Metamorfosi di un racconto poco noto di Vincenzo Consolo

Giuseppe Traina

La Trezza è un breve testo di Vincenzo Consolo, di natura né propriamente narrativa né propriamente saggistica, compreso in Paesaggi italiani, un piccolo libro del 1989, curato da Maurizio Ciampa e Franco Marcoaldi e che uscì allegato a un fascicolo della rivista «Leggere», pubblicata a Milano dalla raffinata editrice Rosellina Archinto (La Trezza fu poi riproposto nel 2005 in un’edizione Oscar Mondadori de I Malavoglia di Verga).

Il raccontino è il resoconto di un ritorno dell’autore ad Acitrezza, molti anni dopo la prima visita, che risaliva alla fine degli anni Sessanta. E costituisce, d’altra parte, il cartone preparatorio della seconda parte del settimo capitolo de L’olivo e l’olivastro, secondo una prassi abbastanza abituale di riutilizzo nei suoi libri, in forma intera o per brani, di qualche testo precedente, soprattutto se d’occasione: nel libro, che uscirà nel 1994, le pagine su Trezza sono davvero poche, versione ancora più sintetica e stilizzata di quelle presenti in Paesaggi italiani.

Il piccolo paese di pescatori, Acitrezza ma qui semplicemente Trezza (come nel toponimo dialettale), che alla prima visita era apparso a Consolo tale e quale dovevano averlo visto prima il Verga di Storie del castello di Trezza e Fantasticheria (ma naturalmente anche dei Malavoglia)e poi il Luchino Visconti de La terra trema, ora, alla fine degli anni Ottanta, gli appare irriconoscibile, stravolto dalla siciliana modernizzazione senza sviluppo, che poi è il tema principale del nostos narrato ne L’olivo e l’olivastro.

In La Trezza il paese, da che era un «luogo di pura esistenza, di elementare eventologia, ai limiti dello spazio, del tempo: o fermo nel tempo, fissato in un dolore lontano, immemorabile» – insomma un luogo da tragedia greca, «luogo senza luce, Trezza, chiuso, circolare, labirintico; il luogo della Treccia, del nodo mai sciolto della tragedia» –, è stato contaminato dai segni del consumismo, della pasoliniana omologazione, ma anche della mescidanza multiculturale: in sintesi, «Aci Trezza non c’era più, era scomparsa». Quest’asciutta constatazione si trasforma, in L’olivo e l’olivastro, in un epicedio dai toni certamente più turgidi e melodrammatici: «Ora non è più Trezza. È la fine del dolore, morte dell’anima, sigillo d’ogni pianto, arresto del canto, fine del poema, turbinìo di parole, suoni privi di senso, di memoria».

Quella che poteva essere una mera, eppur dolorosa, constatazione sociologico-esistenziale si sviluppa poi, rapidamente, in una vertiginosa riflessione sulla fine della letteratura, senza che questo avvenga con altrettanta esplicitezza nel testo de L’olivo e l’olivastro, proprio alla fine del settimo capitolo. Conviene confrontare due brani che presentano somiglianze lessicali ma un significato radicalmente diverso: «La casa del nespolo non è mai esistita, certo, come non è mai esistita l’altra casa su “quel ramo del lago di Como”. E forse non è mai esistita nella realtà Aci Trezza, la Trezza. Ogni segno del paesaggio fisico e umano di oggi ci convince di questa inesistenza. Forse non è mai esistita neanche Vizzini, non è esistita Catania, Siracusa, Palermo, Racalmuto… Non è mai esistita la Sicilia. Forse una volta sono esistiti gli scrittori. Forse una volta è esistita la letteratura». (La Trezza). « – La casa del nespolo per la verità non è mai esistita – gli dice sottovoce come a svelargli un segreto. Non è mai esistita quella casa, non sono esistite tante altre case. Ma sono esistiti i personaggi, le persone, i Malavoglia di ogni Trezza del mondo» (conclusione del capitolo VII di L’olivo e l’olivastro).

            La fantasticheria iperletteraria, di oltranza quasi borgesiana, che troviamo nel raccontino dell’89 ha origine, sì, da una “cosa vista” ma anche da un nome, Trezza, che è, da un lato, per il Consolo sempre grecizzante, «il luogo della Treccia, del nodo mai sciolto della tragedia», ma diventa anche sinonimo di garbuglio: e dunque – a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, quando nello scrittore di Sant’Agata la cognizione del dolore personale e collettivo si acutizzerà – questa treccia-garbuglio-gnòmmero è come se siglasse il riemergere in filigrana dell’ombra di Gadda. Sull’influenza del quale Consolo ha scritto parole lucide ma che forse andrebbero rimesse, almeno un poco, in discussione: «In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo gran calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione. Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie […]. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerò l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana» (dalla Conversazione con Vincenzo Consolo realizzata da Anna Frabetti nel 1994, poi pubblicata in «Recherches», 21. Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, sous la direction de A. Frabetti & L. Toppan, automne 2018, p. 14).

Ma non è il caso di insistere qui su Gadda: è molto meglio tornare a Verga, all’inizio del settimo capitolo de L’olivo e l’olivastro.

Il capitolo termina, come abbiamo visto, con il parziale riuso de La Trezza, e dunque con il bilancio sconfortante di quello che l’ulisside Consolo ha visto nel suo viaggiodegli anni Ottanta. Ma lo stesso capitolo si era aperto con una pagina di contrastiva evocazione della barca della famiglia Malavoglia, commisurata alla barca di pietra che fa bella vista di sé a Catania, appunto in piazza Verga, di fronte, scrive Consolo, al «grigio palazzo di marmo», ovvero il Palazzo di Giustizia, sul cui frontone «si staglia nel cielo la cima del monte, il fumo, la neve, la nera possanza». E ogni lettore di Consolo sa che l’Etna, nel complesso della sua opera, evoca sempre il furore ctonio degli elementi, l’incontrastabile forza della natura alla quale la cultura non riesce a opporre nulla di paragonabile a una ginestra leopardiana. Rispetto al vulcano, alla forza del non coltivato olivo, c’è solo la via della fuga, come dice il titolo di quel libretto-intervista.

Ma dopo l’evocazione del vulcano, ecco che il discorso dell’ulisside ritorna sul romanzo di Verga, con una sinossi di mirabile capacità sintetica ed evocativa che si chiude, giustamente, sul profilo di padron ‘Ntoni, «il patriarca, cacciato dalla casa tempio, si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione: il suo salmodiare si fa sconnesso, i suoi proverbi sono ormai senza capo né coda. Muore, questo innocente, questo vinto dal fato, dalla vita, muore solo, ignorato in un tetro stanzone, all’albergo dei poveri».

E dopo queste parole di vera e propria compassione – un sentimento che nella pagina consoliana spesso cede il posto alla pena o alla disperazione –, ecco una bellissima valutazione de I Malavoglia in quanto romanzo, nella quale ritorna la treccia ma evolutasi in forma di intreccio narrativo: «Acitrezza, La Trezza, ‘A Trizza, la treccia, l’intreccio. Forse nessun romanzo moderno è così privo d’intreccio – v’è una ripetizione ossessiva di sciagure come per spietato gioco del caso, per accanimento divino –, nessuna narrazione è così priva di romanzesco come I Malavoglia. Un poema narrativo, un’epica popolana, un’odissea chiusa, circolare, che dà il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante, nei proverbi gravi e immutabili come sentenza giuridiche o versetti di sacre scritture, Bibbia, Talmud o Corano, dà il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo, suggerisce l’immagine della fissità: della predestinazione, della condanna, della pena senza rimedio».

Non so se Consolo abbia ragione quando nega così recisamente la presenza del romanzesco nel capolavoro verghiano; forse quel che di romanzesco c’è ne I Malavoglia può convivere con quel tanto che c’è di poematico e di cui giustamente Consolo sottolinea con forza la presenza.

Lo scrittore più verghiano della Sicilia novecentesca trova qui le parole giuste, le parole esatte e ammirate, per rendere la peculiare poematica ritualità del romanzo verghiano, ma parlando, così, anche di sé, del suo modo di concepire il romanzo e la crisi del romanzo, della sua opzione sempre più netta per lo “scrivere” rispetto al “narrare”, dimostrata, oltre ogni possibile dubbio, dal suo ultimo romanzo, Lo Spasimo di Palermo.

Nota dell’autore: il testo che precede riproduce, più o meno, quello che ho avuto modo di dire il 26 gennaio 2022, nel decimo anniversario della scomparsa di Consolo (ma anche nel centenario della morte di Verga), durante le Giornate dedicate a Vincenzo Consolo, organizzate dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Ringrazio di cuore Claudio Masetta Milone per aver voluto ospitare queste parole all’interno dell’importante sito web al quale dedica valorosamente le sue energie, preservando la diuturna memoria dello scrittore di Sant’Agata di Militello.

La trezza

Vincenzo Consolo

Aci Trezza. La Trezza, come la chiama Verga. ‘A Trizza, in siciliano: la treccia. L’intreccio. Ma nessun libro della letteratura italiana moderna è così privo d’intreccio (vi è in esso una iterazione ossessionante di avvenimenti dolorosi, di disgrazie, come per spietata beffa del caso o per persecutoria maledizione divina), nessuna narrazione è meno romanzesca de I Malavoglia. Un poema narrativo è stato detto, una «poesia di gesta epica popolana» lo dice Bacchelli. Un poema chiuso, circolare, da dare il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche che si ripetono, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante del linguaggio, nei proverbi che hanno la gravità e l’immutabilità delle sentenze giuridiche o dei versetti delle sacre scritture («Mektoub!» dicono i musulmani, «E scritto!»), da dare il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo imprevedibile, da suggerire l’immagine della fissità: della predestinazione, del fato, della sorte umana irredimibile. C’è, da parte di Verga, uomo dell’interno, della campagna vasta e desolata, ma comprensibile, dominabile, nella scansione delle chiuse, con il lavoro, con il possesso, come un graduale processo di avvicinamento a questo villaggio di pescatori poco distante da Catania; c’è un diffidente approssimarsi alla riva aspra e nera, alla sciara, al mare amaro, periglioso fra Ognina e Capo Mulini, e ancora più davanti a Trezza per gli scogli che come mostri, incubi lo invadono.

Il mare non è stato mai amato dagli isolani: dal mare viene il male, la minaccia Il mare è estraneo a un «continentale» come Verga. Da cosa è spinto allora lo scrittore a far partire da qui, da Trezza, il suo grande affresco narrativo, la sua ambiziosa Commedia Umana, il suo ciclo de I vinti?

È spinto a Trezza, crediamo, perché, per il livello infimo da cui doveva partire la sua storia, per le condizioni umilissime dei personaggi, del coro dei Malavoglia, aveva bisogno di un luogo estremo, marginale, di un limen, un punto di Passaggio in cui le onde pietrificate dell’antica lava etnea scivolano e si sciolgono nel liquido del mare, nell’incertezza assoluta della tempestosa esistenza.

L’epifania di Trezza si trova in una curiosa novella del 1875: Le storie del castello di Trezza. Una novella gotica, nera. Ma in cui, dall’alto del castello c’è, inaspettatamente, la visione del villaggio: «Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduta fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale». Fantasticheria, in Vita dei campi (1880), è poi come un accordo di strumenti, un’anticipazione di motivi, di temi, di personaggi, una prefigurazione della Trezza dei Malavoglia. Ma Fantasticheria si può leggere anche come commiato di Verga, ai temi, ai personaggi mondani di tutti i  suoi scritti precedenti, prima di entrare nella realtà e nella verità di Trezza, nelle casipole dei suoi pescatori, nel mondo dei Vinti.

Com’era Trezza allora? Certamente come ce la descrive, nella sua essenzialità di «voce», il Di Marzo, nella traduzione e continuazione del Dizionario topografico della Sicilia del Vito Amico (1858): «Contansi oggi in quella terricciuola un 600 abitatori; è distante 6 miglia da Catania, ed esporta orzi e vini (e lupini, ci viene da aggiungere). Gli scogli di Aci o dei Ciclopi sono celebri presso i mineralogisti, dopo che Dolomieu vi scoperse per la prima volta l’analcime limpida, detta da lui zeolite bianca…» Era Trezza certamente come ce la descrive, anzi ce la fa «sentire» Verga: un villaggio di poche case, con la piazza, la chiesa di San Giovanni, l’osteria, la sciara, le barche ammarrate sopra la spiaggia, sul greto del torrente, sotto il lavatoio; e quel mare di cupo cobalto che s’infrange e spumeggia contro gli scogli, i fariglioni; e l’immenso Etna alle spalle, nero e fumante, minaccioso.

Un luogo di pura esistenza, di elementare eventologia, ai limiti dello spazio, del tempo: o fermo nel tempo, fissato in un dolore lontano, immemorabile. Com’è nelle tragedie greche, in cui i protagonisti sono inchiodati a un evento che si è svolto molto tempo prima, ma che saranno sciolti, infine animati per l’intervento pietoso di un qualche dio. Un luogo senza luce, Trezza, chiuso, circolare o labirintico; il Luogo della treccia, del nodo mai sciolto della tragedia.

E così il luogo dové apparire, puro e intatto, sublime e sacro, al giovane Visconti che un giorno (1947) capitò a Trezza per girare La terra trema.

E così anche noi l’abbiamo vista Aci Trezza, uguale a quella de I Malavoglia, de La terra trema, quando vi capitammo un giorno di settembre di circa vent’anni fa. Vi eravamo andati – insieme a Pasolini, Moravia, la Maraini, tanti altri – durante una pausa dei lavori di un premio letterario che si svolgeva in un paesino, Zafferana, sopra l’Etna. Unica novità, e stridore in quell’intatto piccolo mondo, una

Madonnina, bianca di calce e abbagliante sotto il sole, eretta sopra la nera lava di uno degli scogli dei Ciclopi, una innocente Madonna che aveva fatto indignare Pasolini.

Vi siamo tornati ora, nel giugno appena scorso. Aci Trezza non c’era più, era scomparsa. Erano scomparse le casipole, le barche da pesca, i fariglioni. Due enormi braccia di grigio cemento, due banchine circolari di un assurdo porto, alte come bastioni, chiudevano tutto il mare del seno, nascondevano gli scogli, la rupe del castello di Aci, tutto l’orizzonte. Il villaggio s’era ingigantito, era affollato di enormi case, di condomini, ristoranti, pizzerie, discoteche.

Ai tavoli di un bar sulla piazza servivano degli immigrati arabi. Altri, di colore, con fazzolettoni legati in testa, sembravano degli improbabili pirati lì pronti per una sceneggiata televisiva. Ragazzine in short o minigonne arrivavano in piazza sopra strombazzanti motorette, abbracciavano e baciavano i corsari di colore, si sedevano tutti insieme sui gradini a parlare e a fumare.

Più avanti, vicino la chiesa (sul muro, unica testimonianza di un mondo ormai scomparso, scomparso nel paesaggio, nella memoria, un bassorilievo dello scultore Lazzaro con sotto una frase malavogliana «E quei poveretti sembravano tante anime del purgatorio»), a una tavolata all’aperto della trattoria Gaetano avevano appena finito di mangiare tante coppie di genitori di bambinetti indiani. C’è anche in mezzo a loro una suora cattolica indiana. Era domenica, e certo festeggiavano tutti insieme un qualche avvenimento. Fra i genitori adottivi d’una bella bambinetta c’era la signora Nelluccia Giammona, moglie del Gaetano che dà il nome al locale. La signora Nelluccia ci conduce su, nell’appartamento sopra la trattoria, in uno stanzino che tiene chiuso come un piccolo sacrario. Alle pareti di questa stanza disadorna sono le gigantografie delle foto di scena de La Terra trema. Perché lei, allora tredicenne, e la sorella Agnese, sedicenne, sono state protagoniste del film di Visconti. E sono là effigiate, brune e bellissime, al telaio, alle faccende domestiche della casa del nespolo. «La casa del nespolo per la verità non esiste, non è mai esistita», ci dice come rivelando un segreto la signora Nelluccia. La quale è ancora effigiata, innocente e smarrita, un gran mazzo di fiori sulle braccia, con la sorella, con Visconti, Francesco Rosi e Zeffirelli, al festival di Venezia. La casa del nespolo non è mai esistita, certo, come non è mai esistita l’altra casa su «quel ramo del lago di Como». E forse non è mai esistita nella realtà Aci Trezza, la Trezza. Ogni segno del paesaggio fisico e umano di oggi ci convince di questa inesistenza. Forse non è mai esistita neanche Vizzini, non è esistita Catania, Siracusa, Palermo, Racalmuto… Non è mai esistita la Sicilia.

Forse una volta sono esistiti gli scrittori. Forse una volta è esistita la letteratura.