cosa in una sua lingua personale, “ma Amalia conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, illitterato con cui parlava alle bestie”, e poi tanti dialetti, e i nomi propri dei singoli animali. Varrebbe la pena di riportare tutto un campionario del fascinoso impero linguistico di Amalia: che sa essere anche dura con l’amico, che lo trascina a piedi scalzi per “zolle, sterpi, rovi, cespugli di spino agrifoglio ampelodesmo” e lo trasforma, iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto.

     Altrettanto sconvolgente, al punto opposto di tanta libertà ormai remota, è quello da cui si frana nell’oggi, in una Palermo che trasuda pus e disgregazione: “Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola”. E, in un incubo da Blade Runner, che pare proiettarsi sempre più dilatato dentro il futuro, la città appare come “febbre, schiuma velenosa di furia omicida, mentre ristagna su di essa un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo”.

     Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia sospeso il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, in cui si affacciano le violenze senza fine che vengono esercitate sul terzo mondo, sotto l’occhio di un giovane siciliano, marinaio per caso, che torna avvilito al paese. Ma non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere.

Andrea Zanzotto
“Scritti sulla letteratura “ pag.308
Aure e disincanti nel Novecento letterario.
Letteratura Oscar Saggi Mondadori
Ottobre 2001
nella Foto Andrea Zanzotto
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