Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006

Il Lunario ritrovato

IL LUNARIO RITROVATO

 di Vincenzo Consolo

 Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.

 S.Agata Militello, settembre 1999

(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999)
Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina

La trezza

Vincenzo Consolo

Aci Trezza. La Trezza, come la chiama Verga. ‘A Trizza, in siciliano: la treccia. L’intreccio. Ma nessun libro della letteratura italiana moderna è così privo d’intreccio (vi è in esso una iterazione ossessionante di avvenimenti dolorosi, di disgrazie, come per spietata beffa del caso o per persecutoria maledizione divina), nessuna narrazione è meno romanzesca de I Malavoglia. Un poema narrativo è stato detto, una «poesia di gesta epica popolana» lo dice Bacchelli. Un poema chiuso, circolare, da dare il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche che si ripetono, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante del linguaggio, nei proverbi che hanno la gravità e l’immutabilità delle sentenze giuridiche o dei versetti delle sacre scritture («Mektoub!» dicono i musulmani, «E scritto!»), da dare il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo imprevedibile, da suggerire l’immagine della fissità: della predestinazione, del fato, della sorte umana irredimibile. C’è, da parte di Verga, uomo dell’interno, della campagna vasta e desolata, ma comprensibile, dominabile, nella scansione delle chiuse, con il lavoro, con il possesso, come un graduale processo di avvicinamento a questo villaggio di pescatori poco distante da Catania; c’è un diffidente approssimarsi alla riva aspra e nera, alla sciara, al mare amaro, periglioso fra Ognina e Capo Mulini, e ancora più davanti a Trezza per gli scogli che come mostri, incubi lo invadono.

Il mare non è stato mai amato dagli isolani: dal mare viene il male, la minaccia Il mare è estraneo a un «continentale» come Verga. Da cosa è spinto allora lo scrittore a far partire da qui, da Trezza, il suo grande affresco narrativo, la sua ambiziosa Commedia Umana, il suo ciclo de I vinti?

È spinto a Trezza, crediamo, perché, per il livello infimo da cui doveva partire la sua storia, per le condizioni umilissime dei personaggi, del coro dei Malavoglia, aveva bisogno di un luogo estremo, marginale, di un limen, un punto di Passaggio in cui le onde pietrificate dell’antica lava etnea scivolano e si sciolgono nel liquido del mare, nell’incertezza assoluta della tempestosa esistenza.

L’epifania di Trezza si trova in una curiosa novella del 1875: Le storie del castello di Trezza. Una novella gotica, nera. Ma in cui, dall’alto del castello c’è, inaspettatamente, la visione del villaggio: «Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduta fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale». Fantasticheria, in Vita dei campi (1880), è poi come un accordo di strumenti, un’anticipazione di motivi, di temi, di personaggi, una prefigurazione della Trezza dei Malavoglia. Ma Fantasticheria si può leggere anche come commiato di Verga, ai temi, ai personaggi mondani di tutti i  suoi scritti precedenti, prima di entrare nella realtà e nella verità di Trezza, nelle casipole dei suoi pescatori, nel mondo dei Vinti.

Com’era Trezza allora? Certamente come ce la descrive, nella sua essenzialità di «voce», il Di Marzo, nella traduzione e continuazione del Dizionario topografico della Sicilia del Vito Amico (1858): «Contansi oggi in quella terricciuola un 600 abitatori; è distante 6 miglia da Catania, ed esporta orzi e vini (e lupini, ci viene da aggiungere). Gli scogli di Aci o dei Ciclopi sono celebri presso i mineralogisti, dopo che Dolomieu vi scoperse per la prima volta l’analcime limpida, detta da lui zeolite bianca…» Era Trezza certamente come ce la descrive, anzi ce la fa «sentire» Verga: un villaggio di poche case, con la piazza, la chiesa di San Giovanni, l’osteria, la sciara, le barche ammarrate sopra la spiaggia, sul greto del torrente, sotto il lavatoio; e quel mare di cupo cobalto che s’infrange e spumeggia contro gli scogli, i fariglioni; e l’immenso Etna alle spalle, nero e fumante, minaccioso.

Un luogo di pura esistenza, di elementare eventologia, ai limiti dello spazio, del tempo: o fermo nel tempo, fissato in un dolore lontano, immemorabile. Com’è nelle tragedie greche, in cui i protagonisti sono inchiodati a un evento che si è svolto molto tempo prima, ma che saranno sciolti, infine animati per l’intervento pietoso di un qualche dio. Un luogo senza luce, Trezza, chiuso, circolare o labirintico; il Luogo della treccia, del nodo mai sciolto della tragedia.

E così il luogo dové apparire, puro e intatto, sublime e sacro, al giovane Visconti che un giorno (1947) capitò a Trezza per girare La terra trema.

E così anche noi l’abbiamo vista Aci Trezza, uguale a quella de I Malavoglia, de La terra trema, quando vi capitammo un giorno di settembre di circa vent’anni fa. Vi eravamo andati – insieme a Pasolini, Moravia, la Maraini, tanti altri – durante una pausa dei lavori di un premio letterario che si svolgeva in un paesino, Zafferana, sopra l’Etna. Unica novità, e stridore in quell’intatto piccolo mondo, una

Madonnina, bianca di calce e abbagliante sotto il sole, eretta sopra la nera lava di uno degli scogli dei Ciclopi, una innocente Madonna che aveva fatto indignare Pasolini.

Vi siamo tornati ora, nel giugno appena scorso. Aci Trezza non c’era più, era scomparsa. Erano scomparse le casipole, le barche da pesca, i fariglioni. Due enormi braccia di grigio cemento, due banchine circolari di un assurdo porto, alte come bastioni, chiudevano tutto il mare del seno, nascondevano gli scogli, la rupe del castello di Aci, tutto l’orizzonte. Il villaggio s’era ingigantito, era affollato di enormi case, di condomini, ristoranti, pizzerie, discoteche.

Ai tavoli di un bar sulla piazza servivano degli immigrati arabi. Altri, di colore, con fazzolettoni legati in testa, sembravano degli improbabili pirati lì pronti per una sceneggiata televisiva. Ragazzine in short o minigonne arrivavano in piazza sopra strombazzanti motorette, abbracciavano e baciavano i corsari di colore, si sedevano tutti insieme sui gradini a parlare e a fumare.

Più avanti, vicino la chiesa (sul muro, unica testimonianza di un mondo ormai scomparso, scomparso nel paesaggio, nella memoria, un bassorilievo dello scultore Lazzaro con sotto una frase malavogliana «E quei poveretti sembravano tante anime del purgatorio»), a una tavolata all’aperto della trattoria Gaetano avevano appena finito di mangiare tante coppie di genitori di bambinetti indiani. C’è anche in mezzo a loro una suora cattolica indiana. Era domenica, e certo festeggiavano tutti insieme un qualche avvenimento. Fra i genitori adottivi d’una bella bambinetta c’era la signora Nelluccia Giammona, moglie del Gaetano che dà il nome al locale. La signora Nelluccia ci conduce su, nell’appartamento sopra la trattoria, in uno stanzino che tiene chiuso come un piccolo sacrario. Alle pareti di questa stanza disadorna sono le gigantografie delle foto di scena de La Terra trema. Perché lei, allora tredicenne, e la sorella Agnese, sedicenne, sono state protagoniste del film di Visconti. E sono là effigiate, brune e bellissime, al telaio, alle faccende domestiche della casa del nespolo. «La casa del nespolo per la verità non esiste, non è mai esistita», ci dice come rivelando un segreto la signora Nelluccia. La quale è ancora effigiata, innocente e smarrita, un gran mazzo di fiori sulle braccia, con la sorella, con Visconti, Francesco Rosi e Zeffirelli, al festival di Venezia. La casa del nespolo non è mai esistita, certo, come non è mai esistita l’altra casa su «quel ramo del lago di Como». E forse non è mai esistita nella realtà Aci Trezza, la Trezza. Ogni segno del paesaggio fisico e umano di oggi ci convince di questa inesistenza. Forse non è mai esistita neanche Vizzini, non è esistita Catania, Siracusa, Palermo, Racalmuto… Non è mai esistita la Sicilia.

Forse una volta sono esistiti gli scrittori. Forse una volta è esistita la letteratura.