“Come gioco di specchio, mercurio su una lastra”

L’anarchia dei villani in Serafino Amabile Guastella.

“Corre l’antica Fama per le capitali, l’ingiusta Dea dalle lunghe ali e delle cento bocche ripete che stolidi, folli, incomprensibili sono gli abitatori delle ville, i terragni che rivoltano zolle, spetrano, scansano, terrazzano, in capri con le capre si trasformano, in ape acqua vento con i fiori, dalla terra risorgono sagome di mota e di sudore; che nelle soste, lustrate lingua e braccia, sciolto l’affanno all’acque virginali delle fonti, nelle notti di Luna, nelle cadenze dell’anno, sulle tavole d’un Lunario imaginario, di motti fole diri sapienze – Aprile, Sole in Toro: zappa il frumento tra le file, zappa l’orzo l’avena le lenticchie i ceci le cicerchie, strappa dalle fave la lupa o succiamele – muovono arie canti danze, in note movenze accenti sibillini, stravaganti. E nelle capitali, accademici illustri, dottori rinomati, in oscuri dammusi, catoi affunicati, scaffali scricchiolanti, teche impolverate, ammassano cretosi materiali, la linguaglossa, la memoria, la vita agreste; con lenti spilloni mirre olii, con lessici rinarii codici, studian di catturare cadenze ritmi strutture. Ma l’anima irriducibile, finch’è viva, guizza, sfugge, s’invola, come gioco di specchio, mercurio su una lastra”.

(da LUNARIA di Vincenzo Consolo)

Nel novembre del 1997, l’inglese John Berger rispondeva su Le Monde Diplomatique con una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli del Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà, la globalizzazione dello sfruttamen-to, l’ internazionalizzazione finanziaria e la globalizzazione del crimine e della corruzione, il problema dell’emigrazione, le forme legittimizzate di violenza praticate da regimi illegittimi e, infine, le Zone o sacche di resistenza, tra cui, naturalmente, quelle rappresentata dall’esercito Zapatista di Liberazione. Berger, a proposito di zone o sacche di resistenza, avanzava un esempio storico, un luogo del Mediterraneo dal profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di quest’isola, l’entroterra intorno a Ghilarza, il paese dove è cresciuto Antonio Gramsci.
“Là” scrive Berger “ogni tanca, ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre (…) Queste pietre sono state accumulate e messe insieme in modo che il suolo, benchè secco e povero, potesse essere lavorato (…) Muretti infiniti e senza tempo di pietra secca separano le tanche, fiancheggiano le strade di ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai caduti dopo secoli di usura, suggeriscono l’idea di labirinti in rovina! E aggiunge ancora, Berger, che la Sardegna è un paese megalitico, non nel senso di preistorico, ma nel senso che la sua anima è roccia e sua madre è pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi nell’isola e le domus de janas, le grotticelle per ospitare i morti. Ricorda la diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (- Chiunque venga dal mare è un ladro – dicono), della loro ritrazione nell’interno montuoso e inaccessibile l’essere stati chiamati per questo dagli invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla sua conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e la speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero politico. Ho voluto riportare questo scritto di Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci che illumina il mondo nostro d’oggi, perchè simile alla situazione sarda – situazione fisica, orografica, e umana, storica, sociale – mi sembra il mondo della contea di Modica restituitoci da Serafino Amabile Guastella. Pietroso è a altipiano Ibleo, aspro il tavolato tagliato da profonde cave, duro è il terreno scandito dai muretti a secco che nei secoli i villani hanno costruito, spaccati da calanchi sono spesso gli alti paesi della Contea, in grotte i villani hanno abitato, in grotte hanno seppellito i loro morti. Guastella non è certo Gramsci, non è un filosofo, un politico, è un illuminato uomo di lettere uno studioso di usi e costumi, tradizioni linguaggi, un analista di caratteri, ma, nel dirci dell’interno dei villani della sua contea, della loro “tinturia”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà, furbizia, illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli uomini, della condizione modicana pre e postunitaria, di una estremità sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un “antivangelo” le parità e le storie morali, come dice Sciascia, un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza rimedio, senza mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non c’è, nel mondo di Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli contro cui andarono a cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al Salomone-Marino, in mezzo a cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni: il suo sicilianismo a oltranza lo portò ad aderire al Felibrismo di Fréderic Mistral, il movimento etno-linguistico finito nel fascismo di Pétain. Si legga il racconto dell’incontro a Modica di Di Giovanni con Guastella, della profonda delusione che il poeta di Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire l’impressione che ne ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via senz’altro, mogio, mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella rovina d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista così fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la mitizzazione è madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella, all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più in là siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimi di Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale, in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni di libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo di quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si trova, l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti critici: nel 1837, durante l’imperversare del colera, in cui il padre dello scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di Siracusa assieme all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un tal Giovanni Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di Monterosso dalla plebe. Ribellioni ci sono state, nel ’93/94, durante i Fasci siciliani; nel 1919 e ’20, in cui il partito socialista conquistò i comuni di Vittoria, Comiso, Scicli, Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini, Spaccaforno, e che provocò lo squadrismo fascista degli agrari. Rispunta ancora l’anarchia e ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini, nel ’43/44. Nel Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries alla vera e propria insurrezione armata a Ragusa e a Comiso si proclamò la repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse ; non fasciste dunque e neppure separatiste; e si sa anche che a proclamarle furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da dirigenti locali, a volte essi stessi contadini” scrive Francesco Renda. Della rivolta di Ragusa ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di Ragusa. la profonda anima di pietra dei villani della Contea di Modica, quella indagata e rappresentata da Serafino Amabile Guastella, mandava nel Secondo Dopoguerra i suoi ultimi bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta cultura, illuminista e liberale democratico, con citazioni d’autori, esempi, dava segni del suo modo di vedere e di sentire quel mondo di pietra, del suo giudizio sulla condizione dei villani. “Vivendo a stecchetto dal primo all’ultimo giorno dell’anno, il nostro villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella teoria che la proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il legittimo padrone della terra dovrebbe essere lui, che la coltiva e feconda, non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore degli altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto qui per inciso, quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza ai riforma agraria in Tunisia del 1885, ch’era detta “Diritto di vivificazione del suolo”.
E quindi, più avanti, parlando del concetto e pratica del furto nei villani, scappa, al nostro barone, una parola marxiana, “proletario”. … perocchè è conseguenza logica e immediata dei compensi escogitata dal proletario” scrive. Nel capitolo VI, illustrando ancora la pratica del furto, scrive: “Le idee del furto nel villano non essendo determinate dal concetto legale della proprietà di fatto, ma da quello speculativo della proprietà naturale, che ha per norma il lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in direzione opposta delle prescrizioni dei codici.
Il capitolo X delle Parità attacca così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O’ Connel, la deffinì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la formola, l’hanno però messa in pratica molto tempo prima di O’ Connel, e del padre Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel O’ Connel, detto il Grande Agitatore, capo della rivolta contro gli inglesi e padre dell’indipendenza dell’Irlanda; L’O’ Connel lodato dal filosofo e teologo palermitano padre Gioacchino Ventura. Fin qui l’intellettuale Guastella. Ma occorre soprattutto dire dello scrittore, di quello che si colloca, afferma Sciascia, tra Pitrè e Verga. “Se fossi un romanziere non parlerei certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle, perchè in questo racconto ha una parte secondarissima, ma non essendo uno scrittore !…” scrive Guastella in Padre Leonardo. Credo che qesta frase sia la chiave di lettura di tutta l’opera del barone di Chiaramonte. Uno scrittore, il Guastella, diviso tra la vocazione, la passione del narrare e l’impegno, il dovere quasi, culturale e civile, dell’etnologia; diviso tra la poesia e la scienza, l’espressione e l’informazione, l’obiettività e la partecipazione, la rappresentazione e la didascalia. Ma è già, in quel racconto, un po’ più vicino alla narrazione e un po’ più lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia, là, è come inclusa e sciolta nella narrazione, implicitamente dispiegata, è meno esemplificata e scondita, come al contrario avviene nelle Parità. In quel racconto, l’autore, consapevole dello slittamento verso la narrazione, mette subito in campo nel preambolo una mordace autoironia facendo parlare il protagonista: “Io, fra Leonardo di Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il giorno 7 marzo 1847, (…) senza saper come, nel marzo del 1875 mi trovai risuscitato per opera di un imbratta carta, il quale non ebbe ribrezzo di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e in anno di giubileo (…) E con questa bricconata d’intento (…) il mio persecutore mi ha costretto ad andare per il mondo (…) O Cesù mio benedetto, datemi la forza di perdonarlo !, Il padre Leonardo si muove tra Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come Petruska nel balletto di Stravinskii, altri personaggi: fra Liborio, padre Zaccaria, don Cola, mastro Vincenzo… Ognuno d’essi suscita ancora altri personaggi, illumina luoghi, ambienti, storie, istituzioni, usi, costumi, linguaggi… Attraverso loro conosciamo conventi, chiese, confessori e bizzocche, giudici e sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e dominati, cavalieri grassi e villani dannati in abissi di miseria. Attraverso quel don Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria, costretto a fare un viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce violenza del governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del Carretto. E non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “le architetture magnifiche e il mobilio stomachevole”.
Quando è sciolto, Guastella, da preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando sopra la testa di cavalieri e villani, cappedda e burritta, osserva il cielo, la natura, scrive allora pagine alte di letteratura, di poesia: “Dalle montagne sovrapposte a Roccanormanna scendea una nebbia fittissima, che prima invadeva le colline, poscia il paesello, indi un tratto della montagna, mentre dalla parte opposta, in cielo tra grigio e nerastro correvano nuvole gigantesche a forma di draghi, di navi, di piramidi, di diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle diavolerie il sole ora si nascondeva, ora riapparia come un bimbo pauroso dietro le vesti materne. Finalmente privo di splendore e di raggi, proprio come una lanterna appannata, andò a tuffarsi in mare…” Questo brano, ecco, è speculare a quell’ipogeo profondo, a quell’onfalo d’orrore, a quel cottolengo, cronicario o Spasimo asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della fiera di Palazzolo. Ma torno, per finire, a quel Berger da cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla Ghilarza di Gramsci quale metafora storica delle sacche di resistenza nella globalizzazione economica di oggi

A Ghilarza, appunto, c’è un piccolo Museo Gramsci: fotografie, Libri, lettere; in una teca, due pietre intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si esercitava a sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e correggere la malformazione della colonna vertebrale. Sona un simbolo, quelle due pietre, simbolo che, cancellato in questo contesto sviluppato, affluente e imponente, riappare nei luoghi più pietrosi e disperati del mondo. Nel museo dell’olio di questo paese, di Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico: uno scranno, una poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è fissato alla spalliera con un lucchetto. Su quello scranno poteva sedere soltanto il cavaliere, il proprietario del frantoio, che deteneva la chiave del lucchetto, giammai il villano. Il simbolo mi dice, ci dice questo: da noi, nel mondo sviluppato, la partita è chiusa col lucchetto, la chiave la tiene il gran potere economico che governa il mondo. Ma quel potere, e noi con lui, dovrà fare i conti con le pietre di Ghilarza, con i pesi di Gramsci. Noi, se non vogliamo essere dominati, essere espropriati di memoria, conoscenza, essere relegati nelle grotte degradanti e alienanti della produzione e del consumo delle merci, se vogliamo essere liberi, non possiamo che anarchicamente ribellarci, resistere e difendere il nostro più alto patrimonio: la cultura, la letteratura, la poesia. Claude Ambroise, presentando insieme a Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle opere più significative della cultura siciliana tra il Sette e l’Ottocento, pubblicata dalla Regione Siciliana, ebbe a dire che senza la conoscenza, senza il possesso di quel substrato, di quel patrimonio morale, avremmo rischiato di camminare, di procedere nel vuoto. In quella collana era stato ristampato Le parità e le storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino. Guastella, ecco, lo scrittore che qui oggi onoriamo, è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale.

Vincenzo Consolo – Milano. 2 giugno 2000
letto in un convegno su Serafino Amabile Guastella
Chiaramonte Gulfi il 3 giugno 2000

Il Lunario ritrovato

IL LUNARIO RITROVATO

 di Vincenzo Consolo

 Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.

 S.Agata Militello, settembre 1999

(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999)
Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina

Saggio introduttivo per il libro “Gli Arabi paesani, inchiesta sui giovani di oggi.

“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!” declamava alla prima seduta dell’Assemblea regionale il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nel- la sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Velasquez che raccontano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e viceré, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici: a sinistra i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro democristiani e separatisti; a destra monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, quel cardinale Ernesto Ruffini che implorerà “di cuore sul nuovo Parlamento siciliano l’abbondanza delle celesti benedizioni». (Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà di lì a poco solo su quel gruppo democristiano che col cardinal Ruffini intreccerà unita d’ intenti e di voleri), Cosa voleva dire quella implorata “concordia sacra” “tregua di Dio” del presidente Lo Presti? Era che sala d’ Ercole, tra gli scranni, un profondo fossato era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, un fossato entro cui scorreva la paura del centro e della destra per i seicentomila voti ottenuti dal Blocco del popolo. Paura che alcuni avevano cercato di fugare armando la mano d’un bandito, Giuliano, contro gli inermi lavoratori festeggianti il I° maggio a Portella delle Ginestre. «N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e cerano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò riversi sulle pietre una rosa maligna/nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancora un’illusione. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: – Femmine, che sono ‘sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca? Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso!” Ora il sangue delle undici vittime e dei feriti di Portella rigava quel fossato, ancora a demarcare, ancora a dividere le due Sicilie di sempre: quella proletaria dei contadini e dei braccianti e l’altra dei principi, dei sedara, dei gabelloti, dei campieri, dei mandanti e dei sicari. Sono, questi ultimi, i siciliani che si sentono eredi della storia illustre dell’Isola, che ne difendono l’antica civiltà e l’onore, sono questi che si riconosceranno nei “perfetti dei? del Gattopardo: d’un olimpo disumano, violento e sopraffattore, mafioso e “democristiano”. E mettiamo democristiano tra virgolette volendo dire che, messa da parte la componente popolare e sociale di quel partito, prevalendo l’altra, quella borghese delle clientele e delle cosche, niente ci sembra più siciliano del partito democristiano (come niente è stato in origine più padano, più lombardo del fascismo agrario e cattolico), di pratica politica cioè intesa in senso familiare e tribale, in senso mafioso e clientelare. Trent’anni sono passati da quel 25 maggio del ’47. Cosa è successo da allora lo sappiamo. Quella Sicilia di là dal fossato, la Sicilia che, dopo ottant’anni di unità sabauda, per non parlare di prima, dopo i vent’anni di fascismo con gli ultimi quattro anni di guerra, accesasi per l’ultima volta nella speranza di una nuova storia, di fare essa la nuova storia dell’Isola, è costretta a emigrare, a spargersi per l’Italia e l’Europa. E non erano, questi siciliani dell’emigrazione, solo contadini e braccianti, erano anche intellettuali. Restava nell’Isola, sequestrata dal potere, stretta nella morsa della promessa del favore e del ricatto, quella classe intermedia che riempiva uffici, riceveva assistenza, sovvenzioni, emolumenti. E in quei contadini e in quegli intellettuali emigrati, oltre la rabbia, era sempre dentro la speranza che nell’Isola prima o dopo qualcosa potesse cambiare, che prima o dopo fosse possibile il ritorno. Anche uno scrittore come Vittorini, che sempre respinse l’idea-sentimento di una patria-Sicilia, creandosi una dimensione ideologico-poetica di Sicilia-Lombardia, anche il Vittorini delle “‘tensioni” europee, nutrì per un momento la speranza di un cambia- mento. Si era intorno al ’50, e lo scrittore degli astratti furori di Conversazione, del notturno viaggio nel dolore e nella rassegnazione, tornato in Sicilia, assiste al grande movimento per la scoperta del petrolio: erano gli anni di Gela e di Mattei. Rapportò, o innestò, questa speranza dell’Isola a quella del Nord per l’industria “umana” e olivettiana, la speranza della nascita di una nuova società. Scrisse allora Le città del mondo, libro diurno e di grande movimento, di personaggi in lingua dalle rassegnazione dalle stasi di camionisti per le strade, di contadini a cavallo convergenti in una valle per una grande assemblea) Hai, quando la poesia si fa illusione e utopia, quando la storia taglia il filo che l’aggancia alla realtà. Nel maggio di quest’anno si è celebrato il trentennale dell’Autonomia siciliana. In quella sala d’Ercole del palazzo dei Normanni, accanto a Pancrazio De Pasquale, il primo, dopo trent’anni, presidente comunista del ‘Assemblea, cerano Andreotti, Ingrao e Murmura (quest’ultimo in rappresentanza di Fanfani). Ha parlato De Pasquale, ha risposto Andreotti, e da una parte c’era la richiesta di attuazione completa dello statuto e dall’altra la promessa, data la convinzione che è proprio dal rilancio della autonomia locale che può e deve scaturire a livello civile, culturale, umano il primo elemento di ricomposizione della società? e data la speranza che “dal Meridione e dalla Sicilia potrebbe emergere oggi, invertendo l’itinerario del secolo scorso, la riaggregazione a più alto livello dell’attuale società nazionale tanto turbata”. Il clima di ricorrenza e di celebrazione, chiaro, permette di eludere le analisi, i processi e le imputazioni, ché allora ci sarebbe stato davvero da sghignazzare, se non da gridare, alle parole di un presidente del Consiglio di quel partito della maggioranza che da trent’anni detiene il potere nel Paese, responsabile quindi delle condizioni di oggi della Sicilia, del Meridione, che appunta le speranze nelle autonomie locali di una ricomposizione- a livello, civile, culturale, umano della nostra società disgregata, di un nuovo risorgimento nazionale che parta dal Sud. E solo quest’ironia allora ci permettiamo menti avvertiti come siamo in fatto di risorgi i chi è che lascia oggi Pisacane per Cavour e i Savoia? Chi baratta la rivoluzione per il risorgimento, chi sono oggi questi nuovi Garibaldi del Sud? Intanto, quel fossato apertosi tra i banchi di sala d’Ercole, quello rigato di sangue, di cui si parlava all’inizio di questo scritto, è stato riempito. Il I° maggio di quest’anno s’è anche commemorata per la prima volta all’Assemblea regionale la strage di Portella delle Ginestre. Un’altra commemorazione a Piana degli Albanesi, sul luogo della strage, l’hanno fatta i sindacati unitari. Ma domenica 5 giugno a Palermo, mentre Pajetta commemorava da una parte Girolamo Li Causi, il grande capitano delle lotte del ’47, dall’altra parte il Centro Siciliano di documentazione svolgeva un convegno di studi sul tema: 1947- 1977. Portella delle Ginestre: una strage per il centrismo”: una controcelebrazione del trentennale? E in questo nostro paese di telegrammi ufficiali, di lacrime di coccodrillo, di corone di fiori di commemorazioni, di controcelebrazioni ce n’è gran bisogno: bisogno di analisi, di processi e di imputazioni. Cosa sappiamo, intanto, della Sicilia, del Meridione, dopo questi trenta anni di malgoverno, cosa sappiamo delle condizioni in cui sono state lasciate queste terre “di rapina”? Abbiamo avuto notizie solo di altre stragi, di sindacalisti ammazzati, di sciagure naturali che scoperchiavano altre e millenarie sciagure storiche, di mafia, di rapine, di corruzioni, di speculazioni, di intrighi e di compromissioni della classe dirigente: vasta è la letteratura a riguardo, e spesso romanzata fino al folklore, fino all’amenità, fino a perdere forza di verità, forza di denunzia. Ma dei siciliani che nell’Isola sono rimasti, dei loro mutamenti sociali e politici in questi anni poco sappiamo. La letteratura, a riguardo, crediamo che sia inesistente Ci sovviene soltanto qualche meritoria inchiesta giornalistica, come quella per esempio di Mario Farinella raccolta in volume sotto il titolo di “Profonda Sicilia”, una ricognizione per l’Isola sul finire degli anni ’60. E dei giovani meridionali, dei giovani siciliani di questa fine degli anni settanta, cosa sappiamo? Di questi, di cui non si può dire ormai che siano una generazione, ma una classe (una situazione esistenziale che è immediatamente storica Ed è allora, per questo che loro, i ragazzi, hanno sentito il bisogno di rivendiate, tra le altre cose, il principio che il personale è politico?): per l’emarginazione. il cui li abbiamo spinti, noi, i loro padri, per il deserto di valori in cui li costringiamo a vivere; por le varie crisi che gli abbiamo apparecchiato; per la distruzione di speranze, per le lande senza orizzonti in cui li abbiamo relegati, spogli di cultura e identità. Fino a poco tempo fa, dire giovani, dire siciliani, calabresi o lucani, appariva subito una definizione astratta se non qualunquistica, priva com’era di una distinzione di classe. Dire oggi giovani o giovani siciliani non è più sospettabile. Anzi. In questi, nei giovani siciliani, o giovani calabresi o giovani pugliesi, c’è già una doppia connotazione storica: in quanto giovani e in quanto meridionali. Di una storia che non è più uguale a quella delle generazioni precedenti. Tra queste ultime (del subito dopo- guerra, degli anni cinquanta o sessanta, del sessantotto o del dopo sessantotto) e le generazioni di questa fine degli anni settanta, sembra che dei terremoti siano avvenuti, a scavare abissi, voragini, a creare profondi mutamenti. A decifrare i quali non servono più i metri conosciuti e praticati sin qui. Quali nuovi metri allora si usano? Le sofisticate e asettiche analisi di laboratorio su campionature o cavie che gli scienziati, antropologi e sociologi, praticano con quel distacco e quella iattante autorevolezza che a noi – col rischio di apparire corrivi o vecchi umanisti superati – tanno nascere il dubbio di verità o deduzioni sospette perchè nate da quella scientificità “‘pura che è già ‘”socialdemocratica”; quando non risultano, queste analisi nel chiuso del laboratorio, immediatamente superate dallo svolgersi e radicalmente rivolgersi della realtà esterna. E allora preferiamo la vecchia, esposta. non-scientifica, non-rigorosa, ma “calda” e reale inchiesta giornalistica. E preferiamo anche la pratica di una realtà umana come quella giovanile (e spero che i lettori di questo scritto non siano portati a facili e offensive alla loro stessa intelligenza – battute cosiddette di spirito) di un poeta come Pasolini che lo portava a dolorose constatazioni, a inquietanti profezie. Ecco dunque un’inchiesta giornalistica sui giovani della provincia siciliana, questa di Giuseppe Corsentino: fra le prime e quindi preziosa; profonda, perchè di una realtà scovata in angolo bui e da anni dimenticati. Questa realtà giovanile della provincia siciliana è sconcertante. Per noi, lettori di vecchie letterature e vecchie inchieste sulla Sicilia, dove le classi separate davano un quadro dialetti- co e storicistico (gli zolfatari e i padroni di miniere, i contadini occupanti le terre incolte e i baroni e campieri, le speculazioni edilizie e le stragi a scoppi di tritolo e colpi di lupara, i cortili di Palermo e gli sprechi messi in luce da Dolci, le parole che erano pietre delle madri dei sindacalisti uccisi dalla mafia riportate da Levi, la fame dei bambini e i bottoni nella loro minestra, i salinari e il potere che si ricostituiva nel dopoguerra come ce li ha fatti vedere lo Sciascia de “Le parrocchie di Regalpetra”…), questo quadro di oggi della Sicilia dei giovani ci appare inedito (come inedito deve essere il quadro della realtà giovanile del resto delle regioni meridionali) non più dialettico, intanto, ma univoco, omologo, come oggi si dice. Di giovani quasi tutti appartenenti ormai (qualsiasi sia la loro origine) a una piccola borghesia vittima e disastrata dal consumismo (l’edonismo americano), di merci e di ideologie, disorientati e ondeggianti tra atteggiamenti di riporto di freakettonismo o indianismo paesano o triste e consapevole acquiescenza al vecchio ricatto e alla vecchia soggezione clientelare. Dall’altra parte, gli adulti, i vecchi, di fronte a questi giovani disorientati e disarmati, residui della risacca sessantottesca, “‘scollati” da qualsiasi organizzazione politica, instaurano vecchie controriforme, vecchie ipocrisie, vecchi vizii provinciali e bacchettonismi. Così è a Trapani a Sciacca, ad Agrigento, a Mazara, a Caltanissetta, a Castelvetrano, alienata e miracolata racina Canicattì, allo squallido deserto periferico di Gela… Qualcosa di diverso, di muovo, si nota noi giovani della Valle del Belice, dove il terremoto ha anche sconquassato le vecchie divisioni, le vecchie classi producendo, a prezzo di tanto dolore, uguaglianza e unità di impegno e di lotta. Siamo partiti da lontano: dalla Sicilia del 47. Questa è la Sicilia di oggi. Ma è anche il Meridione di oggi. Di questo Meridione che si è voluto cacciare dalle campagne e dai paesi, lo si è portato nelle fabbriche del Nord in nome della dea industria, che lo si è eletto a terra di conquista per i consumi, che si è spogliato di cultura e di identità. Oggi che quella divinità industriale dai piedi di argilla è crollata, c’è il marasma e lo smarrimento, nei giovani, soprattutto, i più fragili e vulnerabili. Per essi, la unica novità è la recente legge per l’avviamento al lavoro, e quale? In essi, intanto, c’ è il desiderio di un ritorno alla campagna: ci sono le rioccupazioni delle terre come negli anni ’50, si formano le comuni agricole, le cooperative. E questo significa che c’è nei giovani, oltre a una volontà di una vita diversa, anche il bisogno della ricerca di una cultura più “umana” di una identità più vera e più solida. Il governo, le forze economiche nazionali e non, terranno conto di questo loro bisogno?

VINCENZO CONSOLO  Milano, 26 agosto 1977


La Mafia, testo per Tuttilibri, rubrica televisiva