In pasto al mondo
il nome, poi la cosa.
Una via tronca, quasi un’impasse.
Agra d’aspetto, sospetta
per battiti, frequenze.
Coeundi et generandi
è la vittoria, il pensare
è rimandato
nel futuro anteriore.
Vincenzo Consolo
Milano 23/VI/1998
E’ un vicolo cieco l’espressione di sé, delle cose, del mondo?
Sembra interrogarsi sulle scarne possibilità
dell’espressione, Vincenzo Consolo, in questa poesia asciutta e dura come
pietra.
Il mondo consuma i nomi e le cose che i nomi rappresentano,
in una continua erosione della realtà e della possibilità di dirla.
La vittoria è preclusa, il pensare congelato e rimandato ad un futuro tutto ancora da immaginare. E’ quasi profetico questo piccolo scritto inedito del grande scrittore santagatese, in cui prevede i margini strettissimi, soffocati e soffocanti, che restano oggi a chi ha qualcosa da dire.
L’APPUNTAMENTO è al Lungotevere della Vittoria 1, all’indirizzo dell’«Associazione Fondo Alberto Moravia», di quella che fu la casa dello scrittore. Ero stato un paio di volte in quell’appartamento luminoso e ordinato, nella sala-studio con solo i classici, la Pleiade, la Ricciardiana, nelle scansie della libreria, qualche quadro e maschere africane alle pareti. Mi spiegò una volta, lo scrittore, in quel suo modo esemplificativo, didascalico, la differenza tra razionalisti e illuministi, tra sé e scrittori come Calvino e Sciascia. «Se loro vedono una pentola che bolle, dicono “è una pentola che bolle”. Io non mi accontento, devo alzare il coperchio e vedere cos’è che bolle in quella pentola» disse, e rise, in quel suo modo fanciullesco, per quell’esempio così riduttivo, così casereccio. Il fatto è che da quel suo curioso, accanito sguardo sulla realtà, egli traeva precisi giudizi, sicure idee generali. «Se fosse vissuto, sono sicuro che sarebbe venuto con me a Sarajevo» afferma in un’intervista Adriano Sofri, quest’altro lucido razionalista dotato di genio «politico», ma al contrario di Moravia privo (o forse solo inespresso, pudicamente occultato) di quello narrativo. Mi chiedo cosa mai Moravia, andando a Sarajevo, alzando il coperchio della mistificazione o straniamento informativo, mediatico, su quel tragico bollire della pentola balcanica, avrebbe scritto. Sicuramente, come Sofri, come pochi altri di qua di quel fuoco, o che quel fuoco hanno visto, hanno attraversato, avrebbe sostenuto la necessità dell’intervento delle forze dell’ONU, della Nato contro gli aggressori, i carnefici, per far cessare il massacro, gli orrori nazistici, l’ agonia di Sarajevo. Perché era chiaro, nel cumulo dei preconcetti, luoghi comuni, menzogne, nel guazzabuglio di quella guerra, nei ribaltamenti di fronti, schieramenti, era chiaro chi erano gli aggressori e gli aggrediti, gli assedianti e gli assediati, i carnefici e le vittime: vittime erano gli innocenti, i civili, la civiltà; calpestati erano i fondamentali diritti umani; calpestati soprattutto dai feroci soldati serbi arruolati da Milosevic, comandati da criminali come Karadzic, Mladic, Raznatovic, calpestati nell’assenza e nel silenzio, se non nella connivenza, delle organizzazioni internazionali. Ma dico cose già denunziate su giornali e libri, ormai note a tutti.
Torno dunque al racconto del viaggio da Roma a Mostar, a Sarajevo, di diciotto intellettuali italiani, scrittori, giornalisti, fotografi, registi, compiuto tra il ventiquattro e il trenta settembre scorso. E una restituzione di visita questo viaggio, poiché otto membri del «Circolo 99» di Sarajevo erano venuti a Roma nell’ottobre del ’96, avevano avuto incontri, partecipato a dibattiti sul tema Roma-Sarajevo, gli scrittori contro la guerra. Gli scrittori già. Non sempre, non tutti sono stati contro la guerra. Ché anzi alcuni, con i loro scritti, poesie romanzi racconti, in certi momenti della storia hanno dato parola a inconsce pulsioni, hanno interpretato e compitato sulla logica di una grammatica letteraria l’istinto collettivo di aggressione e di distruzione. Bastano per noi i soli nomi di D’Annunzio e di Marinetti, quello di Jünger per la Germania? Basta senz’altro per la Serbia il nome dello scrittore Dobrica Cosic, ispiratore già nell’86, del famigerato Memorandum dell’«Accademia delle Scienze» di Belgrado, autore di un romanzo fiume scandito nelle due parti, Tempo del male, Tempo della morte, fonte del nazionalismo e della ferocia ideologica guerriera della Serbia. No, la letteratura non è innocente. Essa attinge alla Storia ed è gravata quindi di responsabilità. Al contrario della musica, che attinge alla natura, e si presta ad ogni ambiguità. Wagner può essere suonato sullo sfondo dei forni crematori, ma c’è Riccardo Muti che dirige un concerto nel teatro di Sarajevo, c’è il violoncellista Vedran Smajlovic che suona tra le macerie della biblioteca della sua città.
Nel nome dunque di Moravia, per la responsabilità che ha la scrittura, andiamo a Sarajevo. Andiamo – almeno alcuni di noi – per riparare alla nostra assenza durante la guerra, al nostro silenzio, per uscire, almeno una volta, dal gorgo di alienazione, di sonno, di stupidità in cui ogni giorno scivoliamo nel nostro assurdo mondo. E spero che questo viaggio non sia, per nessuno di noi, un safari intellettuale, che sia, la visione di Sarajevo, un salutare scuotimento, un recupero di intelligenza e di coscienza.
Attraversiamo in corriera l’Appennino, andiamo ad Ancona. Dall’autostrada scorgiamo gli antichi paesi umbri arroccati sui colli, le torri e i campanili di Foligno, Nocera, Gualdo Tadino. Il traghetto si chiama «Split» e batte bandiera panamense. A bordo vi sono i camionisti, famiglie croate, uomini d’affari. C’è un gruppo di volontari guidati da don Lorenzo che ha una croce sul petto formata di schegge di granata. Al porto di Spalato, vado a comprare una scheda telefonica. «Per l’Italia o per la Padania?» mi chiede l’uomo al chiosco. «La Padania non esiste», rispondo disarmato. E lui sghignazza, sghignazza. Procediamo per la costa croata. Il calmo, lacustre mare da una parte, con le innumerevoli isole – Brac e Hvar le più vicine e le ripide montagna dall’altra. Rivedo la vegetazione mediterranea, simile a quella greca, siciliana, turca, i pini, i cui rami si piegano fino a lambire il mare, gli ulivi, i fichi, le vigne. Una donna stende sul lastrico i fichi ad essiccare. Non vi è nessun segno di guerra qui, nessuna escrezione del vorace consumismo, spazzatura, carcasse di vetture, di elettrodomestici. Tutto è lindore e candore in questo paradiso di vacanze; i villaggi sono pieni di alberghi, zimmer, chambres, pansion. Sostiamo nella cittadina di Makarska. Predrag Matvejevic – nostra guida in questo viaggio, nostro Virgilio – compra il giornale «Feral Tribune» di opposizione al regime di Tudjman, i cui redattori vengono continuamente arrestati. Arriviamo a Metkovic, alla foce della Neretva, e andiamo, costeggiando il fiume, verso l’interno, verso il confine tra la Croazia e la Herzeg-Bosna, stato indipendente disegnato negli accordi di Dayton del ’95. Incontriamo le prime macerie. A Pociteli, uno storico villaggio musulmano evacuato, moschea, scuola coranica, hammam, torri, minareti, sono stati distrutti. Da qui poi, fino a Buna; fino a Mostar è tutto un paesaggio di macerie. Qua e là per la campagna, case bombardate, incendiate, svuotate con sistematica, precisa determinazione, cipressi e pioppi inceneriti. Ora la Neretva s’ inabissa, scorre nel profondo alveo scavato nella roc-cia. Li appare Mostar che dal pendio di un monte scende fino al fiume, si stende sulla piana. Matvejevic, nella teoria uniforme di macerie ci indica le macerie della sua casa, della scuola che aveva frequentato da ragazzo. Sostiamo in un hotel appena ricostruito, sul bordo del fiume, al di qua di un ponte di cavi d’acciaio e di tavole che ad ogni passaggio di macchina o camion diventa un fragoso xilofono. Sull’altra sponda, sono i resti del vecchio albergo Neretva, della villa di Tito, dell’hammam, della posta. Ci accolgono intellettuali di qui, Nametak, Djulic, Maksumic. In città incontriamo italiani che risiedono qui da tempo, Claudio, Fabio, Matteo del «Consorzio Italiano di Solidarietà», Rosaria, una ginecologa napoletana che dirige la Cooperazione Donne. C’è una generosa, nobile Italia da noi ignorata, immersi come siamo nei privati affanni, storditi dal chiasso e dalla volgarità dilaganti. A sera, è l’incontro al Teatro dei giovani con il pubblico. Il protagonista è naturalmente Matvejevic. E emozionato. Dopo sei anni rivede la sua città distrutta, gli amici superstiti, i concittadini. Alla partenza per Sarajevo, a un semaforo, c’è un vecchio pazzo, uno strano cappello in testa, una sega in mano, che urlando intende dirigere il traffico. Saliamo per le montagne, scendiamo in gole rocciose in cui la Neretva diventa quasi un torrente, sbuchiamo nella vasta pianura. Da qui, oltre i villeggi di Konjic, Tarcin, lazaric, fino alle porte di Sarajevo, solo macerie, nugoli di merli sui campi spogli, desolati. Ci appare quindi Sarajevo chiusa in una conca dalle colline intorno, ci appare lo scenario più apocalittico, più sconvolgente. Ricordando quanto è successo per le sue strade, nelle sue case, nei suoi ospedali, in piazze mercati giardini chiese cimiteri nel lungo assedio, nello strazio infinito di questa città, squarciando il velo di ogni immagine televisiva o fotografica non si può fare a meno di pensare al Trionfo della morte di Bruegel o ai Disastri della guerra di Goya. I tram ora vanno lungo il famigerato viale dei cecchini, vanno verso la periferia, tornano verso il centro. Non c’è sole oggi a Sarajevo, il cielo è annuvolato, grigio. Saliamo la scala buia, affumicata da un incendio della sede del «Circolo 99» e del «Pen Club». Ci accolgono i soci. Abbracci, feste a quelli di noi – Toni Maraini, Erri De Luca, Ginevra Bompiani, Federico Bugno, Gigi Riva – che già conoscono, che sono venuti durante la guerra o che essi hanno incontrato a Roma. Chiedono notizie di Sofri, ci fanno vedere un numero della rivista «99» in cui una intera pagina è occupata dalla scritta a grandi caratteri ADRIANO SO-FREE. Bugno riesce a telefonare in Italia e apprendiamo così del terremoto in Umbria e nelle Marche. Rimaniamo sgomenti. Qui, tra le macerie di questa nobile città, di questo alto simbolo di civiltà, ci raggiunge la notizia di macerie nel cuore più nobile, più alto del nostro Paese. Qui è stata responsabile la cieca ferocia dell’ uomo, da noi quella della natura. Ma anche a Sarajevo, a pensarci, è stata la ferocia delI uomo che ha perso la ragione, che è regredito allo stato di natura. E del resto, la biologa Biljana Plavsic, ultranazionalista serba, ha affermato che la pulizia etnica è «un fenomeno naturale». La sera, in casa di Vojka Djikic, il poeta Izet Sarajlic intona vecchie canzoni italiane. Izet è un amante dell’Italia; sua sorella, morta durante la guerra, era un’italianista, aveva tradotto La storia di Elsa Morante. Le poesie di Izet erano state tradotte in Italia da Alfonso Gatto, di cui era diventato amico. Mi fa leggere una dedica fattagli da Gatto: «al poeta ridente e in lacrime», «all’uomo angelico e duro ostinato ottimista d’umor nero». Ma ora Izet, come tanti poeti e scrittori di qui, pur ridente e in lacrime, dall’umor nero è passato alla disperazione. Egli sa, tutti sanno, che la Sarajevo di prima, la città multietnica, multireligiosa, multiculturale, laica, civile, tollerante, è finita, non potrà più essere ricostruita. Egli sa che le macerie resteranno per sempre nel suo cuore.
Visitiamo l’indomani la sede del giornale «Oslobodjenje», ora sede, in quel che è rimasto, del settimanale «Svijet». E inimmaginabile la distruzione di questo moderno edificio, inimmaginabile il coraggio del giornalisti che sotto le cannona-te, i proiettili dei cecchini sparati dalla collinetta di fronte, nel crollo sistematico dell’edificio, nei sotterranei continuarono a stampare il giornale. Sei giornalisti sono stati uccisi. Bisogna leggere la cronaca di quei giorni del capo redattore Zlatko Dizdarevic, pubblicata in Italia col titolo Giornale di guerra. Ed è lui, quest’ uomo intelligente e tenace, che ci accompagna nella visita, che ci racconta, ci spiega.
Un altro uomo intelligente, ironico, disincantato, è il generale di origine serba Jovan Divjak, comandante delle truppe nella difesa della città, che ci guida ai luoghi cruciali delle battaglie. Visitiamo i quartieri di Drobinja, Ilidza, vicino all’aeroporto, l’antico cimitero ebraico su una collinetta; « Qual’era la sua posizione allora?» chiede qualcuno al generale. «Ero il fiore del popolo serbo in un giardino musulmano» risponde ironico. «È stato costretto a fare una scelta?», «Perché? Sarajevo era la mia città.» Finiamo la visita nel nuovo, grande cimitero musulmano di Kovaci, nella zona orientale. Era prima un giardino, un parco giochi per i bambini, ora è interamente coperto di tumuli di terra su cui crescono fiori. Donne sono qui a pregare, accovacciate davanti alla stele, le palme rivolte al cielo.
Abbiamo altri incontri a Sarajevo, all’Ambasciata italiana, alla Biblioteca Nazionale, al Museo della Letteratura, alla Facoltà di Economia. Ripartiamo per Mostar. Casualmente, il nostro passaggio per quella città coinciderà con la cerimonia del recupero dalle acque della Neretva delle prime pietre dello storico ponte (Mostar, ci spiega Matvejevic, significa «guardiano del ponte o Vecchio Ponte»). Grande è l’importanza del ponte, dei ponti in questa terra di fiumi, alle sponde dei quali si sono formate le città, si è aggrumata la civiltà. Contro di esse si sono accaniti i montanari serbi e montenegrini. Per la strada, ci sorpassa il corteo delle macchine del presidente Izetbegovic. La città è in festa, la gente è ammassata lungo le due alte sponde del fiume, ha invaso le case che si affacciano vicino ai due monconi del ponte. Discorsi ufficiali, bandiere, fanfare, elicotteri in cielo. È con noi, con Pedrag, il pittore mostarino, ma abitante a Sarajevo, Afan Ramic. Prima della guerra non faceva che dipingere questo “suo” ponte, dopo il disastro, dopo l’uccisione del figlio, fa collages di materiali calcinati o bruciati, fa quadri che ricordano quelli del nostro Burri. È con noi anche il famoso tuffatore Balic, ci dice che ventuno membri del Club dei tuffatori sono morti nella difesa di Mostar. Partiamo. La nave su cui ci imbarchiamo a Spalato si chiama «Regina della pace». Pace sì ormai nella martoriata ex-Jugoslavia. Ma credo che dopo la guerra, dopo Mostar e Sarajevo, l’Italia, l’Europa, il mondo civile abbiano perso per sempre tanta moraviana, umana ragione, siamo scivolati irreparabilmente sul ciglio della voragine paurosa della natura. Le macerie di Assisi sono anche una metafora del nostro scadimento. Ma sono possibili ancora le metafore?
De la ciudad moruna
tras la murallas viejas,
yo contemplo la tarde silenciosa,
a solas con mi sombra y con mi pena.
(A. Machado, Campos de Costilla)
… T’avvolge improvvisa voluta di
brezza di mare di monte, si fonde all’alga marcita la palma, poseidonia ginepro fenicio e l’euforbia l’eringio il
pino d’Aleppo esposto sui poggi del monte dimora al romito mai visto,
pellegrino di grotte di tane, alla furia dei venti, brezza che fiori accarezza
spessi d’effluvi di Cipro, spere di conca avvolte nell’oro: allora ti trovi
alla balza su cui si erge la reggia.
Oh excelso muro, oh torres coronadas de honor, de majestad, de gallardia!. (1)
Sei giunto dai
sobborghi o dal Monte Reale per l’arco di porta dai giganti custodi reggenti la
loggia, il belvedere a piramide a smalti e banderuola di latta (vi scorre ai
piedi un ruscello, la vena sfuggita dal Nilo, che porta radici larve papiri
caimani che il raggio di fuoco suscitò dalla coltre di limo ferace — il
principe folle o burlone pietrificò nella villa quei mostri e altri ne aggiunse,
una folla, sognati o pure intravisti alle corti alle feste d’un gran
carnevale).
E varchi il portale
dal timpano rotto in cui si spiegano gli stemmi le armi. Nel chiostro digrada
un chiarore da lucernari di lino, per squarci di cielo turchese di cumuli cirri
ammassi di nubi in cammino — sfreccia delle tempeste l’uccello, l’airone
migrante, il solitario passero o quello maltese. Luce in prigione che indugia
in labirinti di pietra, s’ammassa, esita alle colonne, agli archi, ai doppi
loggiati, agli scaloni a rampe, a viti, scivola sopra mura scialbate,
cilestrine lesene, paraste. Sale dalle segrete lo stridere dei ferri, dai
viali, dai cortili dietro cortili il passo dei cavalli, il cigolio di carrozze,
dai giardini pensili il cinguettare d’uccelli, rari del paradiso, dei tropici.
Passi per gallerie,
anditi, ambulacri, ponti, sospese logge, ai vestiboli esiti, alle soglie (il
Grande, l’Infanta, il Condottiero da sogno, da parete dipinta ti viene): non
badare alla guardia tronfia, al mercenario in brache festose, al buffone con
lucerna spaccona, a pennacchio, che nasconde i sonagli. Odi se vuoi nel tempo
sospeso II bisbiglio di preci per grate, fessure, per bussole schiuse d’oratori
segreti, cappelle murate, delle fruste gli schiocchi, dei flagelli i lamenti, le
canzoni dell’anima.
En una
noche oscura
Con ansias en amores inflamada… (2)
Da vani diversi,
dietro tende, cortine scarlatte, indovini l’alcova, la mano che indugia
carezza, il pannello d’avorio cinese che scorre e dispiega la scena, licenze…
(la sposa del capitano partito per terre conquise s’arrese all’amore di un
giovane a corte, e l’altra – ma qualcuno assicura che la linea del corpo, la
pelle riflessa allo specchio appartiene alla stessa velata – fanciulla tenera,
fu tolta a un padre in prigione, battiloro ribelle, per risveglio di sensi,
voglie incrostate di vecchi togati, prelati). Altrove é la forza, alla sala
del dio provato da immani fatiche, la schiena le braccia potenti, a masse
nodose.
Ma viene il momento:
ti trovi al cospetto di viceré in teoria spiegati, lungo pareti, in effigie,
tra bande di onice nero e fastigi, sovrapporte di stucco, imperi di gesso, e
l’altro – non sai se vero o dipinto in sostituzione d’un altro – in damasco
dorato a garofani a gigli, in seta cangiante e sboffi di trine, la gorgiera che
regge un volto di buio (ride o ira tremenda lo scuote?), assiso sul trono: –
Maestà Seconda, Quasi Signore, Rappresentante Eccelso, Somma Autorità Dopo
Qualcuno, Sovrano Limitato, Mio Viceré – dirai piegando a malapena un sol ginocchio,
mezza la testa, e l’altra tieni alta: bada: sul trono avuto in prestito l’uomo
senza volto non conosce il sorriso, il gesto largo, sereno della magnanimità,
incrina la sua vita l’astio, l’orgoglio offeso, il pensiero costante d’un
potere delegato, d’una grande sicurezza dipendente.
Ora é la volta della
discesa, lasciando a mano dritta la macchina trionfale di Filippo, la Soledad,
le cupole di sangue tra grappoli di datteri, pompelmi, viticci attorcigliati
alle colonne, all’arco di ferro sopra il pozzo.
(2) Jùan de la Cruz, Cancionesa
del almo…
Sobre laclara
estraila del ocaso
como un alfanje, plateada, brilla
la luna en el crepúsculo de rosa… (3)
La volta di pietre
d’oro, d’ametista, topazi affumicati, intrecci, geometrie affollate, ricami
d’arenaria, rabeschi d’una grande moschea profanata. Dimora un cardinale che
affonda in mollezze porporine e dispiega in volute, in ventagli sfaldati
effluvi d’incensi grassi, acide essenze, malsani fermenti. I servi, i paggi
corrotti in fronzoli in gale a farandola intorno, e il monaco che regge lo
stendardo dell’ulivo e del cane infuocato – Misericordia
et Justitia – arrossano pei bagliori di roghi notturni sopra la piazza,
moltiplicati da cristalli bocce vetri piombati.
Allora muovi il passo,
affrettati allo spazio circolare, al centro da cui partono i quattro punti del
mondo. Quattro fontane scrosciano: viene Primavera con Carlo Imperatore e la
vergine Cristina, Estate giunge con Filippo e la Ninfa fatta santa, al volger
d’Autunno l’altro Filippo e l’Oliva santa, chiude Inverno con Filippo Terzo e
la vergine che tiene sopra il palmo la mammella.
T’investono quattro
venti e quattro canti.
Castilla varonil,
adusta tierra,
Castilla del desdén contra la suerte,
Castilla del dolor y de la guerra,
tierra immortal, Castilla de la muerte! (4)
Procedi dunque per la
via che si sperde alla Porta Felice – passano i galeoni, i velieri sul fondale
del mare, costa, riposa alla fresca d’acque fontana teatrale: Orfeo danza, Ercole
coi Fiumi i Tritoni le Ninfe, e il Genio della città sopra lo stelo di putti di
conche di tazze spande largisce dona in cornucopia canestro festone di frutta,
l’albicocca l’arancio il melograno dischiuso…
E guarda, osserva le
quinte di pietra: scorgi le scale i portali le grate panciute i balconi pomposi
di chiese conventi pretori, contro il cielo cobalto e trionfi di nubi i
transetti i contrafforti a volute le aeree cupole come orci iridati, maioliche
azzurre splendenti.
(3) Antonio Machado. EI
poeta recuerda a una mujer desde del Guadalquivir.
(4) Antonio Machado. Orillas del Duero.
Del
ablerto balcòn al blanco muro
va una franja de sol anaranjada
que inflama el aire… (5)
Il monastero ti dona
alla ruota l’agnello trafitto dallo stendardo, i grappoli d’uva dorata, i trionfi
di gola, le frotte di mandorla, cesti canestri nature morte dipinte. E la
chiesa, la chiesa il fresco di nave, lo sfavillio l’abbaglio degli occhi:
scansa gli intarsi catturanti a mischio tramischio, staccati dalle spire di
colonne a torciglioni, le Allegorie le cantorie i coretti, volgi in alto in
alto lo sguardo: vedi i cieli, delle cupole le Apoteosi le Glorie le Ascensioni
oltre le balaustrate rotonde da cui s’affaccia la pavolcella la lira il
caprifoglio franante. E il Senato poi dispiega sopra i cieli le profane
imprese, i Governi le Giustizie le Battaglie i cavalli galoppano, s’impennano
tra nuvole, si rovescia il carro, cozzano le lance, brillano le bocche di
fuoco, investono una folla d’affamati…
E’ aperta a Milano una mostra del pittore antifascista spagnolo Julian Pacheco, noto nel nostro paese fin da quando ritirò clamorosamente le proprie opere dalla Biennale di Venezia, perché non voleva in nessun modo essere accomunato – nella mostra sulla Spagna ad artisti compromessi al regime prima di Franco poi di Juan Carlos Vincenzo Consolo scrittore, e giornalista siciliano, autore fra l’altro de Il sorriso dell’ignoto marinaio, ha scritto il saggio introduttivo del catalogo di questa mostra. A lui abbiamo chiesto di presentare la mostra di Julian Pacheco per i lettori di Fronte popolare.
Nella primavera del ’65, durante lavori di restauro, furono aperte a Palermo, in quel famoso palazzo che va sotto il nome di Steri, fosca costruzione trecentesca della famiglia Chiaramonte, adibita poi a carcere dell’inquisizione (<<E qui nelle notti scure e rigide d’inverno quando il vento fischi sinistro, par di sentire come cupi gemiti di sepolti vivi e strida orribili di torturati… >>, scrive l’etnologo Giuseppe Pitrè), furono scoperte, dicevamo, delle celle che , con l’abolizione del Sant’Uffizio (1782), erano state murate e mai più da nessuno viste, nemmeno dal Pitrè stesso, che nel 1906 delle mura di altre celle di questo carcere aveva decifrato scritte, graffiti, disegni, riportando tutto nel libro Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso. E un giorno di quella primavera, dunque, alla notizia della scoperta di quelle celle << inedite>>, ci demmo convegno a Palermo per visitarle, Leonardo Sciascia, che aveva appena pubblicato Morte dell’inquisitore, la cui vicenda in quel carcere si svolgeva, il fotografo Ferdinando Scianna, il poeta spagnolo Gonzalo Alvarez e il sottoscritto. Forte dovette essere l’impressione di quella visita, della lettura delle scritte sui muri (una me ne ricordo, ironica e amara, che diceva press’a poco: <<Allegro, o carcerato, chè se piove o tira vento, qui al sicuro sei>>) se, a distanza d’anni – io posso dire ora obiettivamente, e spero sia chiaro che sono costretto a parlare di me per dire d’altro – nel mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio ho immaginato delle scritte sui muri di un carcere che dei contadini rivoltosi avevano lasciate. Questi muri e queste scritte di rabbia, di rivolta, me li trovai materializzati, <<reali>>, nei quadri di Julian Pacheco: frammenti, pezzi di stacco, di riporto di muri di quel grande carcere dell’Inquisizione che è stato, che continua a essere la Spagna, nonostante la morte per putrefazione del dittatore-belva, nonostante gli abbracci e i baciamano a papi e capi di stato del re-infante scappato da una malriuscita, rappresentazione teatrale di secoli passati. Julian Pacheco, spagnolo della Mancia, nasce nel ’37, in piena guerra civile, l’anno della battaglia del Jarama, di Guadalajara, in cui il fascismo e l’antifascismo italiano si scontrarono in terra di Spagna, e l’anno del bombardamento nazista di Guernica. Contadino e povero, viene avviato a quel mestiere – <<arte>> lo chiamano gli impostori – di torero in cui i ragazzi proletari di Spagna vengono sacrificati a un tragico tòtem in cui il rituale di morte che esalta l’istinto delle masse fino al delirio, all’ ottundimento della ragione (il goyesco << sueno de la razon >>), all’ assopimento della coscienza storica. Pacheco scappa da questa Spagna dell’inquisizione e del delirio ed è esule a Parigi ( vuole scrivere, dice, un libro sulla corrida, sulla miseria della corrida) e qui entra nel gruppo della << Nuova figurazione >>, con Aillaud, Arroyo, Del Pezzo, Recacati, Pozzati, etc. Subito la pittura di Pacheco è realistica ed espressionistica, di immediata e violenta denunzia di una realtà storico-politica violenta e criminale, pittura nella quale è bandito ogni attardo formale, ogni concessione alle squisitezze estetiche. Sono immagini dir e con facce di maiale, di caudilli con naso a becco, di rapaci carnivori, di cardinali funzionari carabineros soddisfatti e ottusi da cibi e da bevande, come in quel Banchetto nel Mozambico di brueghelliano ricalco in cui vengono servite teste mozze di negri. L’altro timbro di Pacheco sono questi muri: Muro del Toledo, Muro de Canete, de Aragon, de Barcelona, de Cadiz… fino a quel grande Muro di Spagna dove, sopra le scritte, emerge l’ironico e amaro manifesto a trompe-l’oeil che annuncia. <<Plaza de Burgos – 6 revolucionarios vascos – seran tourturados y a muerte – Matadores: Francisco Franco. Carrero Blanco – Sobresaliente J. Carlos de Bordon>>. Questo Muro di Spagna ci ricorda immediatamente il famoso e stereotipato lorchiano << bianco muro di Spagna >>, per coglierne la differenza, il diverso messaggio, oltre e al di là d’ogni valutazione d’ordine poetico o estetico, ammesso che sia possibile. Tra un abbagliato e abbagliante, antico e immutabile muro bianco << sconciato >> da scritte, graffiti, disegni, vi è la differenza che tra l’esistenza e la storia di quella storia che scaturisce da una << morada vital >>, come dice Americo Castro, e che immediatamente politica. Ma<, anche nella storia, ci sono muri e muri, segni e segni. Il muro è stato usato anche dal potere per tracciarvi a grandi lettere ordinate la propria retorica opprimente, l’iterazione ossessiva dei propri imperativi. E, in pittura, segni sono anche di Tapies, di Klee, di Burrio Capogrossi, ma di una realtà narrabile e non storicizzabile che ci porta a condizioni primigenie, come quella segnata dai petroglifi dei Camuni o di Lascaux e Altamira, o dai disegni ingenui e << felici>> dei bambini. Ma oltre quei muri e questi segni, c’è una scrittura murale che è scrittura notturna e furtiva, cioè d’opposizione, scrittura popolare e politica, libro d4el popolo sempre cancellato e sempre riscritto. Pacheco ha riportato sulla tela frammenti di questi muri, compiendo opera di recupero e di memoria: perché quelle scritte di protesta (REY NO – ABAJO – NO – FAI -PAZ – REP…) non si dimentichino quando i nuovi regimi faranno stendere sui muri di Spagna veli di bianco, di rosa o di grigio. Quei nuovi regimi che già cominciano a stemperare e a mischiare i colori per mascherare in quella Spagna le nuove carceri, le nuove inquisizioni. Pacheco, combattente radicale e libertario, avverte questo, e la sua pittura e i suoi gesti allora si fanno sempre più netti e inequivocabili, come quello per esempio, di ritirare le sue opere dal padiglione spagnolo della Biennale di Venezia del ’76, non volendosi trovare vicino e confuso con pittori contrabbandati per oppositori ma che col regime di Franco avevano trescato: sempre succede, ovunque, che alla fine di una dittatura o di un regime i trasformismi emergono, si mettono al servizio del potere nuovo. E anche in Italia, lo sappiamo è già successo.
Pubblicato da Fronte popolare Edizioni Movimento Studentesco 6 marzo 1977 Julian Pacheco
E’ un eclisse totale di sole il primo remoto, infantile ricordo di Pirandello. “Come l’ombra della luna lo investe, la luce del sole diviene fioca. Alle 2 pomeridiane il disco è interamente ottenebrato, ma lo circonda un anello di fuoco. Allora son tenebre di crepuscolo, gli uccelli si rincantucciano, il colore degli oggetti circostanti è pallido, fosforico”, così annota lo storico agrigentino Picone alla data 22 dicembre 1870.
L’eclisse sul Caos, la “campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare”, dove la famiglia s’era rifugiata per sfuggire al colera. E ancora, nell’infanzia dello scrittore, la serva Maria Stella che lo inizia al terrifico mondo magico-popolare, che lo porta nella chiesa di Santo Spirito dove, sopra l’altare, si dispiega lo scenario bianco, come di sudario scosso e sagomato dal vento, degli stucchi del Serpotta, e, al colmo dell’arco trionfale dell’abside, un Padreterno – un padre! – si sporge e incombe, con spropositata apertura di braccia, sovrasta uno schiumoso fondale di nuvole colombe raggiere angeli santi. Si aggiunga il teatro di Agrigento, il luogo dove la storia s’è spenta, s’è bloccato il conato, e dove regnano vuoto, ammasso di pietre, colonne che si sgretolano, ipogei di zolfo e labirinti di cenere. Da questa profonda memoria, da queste assenze, violenze, da questi terrori crediamo sia nato il mondo pirandelliano, in questo lontano momento si sia spezzata la linea retta, abbia avuto inizio la parallela della sua postica: la sua dialettica, la infinita perorazione, la crudele conversazione che rimbalza da una parete all’altra della sua “stanza della tortura”. “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa (..) E intendeva forse significare con questo che, oltre ai limiti della memoria, vi sono percezioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in un altro tempo…” dice Bobbio-Pirandello. Per queste percezioni, per queste impressioni seppellite nel buio di catacombe imrnemorabili – che mai le violino archeologi disincantati, freddi analisti di reperti ineffabili! – s’è prodotto strappo sul fondale d’una realtà apparente; su queste fondamenta vibranti di risonanze infinite i grandi architetti hanno costruito il loro mondo di verità ulteriore, la poesia della verità trascendente. Quali mai sono state le percezioni, le impressioni, al di là d’ogni memoria, di Fabrizio Clerici? Su quale terreno di meraviglie, stupori, affanni, terrori poggia il suo straordinario mondo fantastico? Noi possediamo solo la mappa, anche fallace per la semplicità delle linee, per la perentoria evidenza del disegno, del suo percorso umano. Sappiamo della nascita a Milano, in quel centro storico di stradine circolari e labirintiche, di architetture discrete, di severi prospetti che dietro nebbie e fumi svanivano. Del primo suo altrove, della prima avventura nell’Umbria, all’abbazia di Montelabate, nella cui cripta scopre i cadaveri dei cappuccini – erano nudi e sulla terra distesi come Francesco o in orbace? In piedi e con paramenti come i prelati delle cripte di Palermo o seduti in poltrona come le badesse di un convento di Ischia? La mappa ancora ci dice degli studi presso i Gesuiti di Roma. Nella Roma crogiolo d’ogni storia e mito, d’ogni fasto e decadenza, d’ogni rovina e reperto, delle dimore papali e delle fontane sonanti, del Bernini e del Borromini, dei marmi della chiesa di S. Ignazio, dei riti pomposi e degli esercizi spirituali, delle reliquie e delle volute oleose degli incensi. Ci dice ancora dei viaggi a Napoli e ai Campi Flegrei, ad Atene e a Constantinopoli, degli studi di architettura e della frequentazione di morgues e di teatri anatomici – un involontario Zumbo per necessità di vita – e delle fughe, le fughe verso gli orienti di civiltà e di idoli estinti, di deserti, di luci accecanti e di miraggi. Quale miracolosa alchimia si è compiuta tra il fondo immemoriale, le esperienze, le visioni straordinarie e la singolare, vertiginosa cultura di Fabrizio Clerici? E quale profondo disagio, quale malinconia della storia ha spinto l’artista a creare linguaggi inusitati, stabilire inediti, sorprendenti nessi sintattici? La sua mano si è mossa per disegnare, dipingere, in una coazione, com’è nei veri artisti, in una ricerca, in un lavorio virtualmente infinito. I primi rapporti sono i disegni famosi, La grande fame, Troppo visto, troppo sentito, Souvenir d’Italie, Stanchezza degli Omenoni, Crisi del secolo.., in cui si è abbattuta sul mondo una tragedia che è della storia ed è insieme del tempo, per cui si giunge alla tempera Recupero del cavallo di Troia, alla rappresentazione del simbolo bellico, dell’inganno blasfemo, della disumana scienza, dell’ordigno di tecnologia crudele che ha seminato devastazione e morte, ha creato la mutazione, ha generato la colpa, ha provocato la maledizione: nei legni consunti, calcinati, nel paesaggio roccioso e deserto, nel cielo striato di grigio si vede Hiroshima più che nella rappresentazione diretta della Piccola atomica. Da qui crediamo derivino tutti i deserti, le città fantasmatiche, i labirinti, le architetture babeliche, le barche solari, i promontori goyeschi, da qui cerchi di pietra rotanti e il loro frantumarsi, e le apparizioni di litici falchi occhi arieti, di obelischi dagli alfabeti consunti. Da qui le stanze della crudele geometria, del vuoto, dell’assenza, dello sgomento d’un cavallo, delle bocche dei baratri, del sorgere di isole dei morti, malinconie, feluche infernali, sfingi, idoli, prosopopee d’un oltremondo d’inganno. Da qui l’uovo della morte, il teschio eburneo tra le pieghe d’una grazia di stucco, gli squarci tremendi nel sipario dell’abbaglio. Siamo di certo nel cuore del paesaggio leopardiano, nella notte illune di un pastore errante sul manto di lave, in cui è assente anche la ginestra, dello “sterminator Vesevo” o nell’assoluta desolazione del “gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta (…) Parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”. O il sogno d’un ipogeo profondo, d’una catacomba del tempo, della bellezza, dell’arte, un Infero ermetico dove il melograno ha nutrito l’eterno.
Vogliamo affermare, e a questo punto in modo tardivo, che, oltre il simbolismo, il surrealismo, la metafisica, o grazie ad esse, nella nostra epoca, pochi artisti come Clerici, e meno i realisti, i didascalici, meno ancora forse gli apocalittici dell’astrazione, hanno saputo esprimere l’offesa, la profonda ferita della storia, l’angoscia dell’evento remoto e incombente, la malinconia del tempo, la pietà per il nostro destino. Nessuno, in modo tanto forte, di fronte a noi, smarriti, attoniti, lontani e ciecamente brulicanti nell’anfiteatro precario del mondo, ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia. Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, di sequestri processi condanne, di morti ammazzati sopra l’asfalto – su questo terreno convergevano L’uomo solo di Clerici e L’affaire Moro di Sciascia – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei “Corpi di Orvieto”. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di S. Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione, ha mostrato tremulo, fuggente in preda al terrore d’un finimondo incombente; fulminato, offeso, violentato nel dominio del Male; e decaduto, dilaniato, soffocato nel groviglio terribile con i corpi di demoni verdastri, cinerini, bluastri, muniti d’escrescenze, pelami, membrane ripugnanti, dopo la definitiva condanna… La chiave di lettura del poema del Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare d’una delle pareti affrescate. “Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così la funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia” racconta. La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. “Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna” narra Vasari. Clerici rapporta la violenza di Cortona, di quel tempo, alla violenza del suo, del nostro tempo all’orrore per l’offesa alla vita, per lo scempio d’una nobile essenza, sembianza; quel dolore di allora di un uomo al dolore ora di ognuno per l’armonia che viene bandita dal mondo. In un prezioso diario dell’estate-autunno del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. Ci rivela, come solevano fare gli antichi maestri, quella sua stagione di possessione, ossessione, furore creativo, le misure rigorose, ineludibili della sua lucida, tagliente geometria, la tormentata conquista degli equilibri assoluti nelle sue architetture allarmanti. Egli legge – lo diciamo nel senso latino di scegliere, cogliere – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio, nelle stanze della ritrazione e della riflessione, negli antri cumani delle profezie inquietanti. “La stanza è la testimonianza di una passata violenza. Quello che noi vediamo è come attraverso il filtro del tempo, è come una peluria di luce, peluria cromatica che fa pensare alla polvere, tutto è molto pulito, tutto è molto terso, ma tutto avviene attraverso un leggero pulviscolo, come delle diafane emanazioni di luce, di una luce che non si sa proprio da che parte arrivi…”. E non si sa proprio da che parte arrivi questa pittura orvietana di Clerici, questa teoria di scene dove non si scorge più sforzo fonetico, traccia di segno, travaglio sintattico, dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo. Certo l’allarme, l’inquietudine è subito per la sua “pelle” levigata di perla, di lucore sommesso, chiarore di pergamena, fissità del mistero. E dunque nel testo, la fuga di assi interrotta da una buca, “impronta di bara”, su cui, imbrigliato da corde d’aloe o di canapa, sta sospeso il gran masso, il frammento d’affresco, il papiro, la terzina incompleta che dice del giovane corpo riverso, sparsi i capelli, attoniti gli occhi: sul torso ormai fragile premono piedi, rotule ferree; le sedie rovesciate, i frammenti di osso dicono che qui ancora e sempre s’è compiuto l’oltraggio, s’è perpetrato il delitto, s’è celebrata l’infamia. Altra stanza, con fuga prospettica del pavimento e mattonelle divelte, quadri su cavalletti in piani paralleli contro il piano della parete: sono ancora, in variazione di toni, sfumature di tinte, modulazioni di luce, giovani corpi riversi e oppressi. E ancora, anelli in convergenza e in controluce, in penombra, su convergenza di luci, riverbero tenue d’un fuori deserto. La stazione ulteriore è il faccia a faccia di due dipinti, e in quello visibile, centro del dramma, l’atroce più acuto, un cappio tirato da forza brutale che finisce un inerme. Si ripete la scena in un tempo seguente in cui avviene che una nuvola lieve abbassa i toni, proietta le ombre il grido si fa compianto.
Siamo, in questa clericiana sequenza pittorica dei “Corpi di Orvieto”, e nel coro de disegni, siamo per Signorelli, come prima per Hböcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di Calderon, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, nella stanza dove dialetticamente si scontrano e conflagrano idea e fenomeno, allegoria e storia, geometria e caos, ragione e delirio, armonia e violenza. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.
Milano, 25 settembre 1996 Vincenzo Consolo
Vincenzo Consolo
“Ricordando Fabrizio Clerici”
Prolusione presso l’Accademia Nazionale di San Luca, Roma 10 giugno 1994….
La mia, naturalmente non è una relazione, è solo un breve ricordo di Fabrizio Clerici.
Era quello di Clerici, sul mondo, uno sguardo leopardiano, del poeta della Ginestra, dell’Infinito del Pastore errante. Era lo sguardo su colpi di lava, di basalto, che hanno coperto, cancellato ogni vestigia di vita, ogni segno umano. Lo sguardo sugli infiniti spazi di smarrimento, panico; su sconfinate distese, desolanti, sotto celi notturni.
Era, quello di Fabrizio Clerici, dolore per il fluire inesorabile del tempo; per l’inconsistenza della storia, era la compassione per il destino umano: malinconia del passato, struggimento delle rovine, insopportabilità d’ogni presente misero e atroce.
Erano, i suoi mondi di pietra, le sue distanze, le sue stasi campannelliane, le sue allarmanti apparizioni nelle stanze, i suoi vuoti, le sue quieti, il suo onirismo e la sua metafisica; non erano dunque che difesa, schermo, un travaglio incessante, d’un assillo senza tregua, d’un dolore senza rimedio.
Per parte mia voi sapete, vorrei sottrarmi dalla tempesta insana d’ogni sentimento; percorrendo a ritroso vecchi antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento ceco, incontrollato, fino al punto oscuro, iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo; nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica.
Oggi, sta in quella quiete Fabrizio Clerici, a noi, del suo passaggio in mezzo alla tempesta, nella sua sosta sopra le lave dello sterminato corso reso, l’eredità di un arte sublime e umanissima; la testimonianza della compassione per il dolore che ognuno ha anche ignorato, compassione per il mondo.
A me, come ad altri scrittori, il dono speciale, per mezzo della sua arte, della sua personalità, dell’ispirazione di un racconto.
Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.
Vincenzo Consolo
Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino
Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro. Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.
L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore
che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede
nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di
Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di
Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla
fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora
perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare
( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi
metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta
terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso
mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con
felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte
diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e
il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino
puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una
vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione,
tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far
evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce
più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere
dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della
mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post
-industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una
singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il
viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo
peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli
appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi
e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a
un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana
chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo
per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di
“sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il
potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio),
percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di
viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai
terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore
ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote,
lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo,
ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa,
scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da
una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a
quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le
uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa
discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione
riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e
sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento,
contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro
interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione,
espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un
procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini
cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro
Kurosawa.
Sergio Palumbo (articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)
Come la rosa, il mare o l’intimo usignolo, la Luna – «sole delle statue», come la definisce Cocteau – è stata una fonte inesauribile di ispirazione in tutte le letterature. E se – come afferma Consolo – quel giorno dell’estate 1969, in cui l’astronave Apollo profano la Luna, è stato un giorno nefasto per la poesia, nulla ci impedisce di pensare che l’astro ha riconquistato tutti i suoi poteri dal momento in cui uno degli astronauti ha dichiarato che, vista dalla Luna, la Terra è una piccola scintillante sfera blu. Di colpo, l’immagine di Paul Eluard – la Terra è blu come un’arancia»- è sembrata profetica. Se è vero che in Ariosto la Luna è oggetto della più memorabile delle invenzioni (con il paladino che vi scopre tutto quello che gli uomini banno perduto nel corso dei secoli, e in particolare gli slanci e i sospiri degli innamorati), è pur vero che la Luna non ha ispirato soltanto i poeti. Nel secondo secolo della nostra era, Luciano di Samosata aveva descritto i Seleniti come esseri che filavano e tessevano vetro e metalli nutrendosi di -estratti d’aria; allo stesso modo Swift li ricorda nei Gulliver’ Travels: considerazione dalla quale possiamo concludere che la cosiddetta science-fiction si trovava già nella Storia vera del Greco. Ma nel diciassettesimo secolo, ispirandosi alle idee di Copernico e attingendo soprattutto al Somnium Astronomicum di Keplero (opera sulla topografia della Luna e la natura dei suoi abitanti, che l’autore finge letta in sogno), Cyrano de Bergerac scriveva /Histoire comique des Etats et Empires de la Lune. In quest’opera gli abitanti della Luna – cacciatori di allodole che, raggiunte da frecce infuocate, cadono già arrostite – credono che Cyrano sia una sorta di scimmia e come tale lo trattano. In seguito, la fantasia degli scrittori ha continuato a popolare l’amato satellite e ha perseverato nel considerarlo irraggiungibile meta di un viaggio impossibile. Non ultimo André Malraux, che nella sua prima opera – Lunes de papier (1921) – sognava lune-palla che s’involavano verso il Regno della Morte. Da parte sua, Roger Caillois osservava che Newton non ha scoperto la legge di gravita, come si crede, vedendo cadere delle mele da un albero, ma notando che, mentre la mela cadeva, la Luna non cadeva affatto. Oggi, il siciliano Vincenzo Consolo sogna la caduta della Luna in un dialogo poetico-filosofico, mascherato da libretto d’opera barocca, che si intitola appunto Lunaria. Questo testo ha una genesi curiosa: il punto di partenza è un lavoro del barone Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a sua volta autore de Il Gattopardo. Il barone Piccolo, benché ricchissimo, credendo di essere improvvisamente caduto in miseria, volle porvi rimedio scrivendo un testo destinato alla scena… Nacque così L’esequie della Luna, che Pasolini – dal fiuto sempre inquieto e infallibile – pubblicò sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1967, e che, alcuni anni dopo, un giovane regista decise di mettere in scena. Poiché il poema in prosa di Piccolo era diabolicamente ermetico, fu chiesto a Consolo di farne l’adattamento. Cammin facendo, preso dall’avventura della creazione letteraria, Consolo si allontano talmente, e talmente bene, dal testo di Lucio Piccolo, da dar vita a un nuovo testo, Lunaria appunto, che di quello originario conserva solo il germe. Cosi come, d’altronde, certe pagine di Leopardi – che per primo aveva sognato la caduta della Luna – erano state il germe delle Esequie del barone. Il lettore è trasportato nella Sicilia del diciottesimo secolo in cui un viceré – che apostrofa il sole trattandolo da tiranno e da barbaro perché oltraggia i loculi del sonno» – non crede né al suo potere né alla sua missione, convinto com’è che malinconica è la Storia» e che esiste solo il tutto, ossia l’universo, «questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata». Non sarà che il viceré è uno iettatore? In effetti, la notte in cui sogna la caduta della Luna, quella si stacca; se ne ritrovano pezzi, qua e là nella campagna circostante, il più piccolo dei quali è sufficiente a fare impallidire tutti i lumi del palazzo… Si pensi, tra la letteratura contemporanea, quelle opere teatrali ibride, solitarie, quali Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas o The Antiphon di Djunta Barnes: come quelle, Lunaria non sembra possa essere rappresentata in teatro, ma riserva alla lettura abbacinanti bellezze.
Un palinsesto filosofico Paolo Mauri
Rubare i sogni non è reato e Leopardi fece una volta un sogno bellissimo, che era quasi un incubo (anche gli incubi possono essere belli). Nel sogno .[.. ] il poeta vede la luna staccarsi improvvisamente dal cielo, diventare via via più grande man mano che precipita, e rovinare di colpo in mezzo a un prato. In cielo soltanto un barlume, al posto dell’ astro caduto, anzi una nicchia. Visione tale da recare non poco tur-bamento, in cotal guisa / Ch’io n’ agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Svanito il sogno, il turbamento rimase. Racconta Vincenzo Consolo che tentò di dargli forma teatrale, un giorno, il barone Lucio Piccolo: che era anche, come non tutti sanno, un raffinato poeta. Ma non gli riuscì. Ci ha riprovato ora Consolo stesso, che forse deve a Piccolo l’idea di trasferire il sogno in Sicilia. Lunaria, questo il titolo dell’operina di Consolo …], è infatti una messinscena siciliana, proiettata in un Settecento non ben precisato e animato da un Viceré abulico che guarda il suo tempo senza troppo apprezzarlo, mentre volentieri tende l’orecchio ai più grandi ed eterni dilemmi umani. …. Lo abbiamo detto all’inizio: rubare un sogno non è reato e meno che mai lo è in letteratura. Se ha certamente ragione Gérard Genette quando dice che ogni testo letterario è in realtà un palinsesto, nel senso che ogni storia, ogni libro, viene riscritto sulla base di un libro precedente, Consolo sembra dargli doppiamente ragione Lunaria […] è un palinsesto i cui strati sono in bella evidenza. Non tanto, o meglio non solo, per il dichiarato prestito leopardiano; in tutta la costruzione di Consolo circola un’aria iperletteraria, erudita, avverti un controllatissimo gioco di incastri. A cominciare dalla lingua: un italiano (quando non è dialetto o spagnolo), tornito, sapientissimo, musicale, un mosaico in cui s’incastonano autentiche rarità, da speleologo dei dizionari. Questa lingua, più mossa, più increspata di quella impiegata a suo tempo nel romanzo ha la funzione di rendere l’azione astratta e quindi (qui sì) dichiaratamente teatrale, simbolica. E un mondo, quello della luna che cade, che non scende a noi, ma al quale dobbiamo salire. Tocca a noi, lettori-spettatori, carpire il segreto musicale di un incubo da favola e adattarvi le nostre orecchie, disabituate al frastuono di una sintassi e di un lessico avari di concessioni al già detto. Restituendo al parlato quella patina d’antico di cui (dato il tempo in cui si svolge l’azione) ha bisogno, Consolo si rivela dunque “falsario” abilissimo. Ma c’è di più. Resuscitando questo antico e fanciullesco sogno, Consolo vuole anche dirci che esso non troverebbe posto nello smagato mondo di oggi, che sulla luna addirittura ci è andato. Squisitamente para-leopardiana è la conclusione filosofica. La felicità, se la si vuol provare, bisogna recitarla, magari in un teatrino bizzarro e mentale come questo. Rovescio notturno del mito di Fetonte che rovinò con il carro del sole, il sogno della caduta della luna non può appartenere a una civiltà agreste. L’ultima che si è concessa un rapporto irripetibile con la notte e che a luci spente ha concepito favole, idilli e umano terrore.
(la Repubblica, 2 luglio 1985)
Quando la luna cadde alla corte del Viceré
Antonio Prete Leggo Lunaria, l’operetta di Vincenzo Consolo che ha per “protagonista” la luna, a distanza di qualche mese da alcune mie – come chiamarle? – meditazioni esegetiche attorno alla luna leopardiana, alla sua teofania nei Canti, alla sua luce che insieme vela e rivela il paesaggio naturale, dischiudendo, nella notte un altro paesaggio, quello dell’interiorità. Che cammini velata di nubi viola, o che tremi di solitudine e di bagliore in un cielo di ghiaccio, la luna leopardiana illumina quel limitare della coscienza sul quale l’impensato dialoga con le forme del pensiero, ciò ch’è perduto cerca una nuova lingua. La luce lunare racconta in Leopardi l’essenza stessa della poesia. Così, è stato forse questo mio recente vagabondare critico (e lunatico) nei Canti, fino al Tramonto della luna, a farmi da appassionata guida nel racconto dialogato di Lunaria, in questo cuntu che .[..] ruota attorno al sogno leopardiano che narra la caduta della luna […]. Oppure è stato l’improvviso ritorno di immagini che avevano accompagnato, nell’estate del 76, proprio nelle trasparenze di alcuni meriggi siciliani, la lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio, a introdurmi nel nuovo racconto […]. Il racconto raccoglie, così mi sembra, sovrapponendoli con delicata arguzia, frammenti di generi non più frequenti, anzi polverosi di letterario oblio: il Trauerspiel, tuttavia spogliato dei suoi emblemi funerei e delle sue allegorie di cenere incastonate nel fulgore della corona, insomma rivisitato più dalla parte della Torre hofmannsthaliana che dei suoi barocchi luttuosi modelli: l’operetta morale, riscritta con una dilatazione degli scenari e della partiture linguistiche della visualità e della coralità; la favola teatrale, aperta a ritmi popolari, a cadenza di proverbi, sospesa tra documento etnografico ed evocazione magica, tra fonti descrittive e levità di narrazione. Ma quel che unisce questi frammenti, e allontana i generi nel loro esile e circoscritto compito di stimolo, è la lingua, vero oggetto di questa narrazione. Una lingua che contamina flessuose e immaginose movenze barocche con insistenze “stralunate”, da lessico lussurioso e tuttavia straniato. Più che l’intrico dell’arabesco, c’è la sua ossessione di luce, attraverso la complicità tra ripetizione e variazione. Una lingua fatta di calchi, mimetismi libreschi, citazioni, ridondanze tornite e autoironiche. L’elencazione è insieme tecnica che ravviva e ritmo adeguato alla teatralità eccessiva e malinconica della favola. La lingua artificiale e musicale, parlata da villani e villanelle della Contrada e dal messaggero Mondo, irrompe, metafora d’una primordialità contemplativa perduta, nei linguaggi declamatori della corte. Nel finale, deposte le insegne del potere, il Viceré recita l’amplificazione gnomica che portava il pubblico del teatro barocco nel cuore del gran teatro del mondo: la sua vanitas: «Vero re è il Sole, tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede. È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Che il vero testo d’avvio, non dichiarato, della favola di Consolo, e di L’esequie della luna di Piccolo, non sia il leopardiano Spavento notturno, ma il bellissimo verso de Il tramonto della luna, dove nella cesura si raccoglie l’evento e l’allegoria del vivere: «Scende la luna; e si scolora il mondo»? Con l’assenza della luna, sul paesaggio scende la notte d’un immensa vanitas, ma il silenzio che sopravviene allo scenico reclino della luna dischiude l’invisibile, come accadrà, dopo Leopardi, ai notturni di Rilke. Ma qui, chiusa la picciola favoletta» di Lunaria, eccomi tornato a quel meditare lunatico…
(Il Manifesto, 1 agosto 1985)
Non ci si allontana dalla Sicilia con Retablo, romanzo che, in Francia, esce contemporaneamente a Lunaria. Di primo acchito Retablo può essere considerato come appartenente allo stesso filone del Concierto barocco di Alejo Carpentier, ma in più possiede quelle malinconiche digressioni metafisiche che non hanno mai tentato il grande romanziere cubano. L’argomento trattato è il viaggio intrapreso da Fabrizio Clerici, pittore di anticaglie», nelle estreme terre della penisola: va in cerca di rovine e di vestigia del passato, sulle orme di quel monaco Fazello che «basandosi sulla parola antica di Diodoro» scopri «circondata dalla macchia e dalla palude, la defunta Selinunte». Gli fa da guida un fraticello. Briganti che sono monaci che hanno gettato la tonaca alle ortiche, pastori e cantastorie che salvaguardano la memoria dell’isola, contadini occupati a ripulire i campi da quelle antichità contro le quali urta il vomere dell’aratro: ecco i personaggi che popolano questo racconto il cui tempo è, senza sosta, “allegro con brio”. Le parole sono come perni sui quali la frase ondula, scende, risale, si attarda chiamandone altre che accorrono, si alternano, si snodano, vibrano, scintillanti di metafore. Il lettore è riportato in un passato trasfigurato, a quella prima meraviglia incredula e reciproca che dovettero provare, messe a confronto, la Lombardia illuminista (impersonata dal cavalier Clerici) e quella Sicilia dalla quale i Greci e gli Arabi non sono mai partiti. Retablo ha il tono brioso di un divertissement in cui anche l’erudizione si presta al gioco. Ma, come in Lunaria, dietro il sorriso si cela lo stesso pianto; sì: «malinconica è la Storia». E la mirabile statua che scivola dalla barca del cavaliere, forse – tutta incrostata di madrepore – un giorno sarà ritrovata. Agli occhi della divinità, al di là del tempo, non ci sarà alcuna differenza tra la Nike di Samotracia e la conchiglia prodotta da una bestiola mucosa che porta in sé una riserva di sale e di madreperla, destinata ad essere versata in uno stampo di geometrica perfezione. Va notato, per concludere, che Fabrizio Clerici è il nome di un grande pittore italiano contemporaneo, i cui soggetti prediletti sono città immaginarie, labirinti sventrati, insomma: ogni pietra scolpita ed erosa. Rendiamo omaggio, infine, all’arduo lavoro dei traduttori. […]
(Hector Bianciotti, Le Monde, 22 aprile 1988; traduzione di Marina Di Leo)
da Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura. pagine -107 – 108 – 109
Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzuro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, 1o squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’ intreccio impietoso, nelle tenebre profonde, nel segreto germinare. Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria.
In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi, in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore. In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza, come l’incanto d’una strada chiara, d’una fata morgana tra il cielo e il mare dello Stretto. Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, Ia sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente … Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura.
Vincenzo Consolo Milano, 12 dicembre 1994
Aspettando l’ alba, acquaforte e acquatinta, mm.500 x 320.
L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.
E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato. Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso ladialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro. Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 3 settembre 1994 ** Consolo (Mondadori, pagine 149,) Gibellina: un sudario di calce di Vincenzo Consolo
Da «L’olivo e l’olivastro»
Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza,nella memoria dissolta, nell’estraneità,nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro dimarmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfaltoil fiore stridente, la stella texana, la porta perla fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghestrade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge,vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliatidall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardinidi pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli,cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillinialfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata delframmento, l’arco il portale il timpano infranto.L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre,fra le astratte sculture imponenti, le architetture dellacittà costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansiaperenne (…).Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori dauna casa del nuovo paese, cammini sullastrada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo.«Sono nato a Gibellina, di anni ventitré…», rispondi. «Che dico?… Mi chiamoNicola, sono nato a Gibellina, holavorato nelle cave di Meirengen. vicinoBasilea. Ho là moglie, figli che non voglionopiù tornare in questo paese». «Tiriconosco, Nicola, e son passati tanti anni,sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione diMilano…».«Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una facciadiversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamoper quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce,di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, airuderi spianati e coperti da un’immensa colata dicemento, da una coltre bianca, da un sudario dicalce.Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello,la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola. L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggiola violenza, la corruzione delle coscienze:«La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»