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” Ratumemi ” Vincenzo Consolo e Filippo Siciliano
“Filippo Siciliano ha preso parte alle lotte contadine in Sicilia per
l’occupazione delle terre incolte:
“…da sopra un masso che affiorava nel punto più eminente, le mani a
imbuto sulla bocca, così Filippo parlò: La terra a chi lavora! Questa terra
incolta è terra nostra”
Filippo era un giovane universitario.
Ora, dopo una lunga vita operosa, senza mai tradire i suoi ideali di
giustizia e libertà, manda a tutti noi questo messaggio.
Caterina Consolo
Ratumemi
I
Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo,
da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi,
rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole
che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo
del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo
del timpano della chiesa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi,
luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume,
scroscianti di campanelle e di cianciàne. E cristiani erano a cavallo,
a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e cofìni pieni
di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino.
Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita
dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro
modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra,
Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo
dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella
forgia, cardi bolliti e bicchier di vino dentro la potìa), dai
balconi del palazzo Accardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia
Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano
a questo assembramento di villani, a questo cominciamento
di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e
d’ogni calendario.
E nel vocìo sommesso, nel mormorio di saluti e di discorsi,
nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di
campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i
mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle
facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie
coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera
rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le
stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa
del Popolo e uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone
e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono
in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa
alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli
animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevanù
studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della
scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del
paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica
angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti.
Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava
al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco
Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte,
la figlia terziaria e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere
il suo Decamerone. O come il medico Giunta, che andando
sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi,
sputava e imprecava: «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco
del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria,
uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e
indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata
di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio
ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo,
ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu
Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue
spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino,
Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare
dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere
della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della
sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo,
si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
«Avanti!»
E tutti mossero, in un corteo festoso e vociante, coi barbieri
che attaccarono a suonare la marcia d’Orsomando, il maestro
della banda.
Mossero per via Bivona e Castelvecchio, su per la mulattiera
al bordo della vallata del Canale, lasciarono le ultime case sul
poggio Immacolata, arrivarono all’eremo di San Corrado, già
convento dei padri Carmelitani e lazzaretto in tempo di colera
e di vaiolo arabo, ma luogo di sepoltura anche di morti impenitenti
e di morti per morte di coltello o di lupara. Furono subito
sotto le mura e la torre superstite dell’antico castello dei Branciforti,
Carafa e Santapau, principi di Butèra, della Roccella e
del Sacro Impero, conti di Mazzarino e di Grassuliato, eccetera
eccetera. Castello, mura e torri così eminenti in cima a questo
poggio sulle falde del monte Diliàno, evidente d’ogni luogo e
d’ogni parte, tutti, che in quel momento vi passavano di sotto,
avevano negli occhi, la fantasia e la memoria, fin dalla nascita,
come una cosa che minaccia, di legatura o magarìa, di maledizione
antica. “Sempre ce lo portiamo appresso questo peso del
castello” diceva dentro di sé il La Marca. E capiva, capiva que’
due operai della diga che un giorno, alla vigilia delle elezioni,
erano andati da lui col tritolo dicendo che volevano far saltare
Castelvecchio. «Ma siete pazzi?!» li apostrofò La Marca.
Ma ora anche Totò pensò a un gesto, a qualcosa che servisse
a vincere la figura, come fosse la torre degli scacchi.
«Oh,» gridò verso i compagni «chi è tanto valente da piantare
sopra la torre una bandiera?»
«Jeu!»
«Jeu!»
E si fecero avanti due giannetti.
Presa una bandiera, corsero su pel montarozzo, tra le troffe
di disa e di rovetto, sparirono dietro la quinta del muro diruto
del castello. Riapparvero subito in cima a quella torre, tra due
merli, e infilarono in un pertugio l’asta della bandiera rossa, che
si sciolse e si mise a svolazzare.
Oltrepassarono il poggio Gambellina, il monte Caruso, si
buttarono nella piana Sanghez, raggiunsero la valle di Braèmi.
Superata questa, giunsero a Ratumemi ch’era già passato
mezzogiorno.
Sullo spiazzo d’erbe da cui affioravano rocce come groppe
d’animali della grande masseria di don Ercole.
Un muro alto, con buche per le canne del fucile, cocci di bottiglia
sopra lo spiovente, la circondava tutta.
Oltre il muro, oltre il portone sprangato, spuntava la chioma
d’un carrubo, si vedevano le inferriate davanti alle finestre, la
loggia in alto con colonne di pietra e archi di mattoni. Sembrava
tutto chiuso, deserto, silenzioso. Ma dalle stalle si levavano
i muggiti delle vacche. E nitriti da dentro il baglio, abbaiar di
cani, tubare di colombi dai buchi della muratura.
Si sparpagliarono sopra l’altopiano, legarono gli animali alle
boccole di ferro infisse al muro, scaricarono la roba da mangiare.
Fecero tannùre con le pietre, accesero frasche e legna, formarono
la brace, arrostirono sopra le gratiglie le sosizze, costole e
stigliole d’agnello e di maiale.
Fumi grassi si levarono da tutta la spianata nell’aria stagna
di dopo la caduta della brezza, in quella calma sopraggiunta di
meriggio, compatti e netti come tronchi. Che in alto sbocciavano,
s’aprivano in onde, in rami, s’univano tra loro per le cime
a formare una volta, un cielo di promesse saporite e sazianti.
Zi’ Ciccio Arcadipane, due palme d’uomo, era dei cucinieri
il più sapiente. Rivoltava con le mani rocchi e tocchi che colavano
di grasso, spargeva sale, pepe, finocchio, rosmarino. E nel
mentre lavorava, sentiva quel bruciore in fondo alle ganasce, il
riempirsi la bocca di saliva come ogni volta ch’aspettava di mangiare
e c’era qualcosa che molto l’appetiva.
Così tutti i compagni del suo gruppo: Vito Parlagreco, ch’era
magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di
pasta con il sugo; Turi Trubbìa, Santo Brucculèri, Croce Vitale
e Petro Grassiccia, un omone alto, rosso nella faccia, la panza
prominente.
Stavano torno torno alla tannùra, fumavano e nasavano con
certe facce lunghe e occhi a bramosìa.
Così Rocco Grassiccia, un bambinello d’appena cinque anni,
che sembrava partorito là per là, sorto all’istante dalla panza
di suo padre. Ché del padre era la copia: faccia tonda e rossa,
gran capelli biondi e occhi chiari affossati sopra le gote. Gli stava
sempre accanto e ne imitava movenze e positure, mani in tasca,
braccia conserte, dita intrecciate dietro la schiena. Ma per
il padre era come non ci fosse, tant’era abituato ad averlo sempre
appresso, sul lavoro e fuori, la domenica in piazza, come
un’ombra rimpicciolita del suo corpo.
E quando fu il momento di mangiare, Roccuzzo, come gli altri,
s’appressò alla gratiglia, afferrò il suo pezzo di carne fumante
e si mise a strappare coi denti di lupotto. Poi qualcuno gli porse
pure il bombolo del vino, ch’egli, serio, afferrò e portò alla
bocca tenendolo in alto come una tromba. Il padre glielo tolse.
«Ma levati di qua! Ma guarda ’sto delinquente!» gli fece. Tutti
sbuffarono in una gran risata. Rocco s’offese, s’alzò e se n’andò
presso la sua bestia, s’accovacciò con gli occhi umidi di pianto
contro il muro. Scagliò a terra per dispetto un osso che gli era
rimasto nella mano. Subito un cirneco, randagio o venuto dal
paese appresso a qualche mulo, fu lesto ad afferrarlo e a correre
lontano. Zi’ Ciccio Arcadipane andò per riportarlo nella comitiva,
ma Rocco fece no, no, testardo.
Dopo, molto dopo, tornò in mezzo agli altri, ch’erano sazi e
avevano bevuto. E più di tutti Petro Grassiccia, la cui faccia per
natura rossa s’era fatta colore sanguinaccio. Sfotteva Arcadipane
per via delle quattro figlie femmine. Zi’ Ciccio rispondeva
che a fare femmine ci voleva più potenza, prova ne è che campano
più a lungo. Ma ribatteva l’altro che l’uomo si consuma
nel travaglio e ancor di più in quel travaglio dolce ch’è il pestare
senza posa col battaglio. E lei che fa, ah?, sta là a pancia
all’aria e non si sforza.
«Non si sforza? Non si sforza?» sbottò Arcadipane. «Ma tu
allora di quella cosa non hai capito niente!»
O cefaglione, cefaglione, o palma e giglio, o fiore di giummàrra!
Tutti risero, ma accortosi zi’ Ciccio di Roccuzzo, ch’ascoltava
attentissimo e voleva che vincesse suo padre in quella disputa,
disse ch’era ora di finirla, basta. E si mise mormorando a disporre
ancora carne sulla brace. Nell’attesa, il bombolo del vino
ripassava per le bocche.
Anche dagli altri gruppi, prossimi, lontani, le colonne di fumo
continuavano a salire; giungevano voci, risate, motti di complimento
e di sfottò. E le musiche ogni tanto, sommesse o accennate,
dei barbieri.
Grassiccia, già ubriaco, s’era attaccato a Vito Parlagreco, un braccio
sopra la sua spalla, e gli offriva mangiare, bere, chiamandolo
compare, baciandolo ogni tanto sulle guance.
«Mangiate,» gli diceva «bevete! Siete così afflitto!»
Vito, col suo aspetto magro d’affamato, era quello invece che
aveva divorato più di tutti.
Roccuzzo li guardava, e vedendo che suo padre pensava a
nutrire il suo compare, correva alla gratiglia, afferrava tocchi e:
«Pa’, o pa’,» faceva «tieni.»
E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro,
faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bombolo del vino.
Sfatti, si distesero lunghi, i gomiti a puntello sopra l’erba. E
fu come s’ognuno ritornasse solo, solo coi suoi pensieri, i suoi
affanni. Lo sguardo perso per quella nuda piana, a cui succedevano
colline, appena verdeggianti per gli spruzzi di pioggia
dell’ottobre in corso, o bianche e aspre, fortezze alte e puntute
di calcare. Vedevano da una parte un lembo col castello del paese, e giù la Piana, e la Montagna, e poi in giro, in quell’infinito che smarriva, in direzione di Riesi o Barrafranca, i feudi di Contessa, Mastra, Mercatante. E niuno d’essi, niuno, spersi tutti, affogati in quello spazio di dimenticanza, sotto quel cielo fermo, niuno s’era accorto che da sopra il muro bianco
della masseria, sopra i vetri di bottiglia, da dietro le finestre inferriate, sotto gli archi della loggia in alto, erano sbucati baschi neri e colorati sopra facce impassibili, occhi che scrutavano, nasi e bocche che fumavano. Che sulla loggia, sotto l’arco di centro, erano don Ercole in paglietta, Peppuzzo Bàrtoli
suo figlio e don Peppino Falzone il mafioso, attorniati d’altri che immobili guardavano quell’assembramento di villani sopra Ratumemi.
«Pa’, o pa’,» fece Roccuzzo scuotendo il padre per la punta del gilè «guarda, là.» Ma Petro non si scosse, rimase con gli occhi semichiusi e a fiatare col suo fiato grosso. Si scosse invece e saltò su zi’ Ciccio Arcadipane, guardò la
scena della masseria, guardò i galantuomini e rimase sospeso, come un allocco. Lo smosse, lo risvegliò Totò La Marca, che, sopraggiunto, gli diede ’na manata e cominciò a gridare: «Zi’ Ciccio, forza! Oh, voialtri, al lavoro! Basta col riposo. Siamo venuti qua a lavorare. Forza!» E gridando guardava a sfida su verso la loggia. Poi i suoi occhi caddero sul figlio di Grassiccia, su Roccuzzo: gli s’accostò, gli posò la mano sopra la lana arruffata della testa.
«E ’sto caruso,» chiese «a chi appartiene?» «È mio!» rispose il Grassiccia con orgoglio. «Deve tornarsene subito in paese, coi barbieri.» E rivoltosi a Rocco: «Te ne torni da tua madre. Tuo padre resta qua». Rocco, serio, fece sì con la testa. Totò gli sorrise e se ne andò. In uno con La Marca, s’erano mossi e sparsi, correndo per ogni direzione di quel piano, gli altri capi, vociando ai gruppi, ordinando di procedere svelti ai travagli. Andarono allora tutti verso le bestie, slegarono dai basti zappe picconi badili, aggiogarono i muli agli aratri. Si formarono le squadre, si segnarono confini con le pietre in quel feudo vasto, a schiere si disposero con gli attrezzi in mano. E Filippo Siciliano, da sopra un masso ch’affiorava nel punto più eminente, le mani a imbuto sulla bocca, così parlò: «La terra a chi lavora! Questa terra incolta è terra nostra. Da qui non ce n’andremo. Qui faremo le trincee.,. Al lavoro, compagni, al lavoro!» Si levò un urlo da tutta la spianata. Poi, dopo il suono della tromba, tutti si chinarono e cominciarono a colpire quella terra. S’alzò davanti a ogni schiera, ai raggi del sole che inclinava ormai verso le zolfare, verso il Salso e Gallitano, un polverone,
che subito avvolse e nascose i lavoranti.
da Le pietre di Pantalica
Vincenzo Consolo
Oscar Mondadori
L’ ARTE DEI BAMBINELLI CHE CONQUISTÒ PARIGI
L’ ARTE DEI BAMBINELLI CHE CONQUISTÒ PARIGI
C’ È QUALCOSA che va al di là del sentirsi legati ad un credo religioso, qualcosa come un richiamo a cui ciascun individuo misteriosamente si abbandona: è la notte di Natale. Recitava un’ antica ninnaredda, nome delle sonate e cantate natalizie: «Quantu è bedda la notti di Natali, ca parturìu Maria senza duluri! E fici un figghiu che è dignu d’ amari». Perché è proprio a notte fonda che si ripete l’ evento celebrato in ogni tempo e in ogni luogo della nascita di un bambino. «Sera dopo sera – racconta nel suo testo “Un remoto e recente presepe” Vincenzo Consolo – la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale …». In memoria dei canti che i pastori avevano dedicato al Bambin Gesù, ogni notte in Sicilia, venivano suonate le novene da ciechi cantastorie, che già dal 16 dicembre andavano in giro, di casa in casa, per chiedere: «Chi vuol prender novena?». Questi canti cominciavano e finivano un giorno prima dei tempi liturgici dell’ avvento, tanto che si diceva: «l’ orbi fannu nasciri a lu Bamminu un jornu prima». «Molti palermitani – scrive Giuseppe Pitrè in “Spettacoli e feste popolari siciliane” – ricorderanno ancora quel piacere sentito in quella specie di dormiveglia, quando svegliati da un dolce suono si rimane incerti della realtà di esso: «Alligràtivi, pasturi/ Già ch’ è natu lu Misia;/ Bittalemmi a li fridduri/ ‘ Spostu ‘ n vrazza di Maria». Era questa una tra le ninnaredde più note, soprattutto nel palermitano. Pure i ciaramiddari, che modulavano col piffero il suono monotono della cornamusa, facevano la novena, eseguita però durante il giorno o alla sera; chi poteva permettersi poi di spendere qualche soldo in più riusciva a disporre di una piccola orchestrina composta da un violino, un contrabbasso e un flauto. La preparazione del presepe avveniva giorni o anche settimane prima della novena. Era la rappresentazione figurata di un fantastico assemblaggio di pastori, di cui esisteva una curiosa lista: «la nanna cu li puddicini, lu ricuttaru, lu furnaru, lu piscaturi…». Al centro, tra Maria e San Giuseppe, ecco «il bambinello Gesù – come scrive sempre il Pitrè – il Re della festa» e di bambini, oggetto di premio e di regalo. In via dei Bambinai, a Palermo, operavano i cirari (ceraiuoli), esperti nell’ eseguire il Bambin Gesù, raffigurato nei vari atteggiamenti: ora dormiente, ora assiso con le braccia aperte e col rosso cuore in mano, ora sdraiato in mezzo alle ghirlande, a volte rivestito di pregiati abiti in seta e ricami in oro. A volte si trattava di un exvoto raffigurante le fattezze di un bambino reale: il ritratto del figlio guarito, o del neonato tanto atteso. Alcuni di loro recavano un bigliettino con la motivazione dell’ offerta. Queste statuine tramandate di generazione in generazione sono custodite come dei numi tutelari: alcuni di questi bambini ad esempio sono andati a finire con le famiglie emigrate, in Australia, negli Stati Uniti, in Venezuela. La tradizione dei “bambiniddari”, come venivano chiamati questi maestri scultori, era molto diffusa in Sicilia. Nella seconda metà del Seicento quest’ arte ebbe una tale diffusione e popolarità che i salons parigini dell’ epoca accolsero spesso queste ricercatissime sculture.A rappresentare la Sicilia e l’ arte della ceroplastica fu il siracusano Gaetano Zummo, considerato uno dei più bravi. La cera d’ api, duttilee delicata, è una sostanza secreta dalle api, come il miele, che si riteneva fosse un dono divino. La lavorazione della cera ha dunque una forte valenza simbolica e non è un caso quindi che con essa si riproduca l’ immagine del piccolo Gesù e di «un progidio» come scrive sempre Consolo: «È il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ ogni luogo del mondo».
Un remoto e un recente presepe
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Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola
La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.

Consolo e la Spagna
Cervantino contro i padri illuministi: Consolo e la Spagna
Sciascia, Moravia, Calvino, usciti dal fascismo e dalla guerra, avevano scelto la Francia dei lumi come cultura di elezione: Vincenzo Consolo opponeva loro il dissesto del mondo e la dolce follia rappresentati dai classici spagnoli, in primis Cervantes

Vincenzo Consolo aveva il viso levigato come un ciottolo marino. Un viso bello e lucente. Nel parlare la statura della sua persona, certo non alta, aumentava. E un sorriso pieno di sottintesi si faceva strada, e tu lo guardavi e ne eri contagiato. Forse Vincenzo sorrideva per gioco, e quel gioco veniva voglia di farlo anche a te.
Se gli stavi vicino, seduto con lui allo stesso tavolo, non potevi non sentirne l’energia; così tanta che ti sembrava a volte che il suo corpo tremasse, soprattutto le mani. I suoi furori civili emergevano netti. E capivi che oramai non si sentiva a casa da nessuna parte. Però la sua vera casa era chiaro dove fosse: in Sicilia, non c’era nessun dubbio. Ma lui si era fatto maestro dei dubbi, e per anni aveva viaggiato come se fosse stato in una fuga continua.
Ma non si pensi solo alla fuga di chi scappa, di chi non riesce a stare in nessun luogo; si pensi anche alla figura musicale della fuga. Quella che lui cercava era una polifonia geografica, dentro la quale i luoghi si versavano l’uno nell’altro, e il Nord e il Sud perdevano i loro connotati primari e ne assumevano altri, dai quali lo scrittore traeva una vasta gamma di sonorità e di ritmi. Manzoni e Verga si davano la mano.
Il viso di Consolo somigliava al ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Si tratta di un piccolo quadro, piccolo come spesso piccole sono le pitture di un artista che aveva tutte le qualità per esser considerato anche un miniaturista. Il quadro se ne sta a Cefalù, nel museo Mandralisca; ha una sala tutta per sé, e quando gli capiti dinanzi ti guarda con occhi ambigui; sembra che ti segua; forse sta prendendoti per i fondelli.
Per arrivare dinanzi al suo sguardo malandrino, hai attraversato alcune sale, e soprattutto ti sei fermato ad ammirare la collezione di conchiglie che il barone Mandralisca, fervente malacologo, era stato capace di radunare in pochi metri quadri. Mandano barbagli nella stanza in cui sono esposte, e gli occhi si perdono nel gioco di curve che li movimenta. La figura della spirale si fa avanti con prepotenza e la linea retta deve retrocedere (si tratta, si sa, di temi cari al saggismo e alla narrativa di Consolo).
È tale l’identificazione visiva che lo scrittore stabilì tra sé e il ritratto di Antonello che a volte viene il ghiribizzo di lasciarsi trasportare nel flusso di un anacronismo fruttuoso e pensare che sia stato proprio lo scrittore di Sant’Agata di Militello a posare per lui.
Parlando di Antonello e del barone Mandralisca siamo già entrati, quasi senza volerlo, tra le pagine del secondo libro di Consolo, quel Sorriso dell’ignoto marinaio che fu il frutto di una lunga elaborazione e che venne definito da Leonardo Sciascia come un parricidio.
Eh sì, da qual momento Consolo aveva scelto una sua strada che lo distanziava dall’illuminismo linguistico del suo maestro: punto di vista plurimo, stratificazione linguistica, prosa ritmica, inserti di materiali documentali, e soprattutto un modo di considerare la Storia come un’enorme cava dalla quale estrapolare materiali da sottoporre alla traduzione della letteratura.
Tutto questo era anche il risultato di uno spostamento dello sguardo: dalla Francia prediletta da Sciascia (ma anche da Calvino, che fu sempre un altro suo punto di riferimento) alla Spagna. L’irrequietezza geografica di Consolo lo aveva fatto approdare al paese del Chischiotte; i suoi pendolarismi tra l’illuminismo milanese (a Milano era andato a vivere quando aveva deciso di spostarsi dalla Sicilia) e il ribollire paesaggistico di una Sicilia girata in lungo e in largo durante i periodici ritorni, lo avevano portato a un’esplorazione fatta per strati ellittici.
Un incontro a Messina
Della sua predilezione per la Spagna, Vincenzo parlò anche durante un lungo incontro pubblico che avemmo a Messina. Sentiamo cosa disse a proposito.
«Devo dire che gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino, come Sciascia, avevano scelto la strada della Francia. Erano passati attraverso la Toscana rinascimentale, soprattutto dal punto di vista linguistico, e oltrepassando le Alpi, com’era già avvenuto a Manzoni, erano approdati alla Francia degli illuministi. La loro concezione del mondo rifletteva proprio questo reticolo della lingua, e non solo della lingua, quella che Leopardi chiama la lingua geometrizzata dei francesi. Questo lo si vede nella lingua cristallina, limpida, che hanno usato questi scrittori. Io mi sono sempre chiesto del perché questi scrittori, che hanno vissuto il periodo del fascismo e il periodo della guerra, abbiano optato per questo tipo di illuminismo, di scritture illuministiche e di concezione illuministica del mondo. Io ho pensato che appunto, avendo vissuto il fascismo e la guerra, speravano, era una scrittura di speranza la loro, speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare. Era la concezione utopica anche di Manzoni, quando immagina che in questo paese finalmente si potesse parlare un’unica lingua. I panni che sciacquava in Arno erano panni che aveva portato già umidi dalla Senna, e mentre li sciacquava in Arno, immaginava una lingua ideale, la lingua attica che era l’italiano comune.
Quelli della mia generazione, che hanno visto succedersi al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo. E quindi il mio itinerario mi portava non più alla Francia, ma verso la Spagna.
La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraverso tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Quindi la mia educazione, sia di contenuti che stilistica, è di tipo spagnolo».
Le segrete dell’Inquisizione
La Spagna in Sicilia significa anche Inquisizione. Consolo lo sapeva benissimo. E anche lui, come Sciascia, aveva voluto ficcare i suoi occhi nelle segrete di Palazzo Steri a Palermo. Era lì che aveva avuto sede il terribile tribunale e lì erano stati incarcerati i prigionieri. Alle pareti rimangono i loro segni, e spesso sono molto più che segni o semplici graffiti. Si tratta infatti di narrazioni murali, di poesie, di piccoli affreschi monocromi, di grida silenziose.
Consolo non poteva non essere attratto da quello che può considerarsi il documento più sconcertante di come si provi a mantenersi umani in un regime disumano. Basta riaprire Retablo – e riaprirlo seguendo la pista spagnola che già il titolo mette in rilievo in modo così palese – per imbattersi nelle prime pagine in una duplicità di sguardo: da una parte c’è la descrizione dell’arrivo del pittore lombardo Clerici nel porto di Palermo: «In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittade, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiare d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e di oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade».
Dall’altra, nel bel mezzo di quest’incanto, la presenza inquietante di «istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto». Tra questi spicca il «più tristo»: «lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i capi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare».
Incanto e tormento: parole che si slanciano a carezzare il paesaggio e parole che sono costrette a documentare l’orrore macchinale di questi obbrobriosi oggetti atti alla tortura. Mai come in Retablo, che usci nel 1987 come numero 160 della collana di Sellerio intitolata a «La memoria», lo scrittore si abbandona al fluire giocoso e serissimo delle parole, al loro sommovimento sintattico, al gusto per la spirale che il barone Mandralisca aveva esaltato nel suo museo di Cefalù. E sempre al centro della narrazione c’è un viaggio, un andare e un cercare insieme dei due protagonisti: Fabrizio Clerici (i disegni del «vero» Clerici adornano il libro) e Isidoro. E di nuovo si rinnova il tacito modello duale di Don Chischiotte e del suo scudiero Sancio Panza, in un processo di «infinita derivanza», che mescola le epoche e che mette le persone le une dinanzi alle altre, e tutte alla ricerca de El retablo dela maravillas cervantino, usato alla stregua di un velo di Maya: «velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza, dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii».
Amore e movimento
Entrambi i viaggiatori consoliani sono innamorati di donne che non li corrispondono: Isidoro, addirittura, vive in una sorta di deliquio continuo per la sua Rosalia. L’amore li spinge al movimento, a un ennesimo attraversamento della Sicilia, in parte coincidente con quello di Goethe, in parte dissimile. E anche ne L’olivo e l’olivastro avverrà qualcosa di simile. Ma non più in un tempo retrodatato, piuttosto tra le rovine della contemporaneità; e tali sono, in alcuni casi, queste rovine, che lo scrittore decide di «saltare» a piè pari Palermo, la capitale corrotta, il luogo del delitti, lo sprofondo del paese. Ma ci tornerà, ci tornerà con Lo Spasimo di Palermo. E di nuovo saprà individuare il luogo emblematico, quella chiesa senza tetto, dove gli alberi sono cresciuti cercando il cielo. Chiesa di grande bellezza, a segnare un confine dentro il quartiere della Kalsa.
Ogni volta è così: Consolo si «consola» proiettando se stesso in un manufatto esterno a lui; ne cerca le rassomiglianza; ne estrapola il dna visivo e se lo inocula.
In questo senso fa pensare al grande scultore che compare in Retablo, al «cavalier Serpotta». Chi abbia visitato i suoi oratori palermitani, sa bene di che genio si tratti. Bianchissime figure danzano le loro forme in sequenza. Sono modellate all’infinito, con una tecnica che disdegna il marmo, e fa uso di un materiale più malleabile. Si tratterebbe di stucchi, ma il Serpotta è stato capace di rafforzarli facendo cadere nei punti nevralgici una polverina di marmo.
Ma non fa solo figure umane, santi e sante; raffigura anche la battaglia di Lepanto, nella quale aveva combattuto Cervantes. Le navi hanno le vele fatte d’oro, e sembrano anticipare le svelte e filiformi figure di Fausto Melotti.
La battaglia viene rappresentata «in discesa», rendendo possibile all’occhio dell’osservatore di gustarne i dettagli e di avere una visione d’insieme. A ben pensarci, Consolo adotta nella scrittura una tecnica simile a quella del Serpotta. Modella la lingua con agilità, conoscendone le verticalità, usando i depositi di lessico scartati dal tempo. E quando è necessario fissa il tutto con una polverina marmorea.
Ma torniamo a Cervantes. Per lo scrittore siciliano contava non solo l’opera; lui considerava Cervantes «una figura straordinaria, oltre alla grandezza dello scrittore e del poeta, perché era quello che aveva sofferto la prigionia nei Bagni di Algeri. Aveva scritto due opere, I Bagni di Algeri e Vita in Algeri, proprio mentre era prigioniero, e poi anche nel Don Chisciotte c’è un lungo capitolo intitolato “Il prigioniero”, che è autobiografico, dove racconta la sua esperienza. Lì era stato prigioniero con un poeta siciliano, si chiamava Antonio Veneziano. Si erano incontrati, questi due ingegni, questi due poeti, nella prigione di Algeri, e Veneziano era stato riscattato prima perché pensavano che fosse un uomo di poco valore, mentre avevano intuito che Cervantes doveva costare molto e quindi il suo riscatto avvenne successivamente. In seguito i due ebbero uno scambio di versi, e lo spagnolo scrisse le Ottave per Antonio Veneziano. Cervantes, che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, ed era stato a Messina, si era imbarcato a Messina, mi era caro anche per questa congiunzione tra Sicilia e Spagna».
Leggere Cervantes significava anche spostare il baricentro della narrazione. Dai racconti marini, «dove la realtà svanisce, e dove c’è l’irruzione della favola e del mito», che avevano visto nascere i poemi omerici, al romanzo del viaggio. «Cervantes sposta il viaggio, fa dell’andare, del peregrinare, una cifra che poi adottò Vittorini con Conversazione in Sicilia. Ecco, Cervantes è stato quello che ha spostato il viaggio dal mare alla terra, ed è una terra di desolazione, di dolore – la Mancia – che diventa metafora del mondo».
Gli anni ammutoliti
E quella terra di desolazione, con il tempo si estende, e lo stesso Mediterraneo che per lo scrittore era stato «uno dei luoghi civili per eccellenza, dove c’era stato un grande scambio di cultura, una grande commistione, una reciproca conoscenza», si contamina, diventa guerresco, riaffiorano le guerre di religione, risorgono i nazionalismi.
Sono gli anni in cui lo scrittore si ammutolisce. Continua a viaggiare, ma il suo sguardo ha perso in prensilità. L’arte della fuga perde i suoi caratteri musicali e diventa un andare da una Milano che si desidera abbandonare a una Sicilia che si fa sempre più fatica a riconoscere. Il mondo è diventato casa d’altri. Il velo di Maya gli è stato levato per sempre, pensa tra sé e sé. Forse comincia a dubitare della stessa letteratura, che vede prostituirsi in facili commedie di genere.
Però è sempre dalla letteratura che trae i suoi esempi; è da lì che riparte. A Messina, alla fine del nostro colloquio – che ho poi trascritto in un mio libro di viaggi siciliani, intitolato In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, ed edito da Mesogea – disse con il sorriso da ignoto marinaio affiorante sul volto levigato come un ciottolo marino: «Mi piace sempre ricordare una frase che Calvino mette in bocca, ne Il castello dei destini incrociati, a Macbeth». La frase suona così: «Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro».
Silvio Perrella
Il Manifesto Alias Domenica Edizione del 30.08.2015
L’ onore di Sicilia
L’ONORE DI SICILIA
Prefazione in RITA BORSELLINO – LA SFIDA SICILIANA – PAG. 7-11
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti Roma 2006
Da Antigone, da questa donna bisogna partire, da questa eroina di Sofocle che ha il coraggio di ribellarsi all’ingiusto comando di un tiranno, Creonte, per ubbidire a “leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne…” Sono, quelle a cui ubbidisce Antigone, le leggi dell’umano, della pietà, della giustizia, leggi che la spingono a seppellire “il corpo morto di un figlio di mia madre”, il corpo del fratello Polinice. Ma ci insegna il trageda greco che sì, si può anche seppellire subito il corpo di un uomo ucciso, ma quel corpo rimarrà virtualmente insepolto sino a quando non si saprà la verità su quell’assassinio, sino a quando i suoi congiunti non avranno giustizia.
E sorelle di Antigone sono tutte quelle donne che hanno reclamato verità, reclamato giustizia per il loro congiunto ammazzato; sorelle di Antigone sono in Sicilia madri, spose o sorelle che hanno reclamato verità e giustizia per il loro famigliare ucciso dalla mafia, ucciso dal potere politico-mafioso. Solo giustizia e verità posso infine far seppellire quel corpo oltraggiato, dilaniato da colpi di lupara, di kalashnikov, da esplosione di tritolo. Sorella di Antigone è Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, quella contadina, quella nobile donna che Carlo Levi incontra a Sciara e di lei scrive:”Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda, assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata è la Giustizia. La Giustizia vera…” Sorella di Antigone, sorella di Francesca Serio è Saveria Antiochia , madre dell’agente Roberto, ucciso, nel 1985, insieme al suo capo e amico, il commissario Ninni Cassarà. Saveria racconta in Nonostante donne. Storie civili al femminile:”Le donne a volte piangono e gridano. E’ una questione di carattere. Ma io so che chi non piange e non grida muore dentro di dolore. Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te”.
Sorella di Antigone, di Francesca Serio, di Saveria Antiochia, di Pina Grassi è Rita Borsellino. Anche lei, Rita, “s’è fatta in un giorno” come dice Levi, quel terribile, tragico 19 luglio del 1992 in cui fu ucciso, in via D’Amelio, insieme ai poveri cinque ragazzi della scorta, il fratello Paolo.
Sorelle di Antigone: donne tutte che contraddicono, cancellano lo stereotipo siciliano della Santuzza, della Mena o della Diodata, che mettono in luce la tradizione della donna siciliana attiva, quella che dai Fasci socialisti al Primo e al Secondo dopoguerra ha combattuto accanto agli uomini, con essi ha scioperato, ha occupato le terre incolte dei feudi, e ne ha subito la repressione, è stata ferita o uccisa, com’è successo a Portella della Ginestra. Dice all’Assemblea Costituente Girolamo Li Causi il 2 maggio 1947: “Ho visto una bambina di tre anni trucidata, cinque orfani impietriti dall’orrore, attorno alla madre morta. Ho visto una vecchia di settantatré anni ferita…”. Donne quelle non più verghiate, ma vittoriniane, donne come la madre Concezione di Conversazione in Sicilia, come Erica, come la Garibaldina o, fuor di letteratura, come Maria Occhipinti di Una donna di Ragusa.
Rita Borsellino ci narra del prima e del dopo quella domenica del 19 luglio 1992 in questo libro. Ci dice della sua famiglia d’origine, del padre Diego e della madre Maria Pia Lepanto, farmacisti alla Kalsa, ‘al-Halisah’, l’eletta, l’antico quartiere arabo di Palermo, quartiere ora degradato, popolare, povero. E la farmacia Borsellino, di via Vetriera prima e quindi della vicina Carlo Rao, è il luogo dove gli abitanti del quartiere vanno a confidare, a “depositare” le loro angustie, i loro mali, a prendere le medicine a credito, crediti che il dottor Diego segna su un quaderno che poi butta via.
Nel quartiere della Kalsa è cresciuto anche Giovanni Falcone, che racconta: “Abitavo nel centro storico, in piazza Magione. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari”. Era dunque la Kalsa, come altri di Palermo, il quartiere delle strade che s’incrociano e delle strade che divergono: dei giovani che diventano magistrati, tutori del diritto, delle leggi dello Stato, che hanno un uguale, tragico destino; il quartiere dei giovani che diventano picciotti, killer al servizio della mafia, la mafia delle cosche e quella più occulta della borghesia imprenditoriale e politica, la mafia “bianca”, la più invisibile, la più insospettabile.
Rita è l’ultima di quattro fratelli, viene dopo Adele, Salvatore e Paolo, è la piccola di casa, fatalmente la più vezzeggiata, ma è anche la più timida, la più chiusa. “Ero una ragazza patologicamente timida” scrive, “Ero una persona chiusa, silenziosa, timida”.
Alla morte del padre, Rita si iscrive alla facoltà di Farmacia, e quindi va a lavorare là in via Vetriera nel negozio di famiglia. Che è per lei la scuola della conoscenza del mondo, dell’ “altro” mondo, quello dei sofferenti, dei diseredati, degli emarginati. E’ di famiglia cattolica, è cattolica praticante lei stessa, e nella farmacia, che non è quella delle vane chiacchiere dello speziale don Franco de I Malavoglia, mette in pratica la carità cristiana, la solidarietà verso l’umanità bisognosa. Sposa Renato Fiore, farmacista anche lui, ed ha tre figli, Claudio, Cecilia e Marta. Ma da prima, e ancora dopo, non cessa il suo rapporto di affinità, di amicizia col fratello Paolo, che da sempre l’ha prediletta e protetta. E leggiamo quindi con quale dolore, con quale strazio, orrore e furore Rita ci racconta di quel fatale giorno, di quella domenica di luglio in cui avviene la strage, là, in via D’Amelio, nel momento in cui il magistrato sta per compiere l’azione più umana, filiale, quella di andare a trovare la vecchia madre. Una strage, 55 giorni dopo la strage di Capaci, annunziata, annunziata dallo stesso magistrato, una strage prevedibile, e quindi comandata chissà da quali oscure, segrete entità, ai manovali della mafia, agli esecutori di morte.
E da quel giorno cambia la vita di Rita Borsellino. “La seconda vita”, come lei la chiama. Scrive:”Non ci si lascia annientare dal dolore (…) Perché quello che ci spinge, che spinge tanti famigliari delle vittime della violenza a mettersi in gioco, a mettersi in cammino (…) è l’amore, è la voglia di far continuare quello che i nostri cari stavano facendo”.
Diventa quindi una persona pubblica, Rita Borsellino, una missionaria della Giustizia
della verità, della civiltà. E incontra nel ’93 don Luigi Ciotti, s’impegna a lavorare indefessamente per l’associazione Libera, a parlare a migliaia e migliaia di giovani, in Italia e all’estero, di giustizia, di legalità.
Si è dimessa ora da presidente onorario di Libera per affrontare un altro impegno: quello politico, quello di candidata del centro sinistra alla presidenza della Regione Siciliana.
Questa nostra regione autonoma a statuto speciale, strumento democratico concesso allora dal governo centrale per scongiurare le spinte indipendentiste che certe formazioni politiche allora fomentavano. Strumento democratico usato quindi, dalle eterne forze della conservazione, nel peggiore dei modi: come strumento di privilegio, di potere clientelare, se non spesso di malaffare, come l’ha usato per esempio l’ultimo governo regionale di centro destra, di cui alcuni membri sono stati arrestati per concorso in associazione mafiosa, sono inquisiti per la stessa imputazione o per favoreggiamento aggravato alla mafia, come il presidente Salvatore Cuffaro che se ne sta ancora là, a governare la nostra infelice isola.
Rita Borsellino, ne siamo certi, restituirà dignità, democrazia e giustizia, di cui questa nostra Sicilia ha tanto bisogno, come del resto l’intero Paese, questa Sicilia che ha cominciato la sua storia politica dal Secondo dopoguerra in poi con la violenza, con il sangue, con tutta una sequela di morti che da Portella della Ginestra arriva fino al 1992 e oltre.
“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia ! “ declamava alla prima seduta dell’Assemblea Regionale il Presidente (per anzianità) Lo Presti, il 25 maggio 1947. E ancora oggi, dopo le elezioni di aprile, la Borsellino, la prima donna presidente della Regione, potrà esclamare: “Giustizia per la Sicilia, onore per la Sicilia !”.
Vincenzo Consolo
Milano,6.2.2006
Prefazione al libro “Rita Borsellino, la sfida siciliana” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti 2006
Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo (Sant’ Agata di Militello – Messina 1933) è, tra gli scrittori siciliani moderni, una figura atipica di narratore che, pur traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza “isolana” vive da tempo in continente dove si è formato ed ha realizzato le sue più convincenti prove letterarie. Questa distanza gli ha permesso di ricostruire narrativamente momenti e vissuti personali attraverso il “filtro” di un particolare tipo di memoria che spesso si vena di nostalgia. Di particolare interesse è il modello linguistico che per certi versi ricorda il miglior Vittorini (Conversazioni in Sicilia). La” lingua” di Consolo è una ricerca continua di originalità che, solo in parte, deriva dal suo personale timore di non essere riconosciuto o differenziato nell’affollato panorama letterario italiano. A Marino Sinibaldi ha dichiarato in un intervista: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia ed ai suoi esiti. Ma non è dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cercavo di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”. Il suo successo, non commensurato al valore assoluto della sua opera, è stato anche limitato da una sua certa ritrosia ed incapacità di adattarsi alle regole della pubblicità e del consumismo. E’ diventata famosa una sua frase in cui lo scrittore sottolinea che la violenza del tempo e le trasformazioni che ne conseguono finiscono per distruggere un mondo ingiusto, ma pure carico di valori positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e per sovrapprezzo impoverito sul piano umano. Questo osservatore così distante, ma così poco distaccato ha scritto un libro che mi ha stimolato a raccogliere queste brevi riflessioni ed il suo inserimento in questa sezione è il dovuto tributo alla sua onestà intellettuale, al suo garbo di gentiluomo ed al suo genio di scrittore. Il libro si intitola “Le pietre di Pantalica” (1988) ed è diviso in tre sezioni ed è dalla prima di queste (Teatro) che vorrei dedicare la mia attenzione. Nel racconto “Il Fotografo” raccontando il periodo del passaggio del fronte italiano nel suolo siciliano attraverso gli occhi di un fotografo di guerra (Robert Capa) al seguito delle truppe alleate ne descrive così il rapporto con il territorio e le persone in quel particolare, tragico, momento storico:
“Andava con la sua jeep su per i colli, giù per le vallate, per le distese infinite, gialle nude assolate, con fumi di ristoppie che bruciavano, cocuzzoli giallastri di detriti di zolfare, qualche albero scheletrico qua e là, qualche ciuffo di spino, spaccapietra, vruca, calavèra o di cicerchia, qualche stazzo o masseria solitaria, uguali a quelli di Spagna e della Tunisia, fotografava pastori e contadini. Immobili, con bordoni in mano, logori come la terra su cui stavano, o piegati con gli zapponi a rompere la crosta, sembravano indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Roberta aveva fotografo per quelle lande, fotografato con divertimento e simpatia, uno di questi contadini o pastori, un uomo che s’alzava da terra appena d’una spanna, scavuzzo senza età, terragno monachino, in braghe di tela e gilé di logoro velluto, cenciosa camicia a mille toppe, calzari di tela e pelle di montone, fazzoletto in testa annodato a mo’ di copricapo. Accanto a lui, accovacciato, il culo sui talloni, le braccia sulle cosce, la fede al dito e braccialetto d’oro al polso, uno spilungone di soldato americano, un levigato e bello Gary Cooper, biondo, sano, sorridente. Il contadino, una mano sulla spalla sul soldato, con l’altra, in cui teneva il lungo suo bastone, gl’indicava qualcosa in lontananza, una strada, un paese, forse il miraggio d’un pezzo o d’una fonte. Dietro a loro, la campagna arida, svampante, s’impennava in montarozzi di gessi e silicati. (…) E’ qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle precedenti della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvìo quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali ed impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti.”
Più avanti nello stesso libro Consolo si cimenta nella lettura di due immagini del suo “album” di famiglia, ma, in sintonia con la sua personale poetica, spesso incline alla nostalgia, ne propone una descrizione senza intenti semiologici o tentazioni “barthesiane”. Indossa gli abiti dell’archeologo per effettuare “una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o di frammenti epigrafici da cui partire per la ricostruzione attraverso la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Il concetto di Storia per Consolo, che per certi versi lo accomuna a Georges Perec, tiene conto dell’arbitrarietà e dell’inattendibilità che la caratterizzano, ma lo scrittore siciliano afferma di essere pronto ad affrontare questo rischio “calcolato” proponendosi di navigare a vista attraverso le “Simplegadi dell’allucinazione e del sogno”. Nel 1938, convalescente da una polmonite, Consolo bambino è ospitato in un casello di un paesino montano della provincia di Messina. In quei boschi, dove il padre, commerciante di legnami, si compiono le sue prime timide esperienze affettive evocate, in qualche modo, dalla lettura di due particolari immagini in cui il padre aveva voluto farsi ritrarre dal fotografo del paese accanto al suo principale “strumento” di lavoro, un fiammante camion Fiat 621 targato ME 4318. Con l’ausilio di una lente, Consolo, “legge” così la prima foto:
“Il camion è di faccia, sulla strada in terra battuta, coi quattro fari sul davanti e la maschera del radiatore attraversata in diagonale da una banda bianca. E’ sotto grandi rami di querce che in alto, unendosi, formano come una galleria. La luce piove pezzata sul camion e sulla strada, a chiazze, come in un quadro di Monet. In primo piano, a terra c’è mio padre, un braccio appoggiato al parafango, l’altro ad arco, col pugno puntato contro la vita. E’ in pantaloni scuri e camicia bianca. Sul cassone, sopra il carico di lunghi e grossi tronchi d’albero che sovrasta la cabina, sono altre quattro persone: i due picciotti, gli operai di mio padre, a sinistra, e due boscaioli a destra…”.
In uno “spiazzo sterposo circolare” è collocato, nella seconda foto, l’oggetto dell’orgoglio del padre di Consolo…
“Il camion è posto di traverso, in lungo, quasi infilato nello spazio tra i perfetti coni di due pagliari. Sul vertice dei due pagliari sono in piedi, i pugni contro la vita, come telamonio guglie antropomorfe, i due picciotti; attorno e sopra il camion altre cinque persone: a sinistra, è un boscaiolo in maniche di camicia e gilè di velluto; accanto un uomo anziano, alto, massiccio, barbuto, in gabbanella grigia e coppola, un braccio appoggiato allo sportello del camion, l’altro puntato su un bastone (…) Sul cofano del camion, seduto, a gambe incrociate, le spalle contro il parabrezza, è mio padre: sorride, forse di sé, in quella situazione teatrale, in quella posa per lui innaturale…”.
Ma allo scrittore siciliano non basta questa lettura quasi analitica della “realtà” realizzata attraverso due piccoli cartoncini 8×13 cm. e la memoria entra in scena prepotentemente a rivendicare un suo spazio nell’esperienza formativa del narratore e tra gli inquilini del casello la sua attenzione viene catturata da una creatura davvero “speciale”:
“Amalia, la piccola, una ragazza di dodici o tredici anni, era invece nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri e nervosi. Era lei a fare i lavori esterni e più pesanti: trasportare l’acqua da la fonte, raccogliere frasche e tagliare la legna per la cucina ed il forno, governare una coppia di maiali e tre caprette. Scelsi subito Amalia come mia compagna. Chè selvatica com’era e solitaria, aveva una sua sottile seduzione ed una sua autorevole ed esclusiva possessività. Divenimmo inseparabili. Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero…”.
Una iniziazione, quella di Consolo bambino ai linguaggi naturali che preconfigura l’interesse alla lingua del narratore delle opere di compiuta maturità, da “Il sorriso dell’ignoto marinaio” a “Retablo”. Mi piace concludere queste brevi considerazioni con un ringraziamento ad Amalia, a quella ragazzina “nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri” che lo scrittore lascia al casello…
“Alla fine di settembre lasciammo Ciccardo. Ed io ho impressa per sempre nella memoria la faccia d’ Amalia. Facendo finta di legare fascine, teneva fisso lo sguardo nella cabina. E quando il camion fu messo in moto e cominciò a sussultare, lei lasciò lì le frasche e fuggì, sparì nel bosco, scalza, la testa nera e caprigna, la vesticciola rossa”.
Ad Amalia
dal web fotologie
Le giornate spagnole di Vincenzo Consolo
Pubblicato in Spagna Conversacion en Sevilla,
per la cura di Miguel Angel Cuevas.
Che ci restituisce gli interventi del grande scrittore siciliano
in occasione di un convegno a lui dedicato in quella città nel 2004
Notabilis Maggio-Giugno 2015, anno VI, n° 3



