Giuliana Adamo
L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67
The Italianist (2012)
La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo
Intrecci mediterranei.
La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo
di Massimo Lollini
Cosa in comune quest’isola di culto, questo giardino, i suoi astanti, cosa l’ affabile algerino, tu coi cristiani di Bosnia, Sarajevo, i mercenari d’ogni Africa, i trafficanti d’armamenti, i boia d’ogni scarica e veleno, i Mafiosi del potere? Nel bronzo, si, e la crepa, il varco in ogni sacro testo, ogni decalogo, codice latino o d’altra lingua, dentro te, ognuno in questo tempo feroce e allucinato. (Lo spasimo di Palermo 41-42) Il mare, l’infinito e la guerra Concludendo un’importante riflessione sull’eredita mediterranea nella cultura europealo storico Georges Duby osservava un ventennio fa che “da circa un secolo il Mediterraneo offre a chi lo scruta, agli avamposti della speranza, un volto di violenza” (Duby 282). In realta questo volto violento richiama alla memoria storica la “parte piu tenebrosa” dell’eredita del classicismo greco-romano presente fin nelle origini della civilta mediterranea. Nella ricostruzione dei momenti fondamentali di questa civilta lo stesso Fernand Braudel ha sottolineato il carattere decisivo dei “conflitti tra civilta” da quelli brevi (Maratona, Lepanto) a quelli lunghi, come le tre guerre puniche o le crociate. Secondo Braudel questi conflitti mettono bene in evidenza “quali urti sordi, violenti e reiterati si scambino quegli animali possenti che sono le civilta”; e come le civilta siano “intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra che le divora quasi per meta” (Braudel, “La Storia” 110-11). Tuttavia le civilta non sono solo questo odio fabbricato e nutrito per l’altro. Esse rappresentano anche l'”eredita dell’intelligenza” l’accumulo dei beni culturali, sacrificio. Questi due elementi, quello “distruttivo” e quello “costruttivo,” appaiono strettamente intrecciati e appare quanto mai arduo e problematico il tentativo di separarli quasi fossero realta distinte ed autonome, come talora sembra proporre lo storico Braudel. La ricerca sul ruolo del Mediterraneo nella formazione dell’immaginario letterario europeo deve cogliere questo aspetto, se non vuole assecondare la marea montante di parole che puntano a derealizzare l’esistente e a costruire un mondo puramente ideologico che finisce per cancellare ogni consapevolezza della realta in cui si vive. Il saggio prende avvio da una riflessione sul nesso che si stabilisce nella cultura greca da una parte trail mare e l’orientamento verso l’infinito, e dall’altra trail mare e la guerra. Le due nozioni, quella di una ricerca intellettuale infinita e quella della guerra come esito inevitabile dell’attraversamento del mare, trovano un modello esemplare nella figura dell’Ulisse omerico, che i greci hanno lasciato in eredita alle letterature europee dall’antichita fino ai nostri giorni. L’esperienza della guerra di Troia ha segnato Ulisse in maniera profonda, rendendolo capace di un senso di pietas per il dolore proprio e altrui inconcepibile nel contesto dell’Iliade che rimane il “poema della forza” come ha scritto Simone Weil. L’episodio di Odisseo nella reggia feacia che piange sentendo il canto di Demodoco (da lui stesso richiesto) dove si racconta l’inganno del cavallo di Troia, e senza dubbio rivelativo di un profondo mutamento dell’eroe nel passaggio dal primo al secondo poema omerico (Odissea, libro VIII). Ma e la catabasi raccontata nel canto XI che rende manifesto in maniera inequivocabile il cambiamento rispetto al codice dell’eroismo al centro dell’Iliade. L’episodio piu potente rimane l’incontro con l’anima di Achille che preferirebbe essere un servo di una padrone povero piuttosto che essere morto. Emerge qui con forza la novita piu profonda dell’Odissea, il riconoscimento del dolore della propria morte e la scoperta della privazione dell’identita che essa comporta. La discesa di Odisseo nell’Ade rimane centrale nell’economia del racconto omerico cosi come si articola nei due poemi. Odisseo desidera ardentemente incontrare non solo Tiresia per conoscere il proprio destino, ma anche le anime di molti defunti per interrogarle sulle modalith e il senso della morte. In essi Odisseo trova una sapienza che e estranea ai vivi, la consapevolezza profonda del dolore che pervade la vitae il limite invalicabile rappresentato dalla morte. Altri momenti significativi del viaggio di Odisseo nell’Ade sono l’incontro con l’anima del compagno Elpenore e quello con la madre piangente. L’anima di Elpenore e la prima che si fa incontro ad Odisseo e lo implora di seppellire e compiangere il suo corpo rimasto in casa di Circe senza sepoltura. La dimensione del compianto e del lamento funebre per la morte dell’altro e al centro anche dell’incontro con l’ombra della madre. Il figlio vivo si trova qui unito alia madre morta nel comune desiderio di dare espressione al proprio dolore e al proprio pianto. Il viaggio nell’Ade e il lamento funebre sono importanti per Odisseo e la cultura greca e mediterranea almeno nella stessa misura del viaggio in mare. (4) Il viaggio in mare rappresenta cio che si teme piu profondamente, l’esposizione al pericolo infinito e incondizionato, la paura di una morte negli abissi marini senza sepoltura umana. Il viaggio nell’Ade e la sepoltura rappresentano la riconciliazione con gli esseri umani e divini, il conforto rappresentato dal lamento funebre che aiuta a vivere e a dare un senso sia pure straziante alla morte. Ma anche se tu tornassi se le distanze si accorciassero e la guida fiammeggiasse nel tuo sembiante tragico o nel tuo terrore intimo, sempre per me tu saresti la storia della partenza per sempre tu saresti in una terra senza promessa in una terra senza ritorno. Anche se tu tornassi, Ulisse. (Adonis Poesie) Questi versi, letti insieme a quelli di un’altra poesia di Adonis, L’erranza, bastano da soli a far comprendere come la condizione dell’esilio e dell’erranza siano una condizione irreversibile nella cultura mediterranea moderna sia nel mondo cristiano che in quello arabo. I versi di Adonis sono veramente significativi, soprattutto se letti insieme alle sue dichiarazioni di poetica (5): L’erranza, l’erranza L’erranza ci salva e guida i nostri passi L’erranza e chiarezza E il resto e solamente maschera L’erranza ci lega a tutto quello che e altro Ai nostri sogni imprime il volo dei mari E l’erranza e attesa. (Adonis Poesie) Nel verso “L’erranza ci lega a tutto quello che e altro” e contenuto il senso profondo della condizione dell’Odisseo moderno cosi come si manifesta nella tradizione mediterranea araba e cristiana, con molti punti in contatto con analoghe concezioni ebraiche che pure non si riferiscono al mito di Ulisse ma a quello di Abramo. Si tratta di una condizione di continuo esilio che rifiuta ogni certezza in nome di un apprezzamento intrinseco di tutto cio che e altro. Pur comprendendola Dante condanna la ricerca intellettuale di Ulisse dal momento che non e illuminata dalla luce divina. Per questo il viaggio di Ulisse rimane un “folle volo” che mantiene comunque qualcosa in comune con qualunque aspirazione alla conoscenza autentica e creativa, come sapeva bene Dante e come sanno gli scrittori moderni e contemporanei che sono venuti dopo di lui. Vincenzo Consolo dedica un capitolo de L’olivo e l’olivastro (1994) alla riscrittura del viaggio di Odisseo che viene presentato come metafora dell’esperienza del viaggio dello scrittore siciliano attraverso la sua isola e, piu in generale, come figura dell’uomo moderno e dello sradicamento esistenziale e storico provocato dalla civilta tecnologica da lui creata. Dopo la risoluzione del conflitto Ulisse si trova di nuovo immerso nella vastita del mare. Il suo viaggio questa volta procede in verticale e si presenta come “una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo” (19). Il viaggio di Odisseo nasce dall’orrore della guerra e dal senso di colpa per le morti e le distruzioni, e il viaggio di un sopravissuto. (9) E un viaggio dal mare verso la terra, da Oriente ad Occidente, “dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura” (124) un viaggio al termine del quale non c’e la patria agognata, ma la condizione perenne dell’esilio. L’Itaca che trova l’Ulisse moderno non esiste pit perche e sottoposta ad una continua distruzione, del tutto simile a quella che esperimenta durante la guerra. Per questo, scrive Consolo, Ulisse comprende che Itaca coincide con Troia ed e costretto a ripartire, condannato ad una condizione di erranza. Nessun viaggio penitenziale o liberatorio appare possibile allo scrittore siciliano. Itaca la citta del mito non esiste pit; le citth della memoria e della letteratura appaiono sempre piu lontane. Siamo Iontani dal modello rappresentato da Conversazione in Sicilia di Vittorini che pure ha ispirato gli ultimi due romanzi di Consolo. Il romanzo di Vittorini poteva ancora contare sulla “conversazione” come mezzo per una rigenerazione spirituale e morale. Il ritorno di Silvestro in Sicilia serve proprio a questo e si nutre di un potente linguaggio lirico e simbolico che aiuta il protagonista a ritornare ormai deciso e maturo nella Milano del lavoro, dell’industria e della lotta politica per la costruzione di una nuova Itaca. La critica della cultura per Consolo non si nutre piu di alcuna utopia, mentre la posizione privilegiata della coscienza che valuta e giudica l’ordine delle cose appare sempre piu pervasa da domande inquietanti. Il paesaggio che ci descrive Consolo ha perduto la dimensione lirica e simbolica assumendo una sostanza allegorica in cui non si intravede una via di riscatto. E un paesaggio di rovine quello a cui approda l’Odisseo moderno. Un paesaggio in cui l’immagine di Itaca appare sbiadita al punto da scomparire. L’unica alternativa per lui sembra essere quella, gia indicata da Dante, del naufragio definitivo come conseguenza del “folle volo” di Ulisse. Si tratta di un’immagine drammatica, che Primo Levi ha fatto sua a conclusione del capitolo “Il canto di Ulisse” che non a caso ha un ruolo centrale in Se questo e un uomo. Per Consolo, come per Primo Levi (e Italo Calvino), la posizione etica delia scrittura consiste sempre piu in questa volonta di testimonianza che pone questioni fondamentali sul destino della civilta europea, e si esprime in domande radicali che coinvolgono il gesto stesso della scrittura, intesa come strumento fondamentale della cultura, della tecnologia e del sapere occidentale. Occorre allora chiedersi se la nozione di “esilio” su cui Consolo stesso ha insistito, sia la piu adeguata e dar conto dello spessore della sua ricerca intellettuale. Ritorneremo su questa importante questione nell’ultima parte del saggio. Le domande dello scriba menzogna l’intelligibile, la forma, o verita ulteriore? (Nottetempo 164) E questa la situazione in cui si muove anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998), Gioacchino Martinez, scrittore in crisi che si trova sempre piu perplesso e sgomento di fronte al gesto della scrittura: Aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso. (53) Questi ragionamenti sulla scrittura, piuttosto che ridursi a puro gesto autoriflessivo e solipsistico, rappresentano la linfa profonda che collega la riflessione di Consolo nella trilogia romanzesca rappresentata dal Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo. Come accade in Primo Levi, Italo Calvino e nei maggiori scrittori del Novecento, Consolo inserisce nell’orizzonte della scrittura letteraria la presenza di un soggetto filosofico che riflette sulla propria attivita, nel tentativo di comprenderne l’orizzonte e il senso. Accade cosi chela domanda sulla possibilita del racconto e della scrittura e la parallela aspirazione a dare una testimonianza vera dei processi storici possono trovare espressione non tanto nella dissoluzione della forma e della soggettivith, ma nel “vuoto della forma” e nella decisione in base alia quale il soggetto filosofico trova nella contingenza della propria vita il proprio modo di abitare la verith (Lollini). Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturi dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava tornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava in moil ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (I: 226; mia l’enfasi) In maniera significativa la stessa metafora ritorna alia fine, nell’ultima pagina del libro in cui si spiega perche il viaggio di ritorno non e stato ne poteva essere un viaggio liberatorio: … non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. E un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’ angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade o si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone e l’angoscia si fa piu intensa e piu precisa. Tutto e ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o l’inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. (I: 395; mia l’enfasi) Alla fine del lungo e avventuroso cammino che, come buona parte della narrativa di viaggio ha come modello appunto l’Odissea di Omero, Levi deve constatare di non essere riuscito ad allontanarsi dal Campo e che anche nella sua Itaca la memoria del Lager ritorna ossessiva e implacabile: Testimonianza e alterita Non riconosci la terra da cui eri partito. Chi sia, domandano, il reduce avvolto nella nebbia, nascosto dietro la vizza maschera del viso, privo di doni, di bottino. (Lo spasimo di Palermo 101) Le vicende storiche piu recenti, dalla guerra nella ex-Jugoslavia agli attuali conflitti in Afghanistan e Iraq, non fanno che confermare le tendenze remote della storia Europea nell’era della globalizzazione. L’attraversamento del mare finisce per dar luogo anche oggi al conflitto armato e alla fondazione di un ordine mondiale fondato sulla forza e sul mancato riconoscimento dei valori positivi insiti nella diversith culturale. E significativo che l’operazione bellica che ha portato all’ulteriore distruzione dell’Afghanistan gia stremato dalla poverta e dalla guerra pluridecennale sia stata chiamata “Giustizia infinita.” In quell’ aggettivo e da riconoscere un orientamento antico della civilta occidentale nata sulle sponde del mare greco. Ancora una volta il mare non appare un luogo di incontro e di comunicazione, ma di conflitto e di conquista che oggi assumono dimensioni planetarie. L’era attuale e stata preparata dalle rivoluzioni scientifiche e spaziali del diciassettesimo secolo. Sul piano scientifico, come ha scritto Koire si e passati dal mondo cosmico e chiuso della scienza antica aristotelica e tomistico-medievale all’universo infinito della scienza moderna, introdotta dal canocchiale di Galileo. La metafora geometrica e spaziale serve a introdurre la grande rivoluzione della concezione della spazio di cui ha parlato Carl Schmitt che vede in questo secolo e nelle scoperte geografiche che lo hanno preparato l’affermarsi di una dimensione “oceanica” della storia universale, con un’enorme dilatazione dello spazio, fattosi infinito e “vuoto.” Schmitt parla del passaggio dal nomos della terra fondato sulla condizione continentale europea e caratterizzato dal carattere locale dei conflitti al nomos del mare, in cui predomina l’infinito, dell’incondizionato, il movimento e la volonta di potenza, la guerra totale e lo spirito della tecnica senza piu limiti. Il mare di cui parla Schmitt non e piu il Mediterraneo, ma l’Oceano che e il vero protagonista della rivoluzione spaziale moderna e serve per comprendere la dimensione mediterranea in un orizzonte piu vasto e attuale. Schmitt vedeva nella condizione insulare dell’Inghilterra (e a suo modo degli Staff Uniti) il simbolo di questa rivoluzione spaziale alle origini della modernita (Schmitt). Sono fenomeni ancora in corso che si manifestano nei conflitti sempre piu numerosi e incontrollati. Consolo-Odisseo moderno continua i suoi viaggi nel Mediterraneo per portare testimonianza di questi processi violenti in toni che a tratti si fanno apocalittici e profetici. In questa prospettiva si collocano gli scritti giornalistici usciti negli ultimi anni sul Corriere della sera o l’Espresso. Tra questi ultimi spiccano “Viaggio a Sarajevo” e “Viaggio in Israele/Palestina del PIE.” Nel primo testo Consolo racconta di un viaggio fatto con altri scrittori italiani per testimoniare la guerra sanguinosa della ex Jugoslavia. (12) Ritroviamo qui il paesaggio di rovine e distruzione che hanno colpito soprattutto Sarajevo, una citta un tempo civile e fiorente nella tolleranza religiosa ed etnica. La testimonianza di Consolo insiste sulle atrocita commesse da uomini ormai privi di ragione e ridotti a natura, tanto che l’immagine di Sarajevo devastata dalla violenza umana a suoi occhi assomiglia alle immagini di Assisi colpita da un terribile terremoto nei giorni in cui egli si trovava a Sarajevo. n questo ambito di scritti tra testimonianza e profezia occorre ricordare anche il “Memoriale di Basilio Archita” (Consolo, Le pietre di Pantalica 183-91), un breve racconto-saggio dove lo scrittore testimonia di un’altra tragedia che insanguina il Mediterraneo nei nostri giorni. Si tratta del racconto della morte violenta di un gruppo di africani che imbarcatisi clandestinamente su una nave greca sono poi gettati in mare e divorati dai pescecani. La tragedia dei clandestini che muoiono nel tentativo disperato di attraversare il mare per sfuggire ad un destino di fame e poverta non aveva ancora assunto le dimensioni attuali quando Consolo scrive questo testo. Le sue parole assumono qui un ruolo veramente profetico nel mostrare il livello di degenerazione raggiunto dalla civilta greca e mediterranea. I versi del poeta greco Kavafis recitati dal vicecomandante della nave greca non fanno che confermare la decadenza di una cultura priva di un senso di responsabilita o di una visione etica e civile della convivenza umana. Si tratta di una cultura ormai incapace di riconoscere se stessa. La voce narrante del racconto, e quella di Basilio Archita un giovane sfruttato a bordo della nave greca che pure esprime un elementare senso di solidarieta con le vittime. Tuttavia egli non e affatto consapevole dell’origine greca del suo nome e trova un senso di identita unicamente nell’abbigliamento offerto dal consumismo di massa. In questa situazione per tanti aspetti distruttiva risulta veramente preoccupante il venir meno di un vigile senso critico nella cultura contemporaneo come si vede nell’accettazione sempre piu passiva dei fenomeni distruttivi in corso, e nel consenso diffuso che hanno incontrato in occidente le parole d’ordine di guerra dopo gli eventi del terribile il settembre 2001. Minoranze sempre piu esigue si oppongono con la forza della ragione a questo stato di cose dove la violenza del terrorismo e quella degli stati belligeranti non sembra aver piu limiti. Questa situazione ci aiuta oggi a capire il senso profondo delle opere di scrittori come Levi e Consolo che hanno denunciato il carattere pervasivo della maledizione tecnologica e del contagio della violenza distruttiva che domina la storia dell’Occidente. Proprio in questa testimonianza consiste l’attualith e la forza del loro messaggio non tanto nell’adesione al pensiero dell’erranza e dell’esilio che pure e presente nei loro scritti. NOTE (1) Della Weil the considera la guerra come “il principale motore della vita sociale” (Quaderni 1: 189), si veda il fondamentale saggio “L’Iliade poema della forza” (Weil 10-41). Cfr. anche la raccolta di saggi Sulla guerra. Hannah Arendt indica l’esistenza di un rapporto strutturale tra polemos e polis. Sostiene the la violenza e la guerra di per se non sono politiche ma fondano tuttavia la politica. Si veda la raccolta di saggi Arendt tradotia in italiano con il titolo Politica e menzogna (Milano: SugarCo, 1985). Su tutta la questione si veda Esposito. (2) Su questo aspetto si veda Boitani che intende Ulisse come “figura” o umbra nel senso di Auerbach. (3) Su questo punio, si veda Gentiloni. Put criticando l’impostazione schematica di Levinas Gentiloni sottolinea le differenze tra Ulisse e Abramo e indica nel cerchio la metafora della cultura greca e nella freccia quella della cultura ebraica, la logica contro il suo superamento (121). (4) Ernesto de Martino ha mostrato l’esistenza di una modalita mediterranea del lamento funebre a partite da uno studio sul pianio rituale delle donne lucane. Cfr. De Martino. La prima edizione del saggio e del 1958. (5) Adonis sostiene the la modernita non e specifica di un paese o di un popolo. Il suo aspetto universale consiste nello sviluppo scientifico che non si puo evitare. Adonis sostiene una visione creativa della modernita e conclude: .” .. the questions ‘What is knowledge?’, ‘What is truth?’, ‘What is poetry?’ remain open, … knowledge is never complete and truth is a continuing search” (Adonis, An Introduction to Arab Poetics 101). Cacciari, Massimo. Geo-Filosofia dell’Europa. Milano: Adelphi, 1994. Consolo, Vincenzo. Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori, 1988. –. Nottetempo, casa per casa. Milano: Mondadori, 1992. –. L’olivo e l’olivastro. Torino: Einaudi, 1994. –. Lo spasimo di Palermo. Milano: Mondadori, 1998. –. Di qua dal faro. Milano: Mondadori, 1999. –. 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Odisseo”.
Italica. FindArticles.com. 21 Feb, 2012.
Scrittore d’impegno civile
IN QUESTO NUMERO: A sud’Europa
articoli e commenti di: Vincenzo Consolo, Goffredo Fofi, Vito Lo Monaco, Gianni Parisi, Concetto Prestifilippo.
Le foto di questi numero sono tutte di Giuseppe Leone che ringraziamo sentitamente per aver reso possibile un prezioso itinerario iconografico sulla figura di Vincenzo Consolo e di altri protagonisti siciliani della letteratura quali Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino.
La forza della scrittura contro il potere;
Il sorriso di Consolo il Marinaio;
Il mio amico Vincenzo;
Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica
Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica
Abbiamo avuto il piacere di ospitare Vincenzo Consolo per una lezione nell’ambito del Laboratorio di Alice.it che organizzammo tra il 2003 e il 2004.
A lui – come agli altri scrittori che parteciparono – chiedemmo di raccontare semplicemente la propria esperienza di autore.
Fortunatamente abbiamo tenuto traccia di quegli interventi ed ora possiamo ricordare il grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, scomparso in questi giorni, con le sue stesse parole.
Un intervento che solo chi partecipò al seminario ha avuto modo di seguire, ma che oggi proponiamo a tutti perché ci sembra necessario, anzi, doveroso.
Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello.
Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano.
Per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza.
Iniziamo dicendo che non ho mai creduto all’innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica; certo, ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Io credo che quando s’intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quello che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.
C’ERA UNA VOLTA…
Devo ora introdurre delle note autobiografiche: come sapete io sono nato in Sicilia – i miei hanno avuto questa sventura – e ho fatto i miei studi a Milano. Ho conosciuto la Milano degli anni ‘50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni. Ho frequentato l’Università Cattolica non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; e in quegli anni, in piazza Sant’Ambrogio, dinanzi all’Università, la sera vedevo arrivare in tram senza numero, migranti provenienti dal meridione: lì v’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, nel quale da una parte vi era la caserma della celere e dall’altra un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, in Svizzera o in Francia. Quelli che dovevano andare in Germania venivano smistati a Verona. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa succedeva. Mi ricordo però che gli emigranti destinati alle miniere belghe di carbone, erano già equipaggiati con la mantellina cerata, il casco e la lanterna. Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere di zolfo perché la crisi dello zolfo ne aveva causato la chiusura, e quindi dalle miniere di zolfo passavano a quelle di carbone.
LA VOCAZIONE ALLA SCRITTURA
In quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore: pur frequentando la facoltà di giurisprudenza le mie letture erano di carattere letterario. Ero venuto a Milano perché era la città dove era stato Verga, e perché all’epoca c’erano Vittorini e Quasimodo. Inoltre, avevo il desiderio di incontrare Vittorini perché Conversazioni in Sicilia era stato per me una sorta di vangelo. Ma, insieme a Conversazioni in Sicilia, c’era stato tutto un bagaglio di letture di ordine storico-sociologico che mi aveva formato in quegli anni ed era tutta la letteratura meridionalista: le letture di Gramsci o Salvemini sulla questione meridionale, sino a Carlo Doglio, Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia. Tornato in Sicilia, dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare professioni liberali come il notaio, l’avvocato o il magistrato, e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Così ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, nei paesi sperduti di montagna, perché era questo il mondo che volevo conoscere. In quegli anni poi continuavo, con la mia curiosità e la mia felice voracità di lettore. A quell’epoca non c’era la televisione e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri e la scrittura. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, quali l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni” dove poi sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani, lo stesso Sciascia, e tanti altri; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”. Inoltre, mi tenevo aggiornato su tutta la letteratura editoriale. Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.
IL PRIMO LIBRO, I TEMI
Quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era appunto di restituire la realtà contadina in forma sociologica: l’idea iniziale era stata quella di mettermi sul coté “leviano”, di Sciascia, invece, poi, sia l’istinto, sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria, narrativa nel senso più ampio della parola. Che tipo di narrativa ho scelto di praticare? Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali non assoluti, ma relativi, e questo mi permetteva di esprimere, attraverso la scrittura, quella che era la mia visione del mondo, una visione storico-sociale, non esistenziale.
Il problema principale era scrivere del mondo che conoscevo, che avevo praticato e di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura? In quegli anni si esauriva la stagione letteraria del “Neorealismo”, di tutta quella letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, che era una scrittura mobilissima ma assolutamente referenziale, comunicativa.
Gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, scrittori autentici, grandi, come Moravia, Elsa Morante, Calvino, lo stesso Sciascia, Bassani e tanti altri, avevano vissuto il periodo del Fascismo e della guerra, e tuttavia avevano continuato a scrivere in uno stile assolutamente comunicativo, razionalista o illuminista che dir si voglia anche nel secondo dopoguerra.
IL PRIMO LIBRO, LA SCELTA DELLO STILE
Io però mi sono reso conto che non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua e cercherò di spiegarne le ragioni. Gli scrittori che mi avevano preceduto, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che, con l’avvento della democrazia, poteva nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica, con la quale poter comunicare. Avevano come schema la Francia dell’Illuminismo e del Razionalismo, dove la società si era già formata all’epoca di Luigi XIV, e poi, con le istanze della rivoluzione, era giunta al riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Quando sono nato come scrittore (pur avendo vissuto l’esperienza della guerra da bambino mi ero però formato nel secondo dopoguerra) mi sono reso conto che la speranza che essi avevano nutrito non esisteva più: nel ’47 v’erano state le prime elezioni in Sicilia con la vittoria del blocco del popolo: la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale ma, dopo le intimidazioni succedutesi a tali elezioni, v’era stata la strage di Portella della Ginestra; poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC. E io mi rendevo conto, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, in cui si sperava, a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie, e molti problemi ereditati dal passato. Quindi per me, la scelta di una lingua, di uno stile comunicativo, era assolutamente impensabile, non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico centrale, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: questa è la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia, anzi di Moravia si diceva che scriveva con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera, talmente era comunicativa: a lui interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare. Pertanto la mia scelta andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Cerco di spiegare meglio cosa intendo con codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello, a quegli sperimentatori o espressivi che dir si voglia: questa linea ha sempre convissuto nella letteratura italiana con la linea del codice centrale, toscano.
Ora, le tecniche degli sperimentatori-espressivi sono personali, variano da autore a autore, per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni, perché Manzoni nella sua utopia riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una sua lingua unica. Così, dopo aver scritto Fermo e Lucia ha scritto I promessi sposi in questa lingua centrale toscana; in realtà, con la frase “sciacquare i panni in Arno” li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche lui con l’Illuminismo francese. Verga è stato dunque il primo che ha rivoluzionato l’assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai esistita, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto): si trattava di una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, quella che Dante, nel De vulgari eloquentia chiama “la lingua di primo grado”.
Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”. Verga non avrebbe mai potuto rappresentare i contadini di Vizzini, i contadini siciliani oppure i pescatori di Aci Trezza e farli parlare in toscano, sarebbe stata per lui un’incongruenza, quindi scelse una lingua monocorde come i versetti di un corano, di un vangelo o una Bibbia, una lingua sacra, come i proverbi tramandati dalla sapienza e ripetuti dai personaggi, una lingua chiusa e circolare, sacralizzata, irradiata di dialettalità.
Dunque io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale del 1872 e arrivava al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era un po’ simili: loro partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana. Tuttavia, mentre in Gadda v’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre che al romanesco gli altri dialetti italiani, in Pasolini invece v’è la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano, con una discesa verso il romanesco.
Per quanto mi riguarda la tecnica che mi sono imposto è stata, scegliendo il codice espressivo-sperimentale, la tecnica dell’innesto, nel senso che mi sono trovato a disposizione un giacimento linguistico ricchissimo che era quello della mia terra, la Sicilia.
Ora, senza mitizzare o enfatizzare, in questa mia terribile terra, v’è una stratificazione linguistica enorme: oltre ai templi greci vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dalla Grecia, l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese. Quindi ho pensato che bisognava rimettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte dal codice centrale, e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere. Ma questo non per esigenze di tipo estetico, quanto piuttosto di tipo etico perché, un po’ come Verga, non potevo rappresentare la realtà della mia terra in senso metaforico: i miei libri si svolgono tutti in Sicilia, sarebbe stato difficile prescindere dal luogo della memoria, non potevo raccontare la storia della mia terra in una lingua centrale, in un toscano ideale, in una lingua utopica, antica. L’unico modo era rappresentarla attraverso le radici profonde provenienti dalla storia della Sicilia, che non era di tipo orizzontale ma era di tipo verticale, scavare dal profondo di questi giacimenti, un po’ come fare l’archeologo – io poi lo facevo da dilettante poiché non ero propriamente un filologo -, però mi piaceva molto e sentivo la necessità di usare questo tipo di ricerca, di scandagliare nella profondità della storia siciliana attraverso la lingua, attraverso le forme dialettali e di immetterle nella lingua. Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, erano portatori di una storia più autentica e ubbidivano a un’esigenza di significato e di significante, cioè di suono, come dicono i linguisti, in quanto si accordavano, nell’organizzazione della frase, con l’armonia delle altre parole.
IL RITMO E LA FORMA
Ecco, la ricerca procedeva proprio in questo senso, mentre l’organizzazione della frase e della prosa, avanzava in senso ritmico, in senso prosodico.
Questo è un altro problema che cerco ora di spiegare. A partire dal primo libro, La ferita dell’Aprile, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, cercando di accostare la prosa illuministica, la prosa comunicativa, in cui l’autore autorevole, tipo Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione, e poi riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre una riflessione e un ragionamento di tipo filosofico nella narrazione.
Nella Nascita della tragedia Nietzsche descrive il passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e Sofocle alla tragedia moderna di Euripide in cui v’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, in cui l’anghelos, il messaggero, narrava l’antefatto al pubblico con un linguaggio comunicativo. Da quel momento iniziava la tragedia, i personaggi iniziavano ad agire, a parlare; seguiva la parte del coro che commentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche sostiene che nella tragedia antica v’è lo spirito dionisiaco, prevale lo spirito musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna è lo spirito socratico ad avere la meglio, la filosofia e la riflessione. Ora, prendendo spunto dal discorso nietzschiano ho pensato che in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa vittima dominata dalla rivoluzione tecnologica, l’anghelos non può più apparire sulla scena: il messaggero non può più usare il linguaggio della comunicazione con cui far iniziare la tragedia perché, mentre prima l’autore sapeva di parlare alla borghesia colta perché gli strati popolari erano ignoranti, ora non sa più a chi si rivolge. Pertanto ho creduto che bisognasse spostare la prosa verso la forma del coro e della poesia, dando alla prosa un ritmo di tipo poetico: ho eliminato la parte autorevole dell’autore e della riflessione, per cui la prosa si presenta come un poema narrativo, come quello che praticavano gli aedi omerici, i quali, quando narravano, dovevano eliminare tutte le scorie non musicali, non ritmiche, per ragioni mnemoniche. Ho spostato dunque la mia ricerca verso la forma poetica perché penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, poiché credo che, in questo nostro contesto, in questo nostro mondo attuale, sia venuto meno il rapporto tra il testo letterario e il conteso “situazionale.
LA QUESTIONE LINGUISTICA
A questo punto vorrei fare un discorso sulla lingua italiana.
Nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che esiste una lingua di primo grado che apprendiamo da bambini dalle persone a noi più vicine, genitori e parenti, e una lingua colta, quella che lui chiama la lingua grammaticale.
Ora, la ricchezza della lingua italiana è dovuta proprio alla confluenza di questi due livelli linguistici, lingua colta e lingua popolare. Il discorso sulla lingua ha impegnato molti scrittori italiani, da Dante a Castelvetro, a tantissimi altri sino a Leopardi che nello Zibaldone si sofferma moltissimo sulla questione della lingua istituendo un paragone tra francese e italiano: la lingua francese, al contrario di quella italiana, ha “perso l’infinito che aveva in sé”, è una lingua che per ragioni storiche e politiche si è “geometrizzata” o anche orizzontalizzata, perdendo quella profondità e quegli echi, quelle infinità che Leopardi riscontrava nella nostra lingua.
Dopo Leopardi e Manzoni, molti altri hanno riflettuto sulla questione linguistica, ma dobbiamo arrivare sino a Pasolini, il quale, scrive proprio nel momento della grande trasformazione italiana, della fine del mondo contadino e della nascita dell’Italia neocapitalistica: con l’inurbamento delle masse meridionali nel triangolo industriale e l’irruzione dei mezzi di comunicazione di massa il Paese subì un mutamento profondo sia dal punto di vista sociale che linguistico. Pasolini colse questa grande trasformazione e, nel 1964, pubblicò un saggio, intitolato Nuove questioni linguistiche in cui svolge un’attenta analisi della situazione linguistica dell’Italia degli anni Sessanta e parla di “sviluppo senza progresso”, di un peggioramento seguito al miracolo economico.
Pasolini sostiene inoltre che l’asse linguistico dal centro-meridione si era spostato verso il settentrione e la lingua italiana era diventata una lingua aziendale e tecnologica: tutti gli italiani parlavano finalmente la stessa lingua, quella dei mezzi di comunicazione di massa. Era la fine della lingua di primo grado di cui aveva parlato Dante a favore della lingua media.
Per la prima volta si era formata una lingua nazionale; se prima, come diceva Leopardi vi erano molte lingue, poi, col neocapitalismo e coll’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, si era formata una lingua italiana unica, orizzontale, che non era affatto la lingua geometrica e civile francese di cui aveva parlato Leopardi, ma era una lingua assolutamente irrigidita, orizzontalizzata, e impoverita in quanto priva di memoria, di qualsiasi retaggio culturale, sia di cultura alta, sia di cultura bassa.
Questa lingua aveva inorgoglito e fatto gioire scrittori come Umberto Eco e linguisti come Tullio De Mauro, però io credo che avesse ragione Pasolini nel sottolineare la grande perdita subita dal punto di vista linguistico. Dal saggio di Pasolini sono passati 40 anni ma pensate a cosa è avvenuto nella nostra lingua: leggendo i giornali o ascoltando gli speakers della televisione sentiamo che questa nostra lingua è divenuta una koinè fragile, indifesa, continuamente violentata, colonizzata dai gerghi tecnologici e invasa dall’americanismo. La nostra lingua italiana ha una matrice latina e non può diventare una lingua monosillabica perché noi abbiamo un’articolazione sintattica ricchissima che viene proprio dallo sviluppo della civiltà latina. Tuttavia, sebbene la nostra lingua sia fragile e parlata solo in Italia. assistiamo a un fenomeno curioso e molto incoraggiante: nelle Università americane v’è una richiesta di studio dell’italiano da parte degli studenti americani che cresce di anno in anno. Mentre la nostra lingua si impoverisce ed è invasa dall’americanismo, in America v’è un nemico interno, gli studenti che vogliono studiare l’italiano. Io credo queste società sviluppate, tecnologiche e mercantili sentano l’esigenza di praticare un mondo di umanità, di cultura, che loro forse hanno perso e, quindi, scelgono l’italiano come lingua di cultura.
I ROMANZI
Lasciando questo lungo discorso sulla lingua, torno alla mia ricerca, sempre più accentuata negli anni in direzione della frase metrica, ritmica. Invece di fermare la narrazione e fare delle riflessioni di tipo filosofico, come ha teorizzato Kundera, io interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, tra virgolette, e se possibile ancora più poetica, come se fosse il coro della tragedia greca a parlare: vi sono delle parti corali che fanno non da riflessione, ma da commento all’azione che sto raccontando, alle vicende che sto narrando.
Nel mio primo libro, La ferita dell’aprile (1973), in cui un io narrante-adolescente parla del secondo dopoguerra in Sicilia, della riorganizzazione della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni in Sicilia, del ’48 e altro, ho adottato questo stile, usando spesso, anche nell’organizzazione della frase, le rime e le assonanze in senso comico-sarcastico, in senso di parodia della società degli adulti.
Nel secondo romanzo, Il sorriso di un ignoto marinaio (1976) la situazione è quella di un rivoltoso che è costretto a scappare e a nascondersi perché inseguito dalle forze della repressione: “Si, bisogna scappare e nascondersi, bisogna attendere, attendere fermi….. è caduto su punte di cristallo”. Naturalmente c’è la memoria della storia di Pinelli, caduto o fatto suicidare… Il mio secondo libro è uscito a tredici anni di distanza dal primo: questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968. Mi ero reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile e che il mio stare in Sicilia era divenuto insostenibile, invece Milano era una città interessante – anche se stentavo a riconoscerla – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, e sul piano pratico coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, tra gli imprenditori e gli operai. All’epoca fui sollecitato anche dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, a studiare la grande trasformazione italiana e la realtà urbana perché il mondo contadino era finito: vi era un nuovo paese da narrare, da rappresentare.
Così io mi trovavo a Milano nel ’68, e mi sono sentito spaesato e spiazzato di fronte ad una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e per cui mi mancava il linguaggio. La stessa sorte era toccata a Verga, approdato a Milano nel 1872 al momento della prima rivoluzione industriale. Egli fece una grande rivoluzione stilistica, ma in direzione del capitalismo rurale e medievale del latifondo siciliano, rifiutando cioè il capitalismo progressivo della prima rivoluzione industriale. Anch’io rimasi spiazzato ma agii diversamente da Verga: per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza: siamo degli esseri finiti, fragili, e forse la letteratura come pure la religione nasce da questo senso di fragilità e di finitezza che avvertiamo, per questo abbiamo bisogno di scrivere, di pregare, di istanze spirituali. Io credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenire nella storia, perciò non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto la Milano di quegli anni, le grandi istanze, le richieste di mutamento di questa nostra società, dovessi assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia. Così ho scelto un topos storico, il 1860, poiché mi pareva un momento storico somigliante a quello del 1968: ho scritto un romanzo storico, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia e delle speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani di un mutamento anche politico e sociale. C’era stata l’unità ma le condizioni degli strati popolari erano rimaste le stesse. Da qui la grande delusione e tutta quella letteratura di tipo sociale, la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma pure la letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, come ad esempio I Malavoglia e il Mastro don Gesualdo di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, fino ad arrivare al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Il primo libro che ho scritto, in prima persona, era una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale. Tuttavia credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna occuparsi del proprio progetto letterario, cercare la propria identità. Per questo, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ho concepito un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia: Notte tempo, casa per casa (1992) parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni Venti e la nascita del Fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia, Cefalù: qui mi occupo della crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, dell’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, delle sette religiose di segno bianco e nero; ultimo della trilogia, Lo spasimo di Palermo (1998), affronto la contemporaneità, gli anni Novanta in Sicilia, anche se con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino.
Sono seguiti altri libri collaterali, per esempio Retablo (1994) oppure L’olivo e l’olivastro (1994), in cui ho cercato sempre di praticare riflessioni sulla realtà. L’olivo e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia in cui non v’è finzione letteraria, si narra di un viaggio nella Sicilia degli anni ’80 e ’90 sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, o meglio, la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.
LETTERATURA COME MEMORIA
La letteratura è memoria.
Per opporsi alla cancellazione della memoria, che è il segno più eclatante della nostra epoca, è necessario praticare una scrittura che io chiamo “palinsestica”, a dire che noi scriviamo su altre scritture. Bisogna cercare di memorare, attraverso la nostra scrittura, quelle che sono le scritture precedenti, non attravreso citazioni banali ma facendo sentire l’eco del patrimoni memoriali che portiamo in noi, altrimenti rischiamo di diventare dei comunicatori televisivi.
A cura di Giulia Mozzato e Manola Lattanzi
25 gennaio 2012 Di Vincenzo Consolo
Per Vincenzo Consolo
24 gennaio 2012 • pubblicato da minimaetmoralia
Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato dello scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche giorno fa. L’appendice che segue sono gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica.
di Fabio Stassi
Ho conosciuto Vincenzo Consolo nella biblioteca di Storia contemporanea della Sapienza di Roma. Era un giorno di maggio del 1995. L’avevamo invitato a parlare delle biblioteche frequentate nella memoria e nel sogno. A quell’incontro con gli studenti avrebbe partecipato anche José Saramago, se il dipartimento non lo avesse ritenuto un personaggio ancora non “di chiara fama”. Consolo intervenne dopo l’inconfondibile barba bianca a due punte di Vittorio Emanuele Giuntella, uno studioso a cui volevo bene e che mi aveva insegnato tutto quello che so sull’età dell’illuminismo. Giuntella aveva scelto di raccontare le biblioteche dei lager nei quali era stato internato, e lo fece in maniera toccante. Consolo parlò invece dei libri della sua infanzia, della biblioteca di Lucio Piccolo, della scoperta della stella polare della letteratura. La sua voce era mite ma affabulatrice, capace di esprimere con la stessa forza sia la nostalgia che l’indignazione.
Fu uno dei primi scrittori che vedevo in carne e ossa, avevo letto tutti i suoi libri e lo consideravo l’ultimo esponente della tradizione del romanzo siciliano post-unitario[1]. Leonardo Sciascia era morto da qualche anno e con Gesualdo Bufalino ci avevo parlato solo per telefono (il Grande Sedentario non usciva mai dalla Sicilia: ci saremmo scritti, ma non l’avrei conosciuto perché rimandai troppo a lungo un viaggio a Comiso). Restava solo lui. Quella sera scegliemmo un piccolo ristorante, in centro, dove poter conversare in pace. E per me fu come andare a cena con la lezione umanizzata di Verga, De Roberto, Pirandello e Borgese, più la luce luttuosa di Brancati, più gli astratti furori di Vittorini e di Sciascia e l’eleganza formale di Tomasi e di Bufalino declinati tutti insieme in un espressionismo dolente. Prendemmo un gelato dietro al Pantheon. Ricordo che Consolo si arrabbiò per come cambiava la letteratura, per la sua spettacolarizzazione, e anche per l’incomprensibile sciatteria delle nostre canzoni e della musica commerciale.
Sull’esempio di chi lo aveva preceduto, il suo lavoro portava avanti quella coerente e quasi cromosomica riflessione sui fatti italiani che gli scrittori siciliani hanno sempre condotto, dalla delusione del Risorgimento e dell’unificazione sino all’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una riflessione che tra vicerè, vecchi e giovani, gattopardi, esercizi spirituali e olivastri selvatici suona come un recitativo all’inverso, una implacabile chiosa ai secolari malanni e guasti della nazione. La dominante è una dissonanza cronica: un cosmico e sgomentato discredito della storia. L’eccentrico barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, protagonista de Il sorriso di un ignoto marinaio (Einaudi, 1976), si chiede allo stesso modo dell’abate Vella del Consiglio d’Egitto di Sciascia[2]: “Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico?” La risposta è esemplare e definitiva: “Una scrittura continua di privilegiati.” Per lui il mondo aveva la forma di una chiocciola o di una lumaca: una spirale di ingiustizie e di soprusi, il ripetersi di una stessa mancata speranza.
Si potrebbe dire che il tema privilegiato della narrazione romanzesca, per Consolo come per Bufalino o per Sciascia, è “il tempo febbrile delle pesti”[3]. È lo stesso “mal contagioso” di cui scrive Manzoni, “il seme della peste”[4]. I personaggi che ne faranno esperienza, sono cronisti di epoche tristi e inferme, contemporanei di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno. È il “colera di Palermo”, la pandemia della mafia e quella nera del rimorso e del tragico senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile e si ritrova ora a vivere in un paese franato, tra città stravolte, dove si cancellano memorie e nelle quali esala “un odore dolciastro di sangue e gelsomino”[5]. Segno che l’infezione, ancora, non è passata né che se ne potrà guarire.
Se Bufalino lavorò per decenni alla sua Diceria dell’untore, Consolo intitolò uno dei suoi ultimi libri con il nome dell’antico lazzaretto della città: Lo Spasimo di Palermo. Dalla valle “fetida, infetta” della Conca d’Oro, da questa Palermo immersa in “un sudario molle”, cielo lattiginoso e “mare d’un verdastro torbido”, e “fumi grassi” che s’alzano dalle spiagge, si può risalire fino alla Somalia del sergente di Ennio Flaiano in Tempo di uccidere o all’Algeria di Camus del dottor Bernard Rieux, che aveva proprio l’aria di un contadino siciliano. Lungo questa mappa delle metafore o cosmologia della peste, tutto ritorna all’uomo: la pena, e la rivolta, e il dovere della responsabilità e del bilancio.
Sarà un terremotato di Gibellina, emigrato nelle cave di Meirengen, vicino Basilea, a resocontare in L’olivo e l’olivastro il ritorno nell’isola odiosamata[6] ricoperta ora di gelsomini neri, un sudario di calce al posto del ricordo, una terra di massacro e una terra massacrata, dove di ciclopico è rimasta solo la demenza. Il suo viaggio, speculare a quello del Silvestro di Vittorini[7], è un dialogo con uomini e luoghi trapassati, con l’ansia divorante delle madri, un inoltrarsi nella rovina, un chiedersi cos’è successo, un sapere che si è destinati a ripartire… è l’ultimo mascheramento di Ulisse. Perché più vado avanti e più mi rendo conto che tutto quanto c’era da dire, scriverà in un altro piccolo libro Vincenzo Consolo, era già stato detto da Omero e dopo non si è fatto altro che ripetere: “l’Odissea è matrice di ogni racconto”[8].
Per qualche anno ci scambiammo solo dei biglietti, di tanto in tanto. Perché lo incontrassi nuovamente, il caso scelse un’occasione privilegiata: il cielo grigio di Parigi e il Salon du livre del 2001. Io ci partecipavo come bibliotecario: quell’anno l’Italia era il paese omaggiato. All’ingresso avevano esposto trentacinque enormi ritratti. In uno di questi, Vincenzo Consolo teneva in mano una lente d’ingrandimento che gli dilatava l’occhio e lo sguardo mentre Rigoni Stern camminava su un sentiero innevato di Asiago. Lessi che teneva una conferenza alla sala Victor Hugo: Une heure avec Vincenzo Consolo. Mi precipitai. La sala era accanto al Padiglione Italia. Una sala gialla, affollata. Dai vetri si vedeva la gente che passava. Entrai mentre un attore stava leggendo un brano di un suo libro. Presi posto e aprii il mio quaderno per gli appunti. Soltanto dopo un po’ mi accorsi che mi ero seduto accanto a Daniel Pennac.
La conferenza di Consolo fu ipnotica. Parlò di molte cose, della letteratura come metafora, delle sue scelte stilistiche, del Sud, di Omero, di Verga e del proverbio siciliano cu nesce arrinesce: chi esce, chi va via, riesce. Alla fine, Daniel Pennac si avvicinò al mio orecchio e mi disse sottovoce, con un gran sorriso entusiasta, che per lui Consolo era semplicemente magnifique. Ci alzammo e andammo ad abbracciarlo insieme.
Nel 2007 lo ritrovai a Siracusa, al Premio Vittorini. Era il presidente di giuria e furono le sue mani a benedire il mio primo romanzo. Ma l’ultima volta che l’ho visto fu a una serata tributo per Pino Veneziano, l’artista siciliano che un giorno dell’84 aveva cantato anche per Borges, commuovendolo. Consolo aveva firmato un appello per Selinunte e l’introduzione a un libretto dal titolo Di questa terra facciamone un giardino[9]. Prese la parola e tracciò un breve elogio della cultura orale. Me lo ricordo così, sotto la luce gialla che illuminava le colonne del tempio, piccolo e incanutito ma con gli occhi che non avevano mai smesso d’essere vivaci, un vecchio cantastorie in piedi tra i ruderi di un’acropoli.
APPENDICE
Un clandestino a Parigi : une journée avec Vincenzo Consolo
(dai miei appunti, Parigi, Salon du livre, 24 marzo 2001)
Sala Victor Hugo, ore 12
La letteratura è metafora. Nostalgia di un tempo e di una patria perduta, desiderio dei personaggi di tornare a un’Itaca che non esiste più. È la nostra condizione. Siamo degli ulissidi che anelano a raggiungere la patria perduta. La memoria di una patria. Io ho sempre avvertito nel mio lavoro di scrittore una discrepanza tra argomento e stile. Sin da quando iniziai a scrivere, nel 1963, capii che dovevo fare una scelta di campo dal punto di vista linguistico e stilistico. Non c’è innocenza in arte, bisogna avere consapevolezza di quello che si sta svolgendo. Io sapevo che gli scrittori della generazione appena precedente alla mia, avevano adottato un registro comunicativo, un codice linguistico comunicativo. Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Io penso che speravano che dopo la fine del fascismo sarebbe potuta nascere in Italia una società civile con la quale comunicare. E questa loro speranza risaliva all’utopia linguistica di Manzoni.
Ma quando cominciai a scrivere io, questa società non si era formata, non esisteva per me. Per questo ho adottato un codice non comunicativo, ma espressivo. Con questa scelta stilistica mi inserivo in una tradizione italiana che partiva da un mio conterraneo, Giovanni Verga. Lui aveva rivoluzionato il codice linguistico manzoniano. Sulla sua linea lo avevano seguito Gadda e Pasolini.
Avevano creato un controcodice espressivo.
In questo sono stato favorito dalla ricchezza della lingua della mia terra, da quel giacimento linguistico che con molta faciloneria viene chiamato dialetto. Nel siciliano sono presenti residui della lingua greca, araba, francese, spagnola e delle altre civiltà transitate dalla mia isola. Io ho utilizzato questo serbatoio, questi residui, per rompere il codice linguistico nazionale, organizzando la prosa in modo ritmico, lirico, più simile alla poesia. Per me non esisteva un rapporto tra testo letterario e contesto storico, situazionale, ma una rottura. L’esempio più efficace lo dà la tragedia greca. Il messaggero appare sulla scena e riferisce quello che è avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Solo dopo che lui racconta i personaggi si muovono e il coro commenta. Così, attraverso il rito del teatro, si ottiene la liberazione dalla colpa, la catarsi. Il messaggero, l’anghelos, è lo scrittore. Appare e dice di una vicenda, e cerca di far immedesimare personaggio e lettore. Ma oggi la cavea è vuota. Non c’è più il pubblico. L’unica possibilità è quella di spostare la narrazione sul commento della tragedia che ci riguarda tutti.
Nei miei libri, in tutti i miei libri, ci sono queste parti corali, che i latini chiamavano cantica. Si interrompe il racconto e si alza il ritmo, attraverso l’uso insistito delle assonanze e delle rime. Come dice Bachtin, il romanzo è sempre utopico perché ipotizza un mondo migliore.
Questa è stata la mia ricerca stilistica, una ricerca archeologica e filologica. Noi non abbiamo la fortuna di voi francesi. Leopardi, in un’analisi delle due lingue cugine, l’italiano e il francese, dice che il francese, attraverso la creazione di uno stato e la sua storia unitaria, si è “geometrizzato”. L’italiano, invece, non è una sola lingua, ma tante lingue. Questa è la nostra risorsa ma anche la nostra dannazione, da Dante in poi.
La letteratura, per me, è soprattutto una memoria linguistica. Ho ricercato le radici e usato la tecnica dell’innesto. Ma non ci si deve confondere. Trovo ingiustificato e regressivo l’inserimento dell’elemento dialettale. Come ha scritto Pasolini, Verga usava un italiano irradiato di dialettalità, ma non era un dialetto, era un’altra lingua. Una lingua nuova.
Considero la ricerca stilistica un impegno nei confronti della storia. Capisco che i miei testi non sono di facile lettura. Ma c’è in me un’esigenza di praticare una “letteratura d’intervento” (così l’ha definita Roland Barthes) anche sui giornali. Sento il bisogno di esprimere il mio giudizio sulla situazione politica del mio paese, ma anche su quella internazionale. Domani, insieme ad altri scrittori che fanno parte del Parlamento internazionale degli scrittori, tra cui José Saramago, parto per Tel Aviv e per Ramallah, per portare un appello per la pace. In Francia, l’esempio dello scrittore militante è quello di Zola, che pur pagando di persona alla fine riuscì a far riaprire il processo Dreyfuss. Oggi, in Italia, c’è un ministro della cultura che accusa gli intellettuali di vigliaccheria. Di fronte a tanta volgarità non vale nemmeno la pena di rispondere. Voglio aggiungere che non volevo alcuna ipoteca da parte del governo italiano sulla mia partecipazione a questo Salone del libro. Dopo le nostre dichiarazioni, io, Camilleri e Tabucchi siamo stati cancellati dal catalogo. Non troverete né la nostra foto né la nostra biografia. Per il mio governo, qui sono un clandestino.
Sala Dante Alighieri, pomeriggio. Vincenzo Consolo discute insieme a Erri De Luca, Giuseppe Bonaviri e Raffaele La Capria. Qualcuno gli chiede perché ha lasciato la Sicilia…
Appartengo alla storia infinita di meridionali che hanno abbandonato questa estremità, questo limite, per raggiungere il centro. Alcuni vennero in Francia, nel vagheggiamento di un nord mitico. Il primo è stato Verga. Approda a Firenze, poi a Milano, nella Milano dei salotti e delle contesse. Trova invece un mondo in grande subbuglio. In quegli anni si avvia la Pirelli. Lui rimane spiazzato. E qui si toglie la maschera di scrittore borghese e compie una rivoluzione stilistica. Dopo di lui, a Milano ci piovono Vittorini e Quasimodo. Io ci ho studiato, poi sono tornato in Sicilia. Ho insegnato nelle scuole agrarie. Ma presto mi sono reso conto che la mia presenza nell’isola era un’assurdità. Il mondo che volevo descrivere, il mondo contadino, si stava frantumando. Era in atto un esodo di braccianti che partivano per il nord e diventavano operai. Si pensava ancora che Milano fosse diversa e opposta alla realtà siciliana. Questa mitologia era stata alimentata da Vittorini. Lì ho lavorato in quella che definisco una fabbrica di armi, ossia la televisione, la Rai. Progressivamente il mito di Milano mi si è infranto, stagione dopo stagione, prima con gli anni di piombo, poi col riflusso craxiano, infine con l’era di Berlusconi. Questa è la mia storia.
La sala è strapiena. Gente in piedi, gente seduta per terra. L’affluenza è davvero impressionante. Sembra quella di un concerto. De Luca e La Capria relazionano in francese. Consolo riprende il microfono per spiegare che per la sua isola i Vespri siciliani sono stati una sciagura, al contrario di quanto ha creduto Croce. Perché i francesi se ne sono andati a Napoli, “e oggi i relatori napoletani lo parlano correttamente, mentre da noi sono arrivati gli spagnoli e l’Inquisizione, ma i siciliani non hanno imparato nemmeno lo spagnolo”. Suscita l’ilarità della sala. Poi pacatamente riprende il suo discorso sul recupero di una memoria linguistica, della memoria di un sud più profondo.
Il canale di Sicilia era un canale di grande comunicazione. I pescatori trapanesi andavano a pescare nelle acque del Mahgreb. Poi, con l’inizio dell’età dei conflitti, il Mediterraneo divenne un confine, un luogo di miserie e di atrocità, come ha spiegato Braudel, un mercato di schiavi, il centro di guerre economiche mascherate da guerre di religione. Oggi, purtroppo, assistiamo al ritorno di questi massacri. Ma non bisogna dimenticare che la storia delle civiltà è sempre una storia di incroci e di migrazioni e anche voi francesi ne sapete qualcosa.
L’intensa giornata di Vincenzo Consolo termina la sera, allo stand di France culture. Attorniati dai microfoni e dai giornalisti della radio francese, siedono allo stesso tavolo i membri del Parlament International des Escrivains. Vicino a Consolo riconosco i premi nobel per la letteratura Wole Soynka e José Saramago. Soynka è un po’ invecchiato, con una montagna di capelli bianchi sulla testa. Saramago elegante e autorevole, come sempre. Accanto a loro siedono il sudafricano Breyten Breytenbach, il cinese Bei Dao, Juan Goytisolo per la Spagna e Russel Banks per gli Usa. Con voce ferma e sicura, insieme consegnano a Parigi e al mondo il loro messaggio di pace.
[1] Un sommario elenco delle opere che hanno edificato questa linea siciliana del nostro romanzo comprende: I malavoglia (1881) e la novella Libertà (1882) di Verga, I vicerè (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Rubè (1921) di Borgese, Il gattopardo (1958) di Tomasi, Il Consiglio d’Egitto (1963) e il racconto Il quarantotto (Gli zii di Sicilia, 1958) di Sciascia. Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo è l’estremo tassello di questa antistoria del Risorgimento, un discorso che si protrae da oltre un secolo. Ma, estendendo la riflessione al fascismo, al dopoguerra e al cinquantennio democristiano, bisogna annotare almeno Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini, Il bell’Antonio (1949) di Brancati, Il contesto (1971) e Todo Modo (1974) di Sciascia, Diceria dell’untore (1981) di Bufalino, L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) di Consolo, a cui ora si possono aggiungere le opere e i nomi di Andrea Camilleri, di Giosué Calaciura e di Giorgio Vasta.
[2] L’abate Vella sosteneva “che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh, sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente…. La storia. E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce alta della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»” in L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 59-60.
[3] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 113.
[4] Così suona, in francese, il titolo della Diceria dell’untore.
[5] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 115.
[6] Consolo aveva già individuato in un piccolo paese nell’entroterra della Sicilia, Caltagirone, l’epicentro di una epidemia e l’emblema di una nazione, “della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.” (L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994, p. 71).
In un altro libro di Gesualdo Bufalino, il Guerrin Meschino, il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 cala addirittura il sipario, si chiude per lutto. L’Oprante, il puparo si ferma, smonta il teatrino, ripone con cura i legni e, alla fine, rompe la noce del collo al più derelitto degli eroi, al desdichado di cui stava raccontando le avventure: è un tempo, ormai, dove nemmeno per finta, nemmeno per gioco, “il buono vive e il maganzese muore”.
[7] Silvetro Ferrauto è il protagonista di Conversazione in Sicilia.
[8] Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1999.
[9] Di questa terra facciamone un giardino. Tributo a Pino Veneziano, con CD audio, a cura di Rocco Pollina e Umberto Leone, Trapani, Coppola editore, 2009.
L’ulivo e la giara
di Vincenzo Consolo
Nell’estate del 1882 Pirandello a compagnia del padre, compie un viaggio – il primo suo vero viaggio – da Palermo e Sant’Agata Militello, per una Sicilia, per una campagna, per un paesaggio tutt’affatto diversi da quelli che aveva dentro e che conosceva. Scopo di questo viaggio, da parte di Stefano Pirandello, è d’intraprendere, dopo il suo crollo economico a causa dello zolfo, il commercio degli agrumi. II signor Vincenzo Faraci di Sant’Agata, proprietario terriero e agente della compagnia di navigazione Florio-Rubattino, presso cui si reca, dovrebbe aiutarlo nella sua nuova impresa. La famiglia Pirandello, già dalla primavera dell’82, si era trasferita da Girgenti a Palermo, s’era allocata in una casa di via Porta di Castro, a ridosso delle mura del Palazzo Reale. Partono dunque, padre e figlio, per Sant’Agata, alle prime ore del mattino, su un treno che li porta fino a Termini Imerese. Da qui, per l’inesistenza ancora della strada ferrata fino a Messina, proseguiranno in diligenza.
Immaginiamo, in treno e in carrozza, la curiosità, l’attenzione, il rapimento del quindicenne Luigi di fronte a quel nuovo mondo che gli scorreva davanti agli occhi, agli echi che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…
Al fitto e profondo verde degli agrumeti, e ai golfi, alle insenature, alle calette, al mare lungo la costa tirrenica; e alla cortina boscosa delle Madonie e dei Nebrodi che separavano questo rigoglio vegetale dalle sconfinate, aride lande dell’interno, della desolata nudità del latifondo e dei grigi e fumosi altipiani dello zolfo. E doveva accorgersi che man mano, dopo Termini, dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi – a spegnersi finanche nelle decorazioni dei carretti che, da chiassosi e spettacolari, si facevano monocromi, giallognoli o verdastri – a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena.
Sostano a Santo Stefano di Camastra. Un paese, questo, dopo la frana del 1682 che aveva distrutto il vecchio abitato in montagna, concepito e fatto ricostruire in basso-su un promontorio a mare, da Giuseppe Lanza duca di Camastra. L’impianto urbanistico disegnato dal duca ,un rombo inscritto in un quadrato – era ripreso aulicaunque dallo schema del Parco Versailles e della palermitana Villa Giulia. Un paese dunque non affastellato, casuale, di case sopra case, ma “pensato”, moderno, piano, ordinat: un paese “bello” secondo la qualificazione vittoriniana de Le cità del mondo. E’un paese anche di grande attività, di lavoro: la lavorazione dell’argila, di cui quasi tutti gli abitanti vivevano. A margini, lungo la statale, erano le purrere, le cave d’agilla, gli stazzuna, le fabbriche di laterizi, e le putii i robba r’acqua, le botteche delle ceramiche d’uso quotidiano (desumiamo queste notizie dalla monografia di Antonino Buttitta e Salvadore D’onofriono, La terra colorata) davanti alle qual erano gli spiazi dove la creta veniva ammucchiata e impastata ( dagli impastatura, a piedi nudi seguendo un preciso disegno, a ventaglio, a chiasciola, a spicchi d’arancio o a cerchi concentrici) e venivano esposti i manufatti ad asciugare o messi in mostra per la vendota dopo la cottura.
E davanti a queste botteghe, Luigino, fra i tanti oggetti, tante forme, quartari lémmi, bùmmuli, lumèri, fangotti, mafarati, avrà visto quella grande forma, alta, panciuta, ch’era la giarra.
La fabbricazione d’una giara era un lavoro delicatissimo, di grande precisione e di alta specializzazione dei “mastri”. Veniva eseguito in tempi successivi, al tornio. Sulla base precedentemente asciugata (u piezzu) venivano poi man mano innestate le fasce, su su fino alla parte più convessa della pancia e alla rastremazione delle spalle, del collo e della bocca. Veniva poi stagnata, invetriata con piombo ossidato, all’interno e fino al labbro, prima di essere infornata. In quella stagione, prossima alla raccolta delle olive e alla loro spremitura – le olive dei vasti oliveti della zona del Mistrettese, delle Caronie, di San Fratello – dovevano essercene già molte esposte davanti alle botteghe, di giare, nelle loro varie misure canoniche – da mezzo cantàru, venti litri, fino alle grandi capaci di quattrocento, cinquecento litri d’olio – un solenne corteo di badesse nell’ocra infuocata della luce del tramonto.
A Sant’Agata Luigi e il padre sono ospiti per alcuni giorni della famiglia Faraci, in contrada Muti, in una casina di campagna su una collinetta da dove si domina il piccolo paese col castello dei principi di Trabia al centro, le casupole dei pescatori lungo la spiaggia e quelle dei contadini verso l’alto. Luigi ritrovava qui il suo coetaneo e compagno di scuola, al “Vittorio Emanuele II” di Palermo, Carmelo, figlio di Vincenzo Faraci. Fra i due ragazzi si stabili una solida amicizia. E, ritornata la famiglia Pirandello a Girgenti nell’85, Luigi e Carmelo andranno a abitare insieme in un stanzetta d’affitto in via Mastro d’Acqua, E l’ultimo anno di liceo, Luigi allora ferocemente immerso nei suoi studi e nell’amore per la cugina Lina. Carmelo Faraci si dedicherà a questo suo compagno geniale e stravolto dalla passione d’amore fino ad accudirlo, a preoccuparsi di tute le necessità pratiche. Poi Carmelo, finito il liceo. avrà un triste futuro, si ammalerà di tisi e lascerà Palermo per andare a rifugiarsi in un bosco sopra Sant’Agata, a Mangalavite.
Luigi, da Porto Empedocle, dalla villa del Caos, nell’agosto dell’87, deluso dall’amore, dal lavoro tentato nelle zolfare del padre, in preda al pessimismo più nero, si ricorderà di questo suo mite e fedele amico e gli scriverà. Le cinque lettere che Pirandello invierà al Faraci sono state pubblicate dal professor Giovanni R. Bussino, di San Diego in California nel libro Alle fonti di Pirandello. Scrive in una di queste lettere:
“Tu sei malato di corpo (e io ti voglio intanto in via di guarigione) ed io sono malato di spirito e della mia malattia non si guarisce. Mi credono tutti pazzo, e prima – per maggiore tormento – i miei più cari; il mio vizio dei nervi si è bruscamente accentuato ed io non so trovar pace in nessun luogo: la mia vita mi si è fatta brutta bene… M’indusse a scriverti – non te lo nascondo – una dolcissima memoria del passato…”.
La memoria dolcissima d’una serena campagna: e di due forme, antichissime e significanti: l’ulivo e la giara.
La novella La giara è pubblicata il 20 ottobre 1909 sul “Corriere della Sera”.
Pirandello è chiuso, in questo periodo, in una doppia, tetra prigione: quella burocratica dell’insegnamento al Magistero, dov’era inquadrato nella categoria degli “incaricati” certamente contrassegnato da un mastronardiano “coefficiente”, e quella domestica, dove la gelosia paranoica della moglie gli tesseva intorno ogni giorno di più le sue terribili maglie. La novella La giara è la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano.
‘A giarra, commedia in dialetto, è del 1916.
E’ tempo di guerra. Il figlio Stefano è prigioniero degli austriaci, la madre appena morta – quella madre che aveva incarnato il suo romantico patriottismo, che ora, nell’urto con la tragica realtà, si lacerava – gli ritornava a colloquio come personaggio, la moglie ormai dentro quella tenebra dove “nessuna voce può raggiungerla più” Si sa che al teatro regionale e dialettale Pirandello fu trascinato dall’amico Martoglio e dalla forza della “Compagnia comica di Angelo Musco, che in quegli anni mieteva successi per tutta la Penisola Successi, certo, di questi istintivi e irresistibili teatranti catanesi, dovuti anche al bisogno di distrazione e di riso da parte degli spettatori angosciati dalla guerra. Pirandello scriverà per quel teatro per ragioni materiali, economiche ma deve anche scrivere quel teatro per ragioni spirituali, in un bisogno crescente di luce e di respiro quanto più si sente precipitare nel pozzo della disperazione. Al momento più basso e più cupo della sua vita, corrisponderà il momento creativamente più luminoso e liberatorio che è Liolà.
Subito seguirà La giara, con la quale chiuderà questo ciclo. E a noi piace credere che nel concepire La giara gli sia tornato il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Demone, della fertile campagna alle falde dei Nebrodi, delle giare intraviste a Santo Stefano. “Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa” dice ‘Mpari Pè, il garzone di don Lollò. L’uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giara – giarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell’olio bollente. Ma zi’ Dima è anche un folletto, un imprevedibile ginn, di quelli annidati dentro bottiglie o lampade – egli ha commercio col diavolo, e quella gobba e quella pece nera ne sono la prova – che con le sue argomentazioni da dentro la giara contrasta e distrugge di volta in volta le argomentazioni esterne, giuridiche, codificate, di don Lollò e del suo avvocato.
Ma La giara trapassa questa farsa saracena o questo mimo siceliota, sofroneo o senarcheo, trapassa ogni eclisse solare e storica, va più indietro verso un tempo remoto, verso significati più abissati, archetipici. La giara è allora l’involucro della nascita, l’utero, ed è insieme la tomba (i Siculi seppellivano i loro morti, in posizione fetale, dentro i giaroni). E zi’ Dima non perde, non muore, sapiente, dialettico e sarcastico, vince e rinasce nello splendore d’un plenilunio, nel tripudio dei contadini.
E quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene si dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza.
Se Liolà, della stagione della vendemmia, è mimo dionisiaco o fliacico (Phliax era un demone della natura, della fecondità), La giara è mimo apollineo e cavillico, della stagione dell’olio che dà sapore – sapere – e che dà luce. L’ulivo saraceno, un ulivo del Caos, immaginato, sognato, riapparirà in limine, nella notte che precede la morte, sul palcoscenico del palcoscenico, in un terzo atto mai scritto, a reggere un tendone – sudario contro cui si reciterà l’ultima favola. Apparirà quell’albero di forma tormentata, agonica, da cui l’anima anela a uscire, a consumarsi bruciando, come olio dentro una lampada: a ritornare, annullandosi, nella nudità, nella verità, nel flusso infinito.
Sei domande di La Cava a Vincenzo Consolo
Consolo, la Sicilia come missione.
Cesare Segre “Diario civile”
A cura di Paolo Di Stefano
Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.
Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.
In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.
Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.
Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.
Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.
22 gennaio 2012 – Corriere della sera
Un mite guerriero
Un mite guerriero
Nel mucchio disordinato di carte che in maniera alquanto azzardata chiamo ‘il mio archivio’, c’è una cartelletta gialla su cui sta scritto: Vincenzo Consolo.
In questa cartelletta ho raccolto, per anni e con una diligenza che non appartiene al mio carattere, quei suoi interventi che ogni tanto compaiono su quotidiani o riviste e che parlano di sud e di scrittura, di storia e di utopia sociale, di potere, di connivenze, di linguaggio e di responsabilità… Parole fatte di “pietra dura”, perché Vincenzo Consolo è un guerriero (mite, e pur tuttavia guerriero), oltre che un incantatore.
Un incanto che nasce, almeno per me, non soltanto dalla sua ricerca formale, cioè dalle meraviglie stilistiche delle sue opere, dal suo linguaggio e dalla sua espressività, ma anche dalla forza del suo pensiero. Che è pensiero ‘etico’.
Lo scrittore, ha detto una volta Consolo e lo ha ribadito in diverse occasioni, “quando si rivolge a una società ha il dovere dell’etica, perché altrimenti diventa asociale, immorale. E lo diventa perché non scrive in difesa dell’uomo ma contro l’uomo”. E’ da questa concezione etica della letteratura che gli deriva l’idea di una “supremazia della scrittura nei confronti della storia”, di una scrittura intesa come “compenso e costruzione armoniosa contro il disordine della storia”, che pure è il territorio privilegiato, il ‘luogo’ centrale delle sue narrazioni: la sua, si potrebbe dire, ‘ossessione’ tematica.
Non a caso, credo, lo stesso Consolo ha voluto dare più volte (e cito per tutte una lunga intervista comparsa nel 2000 sul bimestrale ‘Tuttestorie’) una scansione temporale a questa sua ricerca storico-politica, e lo ha fatto dividendo il suo percorso letterario in tre grandi tappe, in questo modo ordinando storicamente anche la sua personale storia di scrittore.
La prima tappa muove da una lettura della radicale trasformazione dell’Italia al momento dell’unità, quando alla fine trova compimento l’idea risorgimentale dello Stato unitario. Ed è segnata, questa tappa, dalla composizione di un testo magico e complesso come ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’. La seconda, con ‘Nottetempo casa per casa’, racconta invece quella disgregazione sociale che prelude all’avvento del fascismo e la terza, con ‘Lo Spasimo di Palermo’, entra nell’oggi per confrontarsi con la speranza fallita di un cambiamento sociale e culturale prima ancora che politico. L’unica speranza che resta, dice Consolo, è appunto la speranza nella scrittura, nella sua capacità di mettere ordine nelle coscienze e di portare armonia, cioè fiducia, là dove c’è soltanto caos e quindi impossibilità di comunicare. Ma questa capacità ‘armonica’ della scrittura non è affatto scontata.
In una conversazione con Silvio Perrella, pubblicata sulla rivista Mesogea, Consolo si domanda (o meglio torna a domandarsi) perché gli scrittori che hanno vissuto il fascismo e la guerra, in particolare Moravia, Calvino e Sciascia, abbiano poi optato per un codice razionalistico di scrittura e una concezione illuministica del mondo. Perché, si risponde, “la loro era, appunto, una scrittura di speranza. Speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare.” E invece questa società non è ancora nata e la scrittura di tipo comunicativo, cioè “fiduciosa nel sociale”, non ha ragione di essere. In questo contesto, in questo fallimento della storia, si può ‘scrivere sperando’ solo se si abbandona il codice razionalistico e si opta per un codice di tipo espressivo, se si lascia la Francia, in sintesi, e si va verso la Spagna. Verso la “dolce follia, simbolica e metaforica” di don Quijote.
La scrittura espressiva, dunque. Le narrazioni. Non il romanzo. “Ho cercato di non scrivere mai romanzi”, afferma Consolo argomentando, spiegando puntigliosamente la sua insofferenza per questa forma letteraria ottocentesca, di “intrattenimento puro”. La narrazione offre invece a chi scrive una maggiore libertà, un respiro più ampio. E’ un genere letterario con una doppia anima, per così dire, perché precede il romanzo ed è quindi preborghese pur essendo, nello stesso tempo, postmoderno.
In questa sua dichiarazione di poetica, a me sembra che Consolo si riveli straordinariamente vicino a certe correnti originali e innovative della letteratura mondiale, a quelle voci che vengono da paesi dove scrivere non è mai stato un ‘atto neutro’, perché la lingua stessa – lingua importata, lingua nemica – grondava sangue e aveva bisogno di essere reinventata e ricreata per poter diventare strumento di autorappresentazione e di speranza. Il suo mistilinguismo, ad esempio, mi ricorda molto da vicino l’operazione culturale tentata dalla scrittrice algerina Assja Djebar, che soltanto dopo aver studiato a fondo l’arabo, dopo un’immersione totale nella lingua madre, riconquista un francese arricchito dai suoni, dalle cadenze e dalle voci di quel mondo colonizzato e strappato a se stesso che è il suo mondo, e così, con questa ricchezza, può tornare a scrivere, dopo un lungo silenzio di anni.
Nel vuoto chiacchiericcio della società letteraria italiana, fa un effetto davvero straniante questa ricerca ostinata di un ‘senso’ oltre che di una ‘forma’, questo desiderio di ‘speranza’, sempre frustrato ma sempre attuale e mai dismesso, che diventa messaggio letterario.
In un intervento sull’Unità del 1994 Vincenzo Consolo scriveva: “oggi il Sud è l’azzeramento, è il deserto da cui si sta cominciando a ripartire”. Ripartire: che, nel contesto di quell’articolo, non stava a indicare solo il movimento negativo dell’andar via, la necessità dell’abbandono che genera un’incurabile nostalgia.
E qui voglio aprire un inciso. Perché su questa nostalgia, che è il malessere profondo e sensibile di ogni uomo e di ogni donna che ha conosciuto l’emigrazione, Consolo ha scritto alcune righe che non posso non riportare per esteso, perché il loro sapore è esattamente il sapore di quel tipo di nostalgia.
“Io”, scrive Consolo nel penultimo racconto delle “Pietre di pantalica”, “io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”
Il movimento delle parole ha qui la cadenza precisa del sentimento, lo insegue e lo incarna con un’immediatezza morbida e sgomenta. Ma nostalgia, qui, non è semplicemente ‘sofferenza del ritorno’, è qualcosa di più vasto. E’ sofferenza di un desiderio costretto in un limite – il limite umano, che soltanto il movimento delle parole, forse, può spostare un poco più in là.
E allora, tornando all’articolo del 1994, quel ‘ripartire’ a me sembra che non avesse solo un’accezione negativa, non descrivesse soltanto una realtà di fuga dal ‘deserto’ della Sicilia, ma, sottotraccia, indicasse anche un’altra possibilità: quella di ripensare, di tornare a pensare e a dire il Sud, “questo eterno e sempre vivo scandalo”, cominciando di nuovo a raccontarne la storia e a prendersene cura nelle narrazioni come nella politica. Anche se “i tempi della letteratura sono lunghi, lungo il processo di sedimentazione della memoria e della formazione della lingua”.
Sono passati molti anni da quel 1994. La “sintassi del mondo” da allora si è sfasciata molte e molte volte e, per dirla con Consolo, “non sappiamo se si potrà mai ricomporre”.
Così, in questo nostro paese “ormai telestupefatto”, io ho bisogno – sì, bisogno è il termine giusto – delle parole di “pietra dura” di Vincenzo Consolo. Mi sono necessarie quanto le sue narrazioni, che fanno vibrare la mia anima divisa di ‘siciliana in esilio’.
Ed è per questo bisogno che, come ho detto all’inizio, per anni ho ritagliato, raccolto, messo da parte articoli e interventi: i giornali e le riviste, si sa, sono cose fragili, beni effimeri, tendono a sparire ancor più rapidamente dei libri.
Insomma, ho voluto mettere in salvo le sue parole.
E poi l’ho incontrato, Vincenzo Consolo.
E nell’uomo, nel suo modo di parlare, schivo e preciso, nella maniera diretta ed essenziale con cui offre agli amici consolazione, affetto e soprattutto ascolto (anche a me, un giorno che non dimenticherò, mentre stavo andando a trovare mia madre, che giaceva immobile e immemore nel suo letto), ecco, nel modo di essere e di presentarsi di quest’uomo ho riconosciuto la “pasta dura” e luminosa di quelle parole raccolte per anni. Una concordanza fra ‘l’essere’ e il ‘dire’ piuttosto rara.
Mi intimidisce, Vincenzo Consolo. Eppure lo sento ancor più che amico, familiare. Forse per quel suo viso che mi ricorda le sculture di Giuseppe Mazzullo, sculture ricavate dalle pietre del torrente che attraversa il mio paese (un pietroso paese che non per caso si chiama Graniti). Sculture di pietra. Forti. Dolorose e miti. E Vincenzo Consolo, con le sue indignazioni, le sue passioni politiche, la sua scrittura impetuosa e ritmica, questo è ai miei occhi: un mite guerriero.
Maria Rosa Cutrufelli
dal Manifesto Gen 22, 2012
L’ultimo maestro della triade siciliana
Ho nel mio studio una fotografia scattata da Giuseppe Leone trent’anni fa. Occupa un’intera parete. C’è Vincenzo Consolo, nella foto. E con lui ci sono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Ridono, contagiandosi a vicenda. Ridono fino a sgangherarsi. Si tengono spalla contro spalla, con le lacrime agli occhi. Sciascia sta in mezzo. Consolo si gira di lato. Vuole evitare di lasciarsi trascinare da Sciascia che quasi si piega sulle ginocchia. Bufalino si gratta la testa e sorregge gli occhiali. Ridono felicemente. Voglio ricordarli così, tutti e tre: i tre grandi maestri della letteratura siciliana del secolo scorso; i tre scrittori che hanno regalato alla letteratura opere indimenticabili. Fu Sciascia a scoprire Bufalino e a sostenere con la sua autorità il singolare liberty funerario di Diceria dell’untore. Fu Sciascia a ispirare sin dall’inizio Vincenzo Consolo, che era nato sì a Sant’Agata di Militello nel 1933, ma alla letteratura era nato all’ombra del Consiglio d’Egitto: dapprima con il felicissimo romanzo d’esordio La ferita dell’aprile (1963) fortemente voluto da Nicolò Gallo, e poi, soprattutto, con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Sciascia, Consolo, Bufalino. E bisogna aggiungere Elvira Sellerio, che nella foto non compare. Ma era presente nella scena, accanto al fotografo. Fu Elvira Sellerio a cementare l’amicizia fra i tre scrittori. E fu Elvira Sellerio a costringere Consolo, con la forza della sua ostinazione, a scrivere quell’altro capolavoro che è il romanzo Retablo (1987). Consolo era lento nella scrittura. Aveva i suoi tempi, e aveva bisogno di essere incalzato.
Consolo è stato l’erede di Sciascia. Ne ha continuato l’impegno civile. Non da epigono, però. Ma con un’autonomia letteraria sostenuta dall’invenzione di una lingua che fa capo alla Scuola poetica siciliana di Federico II, declinando Jacopo da Lentini e Cielo d’Alcamo attraverso le lezioni del barocco Daniello Bartoli, delle avanguardie novecentesche, e del conterraneo Lucio Piccolo autore dei Canti barocchi. Con Sciascia, Consolo ha condiviso l’amore per Manzoni. Ed è dai Promessi sposi e dalla Storia della Colonna infame che discende, nelle opere dei due scrittori, il senso di responsabilità morale e la diffidenza nel lavoro della penna che asservita, o malamente usata, può essere strumento di impostura. Consolo non è mai venuto meno a un’idea di letteratura come indagine sugli errori della storia e della politica. E quando si è sentito sopravanzato, quasi sopraffatto da una realtà politicamente indecorosa e violentemente prepotente, non ha esitato a deporre la penna e a interrogarsi su un silenzio attivo, inteso come dolorosa denuncia della barbarie. Consolo aveva alle spalle una solida esperienza di giornalista. Aveva percorso la Sicilia in lungo e in largo per conto del quotidiano «L’Ora» di Palermo. Aveva seguito processi su fatti tremendi e sondato gli abissi più sciagurati del malaffare. Era scivolato sul sangue di più cadaveri, lungo le strade e le trazzere. La sua penna non dimenticò mai gli scempi dell’isola: la distruzione del paesaggio, la corruzione, la violenza della mafia, le responsabilità di una classe politica abietta, lo sconvolgimento antropologico. La Sicilia divenne per lui un’Itaca presa in ostaggio dai Proci. Lui stesso indossò i panni di Odisseo. Viaggiò lontano dall’isola, con un cruccio dentro e un amore malinconico. Ma rimase fedele a Itaca. Vi tornò spesso. E usò la scrittura barocca come Ulisse usò il suo arco: per lenire un dolore e per cancellare un’offesa.
Incontrò un poeta sulla sua strada. Un poeta antropologo. Ne parla nei racconti saggistici dell’Olivo e l’olivastro (1994). Si chiamava Antonino Uccello. Questo delicato poeta aveva messo su, a Palazzolo Acreide, una casa-museo. Vi aveva sistemato tutti gli oggetti della civiltà contadina siciliana. E aveva ottenuto che tutti i visitatori, venissero dall’Australia o dagli Stati Uniti, dalla Germania o dalla Cina, ritrovassero là dentro un loro sogno, una loro infanzia, l’illusione di una vita piena. Consolo sognò là dentro, in quella serena casa-museo, un’Itaca senza Proci. Ma si rese conto che il suo, come quello di Uccello, era un disperato volo d’Icaro. Si ricordò di Siracusa, di un quadro di Caravaggio, del Seppellimento di Santa Lucia. Al racconto su Uccello accostò un altro racconto, su Caravaggio e il ceroplasta Zummo. Immaginò di scrostare la tela di Caravaggio, alla ricerca del taglio: della ferita mortale inflitta a Santa Lucia dal carnefice. Quella ferita era stata nascosta dalla bellezza della pittura. Solo Zummo, il figlio di una schiava, s’era accorto nel Seicento dell’inganno. Aveva affondato lo sguardo fin dentro la ferita. E da quel taglio aveva estratto le essudazioni, il pus e i vermi delle sue “pesti” di cera. Dietro i colori del barocco di Zummo, e di Consolo, sanguina e impuditrisce una ferita.
Con Consolo scompare l’ultimo rappresentante di quella grande stagione letteraria che la macchina fotografica di Leone ha fissato per sempre in un momento di gioia. Una foto storica, che sorprende i tre protagonisti uniti nella felicità di un momento magico nella spianata di fronte alla casa di campagna di Sciascia.
Vincenzo Consolo si è spento. Ma le sue opere torneranno presto in libreria. Cesare Segre, il critico più amato da Consolo, sta lavorando, insieme a Giovanni Turchetta, al Meridiano a lui dedicato. La Mondadori ha annunciato pure un volume di racconti. E Sellerio ha in preparazione un libro che raccoglie gli articoli apparsi su «L’Ora».
Giovedì • 17 Settembre 2015 •