Ho nel mio studio una fotografia scattata da Giuseppe Leone trent’anni fa. Occupa un’intera parete. C’è Vincenzo Consolo, nella foto. E con lui ci sono Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Ridono, contagiandosi a vicenda. Ridono fino a sgangherarsi. Si tengono spalla contro spalla, con le lacrime agli occhi. Sciascia sta in mezzo. Consolo si gira di lato. Vuole evitare di lasciarsi trascinare da Sciascia che quasi si piega sulle ginocchia. Bufalino si gratta la testa e sorregge gli occhiali. Ridono felicemente. Voglio ricordarli così, tutti e tre: i tre grandi maestri della letteratura siciliana del secolo scorso; i tre scrittori che hanno regalato alla letteratura opere indimenticabili. Fu Sciascia a scoprire Bufalino e a sostenere con la sua autorità il singolare liberty funerario di Diceria dell’untore. Fu Sciascia a ispirare sin dall’inizio Vincenzo Consolo, che era nato sì a Sant’Agata di Militello nel 1933, ma alla letteratura era nato all’ombra del Consiglio d’Egitto: dapprima con il felicissimo romanzo d’esordio La ferita dell’aprile (1963) fortemente voluto da Nicolò Gallo, e poi, soprattutto, con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Sciascia, Consolo, Bufalino. E bisogna aggiungere Elvira Sellerio, che nella foto non compare. Ma era presente nella scena, accanto al fotografo. Fu Elvira Sellerio a cementare l’amicizia fra i tre scrittori. E fu Elvira Sellerio a costringere Consolo, con la forza della sua ostinazione, a scrivere quell’altro capolavoro che è il romanzo Retablo (1987). Consolo era lento nella scrittura. Aveva i suoi tempi, e aveva bisogno di essere incalzato.
Consolo è stato l’erede di Sciascia. Ne ha continuato l’impegno civile. Non da epigono, però. Ma con un’autonomia letteraria sostenuta dall’invenzione di una lingua che fa capo alla Scuola poetica siciliana di Federico II, declinando Jacopo da Lentini e Cielo d’Alcamo attraverso le lezioni del barocco Daniello Bartoli, delle avanguardie novecentesche, e del conterraneo Lucio Piccolo autore dei Canti barocchi. Con Sciascia, Consolo ha condiviso l’amore per Manzoni. Ed è dai Promessi sposi e dalla Storia della Colonna infame che discende, nelle opere dei due scrittori, il senso di responsabilità morale e la diffidenza nel lavoro della penna che asservita, o malamente usata, può essere strumento di impostura. Consolo non è mai venuto meno a un’idea di letteratura come indagine sugli errori della storia e della politica. E quando si è sentito sopravanzato, quasi sopraffatto da una realtà politicamente indecorosa e violentemente prepotente, non ha esitato a deporre la penna e a interrogarsi su un silenzio attivo, inteso come dolorosa denuncia della barbarie. Consolo aveva alle spalle una solida esperienza di giornalista. Aveva percorso la Sicilia in lungo e in largo per conto del quotidiano «L’Ora» di Palermo. Aveva seguito processi su fatti tremendi e sondato gli abissi più sciagurati del malaffare. Era scivolato sul sangue di più cadaveri, lungo le strade e le trazzere. La sua penna non dimenticò mai gli scempi dell’isola: la distruzione del paesaggio, la corruzione, la violenza della mafia, le responsabilità di una classe politica abietta, lo sconvolgimento antropologico. La Sicilia divenne per lui un’Itaca presa in ostaggio dai Proci. Lui stesso indossò i panni di Odisseo. Viaggiò lontano dall’isola, con un cruccio dentro e un amore malinconico. Ma rimase fedele a Itaca. Vi tornò spesso. E usò la scrittura barocca come Ulisse usò il suo arco: per lenire un dolore e per cancellare un’offesa.
Incontrò un poeta sulla sua strada. Un poeta antropologo. Ne parla nei racconti saggistici dell’Olivo e l’olivastro (1994). Si chiamava Antonino Uccello. Questo delicato poeta aveva messo su, a Palazzolo Acreide, una casa-museo. Vi aveva sistemato tutti gli oggetti della civiltà contadina siciliana. E aveva ottenuto che tutti i visitatori, venissero dall’Australia o dagli Stati Uniti, dalla Germania o dalla Cina, ritrovassero là dentro un loro sogno, una loro infanzia, l’illusione di una vita piena. Consolo sognò là dentro, in quella serena casa-museo, un’Itaca senza Proci. Ma si rese conto che il suo, come quello di Uccello, era un disperato volo d’Icaro. Si ricordò di Siracusa, di un quadro di Caravaggio, del Seppellimento di Santa Lucia. Al racconto su Uccello accostò un altro racconto, su Caravaggio e il ceroplasta Zummo. Immaginò di scrostare la tela di Caravaggio, alla ricerca del taglio: della ferita mortale inflitta a Santa Lucia dal carnefice. Quella ferita era stata nascosta dalla bellezza della pittura. Solo Zummo, il figlio di una schiava, s’era accorto nel Seicento dell’inganno. Aveva affondato lo sguardo fin dentro la ferita. E da quel taglio aveva estratto le essudazioni, il pus e i vermi delle sue “pesti” di cera. Dietro i colori del barocco di Zummo, e di Consolo, sanguina e impuditrisce una ferita.
Con Consolo scompare l’ultimo rappresentante di quella grande stagione letteraria che la macchina fotografica di Leone ha fissato per sempre in un momento di gioia. Una foto storica, che sorprende i tre protagonisti uniti nella felicità di un momento magico nella spianata di fronte alla casa di campagna di Sciascia.
Vincenzo Consolo si è spento. Ma le sue opere torneranno presto in libreria. Cesare Segre, il critico più amato da Consolo, sta lavorando, insieme a Giovanni Turchetta, al Meridiano a lui dedicato. La Mondadori ha annunciato pure un volume di racconti. E Sellerio ha in preparazione un libro che raccoglie gli articoli apparsi su «L’Ora».
Giovedì • 17 Settembre 2015 •