La Sicilia e la cultura araba



Si sa che, con la fine del latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico, nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:

 Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…

La cultura araba ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale, mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo. Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua, nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie. Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato, sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana, alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari, nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980, in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia, della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi, a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto, la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.

Vincenzo Consolo

Armonia perduta, Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario

Le onde tremende lo spingono, quasi lo sbattono, sfracellandolo, contro l’alta costa di basalto. Il naufrago riesce ad afferrare lo spuntone d’una roccia, ne viene subito staccato dal risucchio dell’acqua e, ferito nelle mani, è ancora in balia, fragile uomo, della furia del mare. Nuota disperato sottocosta fino a che non si trova di fronte a una insenatura piana, alla foce di un fiume. Prega la divinità fluviale d’arrestare lo scorrere rapido delle sue acque perché possa finalmente approdare, uscir dal mare, salvarsi dalla tempesta, da sicura fine. E così, spossato, ferito, i polmoni pieni di salmastro, tocca finalmente la spiaggia, avanza sopra una solida superficie, tra alberi e arbusti. È l’uomo più solo sulla terra, senza più un compagno, un oggetto, l’uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento, panico, in una terra estrema, sconosciuta, che come e più del mare può nascondere ancora pericoli, violenze. Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, debole, trova riparo in una tana, fra un olivo e un olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della possibilità di salvezza dentro un consorzio umano), si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato nel mattino dalle voci, dalle grida festose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. E si presenta a loro, la nudità schermata, l’organo sessuale occultato da una fronda simbolica per non allarmare le vergini, come il più dimesso, il più umile dei supplici. Così Ulisse entra nella terra dei Feaci, nel luminoso regno di Alcinoo, nella ricchezza, nel seno di una altissima civiltà, l’utopia, regno appartato, remoto, incontaminato (tutto qui è opposto al desolato, periglioso, infecondo, all’oscuro mare, opposto a tutti i passati approdi infidi e disastrosi: il rigoglioso giardino di Alcinoo, la fastosa reggia, la saggia moglie regina, i figli belli e valorosi, l’accogliente corte, il popolo amichevole). Entra in questo regno, Ulisse, e noi, lasciata la cornice dell’epica e la narrazione in terza persona, entriamo nel cuore del poema, nella narrazione testimoniale in prima persona svolta dal protagonista, dall’eroe. Narrazione a ritroso, in un lunghissimo flash-back. Che comincia, come nel passaggio di una soglia magica, di un confine iniziatico, nel momento in cui Ulisse, con i suoi compagni, le sue navi, lascia la distrutta Ilio e intraprende il viaggio di ritorno verso Itaca. È un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, quello di Ulisse, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, atroce, mostruoso (il mostruoso “naturale” sembra che faccia qui da contrappunto a quel “mostruoso” artificiale, tecnologico, progettato da Ulisse, a quel cavallo di legno, arma estrema, infida e dirompente, che ha segnato la fine di Troia, della guerra), e a grado a grado sono smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende fino all’estrema solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita. Il romanzo di Ulisse non poteva che svolgersi in mare, perché il mare, questo cammino mobile e mutevole, è il luogo dove avviene il distacco dalla realtà, dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri. Attraversate tutte le perdite, le follie, concluso il vagare per l’infido mare, divenuto più consapevole, più sapiente, più umano, Ulisse potrà finalmente raggiungere Itaca, affrontare i nemici reali, storici, installatisi nella sua casa; con l’aiuto del figlio, di Telemaco, ricolmare la lunga assenza, ricongiungersi con Penelope, rinsaldare lo squarcio della sua vita. Purgato d’ogni colpa, dopo il viaggio penitenziale, ritrovare l’armonia perduta.

La luna e il faro, il Meridiano su Vincenzo Consolo

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di Giuseppe Schillaci 

É saturnina la Luna, atra, melanconica, sospesa nell’attesa infinita della fine che non arriva mai.

Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore.

Lei, la Luna, ci salvò e ci diede la parola. 

Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale.

(Lunaria, Mondadori, 1985) 

Il 21 gennaio 2012 è scomparso Vincenzo Consolo, uno dei più raffinati scrittori italiani, tra gli ultimi intellettuali europei della sua generazione, classe 1933, ad aver vissuto le luci e le ombre del Novecento. A tre anni dalla morte, Mondadori pubblica finalmente il Meridiano “L’opera completa” di Vincenzo Consolo, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre. Il volume raccoglie i romanzi e i racconti, le scritture liriche e quelle d’intervento sociale, restituendo così l’immagine poliedrica di uno dei più grandi cesellatori della lingua italiana, le cui opere sono state tradotte in diversi Paesi e studiate nelle università di tutto il mondo.

Dello scrittore Vincenzo Consolo, collaboratore dell’Einaudi di Calvino e Ginzburg, m’impressionò, già da adolescente, l’originalità della voce: una lingua barocca ma schietta, appassionata, sempre in bilico tra contemplazione e denuncia, una scrittura legata profondamente alla sua terra. Consolo era ossessionato dalla Sicilia, così come tutti i grandi scrittori sono ossessionati dalla propria identità, dalla verità e dal divenire: la sua opera racconta un’isola visionaria e tragicamente reale, tra mito e storia, poesia e narrazione, alta letteratura e cultura popolare. A rileggere i suoi testi, oggi, si notano alcune figure che ritornano, ossessive, per tessere un mondo fragile e sublime, inquieto, in dissoluzione. Una di queste figure è il faro, presente anche nel titolo della raccolta di saggi Di qua dal faro (Mondadori, 1999): il faro per Consolo è un baluardo, la luce della ragione contro l’oscurantismo, una barriera contro il caos della notte.

La contrapposizione tra luce e oscurità si rivela poi, in tutta la sua potenza, nel romanzo di Consolo che più ho amato: Nottetempo, casa per casa, premio Strega nel 1992. Si tratta di una storia ambientata a Cefalù, in provincia di Palermo, ai tempi della nascita del Fascismo. Per Consolo, l’adozione del romanzo storico è sempre da intendersi in chiave metaforica rispetto al presente: gli anni Venti sono così un’epoca d’oscurantismo simile a quella che l’autore presagiva agli inizi degli Anni Novanta, all’alba del “nuovo ventennio”. La metafora storica era già presente nel romanzo sul Risorgimento tradito, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato in pieni anni Settanta e etichettato come l’ « anti-Gattopardo », in cui Consolo racconta di un nobile siciliano illuminato che tenta di resistere al potere reazionario della nuova Italia, per parlare in realtà dell’Italia post-sessantottina, ipocrita e refrattaria a un reale cambiamento. Ma torniamo a Nottetempo, casa per casa. Qui, alla violenza fascista e alla perversione del potere fa eco un altro oscuramento della ragione, questa volta misterico, soprannaturale. Proprio nei primi anni Venti, infatti, si trasferiva a Cefalù Aleister Crowley, il mistico artista inglese che inneggiava alla libertà dei sensi e a un mondo esoterico che rasentava il delirio visionario. Alla ragione del faro si riflette e s’oppone così la poesia della luna, che è anche, irrimediabilmente, segno di follia e di dolore, come per il padre del protagonista Petro Marano, che corre rabbioso nelle notti di luna piena per quietare il suo male catubbo (la licantropia).

Ecco delinearsi il paradosso dello scrittore, la tensione irrisolvibile tra prosa e poesia, tra la storia oggettiva del faro, da un lato, e i mondi immaginari della luna, dall’altro. In questo orizzonte si muove la lingua musicale di Vincenzo Consolo, trovando nelle parole la propria salvezza. La vera sconfitta è l’afasia, l’impossibilità del racconto, il silenzio della morte. Così Consolo, come Petro Marano, cerca redenzione nel racconto, che sembra nascere da una nostalgia per l’unità perduta, da un’aderenza naturale tra le parole e le cose. Questa sorta di autenticità perduta, di bellezza primordiale, Consolo la insegue, ostinato, in tutta la sua opera, inventandosi una lingua che resuscita le voci greche, arabe, spagnolesche e francesi che hanno abitato, secoli fa, la Sicilia.

Vincenzo Consolo adorava la sua terra, e non solo perché rappresentava il teatro della sua infanzia, ma anche perché lo scrittore guardava alla Sicilia come centro del Mediterraneo, ricettacolo di culture d’oriente e d’occidente, porta d’Africa, culla della letteratura italiana e della civiltà europea. Ecco perché, negli ultimi anni della sua vita, intervenne spesso nel dibattito pubblico sull’emigrazione, allorché la Sicilia veniva considerata non più come porta, ma come muro d’Europa. Ma la Sicilia di Consolo è anche una terra del Sud, di un Sud d’Italia che è simile a tutti i Sud del mondo, e che è dunque terra tradita, ferita dalle storture del potere, schiacciata dalle meschinità umane, dalle mafie, dall’avidità, dall’ignoranza. Da emigrato al Nord Italia, a Milano, dove s’era trasferito già negli anni Sessanta, Consolo scrive di sradicamenti, di fughe, di un’Itaca a cui è impossibile ritornare.

Ho avuto l’onore di incontrare Vincenzo Consolo e il piacere di frequentarlo negli ultimi anni della sua vita, insieme alla compagna Caterina Pilenga, suo riferimento prezioso e costante. Durante quelle cene nelle osterie di provincia, restavo affascinato dai racconti d’un mondo quasi picaresco, che non esisteva più, e dai suoi aneddoti sui maestri della letteratura mondiale o sui personaggi leggendari del popolo siciliano, sempre dipinti con sagacia e profonda umanità; dagli occhi di quest’uomo minuto e fiero trasparivano le immagini delle sue opere, la loro complessa semplicità, l’ironia, la discrezione, la rivolta.

Vincenzo Consolo ci lascia un’opera densa, in cui ogni parola ha un peso e marca la propria estraneità al cicalio dei best-sellers contemporanei e dell’editoria mercenaria. La sua scrittura ci ricorda che la letteratura è una cosa seria, un tempio in cui entrare con rispetto, senza rinunciare però al contraddittorio e allo sberleffo, alla commedia dentro la tragedia, alla trivialità e al sorriso, alla speranza in un mondo diverso, nonostante la catastrofe. Consolo ha creduto sempre, caparbiamente, alla potenza della lingua e alla necessità della luce, forse proprio perché temeva con profonda angoscia il silenzio e le tenebre. La sua maestria letteraria abbracciava dunque ora la luna, ora il faro, e cercava di far proprie, allo stesso tempo, paradossalmente, la visionarietà del poeta Lucio Piccolo (la luna) e la tensione sociale di Leonardo Sciascia (il faro). Questo movimento torna sempre alla sua Sicilia, che è anche metafora dell’Italia, in una lotta appassionata, irrisolvibile e mai elusa, contro l’oscurantismo.

Da Milano, Consolo « scendeva » spesso in Sicilia, nella sua Sant’Agata di Militello, e lo faceva quasi fosse un dovere, una questione di principio. Proprio a Sant’Agata di Militello si tennero i suoi funerali, tre anni fa: una lunga processione silenziosa e commossa, lontano dai clamori dell’Italietta del 2012, agli antipodi d’un mondo che non lo capiva più, e da cui Consolo si teneva lontano. Lui, il razionale lunatico Vincenzo Consolo, si nutriva di disillusioni e continuava a scrivere, finché ne ebbe le forze. Quando lo interrogavano sul tempo presente o sull’avvenire di quest’Italia matrigna, Consolo amava citare un verso di un poeta spagnolo a cui era particolarmente affezionato, Antonio Machado; un verso semplice, tre parole: « desperados esperamos todavia ».

L’ Introduzione di Cesare Segre al Meridiano di Vincenzo Consolo.

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Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa, due anni fa esatti, ha turbato tutto il quadro della narrativa nel nostro paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile. Il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto intorno al 1969) fu una rivelazione. L’ignoto di una splendida tavoletta di Antonello da Messina nel museo Mandralisca di Cefalù divenne, con il suo sorriso, una specie di doppio di Vincenzo Consolo. Ma accanto alla vera immagine di Consolo sono spesso apparse altre due immagini: quella di Leonardo Sciascia e quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il primo, pur diversissimo nello stile, fu il maestro di Consolo per l’atteggiamento di fronte ai problemi e alle contraddizioni sempre più laceranti della Sicilia. Il secondo ne fu l’antitesi: tanto è lontano il suo Gattopardo dal Sorriso dell’ignoto marinaio, anche se entrambi hanno come oggetto lo stesso momento storico della Sicilia, percorsa da moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille a nome dell’Italia da unire, bersaglio infine di jacqueries contadine confuse, dai contemporanei, con scoppi di banditismo. È comunque da questo confronto – si disse che Il sorriso era l’anti-Gattopardo – che si può partire per qualunque discorso su Consolo.

Ma sarà intanto utile esporre lo schema del romanzo, e di quelli che seguirono. I primi due capitoli del Sorriso ci portano in mezzo agli aristocratici e ai borghesi illuminati, fra i quali si stanno diffondendo le idee liberali e mazziniane. Essi odiano i monarchi borbonici e sono pronti ad affrontare, se occorre, l’esilio e la morte, come accadrà dopo la fallita rivolta di Cefalù del 1857. Gli altri capitoli, dal III al IX, sono ambientati pochi anni dopo, quando la Sicilia si prepara a passare sotto il governo dei piemontesi. Questi capitoli sono tutti dedicati ai prodromi, agli sviluppi e alla tragica conclusione della rivolta popolare di Alcàra Li Fusi, scoppiata alla vigilia dello sbarco di Garibaldi. Dietro Alcàra sta forse, per Consolo, il ricordo di Bronte e della spietata repressione di Nino Bixio, descritta da Verga nel racconto Libertà. Il barone Mandralisca, possessore del ritratto di Antonello, segue la rivolta con istintiva comprensione, ma quando essa degenera, la vede con crescente orrore, e confessa la sua incapacità di comprendere e di giudicare. La narrazione d’autore si alterna a documenti ufficiali, brani di storici locali (come Francesco Guardione) o nazionali (come la Noterelle di uno dei Mille di Giulio Cesare Abba), che separano tra loro le varie parti d’invenzione.

Consolo aveva già pubblicato un romanzo, La ferita dell’aprile (1963), che al momento sfuggì all’attenzione dei critici e dei lettori. Si tratta di un Bildungsroman autobiografico, un unicum nella carriera dello scrittore (che, per parte sua, lo definiva un “poemetto narrativo”). Il romanzo narra la vita nella Sicilia del dopoguerra, fino all’occupazione dei latifondi e alla repressione ad opera dei governi democristiani.

Provando a completare il quadro dei romanzi di Consolo, siamo ben consapevoli di metterci in una posizione contraddittoria, dato che Consolo stesso ha più volte dichiarato che nel romanzo storico non credeva. Diciamo allora che, bypassando il problema, prendiamo in esame i suoi libri che esibiscono dei personaggi e una narrazione continuata.

Venne dunque Retablo (1987), con immagini di Fabrizio Clerici; il grande pittore, trasformato in personaggio settecentesco, appare nella seconda parte del romanzo, da milanese appassionato di antichità siciliane. È lui, che pure arde di un amore infelice per Teresa Blasco, la futura nonna siciliana di Manzoni, a tentar di risolvere i problemi del fraticello innamorato della prima parte della narrazione; ma intanto Consolo rende omaggio al mitico illuminismo milanese, visto dal traguardo della contemporaneità: per esempio, dalla rivolta, che divenne poco dopo anche giudiziaria, contro il mostro della corruzione.

Si avvicina certo a un vero romanzo Nottetempo, casa per casa (1992). Il tema centrale potrebbe essere sintetizzato come “l’irrazionale e la storia”, e fornirebbe argomenti alla negazione di principio del romanzo che Consolo ha fatto propria. Qui abbiamo, in singoli flash a luce radente, la ricostruzione dell’affermarsi del fascismo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Cefalù e Palermo. Invece di raccontare questa vicenda, col rischio di ricadere nelle fauci dell’aborrito romanzo storico, Consolo evoca l’irruzione nell’isola di forme più o meno deliranti dell’irrazionale, dalla licantropia del padre di Petro, il protagonista, alle psicosi della sorella, alle esibizioni di un personaggio storico come l’inglese Aleister Crowley, inventore e officiante di riti satanici in cui alla promiscuità sessuale e alla droga si mescolano tutte le invenzioni più stravaganti di religioni e leggende esoteriche. Nel suo ricetto di satiri e donne assatanate avviene il congiungimento con un’altra irrazionalità, più titolata, quella dei dannunziani, numerosi nella Sicilia di allora. Sullo sfondo, le vecchie, indolenti abitudini insulari, le nuove mode francesi e inglesi, le corse automobilistiche. Componenti materiche di una storia negata alla Storia.

La contrapposizione, intellettuale quando non metafisica, luce-tenebre diventa anche definitoria per la stessa Sicilia, la cui bellezza luminosa, potenziata nei mosaici medievali, si contrappone a un’oscurità che prorompe da fonti quasi insondabili. Si noti che Petro è anche lui affetto da una forma di follia: divoratore di libri, parla con i personaggi della finzione nel silenzio delle sue letture. E, in una splendida sequenza di adynata, dirà di aver intinto la penna “nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana” sino a che non si sentirà capace di raccontare la Sicilia come la sta vedendo. L’impossibilità di fare storia è accompagnata, per il Petro di Nottetempo, da un più fiducioso sforzo di raccontare. È allora che l’oscurità dominatrice lo costringe a fuggire dalla Sicilia: per finire, comunque, in un più forte disincanto.

Ma è più tardi Gioacchino Martinez, il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998) abbozzato in modo da risultare molto simile a Consolo stesso, a farci quasi toccare con mano, una ad una, tutte le disillusioni di un siciliano che, fuggito disdegnoso dalla sua isola, trova in Lombardia situazioni che generano in lui analoghi sentimenti di rifiuto e di condanna. Nemmeno al figlio Martinez ha saputo dare gl’insegnamenti giusti: il giovane si è affiliato al terrorismo, vive esule a Parigi e gli nega persino il nome di padre. Non c’è dunque per Gioacchino, come per suo figlio, un avvenire cui guardare con fiducia, e a lui, come alla moglie tanto cara, non rimane che la tragedia. La tragedia, del resto, s’ingrossa nelle ultime pagine: la mafia spadroneggia, uccide, fa terribili attentati. Il protagonista guarda con ammirazione ai magistrati antimafia, di cui però, al momento, può solo registrare la sanguinosa sconfitta. E sogna, fantasticando di un vendicatore che, alla maniera di Judex, l’eroe cinematografico della sua infanzia, riuscirà a portare la giustizia nell’isola martoriata.

Tutti i romanzi appena ricordati, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni. Ma da questa mia grossolana rassegna tassonomico-cronologica resta fuori uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremés alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna (1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.

Il mio percorso sembrerebbe aver trascurato i moltissimi scritti di Consolo di carattere saggistico o polemico. Ma in fondo no, se pensiamo che molti o moltissimi dei suoi saggi (raccolti in volumi come L’olivo e l’olivastro, del 1994, Le pietre di Pantalica, del 1988, Di qua dal faro, del 1999) possono essere visti, per tornare a un’etichetta un tempo di gran moda, come i correlativi oggettivi dei suoi romanzi. Perché al centro dei saggi c’è sempre la Sicilia, le sue contraddizioni e i suoi mali visti con disperata frustrante insistenza, con passione e con sarcasmo da un siciliano che fugge e ritorna incessantemente: solo che qui lo stile, non gravato dalla necessità di reggere qualche complesso intreccio fizionale, può piegarsi a un’evocazione quasi impassibile delle bellezze naturali e delle ricchezze archeologiche e artistiche dell’isola, devastate forse irrimediabilmente.

 

A questo punto possiamo tornare utilmente all’iniziale confronto con il Gattopardo. Anzitutto, il libro di Tomasi di Lampedusa è un romanzo portato avanti da un narratore onnisciente, come nella grande tradizione del genere. Il libro di Consolo, per contro, è consapevole delle tesi sulla morte del romanzo, cui sarebbe possibile soltanto sostituire un antiromanzo o un romanzo-saggio. Il pensiero di Consolo, però, non è tanto preso dalla riflessione teorica sul romanzo, quanto piuttosto dalle ragioni di un particolare sottogenere, quello del romanzo storico. Una riflessione che, si sa, portò il nostro maggior romanziere, Manzoni, a rinnegare I promessi sposi, dichiarandone l’assurdità teorica. Ma Consolo non era impressionato, come Manzoni, dall’impossibilità di intrecciare una narrazione fantastica con i fatti storici assodati, ma proprio dall’artificialità della storia stessa, cioè di qualunque costruzione verbale che pretenda di ordinare i fatti storici secondo una logica e puntando a una spiegazione complessiva. Nel periodo in cui Consolo ha scritto le sue opere fondative (in sostanza il ventennio successivo alla contestazione del ’68), le obiezioni alla storia come logica immanente della realtà erano vivissime; e non sono ancora finite, anzi continuano a mettere in crisi gli stessi specialisti.

Scrivendo, di fatto, dei romanzi storici, Consolo non cerca di attenuare le ragioni che stanno contro la storia. La sua soluzione è astuta: le narrazioni complessive degli eventi storici sono demandate dallo scrittore o ai documenti, che della storia costituiscono i materiali, o a cronisti e storici dell’epoca rappresentata; mentre conduce lui stesso la narrazione per quegli episodi che ha inventato e inserito nella narrazione, forte della licenza cui ogni scrittore ha diritto. Ma nella “sua” storia c’è un veleno, che Consolo non esibisce ma tiene certo presente: gli autori di cui riporta brani sono tutt’altro che attendibili; spesso anche soltanto per il loro stile retorico e imbonitorio. L’impossibilità della storia s’identifica con l’impossibilità di una buona storia. Citare gli storici – questi storici – è dunque un atto di sottile ironia.

Il secondo punto di distacco da Tomasi di Lampedusa, ancora più significativo, sta nello stile: plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro. Occorre ricordare subito che gli scrittori meridionali, in Italia, sono raramente espressionisti. L’unico esempio di rilievo è forse, nel secondo Ottocento, il napoletano Vittorio Imbriani, certo non ignaro della Scapigliatura lombardo-piemontese. Ma Consolo, fattosi milanese ancora dai tempi dell’università, e rimasto anche in seguito milanese di residenza, pur nella forte nostalgia per la Sicilia, ha assimilato da quella cultura l’ammirazione per Gadda. Quando parla di “esplosione polifonica del ‘barocco’ Gadda” sembra quasi voler descrivere la propria, di scrittura.

Il terzo punto è quello del “messaggio”, come si diceva una volta. Nel Gattopardo, il senso, o la morale, della storia è demandato quasi esclusivamente alle estrinsecazioni esplicite del suo personaggio più riflessivo, il principe di Salina. Consolo, pur lasciando spesso trasparire il proprio pensiero, ne affida le articolazioni al dialogo, spesso serrato, tra i protagonisti. Per esempio, nel Sorriso, a Enrico di Mandralisca e a Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta le posizioni dell’aristocrazia e della borghesia illuminate che parteciparono alle iniziative dei mazziniani e dei carbonari; il secondo – tra i due, il vero cervello politico e l’uomo che, verrebbe da dire, si sporca le mani –, rispecchia le idee dei democratici radicali. Mandralisca è protagonista dei capitoli I e IV, è mente giudicante del VI, è testimone narratore nei capitoli VII e VIII, è raccoglitore della documentazione del IX. La contrapposizione tra i due personaggi si precisa nel capitolo VI, grazie a una lettera che Mandralisca, secondo l’invenzione di Consolo, avrebbe spedito a Interdonato, quando questi si preparava, come giudice d’appello, al processo sui fatti di Alcàra Li Fusi, nel quale i colpevoli non ancora giustiziati furono da lui assolti per amnistia. Mandralisca spiega la propria rinuncia a un’azione politica con le riflessioni sulla rivolta di cui erano recentissimi i segni e ardevano ancora le passioni. Si mantiene fedele agli ideali di libertà, uguaglianza, democrazia discesi dalla Rivoluzione francese, ma ha anche l’impressione che essi siano formulati con il linguaggio delle classi dominanti, pur illuminate, e insomma del potere. Un linguaggio e una scrittura che sono anche quelli delle leggi e della storia ufficiale, inappropriate e inintelligenti rispetto ai bisogni, alle pulsioni, agli orizzonti mentali delle genti che sono sempre state oggetti, vittime, e che spesso non possiedono nemmeno una lingua adeguata per esprimere qualcosa che vada al di là dei bisogni materiali, e delle reazioni dell’istinto.

Si capisce che la posizione di Consolo è più vicina a quella di Mandralisca che a quella di Interdonato. Ma ciò che più interessa, come già anticipavo, è che Consolo non impone il suo punto di vista; lo fa solo trasparire. Mi pare di poter allora concludere che Consolo tenta un difficile equilibrismo: fare storia senza fiducia nella storia, prendere posizione pur rispettando le posizioni diverse. È come tenersi vicino un advocatus diaboli che sottoponga a critica il proprio lavoro di scrittore. Una vicinanza che lo aiutò. La posizione dialettica permette infatti a Consolo di esprimere un amore infinito per la sua Sicilia, e nello stesso tempo di condannarne le colpe antiche e, soprattutto, quelle recenti. E gli permette anche di assecondare una sorta di movimento pendolare tra l’ebbrezza stilistica e il rigore argomentativo che sono i due costituenti fondamentali delle sue narrazioni.

 

Nella fase della scrittura, le riflessioni sul romanzo storico, le esigenze di un impegno attuale in una Sicilia di cui Consolo conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni, la ricerca di un linguaggio capace di comprendere in sé tutta la realtà dell’isola si richiamano, si connettono ma talora anche si ostacolano fra loro. Più che cercar di scoprire, in ciascuna delle opere, come si sviluppa una costruzione perfettamente calibrata, frutto di una razionalità priva di residui, meglio è allora abbandonarsi alla voce del narratore e riconoscere punto per punto quale sia stato, in quel preciso luogo, l’animus ispiratore. L’immagine del carcere a forma di chiocciola, spaventoso e sublime, in cui vengono rinchiusi, in attesa di giudizio, i colpevoli dell’eccidio di Alcàra Li Fusi non ancora passati per le armi potrebbe perfettamente essere presa a metafora della costruzione, formale e verbale, non solo del Sorriso dell’ignoro marinaio (come ho già avuto modo di scrivere, e come del resto insinua lo stesso Consolo) ma di tutti i suoi romanzi, vortice inarrestabile che trasporta, fonde e confonde avvenimenti, personaggi e voci della Sicilia. Si senta Consolo:

Subito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole (p. 118).

Ma una costruzione così complessa, apparentemente così poco razionale, nasce da motivazioni molto limpide, che vengono poi a coagularsi in finalità ben precise.

In primo luogo, rendere viva e presente la storia dolorosa che ha portato la Sicilia, nel passato terra di grandi fulgori, all’attuale decadenza, in cui l’isola appare soprattutto preda di un’organizzazione criminale e sfruttatrice. La riflessione storiografica del secondo dopoguerra, da cui Consolo era stato molto colpito, ha approfondito in lui il concetto che la storia è fatta dalle classi dirigenti, e complessivamente da coloro che sono stati, in forme diverse, i vincitori dei principali scontri sociali: lo scrittore ha ben presente quella corrente della storiografia che, dopo l’impresa dei Mille, considera il governo dei Savoia in Sicilia più affine al governo borbonico che a quello che ci si illudeva sarebbe stato installato dal Piemonte liberale. Insomma, rivendicazioni sociali e contestazioni politiche possono in buona parte coincidere.

Ma, se si esclude una soluzione paternalistica, come si può sperare che dal fondo dell’abiezione un popolo sempre represso sappia maturare la propria riscossa? La risposta offerta da Consolo, una risposta largamente simbolica, è stata quella del ricorso alla viva testimonianza, dell’innesto nel tessuto narrativo delle voci stesse del passato: le voci generano una conoscenza che può diventare la base ideale di questa riscossa. L’esempio più famoso è quello del IX capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, che riporta imprecazioni e maledizioni, ma anche richieste di perdono, aneliti di libertà, e persino tentativi di canto dei prigionieri semianalfabeti del carcere di Alcàra Li Fusi, traendoli dai graffiti lasciati dai prigionieri dell’Inquisizione nelle celle dello Steri di Palermo, non a caso valorizzati da Leonardo Sciascia. Ma mi piace anche ricordare un altro innesto particolarmente ricco di carica allusiva: le prime battute della partitura del settecentesco Stabat mater di Emanuele d’Astorga, preludio all’evocazione, nelle pagine finali dello Spasimo di Palermo, dell’attentato al giudice Borsellino, ucciso mentre stava salendo a casa della madre.

Una volta rinunciato alla storia, come conservare tutti i tesori di storicità della Sicilia? Qui Consolo trova una soluzione originalissima, che passa attraverso un ricorso molto particolare all’espressionismo. È come se lo scrittore siciliano fruisse di un sistema linguistico che, sotto la superficie di un italiano colto, tiene a propria disposizione un immenso magazzino di residui, i quali vengono alla superficie per associazioni mentali e si strutturano in costruzioni complesse. L’autonomia di queste costruzioni, spesso (ma non sempre) sorrette da un espediente retorico come la cosiddetta “enumerazione caotica”, è, come mostrerò tra poco, di tipo musicale, e valorizza tutte le possibilità di suggestione delle parole e dei suoni alludenti a una o un’altra epoca, a uno o un altro ambiente: ho appena ricordato le note dello Stabat mater del ragusano d’Astorga richiamate in forma di preludio al momento di evocare la tragica morte di Borsellino.

 L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la “vera” storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportare alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei greci delle colonie, e poi dei romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori d’oggi. In questa storia il dialetto siciliano, unica lingua delle classi subalterne, ha una grande forza di suggestione, così come ce l’ha un raro relitto linguistico, il dialetto galloitalico di San Fratello (località vicinissima alla Sant’Agata di Consolo), di cui il Sorriso dell’ignoto marinaio offre battute significative. E le melodie e i canti popolari, in questa prospettiva, hanno giustamente ampio spazio. Ecco allora che il plurilinguismo di Consolo apre finestre verso i momenti significativi della storia siciliana. I lettori intravvedono, dietro le parole o le note, gli ambienti e i sentimenti. Non a caso, lo scrittore si autodefiniva “archeologo della lingua”.

E qui si impone un’osservazione ultima, che mi pare però decisiva. L’amalgama linguistico presente nei punti più rilevanti delle evocazioni cambia secondo l’ambiente e i toni. È come un sovrapporsi di vecchie pergamene e di lapidi, di volumi polverosi e di canti vetusti, di litanie e di scongiuri; un sovrapporsi che ha come proprio collante il ritmo. Sì, perché in Consolo è fortissima l’attrazione di una prosa ritmica, che spesso nasconde lunghe tirades di versi. Ciò che tiene insieme questo plurilinguismo non è dunque un fatto concettuale, ma musicale, nel senso più ampio del termine: la prosa di Consolo, che gioca spesso col plurilinguismo ospitando frammenti in altre lingue, compresi il latino classico e il mediolatino, si caratterizza infatti per il suo sottofondo prosodico. Si può persino sostenere – e qualcuno, come Alessandro Finzi, lo ha sostenuto –, che quanto Consolo scrive è senz’altro una prosa ritmica, con i suoi nessi e le sue pause, una prosa ritmica che sembra quasi sollecitare una lettura ad alta voce.

Basti come esempio questo brano, il cui contenuto tragico sembra quasi lenito dall’armonia metrica che lo pervade. La divisione in endecasillabi qui offerta è, naturalmente, mia e non dell’autore:

Madri, sorelle e spose in fitto gruppo

nero di scialli e mantelline, apparso

per incanto prope alla catasta,

ondeggia con le teste e con le spalle

sulla cadenza della melopèa.

Il primo assòlo è quello d’una donna

che invoca a voce stridula, di testa,

il figlioletto con la gola aperta (p. 108).

 È insomma un ritmo di tipo musicale, sotterraneo e implicito, a unificare i materiali volutamente eterogenei che compongono i (non) romanzi di Consolo. Ed è questo ritmo musicale che aiuta a rendere vive, per il lettore delle sue opere – ma forse sarebbe meglio dire per il lettore-ascoltatore delle sue opere – le vicende narrate, antiche o meno antiche: quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutto, giudizio sul tempo presente.

 

 

                                                                         Cesare Segre

Milano, gennaio 2014

 

 

Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)

La Sicilia di Vincenzo Consolo in cinquantadue racconti

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La Sicilia di Vincenzo Consolo in cinquantadue racconti

 

da Napoli Monitor n. 51 / Novembre 2012

Sono passati alcuni mesi dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, certo uno degli scrittori più affascinanti dell’ultimo cinquantennio. Ma per fortuna avremo da leggere ancora altri suoi libri, a cominciare da questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori 2012, pagg. 250, € 19) che raccoglie cinquantadue racconti, tutti o quasi i suoi testi narrativi brevi. Sono testi molto godibili, che coprono un arco temporale molto ampio, dal 1957 al 2010; usciti in gran parte su quotidiani e su periodici, rimodulano la poco meno che leggendaria complessità dello stile di Consolo in una direzione fortemente comunicativa. D’altro canto vi ritroviamo tutta la ricchezza del suo stile: fra sapori dialettali, soprattutto ma non solo siciliani; lacerti di altre lingue; ampi strati di lingua colta, arcaismi, linguaggio letterario; franche, a tratti vertiginose discese verso la colloquialità. Ma la densità della scrittura di Consolo, lungi dall’essere riducibile alla sua lingua, è anche fatto strutturale, e mette radici nella capacità di unire una franca vena narrativa a molteplici altri modi discorsivi: dal saggio storico alla critica sociale, dall’indagine antropologica alle note di costume.

Al cuore del discorso c’è la rappresentazione della Sicilia, a cui rimanda il titolo, ripreso da un racconto, dove il narratore è un carcerato, condannato al 41bis, che dichiara il proprio rimpianto perché, all’epoca dello sbarco degli Alleati, la Sicilia non è riuscita a diventare il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti. Se così fosse stato, davvero avrebbe potuto diventare una specie di Las Vegas: cioè un luogo di gioco, di divertimento, di soldi a fiumi, di sesso facile e altro ancora. La nostalgia dell’ergastolano, è chiaro, va letta due volte a contropelo: perché non la possiamo condividere, e perché quel suo sogno mistificato ci rivela non tanto e non solo che cosa la Sicilia non è diventata, ma, ahimè, proprio quello che in qualche modo la Sicilia è invece poi davvero diventata.

Metafora ad alta densità del mondo tutto, la Sicilia di Consolo oscilla fra il vagheggiamento di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, fra scampoli d’idillio e prefigurazioni dell’utopia, e la constatazione, addolorata e indignata, dell’orrore reale, fra violenza mafiosa e scempio edilizio, degrado di valori e distruzione del paesaggio. In questo libro si alternano tre tipi di narratore: un narratore lontano dall’autore, portatore di valori degradati, come si è visto; un narratore dai connotati autobiografici, ma dissimulati; un narratore apertamente autobiografico. È quest’ultimo tipo di narratore che spesso si mette al servizio della ricostruzione storica di episodi lontani, come la strage di Bronte del 1860 (E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte) o recenti. Come, fra gli altri, nel memorabile Un filo d’erba ai margini del feudo, uscito su L’Ora il 16 aprile 1966, che rievoca l’assassinio mafioso del sindacalista Carmelo Battaglia. Ma anche nella rievocazione, intensamente ironica, della spedizione del Living Theatre a Cefalù, sulle tracce di Aleister Crowley, il santone decadente poi protagonista di Nottetempo, casa per casa.

Troviamo in questi racconti, fra le altre cose, non solo il versante impegnato e tragico di Consolo, ma anche una linea apertamente comico-grottesca: nei vivacissimi racconti di costume (come La prova d’amore), o nei racconti fantastici, un filone finora semisconosciuto. Consolo si fa comunque sempre portatore di un’idea forte di scrittura: non ci si può accontentare di “narrare”, bisogna “scrivere”, che è tutt’ altro. Nell’ intensissimo Un giorno come gli altri, egli rifiuta la vecchia alternativa fra la vita e la scrittura: se “dopo Freud siamo tutti nevrotici”, dopo Marx “siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, siamo tutti ‘filosofi dell’azione’”. Una lezione di etica, e anche di politica, di cui continuiamo ad avere bisogno.
Gianni Turchetta

Vincenzo Consolo, viene intervistato in occasione della mostra alle scuderie del Quirinale dedicata a Antonello Da Messina – 2006

La scoperta di Cefalù (Come un racconto)

In una Finisterre, una periferia, un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, delle eruzioni dell’Etna -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti mi capitò di nascere. Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà.

In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi – ritrazione, malinconia -, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori di alici e sarde liberi da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano piccoli proprietari terrieri, affittuari, contadini, ortolani, innestatori e potatori, carbonai; erano lungo le strade carretti disadorni, monocromi, giallognoli o verdastri -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, immaginare il mondo oltre i confini di quel limbo.

E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause o legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che mi assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, potevo muovere verso Oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo, muovere verso la natura più profonda, l’esistenza.

Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso Occidente, verso un Maghreb dai forti accenti, verso i luoghi della storia, i segni più incisi e affastellati muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Panormo, Bahlarm, verso le moschee, i suq e le giudecche, le tombe di porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata del “Vento Soave”, del grande Federico, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castigliane; muovere verso l’incrocio ai Quattro Canti d’ogni raggio del mondo, delle culture e delle favelle più diverse. Andando, mi trovai così al preludio, all’epifania, alla porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai a Cefalù.

Era prima soltanto questo paese un faro che lampeggiava nelle notti il-luni, incrociava col suo fascio luminoso i fari opposti di Capo D’Orlando e di Vulcano; era, nei limpidi tramonti d’aprile o di settembre, la sagoma dorata del capo, la Rocca sopra il mare. Oltre Santo Stefano delle fornaci, delle giare maronali, oltre Torremuzza, Tusa, Finale, Pollina, per innumeri tornanti sopra precipizi, lungo una costa di scogliere e cale, di torri di guardie e di foci di fiumare, s’arrivava prossimi alla Rocca. Ed erano prima la cala scoscesa e il promontorio della Calura, lo sconquasso primordiale dei massi che, come precipitati dall’alto, da Testardita, dalla Ferla, sul mare s’erano arrestati. Meravigliava, nell’appressarmi a Cefalù, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente. Adorni di nastri, specchi, piume, bubbole erano i muli aggiogati ai carretti variopinti, i retabli sulle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo. Piccola, scura, riccioluta era la gente, o alta, chiara, i capelli colore del frumento, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, l’arabo e il normanno. E fui alla radice della Kefa o Kefalé, la grande rocca di calcare che dal tempo più remoto aveva dato il nome alla città.

“Grande rocca di quasi rotonda forma parrebbe posata presso alla riva dalle braccia di cento Polifemi. Arido n’è il suolo, brusco, tagliente il contorno; le pietre lavate da secoli e secoli dall’acqua, bruciate perennemente dal sole, han preso or rancia, or verdastra pei licheni la tinta (…) Si aprono in cima alla rocca tali fenditure che finiscono di sotto in forma di grotte: poterono un giorno esser dimora delle prische famiglie, mentre oggi vi fabbricano i nidi gli sparvieri e i nibbi e vi belano le capre…”

Così, con prosa elegante, descrive la rocca lo storico dell’Ottocento

Salvo di Pietraganzili. Quella massa imponente di pietra era lo sprofondo buio del tempo in cui fioriva il mito, la favola. Si favoleggiava di Giganti, Ciclopi che sulla Rocca, nelle sue caverne erano vissuti. Il misterioso tempio megalitico poi, detto di Diana, dedicato certo ad arcaiche divinità ctonie, dava adito alle congetture più varie, ad accese dispute fra eruditi. Fra i quali da sempre era aperta anche le disputa se la primitiva città fosse posta sulla riva del mare. Non era questa Cefalù di ere remote che cercavo, ma la città della storia, dell’inizio di quella storia che può dirsi siciliana, in cui si è formato il modo d’essere dei siciliani. Cercavo la Cefalù “narrabile”, quella città che, con la dominazione musulmana, incominciava a stendere i suoi segni più vivaci e duraturi.
Davanti al gran baluardo, incoronato da mura lungo tutto il suo tondo fianco, sormontato dal castello, la strada si biforcava. Andava da una parte verso la costa del mare, toccava il Faro, la Tonnara, le mura megalitiche sopra gli scogli sferzati dalle onde, giungeva alla Giudecca, alla Candelora. Dall’altra, serpeggiando, oltrepassando il torrente Sant’Oliva, la contrada Santa Barbara, il bivio per Gibilmanna, scendendo per la strada Carruba, giungeva a Porta di Terra. Qui ero all’inizio dell’avventura, del viaggio, ero sulla porta del mondo denso, ricco di Cefalù, davanti al palinsesto in cui ogni lettera, parola spiccava chiaramente, al prezioso codice, breve ma profondo, che doveva esser letto, la trama solida su cui poteva nascere il racconto.
“Ad una giornata leggera da Sahrat’ al hadid giace nella spiaggia del mare Gafludi, fortezza simile a città, coi suoi mercati, bagni e molini, piantati dentro lo stesso paese, sopra un’acqua che erompe dalla roccia, dolce e fresca e dà da bere agli abitanti. La fortezza di Cefalù è fabbricata sopra scogli contigui alla riva del mare. Essa ha un bel porto al quale vengono delle navi da ogni parte. Il paese è molto popolato. Gli sovrasta una rocca dalla cime di un erto monte, assai malagevole a salire per cagione della costa alta e scoscesa”.

Questa è la Cefalù vista da Edrisi, il geografo alla corte di Ruggero, la Cefalù ancora araba sotto la dominazione normanna. E così la vede il viaggiatore Ibn-Giubayr, musulmano di Granada: “Questa città marittima abbonda di produzioni agrarie, gode grande prosperità economica; è circondata di vigne e di altre piantagioni, fornita di ben disposti mercati. Vi dimora un certo numero di Musulmani.
La sovrasta una rupe vasta e rotonda, sulla quale sorge una rocca che non se ne vide altra più formidabile, e l’hanno munita ottimamente contro qualsiasi armata navale, che improvvisamente l’assalisse venendo da parte dei Musulmani, che Iddio sempre li aiuti”.

Musulmana dunque Cefalù ancora sotto i Normanni, con le sue varie razze e lingue, araba, berbera, africana, spagnola; musulmana e insieme bizantina, e insieme ebrea, e ora anche nordica, normanna. Immaginarla prima, la città, prima della calata dei conquistatori normanni, era certo Cefalù una piccola Sousse, Tunisi o Granada. Un paese di contadini e pescatori, di artigiani, di mercanti, brulicante nel fitto intrico di strade, vanelle, piani, bagli, nei mercati odorosi di spezie, nel porto, nella tonnara, su cui all’alba, nel giorno, al tramonto, dai minareti delle moschee calava la voce cantilenante del muezzin che invitava alla preghiera ad Allah.
Questa vita, questo vitalismo maghrebino scorgevo ancora nei visi, nei gesti, varcata la soglia di Porta di Terra, nei quartieri sopra il fianco della Rocca, le Falde, il Borgo, Francavilla, Saraceni, nelle strade che, scendendo come torrentelli, sfociavano in via Fiume, alla Porta a Mare, al Porto. E venne quindi il segno più forte, più sconvolgente, l’impressione sulla trama umile, quotidiana, dell’impronta guerriera dei biondi normanni, dei crociati della Riconquista.
Come un San Giorgio in corazza d’argento, su bianco destriero, sbarcato qui per prodigio, miracolo, in questa naturale fortezza, ai piedi della Rocca possente, Ruggero immagina che qui sarebbe stata la sua dimora ideale, il suo baluardo concreto e simbolico contro ogni minaccia, ogni assalto, ogni tentativo di ritorno da parte dei fedeli di Allah.
Nel punto più eminente, contro la Rocca, dov’era già forse un tempio greco e quindi una moschea, realizza il suo sogno, il suo audace progetto d’un tempio-castello che parlasse con voce forte la lingua latina, imponesse il rito di Roma. Capaci i suoi architetti di concepire un castello normanno, un Duomo-fortezza, ma ignari, loro, d’ogni ulteriore disegno che un tempio reclama. E allora, quel re, non poté fare a meno d’introdurre nel tempio altre lingue che nel paese ancora correvano. Che grande epopea sarà stata la costruzione del duomo! Le maestranze più varie per memoria, esperienza, ispirazione, murifabbri, manovalanza di diversa razza, fede, costume, tutti insieme per innalzare quel monumento superbo, quella meraviglia del mondo. Gli urbanisti poi ridisegnavano sull’intrico, sul labirinto della vecchia medina, dell’araba Glafundi, una nuova città razionale, geometrica, un incrocio di strade diritte, una sequenza ordinata di case. Era ancora una metamorfosi dentro il breve cerchio delle arcaiche mura, a ridosso della Rocca possente. Percorro allora la strada maestra, il corso Ruggero, che da Porta Reale, dalla chiesa della Catena, da meridione a settentrione, taglia in due questa città. E’ un teatro, la strada, è una via Atenea d’Agrigento, in cui sono fiorite le novelle di Pirandello, o una via Toledo di Palermo, da cui s’è levato il canto infiammato di Lucio Piccolo. Ogni casa, palazzo, ogni muro, pietra di questa strada è documento, memoria. Ed è, il corso stretto e diritto, affollato di gente come le antiche agorà, di gente che s’incontra, parla, dibatte, testimonia la propria esistenza.
Andando, tra un cantone e un altro, si aprono strade, su un verso le Falde, giù verso il mare. Si aprono vicoli, cortili, di case basse, finestre, balconi impavesati di panni, edicole infiorate, donne davanti alle porte, artigiani, bambini che razzolano, saltano sul geometrico acciottolato, su per rampe di scale.
Ed emergo come da un cunicolo, da un antro di Sibilla, al vasto respiro, alla luce, alla meraviglia del piano del Duomo. Entro nel cuore di questa città nell’ora sua giusta, quando il sole volge al tramonto e dalla punta opposta di Santa Lucia incendia ogni cosa, il mare, la terra, dà ai palazzi, al castello ardito del Duomo, alla Rocca che lo sovrasta il colore suo proprio, arancio e oro, d’una Bagdad o d’una Bisanzio mediterranee, il tono di una suprema, compiuta civiltà.
“L’ora classica della bellezza di Cefalù è l’ultima parte del giorno”, scrive Steno Vazzana. A tanta bellezza che rapisce, blocca il pensiero, sento il bisogno di opporre una logica, una prosa pacata che chiarisca tanta clamorosa apparenza, guidi per gradi alle sue profonde radici. Volevo capire insomma la ragione del mio viaggio, trovare l’appiglio del racconto, lo spunto della metafora, lasciando la piazza, andando giù per la strada Badia, m’imbatto nel Museo, nel suo fondatore, quel cefaludese che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel mio viaggio dal mare alla terra, dalla natura alla cultura, dall’esistenza alla storia: Enrico Piraino barone di Mandralisca.
Sposata la cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi, fa la spola, lo studioso, fra il cuore della “storica” Cefalù e il cuore della “naturale” Lipari, scava in quest’isola, in quest’onfalo profondo, scopre e trasporta nella sua casa della strada Badia statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule, conchiglie. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno che sembra riprodurre, nella scena dipinta sulla sua superficie, un mimo del siracusano Sofrone.
Una scena di vita reale, quotidiana, deformata in comico teatro. Recupera in una spezieria di Lipari il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Il viaggio di quel ritratto sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava allora per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura, di arte, sbocciata per la mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per una catastrofe naturale che si sarebbe abbattuta su quella città distruggendola, cacciata in quel regno della natura che è l’isola vulcanica, viene salvata da Mandralisca e riportata in un contesto storico, dentro le salde mura, sotto la rocca protettiva di Cefalù.
E non è questo poi, fra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi fra Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Il simbolico viaggio poi dalla natura alla cultura si svolgeva anche verticalmente grazie a un simbolo offerto ancora dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade). Quest’uomo, questo erudito, spettatore e partecipe del grande evento risorgimentale, mecenate illuminato, sagace architetto del risorgimento sociale e culturale della sua patria cefaludese, appassionato conservatore di memorie, Mandralisca, il suo Museo, la sua Biblioteca furono il felice approdo del mio viaggio, la guida del viaggio dentro Cefalù, la sua storia, la sua bellezza, le sue strade, i suoi monumenti, la sua gente, i suoi personaggi, le sue vicende; mi permisero, la sua conoscenza e il possesso della sua singolare realtà, di muovere il racconto. Racconto in due tempi, di due sfondi storici cruciali – il 1860 e il 1920 – che interpretava metaforicamente il presente, leggeva in Cefalù i segni riflessi di questo nostro mondo. Questa, in alcune parti, la mia restituzione narrativa di Cefalù.
“Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a Sasà d’accendere le dodici candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto.
L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso.
Tutta l’espressione di quel volto era fissato, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini”.

“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati; altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie moccichini svolazzanti. Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca, pietra viva, rosa, con la polveriera, il Tempio di Diana, le cisterne e col castello in cima. E sopra la bassa file delle case, contro il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del gran duomo, con cuspidi e piramidi, bifore e monofore, soffuse anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate, create per distacco di tremuoto o lavorì sapiente e millenario di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di marosi”.

“Lo studio del barone sembrava quello d’un sant’Agostino o un san Girolamo, confuso e divenuto un poco squinternato nell’affanno della ricerca della verità, ma anche la cella del monaco Fazello e insieme il laboratorio di Paracelso. Per tutte le pareti v’erano armadi colmi di libri nuovi e vecchi, codici, incunaboli, che da lì straripavano e invadevano, a pile e sparsi, la scrivania, le poltrone, il pavimento. Sopra gli armadi, con una zampa, due, sopra tasselli o rami, fissi nelle pose più bizzarre, occhio di vetro pazzo, uccelli impagliati di Sicilia, delle Eolie e di Malta. Il cannocchiale e la sfera armillare. Dentro vetrine e teche, sul piano di tavolini e consolle le cose più svariate: teste di marmo, mani, piedi e braccia; terre cotte, oboli, lucerne, piramidette, fuseruole, maschere, olle e scifi sani e smozzicati; medaglie e monete a profusione; conchiglie e gusci di lumache e chioccioline. Nei pochi spazi vuoti alle pareti, diplomi e quadri. In faccia alla scrivania, nel vuoto tra due armadi, era appeso il quadro del ritratto d’ignoto d’Antonello; sulla parete opposta, sopra la scrivania, dominava un grande quadro che era la copia, ingrandita e colorata, eseguita su commissione del barone al pittore Bevelacqua, della pianta di Cefalù del Passafiume, che risale al tempo del Seicento. La città era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal semicerchio delle mura e dalla rocca dietro che chiudeva, erano tagliati a blocchi ben squadrati dalla strada Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Ostèrio Magno, la badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini. Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco, un cartiglione, con sopra scritto COEPHALEDUM SICILIAE URBS PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede il re Ruggero che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo una pagnotta”.
(Il sorriso dell’ignoto marinaio – Milano, 1976)

“Sbucato al piano Duomo, Petro si trovò davanti a tanta gente inaspettata, disposta contro le mura per tutti i quattro lati della piazza, le porte chiuse dei caffe, dell’Associazione Combattenti, Mutilati e Invalidi di Guerra, della Cooperativa Riscatto, del Partito Socialista e di quello Popolare, dal lato di palazzo Legambi, dell’Oratorio del Sacramento, di palazzo Maria e Piraino, al lato opposto di palazzo Attanasio, del Seminario, del Vescovado, dal Distretto fino alla scalinata in fondo, le cui tre rampe formavano una piramide di lutto per le vesti, per gli scialli delle donne sedute fittamente sui gradini…- sopra era il cancello sormontato da volute reggenti la cascata dei fiocchi d’un galèro, l’inferriata ai bordi del sagrato tra pilastri ch’erano i piedistalli di santi bianchi vescovi papi patriarchi avvolti in gonfi manti, con lunghe barbe mitrie triregni, con libri pastorali bozze di cattedrali, sopra erano le chiome delle palme contro gli archi del portico, il portale in penombra, la Porta dei Re, sopra, la loggia ad archi intersecati fra le possenti torri quadre con monofore e bifore delle celle campanarie, sopra, le torrette e le cuspidi a poliedro a piramide del Vescovo e del Conte, sopra, le banderuole contro la viva roccia, la tonda Rocca a picco murata e merlata lungo il ciglio, la gran croce di ferro sorgente da ginestre spini, i bracci il puntale contro il cielo a chiazze, a nuvole vaganti”.

“Oltre la caserma Botta e il teatro, al piano Arena, presso porta d’Ossuna, Petro discese alla spiaggia. Camminò fin dove si stringeva, cominciava la scogliera, la cortina delle case saracene sulle mura, le torri, i propugnacoli, sfociava da sotto l’arco acuto dei Martino, l’acqua del Lavatoio, la vena sotterranea. Era affollata d’uomini che spingevano gli almali, con urla pungoli bastoni, dentro il mare. Sopra la Rocca dominante, dietro per le campagne, Sant’ Elia Pacenzia Giardinello Carbonara, giù fino alla punta opposta Santa Lucia, erano i fuochi svampanti di vigilia. Suonarono le campane per la festa del domani, al Duomo al Carmine all’Annunziata, uscirono dal porto in quello scuro le barche con l’acetilene pei tòtani polpi calamari”. “Guardò il cielo perciato dalle stelle, l’infinità di esse, brillanti più del giusto, e le masse lucescenti, le scie, le Pleiadi, le Orse. E giù, nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, con le famiglie dentro, padri fi-gli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso”.

“Gli appariva quel monumento inondato di luce in su quell’ora, familiare insieme estraneo, lontano, avamposto com’era di conquista nordica in questa porta, introito di Barberia, innaturale innesto, imposizione d’una religione e d’un potere trascendenti in una civiltà di sensi, di immanenze. Ma gli andava incontro come fascinato, tirato da un richiamo. Salì la scalinata e gli sembrò a ogni grado d’ascendere a un monte dove poteva compiersi il mira-colo, trascolorare il mondo, trasfigurarsi. Traversò il sagrato, la penombra del prònao e si trovò avanti alla Porta dei Re, sotto il portale di marmo spiegato sull’arco come un flabello, festoni segni zodiacali l’Agnello trafitto dallo stendardo.
Varcò la soglia. Un suono grave d’organo, un odore untuoso di fiori ceri incensi lo coinvolse. E lampe delle ninfe, miriadi di fiamme d’olio, di candele che stellavano navate presbiterio, e il raggio portentoso che dall’ogiva al fondo sgorgando apriva nel mezzo un cammino luminoso, schiarava nell’abside, nella conca nelle vele del cielo nelle ali, preziose tessere, faceva apparir figure, suscitare un regno di riflessi, cristalli di colore. Luceva di luce d’oro nel suo superno albergo, nel suo nimbo, nell’alto e al centro di ogni altro, un dio trasfigurante, un Pantocratore sibillino e aperto nell’abbraccio, nel libro dei messaggi, EGO SUM LUX…” “Guardava i registri bassi, nella curvatura del coro, nelle ali, ai lati della fonte abbagliante, delle cornici, delle strombature infiorate, incluse fra le bande, le colonne di serpentino, di porfido, la chioma dei capitelli mosaicati, le teorie dei Teologi di Roma e di Bisanzio, dei Santi Guerrieri, dei Pontefici, dei Diaconi, dei Profeti, dei Re, dei Prototipi nei festoni tondi. E ancora, meraviglia!, i Santi Testimoni, gli Apostoli Celebranti. Sopra, e quasi non osava, fra giovani principi in dalmatica, diadema stola pantofole gemmati, labaro e pane nelle mani, ali spiegate, Arcangeli in corteo, in ali diafane e vibranti per Lei, l’Orante, la Platitera, Colei che contiene l’Incontenibile, Signora, Panaghia,
Madre della Madre dei Santi, Immagine dell’Immagine della Città di Dio (…) Dopo solamente osò guardare in alto, al lago d’oro, alla cuna sfavillante, perdersi nella figura coinvolgente, nel severo volto e consolante, nel tremendo sguardo e protettivo dell’Uomo che trascolora, si scioglie nella luce, nell’abbaglio. Sopra, al cielo dei Cherubini e Serafini, librati nell’ali di pavoni, di tortore, cardelli.

Oltre, oltre ogni splendida parvenza, velario di gemme, specchio d’oro, parete di zaffiro, arazzo di contemplazione, tappeto di preghiera, rapimento, estasi, oblio, iconostasi allusiva, schermo del Mistero, dell’Amore infinito, della Luce incandescente”
(Nottetempo, casa per casa – Milano, 1992)
Si concludeva così il racconto del mio approdo a Cefalù. Da cui, come l’Ulisse dall’isola di Circe, non potevo più ripartire. Sarei rimasto per sempre in questo paese della memoria ritrovata, in questo scrigno d’ogni segno, in questo porto della conoscenza da cui solo salpa il naviglio della fantasia.

Altro viaggio a Cefalù, altro racconto straordinario è quello di Giuseppe Leone fissato nelle bellissime immagini di questo libro. Viaggiatore frenetico e instancabile per tutte le contrade di Sicilia è il grande fotografo, è un vittoriniano personaggio de Le città del mondo alla ricerca incessante d’ogni scintillio di bellezza, sopravvivenza, nell’Isola che svanisce, sprofonda ogni momento nell’oblio di sé, nell’insignificanza; alla ricerca dell’umanità più vera, della sua dimora, del suo paesaggio sempre più violato. E ci ha dato, Leone, la sconfinata nudità della Sicilia interna, il profondo silenzio e l’armonia dell’altopiano ibleo, il barocco ardito e malioso del Val di Noto, l’esplosione vitale delle feste in città e paesi, il lavoro, le fiere, le cavalcate di contadini sopra i Nebrodi.
Il commosso e lirico ritratto d’oggi di Cefalù è una ulteriore tappa del lungo suo viaggio. In cui di Cefalù ha colto l’essenza sua profonda, l’espressione unica, incomparabile con ogni altra. L’ha colta nelle strade, nella gente, nei movimenti, negli umili angoli, nei sublimi monumenti.

Vincenzo Consolo

Sant’Agata Militello, 31 ottobre 1998
Foto di Giuseppe Leone

Studi per Vincenzo Consolo


Conversazione con Vincenzo Consolo
Anna Fabretti


Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.

Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.

Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.

Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.

Il rapporto con le avanguardie, con diverse forme di sperimentazione letteraria

Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto (Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.

6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.

La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.

Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.

Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.

Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.

  • 3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.

Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano I Malavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.

Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.

Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.

Il rapporto con Luigi Pirandello

La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.

Il teatro, la teatralità, la «vastasata»

Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.

La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara (1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.

Pirandello, Sciascia e lo zolfo

Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.

È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.

La parodia, l’«abrasione»

Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.

Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.

La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.

La scrittura, la distanza memoriale

In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.

  • 4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)

L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.

Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:

Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…

e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.

Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…

Il rapporto fra segni verbali e segni iconici

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.

In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.

Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.

Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.

La religione, la religiosità

Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.

Vincenzo Consolo, Milano, 1986

Vincenzo Consolo, Milan, 1986

© photographie de Giovanna Borgese

BIBLIOGRAPHIE

Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.

Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.

Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.

Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».

Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.

Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.

Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.

NOTES

2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.

3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».

Le pietre di Pantalica Introduzione di Gianni Turchetta

phpVincenzo Consolo

Le pietre di Pantalica

Introduzione di  Gianni Turchetta

Inventare una lingua

Se si adotta la parola “scrittura” in un senso forte, intendendola

cioè non soltanto come produzione di opere letterarie, ma come

possesso eccezionalmente sicuro della lingua e come stile fortemente

individuato, riconoscibile ad apertura di pagina, ebbene

in tal caso Vincenzo Consolo è uno dei pochissimi “scrittori”

operanti oggi in Italia. Come spesso accade, egli è però

meno conosciuto di molti autori mediocri, e solo negli ultimi

anni ha cominciato a trovare un pubblico abbastanza ampio. Indubbiamente

questo dipende in misura non piccola dalla complessità

e difficoltà della sua lingua, ma anche dalla serietà e riservatezza

del personaggio, schivo e poco incline a tuffarsi nei

bassi fondali delle iniziative pubblicitarie, e soprattutto, cosa

molto più importante, non disposto a scrivere forsennatamente,

e a pubblicare un libro all’anno o più pur di restare sempre al

centro dell’attenzione e tenersi a galla nella memoria della gente.

In circa venticinque anni di carriera letteraria, infatti, Consolo

ha pubblicato solo cinque libri, tanto piccoli (non arrivano

mai alle duecento pagine) quanto densi, e lungamente pensati.

Nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello (provincia di Messina),

Consolo, come quasi tutti i più importanti scrittori siciliani

moderni, da Verga e Capuana a Pirandello e Vittorini, scrive

costantemente della sua terra d’origine, ma vivendone lontano.

Dopo aver compiuto infatti gli studi universitari a Milano

ed essere temporaneamente rientrato nell’isola, egli vive dal 1°

gennaio 1968 (una data che sembra un presagio) a Milano, dove

 

fino a pochi anni fa ha lavorato per una grande azienda, prima

di dedicarsi esclusivamente alla letteratura.

Questa condizione di distanza materiale e vicinanza sentimentale

sembra derivare insieme da un rapporto di odio e amore

con la Sicilia, e da una doppia esigenza artistica e conoscitiva.

Da un lato infatti la lontananza consente una messa a fuoco

migliore della realtà siciliana, che può essere vista più chiaramente

anche perché messa in relazione con quanto accade nel

“continente”. Da un altro lato però, con paradosso apparente,

la Sicilia della giovinezza o di un passato ancora più remoto, allontanata

e ricostruita sul filo della memoria personale o storica,

diventa un luogo forse idealizzato dalla nostalgia, ma proprio

per questo capace di funzionare come termine di confronto

per misurare la violenza del tempo e la profondità di trasformazioni

che distruggono un mondo ingiusto ma pure carico di valori

positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e

per sovrapprezzo impoverito sul piano umano.

In questa prospettiva la Sicilia diventa, proprio come era accaduto

a Verga e Pirandello, o, su un livello meno alto, a Tomasi

di Lampedusa, sia il luogo simbolico di una condizione universale

e atemporale, sia l’oggetto di una rappresentazione ben

individuata, costruita attraverso uno studio attento delle testimonianze

storiche, come ci mostrano i lavori saggistici di Consolo

e lo stesso uso di documenti veri all’interno delle opere letterarie.

La tragedia del vivere viene così rappresentata su due

livelli diversi, inestricabilmente intrecciati. Anzitutto c’è la riflessione

esistenziale e metafisica sul destino eterno dell’uomo,

sulla sua sofferenza e sul dominio invincibile della corrosione e

della morte. Così Vito Parlagreco, il protagonista di Filosofiana,

uno dei racconti più complessi de Le pietre di Pantalica, si domanda:

“Ma che siamo noi, che siamo? (…) Formicole che s’ammazzan

di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.

In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si

chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno,

due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra

sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della

vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena

o figura”. Si noti che questa meditazione avviene mentre Vito

sta “masticando pane e pecorino con il pepe”, così da controbilanciare

il tono alto con un riferimento basso, comico: una situazione

tipica della scrittura consoliana. La percezione atemporale

del male di vivere è al centro, in cui è leopardiano non

solo lo spunto narrativo (la caduta della luna, come nel frammento

“Odi, Melisso”) ma anche lo sgomento cosmico di fronte

all’incommensurabilità dell’universo che ci circonda: “Ma se

malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine,

panico, terrore. Contro i quali costruimmo gli scenari, i teatri finiti

e familiari, gli inganni, le illusioni, le barriere dell’angoscia”.

A differenza però di tanti cantori di una negatività piagnucolosa,

infantilmente indiscriminata e, a pensarci bene, consolatoria,

Consolo ci costringe continuamente a ricordare che la

sofferenza è sì di tutti, ma non si distribuisce affatto in parti

eguali, anzi è perfettamente rispettosa delle differenze di classe.

Ecco così che arriviamo all’altro livello della rappresentazione

della tragedia del mondo, e alla violenza non più della

natura ma dell’uomo contro l’uomo. Memore dei Viceré di De

Roberto oltre che del Gattopardo, Consolo sottolinea la recita

eterna del potere, “quella di sempre, che sempre ripetono baroni,

proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare,

per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere

i villani”. D’altra parte anche in questo egli sa distinguere bene

fra il ripetersi in ogni società di una divisione fra dominati e

dominatori, e le articolazioni diverse assunte dalla violenza e

dal potere a seconda dei tempi e dei luoghi. Si potrebbe anzi

seguire l’evoluzione della narrativa consoliana sottolineando

via via l’oscillazione fra eventi storicamente individuati e vicende

inventate, sempre storicamente credibili ma impiegate

soprattutto per il loro peso simbolico. Così Il sorriso dell’ignoto

marinaio, “romanzo storico che è la negazione del romanzo,

come narrazione filata di una ‘storia’” (Segre), pur essendo

carico di significati metaforici, incentrati sull’inquietante

presenza del Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, mette

a fuoco un preciso periodo storico, la fine cioè del regime borbonico

e la cruenta ribellione contadina di Alcára Li Fusi del

  1. Al contrario in Retablo, pur trovandosi anche personaggi

realmente esistiti e una verosimile ricostruzione di un Set-

tecento insieme sontuoso e miserabile, l’interesse prevalente si

sposta verso il valore simbolico di un mondo in cui la violenza

convive con una disperata vitalità e con la persistenza di passioni

autentiche, che si oppongono polemicamente allo squallore

senza nerbo e alla disgregazione dell’oggi. Ne Le pietre di

Pantalica, invece, di nuovo ciò che conta è la realtà del passato

recente e dell’oggi, rappresentata in modo puntuale, e talvolta

mescolando al racconto moduli saggistici. Direttamente legata

a questo più diretto impegno nella contemporaneità è anche

la scelta di un linguaggio relativamente diverso dai vertiginosi

intarsi di Retablo e di Lunaria, un linguaggio che non viene

meno alle tendenze consuete del plurilinguismo di Consolo,

ma le traduce in un tessuto discorsivo un poco più disteso.

La legge fondamentale della lingua consoliana sembra essere

la tensione verso la differenziazione, verso la conquista di

un’identità originale e riconoscibile quasi in ogni giuntura sintattica.

Una tensione che dipende anche da quanto Harold Bloom

ha definito “l’angoscia dell’influenza”, la paura cioè di non

riuscire ad avere un’identità nell’affollato mondo delle lettere:

“Ma tutto questo, ahimè, di già cantò il Poeta, un poeta di qua,

che tutto ha saccheggiato: fiumi (…) laghi stagni erbe frasche, e

uccelli, stazionari e di passaggio, merli gazze aironi gru. E allora,

accidenti!, non c’è più augello insetto goccia d’acqua che sia

ormai nullius o almeno appropriabile”.

Soprattutto però Consolo vuole creare un forte scarto fra la

sua lingua e la povertà espressiva e conoscitiva della lingua appiattita

dell’uso quotidiano. Per far questo egli si allontana sistematicamente

dal lessico dell’italiano comune e quasi cancella

il tono medio, ricorrendo a una pluralità di lessici (soprattutto

l’italiano antico e il dialetto siciliano) e a una pluralità di registri

e di toni, in una gamma amplissima che va dal tragico al

domestico-familiare, e dal lirico al triviale-volgare. Il brano che

segue ci mostra per esempio un massiccio impiego di strumenti

tipici del linguaggio lirico, come la disposizione parallelistica

di frasi con la stessa struttura sintattica, la formazione di strutture

ritmiche semiregolari e talora di veri e propri versi, le figure

etimologiche, le ripetizioni di suoni (allitterazioni) spesso

con valore fonosimbolico, fino alle rime (e alle quasi-rime e

false rime): “Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore

che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola

frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si

spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie in pluvia spenta di

lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente umbra vapore tremolante di

brina sopra erbe spine gemme. Vai, vah. Una valanga di pietre

ti seppellirà. Sul tumulo d’ortiche e pomi di Sodoma s’erge la

croce con un solo braccio, la forca da cui pende il lercio canovaccio.

Chiedi pietà ai corvi, perdono ai cirnechi vagabondi, ascolta,

non tremare, l’ululato. Ma tu lo sai, lo sai, sopravvivono soltanto

la volpe e l’avvoltoio”.

È importante insistere sul contrasto alto-basso, tragico-comico,

perché è il meccanismo che consente di combattere e mettere

in scacco l’atonìa del tono medio o dimesso, ma senza sbracare

nel sublime, come accade regolarmente agli scrittori meno

padroni delle dinamiche dello stile. Questo contrasto ha fatto

a ragione pensare non solo allo sperimentalismo linguistico di

altri autori siciliani come Pizzuto e D’Arrigo, ma anche e proprio

al grande maestro di tutti, cioè a Gadda. E, per quanto riguarda

l’oggi, se Bufalino, un altro siciliano, persegue essenzialmente

una raffinata strategia linguistica di allontanamento

dal presente in direzione alta, per certi versi Consolo potrebbe

piuttosto essere avvicinato a un gaddiano purosangue (anche

perché milanese) come Tadini, altro nostro narratore non conosciuto

come meriterebbe. Come succede ai veri scrittori espressionistici

anche Consolo punta spesso, proprio per volontà di

provocazione, sulla rappresentazione della carnalità umana, di

cui magari accentua proprio gli aspetti più crudamente materiali,

e talvolta brutali o macabri, stomaco e viscere inclusi. Ma

è opportuno ricordare che la compresenza contraddittoria di comico

e tragico coincide anche esattamente con quel “sentimento

del contrario” che è la chiave di volta dell’umorismo pirandelliano.

Un modo di percezione che non a caso Consolo ritrova

nell’amico Sciascia: “Gli capitava spesso, a lui cultore della razionalità,

del pensiero chiaro e ordinato, amante dell’ironia e

del piacere dell’intelligenza, d’imbattersi in persone che lo incuriosivano

per la loro originalità, per la loro comica eccentricità,

che gli facevano pregustare spasso, gioco lieve e ameno, e che si

scoprivano invece, come denudandosi all’improvviso, la malata

pelle della pazzia. E gli si rivoltava tutto in amaro, in penoso.”.

La pluralità di lingue e di toni implica poi anche, altra caratteristica

fondamentale, pluralità di prospettive. Se in Retablo, vistosamente,

ognuna delle tre parti ha un narratore diverso, che

appunto vede (deforma, interpreta) la realtà dal suo punto di

vista, obbligando a sua volta il lettore a cambiare via via prospettiva,

più in generale Consolo sceglie continuamente di raccontare

secondo la prospettiva soggettiva, parziale di qualcuno

che è all’interno della storia. Lo stesso tessuto verbale fatto

di molte lingue sta proprio a significare il tentativo di dar voce

a molte prospettive diverse, alla visione del mondo di chi parla

o parlava quel determinato linguaggio. Si comincia così a intravedere

il significato politico di certe scelte di stile: come il suo

amico etnologo Antonino Uccello raccoglieva gli oggetti della

tradizione siciliana per farli sopravvivere, almeno nel ricordo,

alla sparizione delle culture che ne facevano uso, così lo scrittore

Consolo cerca di far sopravvivere le parole morte o morenti o

marginalizzate, e con esse le visioni del mondo di uomini e culture

altrimenti condannati al silenzio. Come egli stesso ha dichiarato

in una bella intervista curata da Marino Sinibaldi: “Fin

dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. (…)

Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale

alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione

nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,

è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati

(…). Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che

le parole esprimono, per salvare una certa storia”.

Fra le rovine

Una lingua che costantemente si sforza di sottolineare la pluralità

delle prospettive rivela però anche una sostanziale sfiducia

nella forza conoscitiva del proprio punto di vista, o almeno nella

possibilità di riuscire a produrre una rappresentazione unitaria

del reale. Così, con un’ambivalenza tipica della letteratura

moderna, la titanica ambizione di far parlare nella propria tutte

le lingue dimenticate coincide esattamente con il dubbio di non

essere capaci di capire nulla: “È sempre sogno l’impresa del narrare,

uno staccarsi dalla vera vita e vivere in un’altra. Sogno o

forse anche una follia, perché della follia è proprio la vita che si

stacca e che procede accanto, come ombra, fantàsima, illusione,

all’altra che noi diciamo la reale”. E questo è anche uno dei motivi

per cui Consolo non può e non vuole praticare la narrazione

filata, e racconta per frammenti anche quando costruisce un romanzo,

come era accaduto già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, e

come accade di nuovo nella prima parte delle Pietre di Pantalica.

Si capisce così come l’insistenza sul tema delle rovine, intese

come scavi archeologici, sia un modo di parlare delle condizioni

di possibilità della scrittura letteraria, sempre obbligata

a ricostruire faticosamente una totalità a partire da pochi e

frammentari segni, “qualche scritta sopra d’una lastra, qualche

scena o figura”, con la consapevolezza di essere condannata

a un’approssimazione insoddisfacente. D’altra parte, proprio

perché costretta a essere archeologia, la letteratura finisce

per testimoniare direttamente la violenza del tempo, la continua

trasformazione di quanto era “oro fino, monete risplendenti

al par del sole” in “merda del diavolo”, e di quanto era vivo

in putrefazione e disfacimento: “il suo sguardo cadde sulla lepre

che Tanu aveva abbandonato sopra il muro: un nugolo di

mosche le mangiava gli occhi e la ferita, una schiera di formiche

le entrava nella bocca”. Di nuovo però marciume e degrado

non sono solo metafisici, ma storici, cioè fisici, morali e politici,

come mostra fin troppo bene la disastrosa condizione della Sicilia,

dallo sfascio del bellissimo centro storico di Siracusa all’orrore

senza fine della violenza mafiosa. Palermo per esempio ormai

“è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere,

rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati,

legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati,

chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle

auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta”, e pochi

giorni dopo “più di cento”.

È evidente che il dubbio su se stesso e la lucida constatazione

delle difficoltà dell’artista di oggi ad afferrare il reale convivono

con un imperativo morale urgente, non discutibile, con la necessità

cioè di denunciare lo scempio in atto in Sicilia e nell’Italia tutta.
Pantalica allora, grandiosa necropoli rupestre formata

da circa 5.000 grotte scavate fra il XIII e l’ VIII secolo a.C., vale sì

come esempio di luogo da conservare intatto per la sua suggestione

naturale e artistica, ma anche, più profondamente, come

simbolo di una sacralità perduta, di una autenticità umana che

sembra in via di estinzione. E le rovine di Pantalica, segno di

una religiosa pietas, si oppongono polemicamente alle squallide,

insensate rovine fabbricate dalla nostra storia recente.

Questa storia ha inizio con la fine della seconda guerra mondiale,

e la prima sezione del libro, Teatro, raccoglie i frammenti

di un possibile romanzo sulla Sicilia all’epoca dello sbarco

degli americani nel 1943. La liberazione e il dopoguerra avevano

alimentato una grande “speranza di riscatto” (come ben

mostrano, nella loro tensione utopica, i viaggi siciliani dei libri

di Vittorini), cui ha fatto seguito però una feroce disillusione.

Non per caso in Teatro, soprattutto nella serie “Ratumemi”, dedicata

a un episodio di occupazione di terre, si ritrovano molti

problemi che erano già al centro del Sorriso dell’ignoto marinaio:

anzitutto la continuità del potere economico-sociale al di là dei

cambiamenti formali di governo, e l’estraneità della gente siciliana

allo stato italiano.

Il titolo della prima sezione sottolinea però anche un altro

aspetto della concezione del mondo consoliana, l’idea cioè che

la vita umana sia sorretta da un gioco illusionistico, e assomigli

a una rappresentazione teatrale, se non a una mascherata. È una

concezione barocca, che, per i legami profondi fra la cultura siciliana

e quella spagnola, si ritrova in molti scrittori dell’isola.

Questa idea del mondo come rappresentazione è così profonda

da determinare nello stesso indice del libro uno schema che

ricorda molto da vicino l’inizio di un’opera teatrale: Teatro, Persone,

Eventi, come a dire Scena, Personaggi (e infatti la dicitura

“Persone” introduce i personaggi di Lunaria), Fatti.

Di Teatro si è appena detto. La sezione Persone invece raccoglie

una serie di ritratti di intellettuali: Sciascia, Buttitta, Antonino

Uccello, Lucio Piccolo. A questi si aggiunge, ne “I linguaggi

del bosco”, una rilettura di una fase dell’infanzia di Consolo

stesso attraverso due fotografie del 1938. Si ripropone così in

modo particolarmente esplicito un altro motivo caro allo scrittore,
dal Sorriso a Retablo, quello cioè dell’intreccio fra l’arte della

parola e quella dell’immagine: “Con l’aiuto di una lente, cerco

di leggere e descrivere queste due foto. (…) Voglio solo fare

una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o

di frammenti epigrafici, da cui partire per la ricostruzione, attraverso

la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Qui

si mostra ancora una volta in azione la metafora della scrittura

come archeologia, e si vede anche come la stessa sistematica

sovrapposizione di letteratura e arti figurative sia un modo di

interrogarsi sulla natura delle relazioni fra arte e verità. Semmai

anzi in questo caso il gioco d’incastro fra parola e immagine

avrà in palio una posta più alta che in passato, perché collegato

alla constatazione che con lo sviluppo neocapitalistico del

secondo dopoguerra, “incomincia a terminare l’era della parola

e a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi,

a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili,

fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per

le creature umane sofferenti”.

Con Eventi lo scrittore si arrischia a un contatto ancora più

ravvicinato e bruciante con la cronaca. Per esempio il “Memoriale

di Basilio Archita” è una riscrittura, a pochi giorni dai fatti,

dell’atroce episodio dei clandestini africani buttati in pasto

ai pescecani da un mercantile greco. Usando la prima persona

grammaticale Consolo si mette nei panni di un immaginario

marittimo italiano coinvolto nel delitto e riesce brillantemente,

ricostruendo un gioco di suspence e anticipazioni narrative,

a eludere i pericoli di una riscrittura a botta calda, senza i tempi

di metabolizzazione solitamente necessari per la letteratura.

Né si deve trascurare lo sforzo di fingere un linguaggio poverissimo,

carico degli stereotipi del parlato di questi anni, e agli

antipodi dunque dello stile consueto dell’autore.

Curiosamente però nel personaggio di Basilio, in teoria infinitamente

distante dalla personalità di chi lo ha inventato, c’è

anche un autoritratto, e nemmeno tanto nascosto: “Io non sono

buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere”. In effetti Consolo

(come Antonello da Messina?) dissemina e cela nelle sue opere

autoritratti. Viene da pensare che anche la bambina compagna

di giochi dell’autore nell’unico racconto direttamente auto-

biografico, Amalia, che rivela a Vincenzo “il bosco più intricato

e segreto” e che conosce infinite lingue, sia, oltre che un personaggio

reale, anche un alter ego del narratore. Amalia infatti

“Nominava” le cose “in una lingua di sua invenzione, una lingua

unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e

con la quale per la prima volta comunicava”. Forse il desiderio

più profondo di uno scrittore come Consolo, che costruisce

la sua scrittura con le vive rovine dei linguaggi dimenticati pur

di non ricorrere alle logore parole dell’abitudine e della quotidianità,

è proprio quello di ritrovare, al termine del suo percorso,

questa lingua del tutto inventata, originaria, capace di restituire

non più soltanto “favole” o “sogni”, ma la realtà stessa, in

tutta la sua intatta energia, miracolosamente sottratta al tempo

e alla morte.

Gianni Turchetta
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