Disse che duro o non duro, il terreno, s’aspettava che il cielo si smuoveva, che pioveva, passava agosto, settembre, forse ottobre: e l’uva poi, e l’ulivo?- Domani scavo – disse.- La terra chi la leva, le pietre? – disse la madre – Io e Serafina abbiamo l’estratto; e il pane.- Il galantuomo – disse indicando il ragazzo con la testa. Puntò contro il petto la ruota d’un pane duro d’otto giorni e ne tagliò una fetta. Serafina fece la mossa con i pugni che spingono la carriola con la terra, il ragazzo le punse sotto il tavolo la coscia col coltello e subito gli arrivò una scoppola sorda.- Ihi ihi ihi… – fece il vecchio sbavando pane cotto dalla bocca.Il padre scostò il piatto, arrotolò il trinciato, leccò sulla cartina e se n’andò all’aperto.- Ma’, questa qua la sventro.- Serafina, sbarazza la buffetta.- O ma’, questa qua la sventro.- Chiamati tuo figlio – disse forte la madre verso la porta.- Ihi ihi… – fece il vecchio salendo accroccato la scala pel solaio. Fuori era chiaro, e la strada di polverazzo, di là della chiudenda, era più chiara, e gli alberi avevano le ombre lunghe stese ai piedi come fosse il sole che calava. Era invece la luna che saliva, si vedeva il lustro sul tetto della stalla e per le cime degli ulivi. Arrivò Diego che faceva sempre finta di passare e si fermava dietro la chiudenda finché il padre non gli diceva d’entrare. Subito afferrava un ceppo e l’accostava al muro come gli altri, accendeva la sigaretta e cominciava col soldato nella Grecia.Disse: – In Grecia abbeverano l’ulivo.- Vah – fece il padre.- L’abbeverano, l’abbeverano.- Vah, vah.Disse anche che c’erano fossi d’acqua per tutta la campagna, tanti fossi neri dall’anguille, ah quante anguille. E vah vah faceva il padre, sempre vah, sorridendo con la bocca chiusa.Dalla porta venne fuori Serafina e traversò il cortile per andare nella stalla. Ritornò con un panaro vacante in una mano e camminò incontro a loro, tutta la luce della porta sopra la faccia e la vestina, gli occhi torvi e le gambe pesanti come fosse impastoiata.- Bruhunci… – fece il ragazzo quando gli fu vicina. Lei non si scompose, solo gli diede in testa un colpo di panaro. Era una cosa che la faceva montare questo che le diceva che della vacca aveva il pelo rosso e il pettone.Raccontava ancora Diego che nelle case nuove attaccano sull’arco della porta ghirlande di fogliame, chi sa, forse di quercia, che levano il malocchio, e poi la festa fanno, ah la festa, con quelle dispinnis che ballano e non pare, col busto sempre fermo, e fanno girare l’uomo su se stesso veloce come stròmbolo, stretta nel pugno ‘na punta di mappina.Diego ce l’aveva sempre due solchi sulla faccia, ma ora rideva tutto aggrinzato, coi denti lunghi che gli uscivano di bocca.- Io alla casa metto mano a marzo – disse poi posato.- Buono fai – disse il padre.- E subito mi sposo, il tempo che s’asciughi.- Eh – disse il padre – L’età ce l’hai, e il pensiero del soldato, ha’ voglia, ormai te lo levasti. Diego era partito e ora saliva spedito per la strada, stretta e bianca come le pezze di lino che tesseva Serafina. A ogni chiusa, i cani ribellavano e gli abbaiavano feroci. Rispondevano i cani delle campagne attorno, poi anche quelli più lontani.- Serafina si marita – disse il padre.- Me la levo davanti – disse il ragazzo.- Bardasso sei ancora – disse il padre. Ora i cani s’erano quetati ed era segno che Diego era arrivato a Sanguinera. Ora silenzio c’era e la luna a picco sul cortile. Veniva da dentro lo sbattere del crivo sulle palme che la madre facendo cernendo la farina e, dal solaio, il rantolo affogato del vecchio che dormiva.Il padre arrotolò il trinciato e, quando accese, la sua faccia si confondeva col muro, ferma, con gli occhi che guardavano lontano, oltre la fiamma che aveva sulla bocca. Il vecchio per primo lasciava il pagliericcio, s’alzava ch’era fuori ancora scuro. D’inverno o di stagione tossiva e scatarrava, sbatteva le scarpe, l’orinale, si faceva cadere il bacile dalle mani: come non dormo io, nemmeno i cani. Il vecchio sorrideva maligno quando vedeva il ragazzo rizzarsi sopra il letto, buttare all’aria la roba e vociare. Faceva: – Ihi ihi… -. Quella condanna di dormirgli accanto finiva, finiva mai? Poi si metteva a frugare sotto il letto, a cercare le verghe di canna, di salice o calipso, e se n’andava fuori, sulla loggia, ad intrecciar panari. Questo voleva: fin dall’alba tutti in movimento, e lui là sopra, assiso sulla loggia, con tra le mani l’intreccio delle verghe, bearsi delle donne e trafficare giù in cortile, il padre per la campagna, il ragazzo a governare la vitella. E quella testa di lana sopra la faccia di mattone era una cosa fissa nella loggia, come i meloni, le cocuzze, le cipolle, le reste d’aglio pendenti dalla trave.- Ihi… – fece quando il ragazzo gli passò di sotto col primo carico di terra sulla carriola. La madre e Serafina erano già sedute davanti alla caldara che bolliva sul treppiede e tagliavano i pomodori e li buttavano dentro.- Aha… – gli fece Serafina quando il ragazzo le passò vicino.- Bruhunci… – Aha aha… – Sanguinera Sanguinera, testa di morto Diego Pirrera.- Ora sparla, ma’, ora sparla!- Là arroccasti? – gridò il padre.- Va’, travaglia! – disse la madre. Aveva fatto chissà quanti viaggi, le gambe le braccia gli dolevano, e il padre picchiava forte, sempre uguale, la canottiera verde americana e il fazzoletto al collo pel sudore. Ma il fosso era ancora a niente, solo una buca per seppellire un cane: terra rossa, cretosa, che quand’è asciutta diventa come pietra. Le donne avevano setacciato i pomodori e ora l’estratto era nei piatti, nelle insalatiere, sopra le tavole, sparsi per il cortile ad asciugare. Il vecchio gesticolava dalla loggia, mugolava, con le dita unite della mano faceva segni insistenti verso la bocca aperta. Il padre s’arrabbiò con Serafina: – La zuppa gliela porti, sì o no?Serafina saltò nella cucina e poi salì da fuori sino alla loggia, per la scala a pioli contro il muro. Il vecchio si sporse e, svelto, afferrò la tazza con le mani secche. Una volta che finirono l’estratto, le donne cominciarono a pensare per il pane. Portarono fuori la madia piena di farina cernuta dalla sera, misero l’acqua, il lievito e il sale e si misero a impastare. Serafina era impastatora nata, flag flag facevano i suoi pugni grossi nella pasta.Venne il padre e s’assettò sul ceppo, le gambe aperte, le spalle contro il muro. Si levò la coppola e la mise sul ginocchio, si sciolse il fazzoletto attorno al collo e s’asciugò la faccia.- Mangiamo? – disse.- Aspetta, prima mettiamo a letto – disse la madre.Serafina preparò il letto sotto l’ulivo vecchio del cortile, con due trespoli, le tavole e una tovaglia sopra.La madre si mise a fare i pani, con una sveltezza che pareva un’incanto: ruotava veloce la mano sulla pasta, schiacciava un poco, rivoltava la mano, e il pane le appariva sulla palma, tondo e perfetto. Serafina correva svelta, dalla madia al letto, dove andava a riporre i pani, a tre a tre in fila. Coprì alla fine i pani con una tela, un’altra tela bianca, molto spessa. Dopo mangiato, il padre si mise a fare il conto di quanta calce, mattoni, cemento ci sarebbero voluti.- Assai sono – disse la madre – Che devi fare un pozzo?- Uh… – fece il vecchio battendo un pezzo di pane duro sopra la tavola.- Più tardi inforniamo – gli gridò la madre in un orecchio.Le donne si misero a girare per la stanza, a entrare e uscire per la porta, ammucchiare in cortile le frasche per il forno. Al tavolo rimasero il padre che riempiva la cartina, il ragazzo che scavava la navetta pel telaio di Serafina e il vecchio che guardava fisso verso la porta, verso l’ulivo, dove c’era il letto bianco sotto la luce forte di quell’ora.Il vecchio d’un tratto lo sentirono rantolare, come di notte, la testa abbandonata sopra il petto. Il padre subito gli prese il polso e poi lo toccò per tutto il braccio, fino alla spalla secca, per dove lo scosse, adagio.- Pa’ – lo chiamò – O pa’.- Uh – fece il vecchio, e s’alzò a fatica e s’incamminò piano per la scala. Il padre lo seguì con gli occhi fino a quando non lo vide sparire là sopra, nel solaio. Poi guardò il ragazzo, il padre, gli guardò la faccia, la mano col coltello che scavava quel pezzo di castagno; e la sua mano si guardò, sopra la tavola, la sigaretta tra le dita.- A travagliare – disse alzandosi.L’ulivo poggiava sulla pietra il piede largo di bozze e nodi e groppi e fasce di cordoni. La pietra mostrava verso la casa una faccia colore dell’ulivo, con macchie nere e muffe e muschi verdi ch’erano cavalli e mostri pel ragazzo fin da bambino seduto sulla soglia a contemplare. L’ulivo poteva avere dduecent’anni e da quel tempo cresceva sulla pietra: che un giorno l’ulivo diventa pietra e la pietra si scioglie e si disperde il vecchio lo diceva nel tempo che parlava, com’è vero che l’uomo si fa terra. L’ulivo aveva il sole sopra il tronco: il tramonto, per di là della collina, nei mesi di stagione, s’adagiava sulla forca delle braccia ed arrossava la faccia della casa, la loggia sopra, la stalla, il timpo e gli alberi, ogni cosa. Il vecchio finalmente, dopo aver dormito tanto tempo, era tornato nel suo posto sulla loggia. Ora era anche lui una cosa che avvampava, sulle gambe il fondo tondo di panaro con la raggiera lunga delle verghe ancora da piegare. La madre tolse la lastra, si parò gli occhi con la mano sulla fronte e infilò la testa nella bocca nera del forno.- Serafina, – disse svelta voltandosi – dammi la pala, prepara la cesta.Il vecchio buttò sul lastrico la raggiera e si sporse in avanti per guardare. Il padre oramai era sotto terra fino alla vita e il piccone l’aveva abbandonato.Ora toglieva le pietre a una a una dal fondo di quel fosso e le poneva sul bordo: erano piastre rosse, tonde, levigate. La madre sfornava a uno a uno i pani e Serafina li poneva nella cesta. Poi parce una conca fumante al centro del cortile quella cesta di pane che spandeva odore buono per tutta la campagna. Il sole dall’ulivo era calato sotto la pietra, sotto la collina, e solamente il cielo aveva ancora una luce un poco accesa, mentre gli alberi e la terra pigliavano un colore bruno, come quello della sansa nel frantoio. – Va’ a chiamare tuo padre – disse la madre al ragazzo.Lo trovò disteso lungo dentro il fosso, la faccia all’aria, un braccio sopra gli occhi.- Pa’ – lo chiamò.- Oh – disse il padre mettendosi a sedere – Mi riposavo. Solo qui c’è fresco.- Ma’ dice che ci mangiamo il pane caldo.- Dammi una mano – gli disse il padre. Si sedettero sui ceppi, attorno al pane nella cesta, col piatto vacante sulle gambe. Passò la madre con l’olio e ne versò un poco nei piatti; poi ci mise il sale, l’origano, il peperone rosso pestato nel mortaio. C’era ormai nel cortile un colore di cinisia spenta, come quella ammucchiata sotto il forno. E c’era silenzio e ogni cosa ferma la fila dei cipressi ch’era limite nel ciglio del vallone l’ulivo sulla pietra fermo il nibbio con le ali aperte l’aria e loro, il pane con l’olio nelle mani. Disse il padre: – Di mio padre vi scordate sempre.- È vero – disse la madre battendosi la fronte con la mano. – Gli porto il mio – disse il padre, e per la scala a pioli contro il muro arrivò con. La fronte fino alla loggia.- Il pane – gli disse, e stese il braccio. Ma il vecchio non rispose, fermo, già nell’ombra.- Il pane caldo – insistè il padre.Il vecchio aprì la bocca senza denti, e di là gli uscì un respiro che forse voleva essere parola.Il padre scavalcò il parapetto e si chinò sul vecchio e lo nascose tutto.- Pà – chiamò il padre – O pa’!- ! gèesu – risucchiarono le donne, congiungendo le mani, in piedi sul cortile.
DI QUESTI FOGLI CHE RACCOLGONO UNA PROSA DI VINCENZO
CONSOLO E UNA INCISIONE ORIGINALE DI LUIGI GUERRICCHIO NUMERATA E FIRMATA
DALL’AUTORE SONO STATI TIRATI DALLA STAMPERIA SCIARDELLI DI MILANO NOVANTANOVE
ESEMPLARI CONTRASSEGNATI CON NUMERI ARABI E DIECI CON NUMERI ROMANI
“ Dove avete trovato Una storia cosi inverosimile?
Nel centro della terra, signore.
Questa l’epigrafe a La ragazza del vicolo scuro (Editori Riuniti, 1977) che l’autore, Mario La Cava, attribuisce a un anonimo calabrese.
Sgombrando subito il campo da quell’aggettivo ‘inverosimile’ che ci porterebbe lontano e di cui tanto s’è scritto – scritto di cosa è verosimile e non nelle storie narrate, in letteratura, e ricordando fra tutte la dissertazione che ne fa Pirandello in appendice a un suo romanzo, quel che ci interessa qui è la frase ‘ nel centro della terra ‘. La quale, parafrasata, potrebbe suonare: ‘ nel cuore dell’umanità ‘, suono che è, lo sappiamo, fortemente sospetto ed esposto, quanto meno, alla taccia di retorico. Ma quant’è. E che ci serve per spiegare un nostro concetto su questo romanzo, sulla narrativa di Mario La Cava.
Esistevano fino a poco tempo fa – e parliamo di venti, trent’anni addietro, prima cioè del grande terremoto di cui tutti sappiamo, quel terremoto che quanto stava sotto e sopra la crosta ha distrutto e portato allo stesso livello, reso uniforme – esistevano nel mondo, in questo nostro Paese, nel nostro Sud in Calabria, delle comunità, dei tessuti sociali, delle realtà umane che il tempo e la storia avevano profondamente stratificato e finemente tramato. Erano piccoli paesi che si chiamavano Acri, San Luca a Bovalino; si chiamavano Vizzini, Aci Trezza o Mineo. Non è Il caso di analizzare qui ancora una volta le ragioni per cui le realtà umane del nostro Sud fossero cosi stratificate, fossero cosi verticalmente incrostate e orizzontalmente compatte Fatto è che risultavano “singolari ‘, che avevano un loro parti colare modo d’essere, una loro particolare cultura.
Modo d’essere e cultura che facevano accendere l’interesse di ognuno per l’altro, di conoscere di ognuno la storia, le storie lui, della sua famiglia, dei suoi antenati ; di provare disprezzo per i suoi vizi o pietà per le sue sventure. Questo intrecciarsi o di Interessi, questa attenzione di ognuno per l’altro, l’odio o la compassione facevano crescere sempre più in sé quelle realtà, le chiudevano e, nello stesso tempo, sempre più le “ umanizzavano” (mettendo tra virgolette questo verbo). E allora era da qui, da questa attenzione e da questo interesse, che nasceva il racconto. Racconto orale, naturalmente. Era quello che veniva fatto nelle piazze, nel chiuso delle case, sulle aie e nelle botteghe. Più volte ripetuto, veniva modificato , levigato, portato alla sua cadenza al suo ritmo migliore e alla sua essenzialità. Era, questo, il racconto che sgorgava da quel “centro della terra “di cui dice l’anonimo calabrese, o dal “cuore dell’umanità “ di cui noi abbiamo detto e nel senso che abbiamo cercato di precisare. Racconto interrotto,storie, dove le generazioni si saldavano e facevano storia. Dove le prime sensazioni, le prime espressioni, la vita di una bambina di pochi anni, Antonuzza,si saldano alla vita e alle esperienze di un maresciallo di novantasei anni che ha visto briganti, terremoti e colera. E cosi ci è chiaro perché,detto per inciso, Vittorini mise assieme in un unico volume dei Gettoni ‘ Dialoghi con Antonuzza’ e ‘Le memorie del vecchio maresciallo’.
Ma, seguendo il nostro discorso, diciamo che La Cava appartiene alla razza di quei narratori orali, di quelli che ricevevano le storie e le trasmettevano. E chi conosce, del resto, lo scrittore fuori dalla pagina scritta, di persona, sa che a La Cava sempre il parlare si trasforma in racconto, prende il tono dell’affabulazione. Ma La Cava, è chiaro, al contrario di quei narratori orali ai quali per un verso appartiene, è anche scrittore. Il che vuol dire uscire da quelle realtà umane chiuse in se stesse verso l’universo, vuol dire dare significato a ciò che si racconta: e vuol dire altro.
E’ scrittore, La Cava, ed è specificatamente romanziere. Venne subito conosciuto e da allora rimase famoso per i Caratteri: brevissimi racconti, annotazioni, moralità; in una parola, frammenti. Come frammentista quasi è stato etichettato, con quanto di epigono vociano aveva la definizione. O come pseudoframmentista, nel senso, questo, in cui venne usato da Giacomo Debe nedetti a proposito di Tozzi del primo libro Intitolato “Bestie “… quel libro, in apparenza devoto alla moda e al gusto frammentistico, è viceversa Il libro di un vero narratore, che riesce a far passare attraverso quei frammenti, il suo animus narrativo, il suo bisogno di narrare’. La stessa cosa si può dire per il la Cava dei Caratteri, ma non appoggiandosi soltanto ai mezzi della critica letteraria, ma anche alle date, alla storia. E’ uscito ora, quasi contemporaneamente a La ragazza del vicolo scuro, un altro romanzo di La Cava dal titolo Il matrimonio di Caterina, edito da Scheiwiller. E’ sorprendente il racconto di questo racconto che il La Cava fa in una lettera all’editore stampata come prefazione. Dice subito che Il matrimonio di Caterina è il suo primo racconto, che è stato scritto nel 1932 ( prima dunque dei Caratteri), quando egli aveva 24 anni, e che viene pubblicato oggi, dopo 45 anni. Sorprendente la freschezza, la modernità e, nel contempo, la classicità di questa prima prova narrativa di Mario La Cava. Il matrimonio di Caterina, del 1932, per argomento e tematica è stranamente imparentato al romanzo di oggi, a La ragazza del vicolo scuro. Storia, nell’uno e l’altro, di una violenza, di una illusione, di una amara e terribile delusione, di una sconfitta: su una donna, di una donna; Caterina in quel libro Elena in questo. Ma La ragazza del vicolo più complesso e articolato dell’altro, più che in chiave esistenziale, in chiave di fatale sconfitta verghiana (Elena la fanciulla protagonista, ha la dignità e la nobiltà dell’offesa e nel dolore di una Nedda o Mena), può essere letto in chiave storicistica, meridionalistica come una metafora della sconfitta del Meridione, del fallimento – ormai crediamo definitivo, dato il fallimento generale di oggi – della soluzione del problema meridionale. E tutti gli elementi della vicenda concorrono a farci leggere in questa metafora il libro: Il vicolo irrimediabilmente senza luce e pieno di cocci di bottiglia dove i bimbi giocando si tagliano i tendini; la condizione di Sebastiano, padre di Elena,ultimo lavoratore della terra, privo di coscienza di classe disponibile per il padrone fino all’ultimo residuo di forze; che affoga nel vino la fatica la pena; la prima esperienza di sfruttata di Elena Nella casa della maestra Bononio, fascista, paranoica e ambigua; La seconda, in casa del segretario Giuffone, piccolo borghese fascista e corrotto, e della sua famiglia, avida, volgare e violenta; e l’amore di Giulio, l’italo-americano, l’illusione del matrimonio con questo e la speranza di uscire definitivamente da una condizione di povertà e di umiliazione. E poi il viaggio Roma, alla stazione di Roma, appena nell’anticamera di questa città – simbolo, la scomparsa vigliacca di Giulio e Il ritorno in paese di Elena, nella casa del vicolo scuro, che Giulio l’americano e i suoi dollari non avrebbero potuto non unirsi una a quella classe – ossatura del fascismo, la classe della maestra Bononio e del segretario Giuffone, che, caduto il fascismo e passata la guerra, sarebbe stata, oltre che scheletro, anche polpa e sangue del nuovo regime. Ed Elena, che aveva preso una prima volta e inutilmente, il treno per Roma, dove sta il governo e si decidono le sorti (e quali sorti oggi lo sappiamo tutti, al Sud e al Nord), Elena prenderà una seconda volta il treno per trasferirsi alla periferia di Milano o di Stoccarda.
Il terremoto livellatore di cui dicevamo ha portato in superficie dunque i centri della terra da cui venivano fuori le storie, i racconti. Altro verrà da questa superficie uniforme o è già venuto, non sappiamo se di meglio o di peggio, certo di diverso. E intanto, mentre qui rendiamo omaggio a un narratore vero e di razza come Mario La Cava, ci sembra di compiere un rito, sia pure familiarmente, sia pure dimessamente, di una fede che appartiene al passato.
Vincenzo Consolo estratto dal n.340 della rivista Paragone/ Letteratura
Giugno 1978 Sansoni Editore Firenze
Ora i vani son vuoti, vuoti gli spazi, deserta s’è fatta la scena. La festa al culmine, all’equilibrio ultimo e perfetto di danzatrice con vaso sui capelli, s’è dissolta nell’alba atomizzata di lapilli cenere coriandoli cialdine. Memoria di splendente festa che a momenti s’incurva, flette, serpeggia, precipita in demente carnevale, baccanale, sosta in gore d’orrore, ringorghi d’estasi, bestiali mutamenti, estatiche violenze, tremiti urla eccessi, isterici godimenti. Festa assoluta e senza opposti, signora del linguaggio, mimesi e parodia d’estenuazioni andate, d’inquietanti armonie liturgiche praghesi o viennesi (oh L’accomplissement, oh Poissons rouges di Klimt, e Salomé e L’apparition di Moreau! — « Dans l’odeur perverse des parfumes, dans l’atmosphère surchauffée de cette église, Salomé, …tenant, à la hauteur du visage, un grand lotus, s’avance lentement sur les pointes… » — (1) oh Angoisse di Munch!). Ora nel vuoto della luce spenta, nel fumo dolce e grasso dei forni, nella spessa pioggia caustica di Hiroshima o di Pompei, nel terrore sospeso fatto intenso dalla fuga e dall’assenza (- Dove sono? Morti o dietro questi veli? -), resta l’evidenza sicura di cuscini maculati su divani, canapé di marmo, pelli e velli di rettili e felini penduli da ganci, tartarughe e smalti, cassate d’arsenico e di acidi, infedeli mappamondi d’operetta, gale di taffettà, scatole infiocchettate, astucci, recipienti, aperte custodie di residui d’essenze di canfore d’aria di niente, stralucenti conchiglie simboli mallarméani d’impotenza: straripante resoconto d’allucinazioni, precisi dettagli d’una scena, spesso riflessi da crudeli specchi a generare smarrimenti, dubbi, frantumare certezze in ipotesi infinite. E tra spiragli di quinte o su fondali distesi è poco diverso. Nello scarto daltonico l’inganno è doppio, doppia la morte della donna vegetale e della palma carnale, doppia l’insidia della bandiera e dell’albero, l’orrore moltiplicato del ficus onnivoro, l’illusione dell’arcobaleno, vessillo sulla torre più alta d’un’Orano appestata. Perchè qui tutto è dipinto. E dipinti sono gli obliqui paraventi. Dipinti sopra paraventi. E cos’è infine un paravento? Quattro assi e una tela: un quadro. Vi si possono inchiodare cerniere a formare dittici trittici polittici… E ruote, e farli scivolare sul parquet, sul palcoscenico.
Lo scenario: Sarà costituito da una serie di paraventi sui quali, oggetti o paesaggi, saranno dipinti. Essi dovranno essere spostati in rigoroso silenzio… Vicino al paravento dovrà sempre esserci almeno un oggetto reale (una carriola, un secchio, una bicicletta, ecc.) destinato a contrapporre la propria realtà agli oggetti disegnati. (2) Paraventi a separare vita e morte, bene e male, realtà e apparenza. Mustafà – Per vederti, vengo fin dalle miniere di fosfato. Ti vedo, ed è a te che credo. Warda – Tu vedi le mie toelette. Sotto, non c’è gran che… Mustafà – Se ci fosse la morte… Warda – C’è. Tranquillamente al lavoro. (2)
Ma qui, su questi paraventi che per noi si dispiegano, su cui sono dipinti inclinati paraventi, cieli disfatti, cumuli di vani oggetti in precipizio, cornici senza tela, falene imbalsamate, bistrata maschera d’angelo con tavolozze ad ali, qui è della Pittura che si parla. E si parl della cultura, e della storia. L’uomo, di fronte alla tela stesa sopra quattro assi, di fronte a questo nostro paravento, a questo simbolo sontuoso e in sfacelo, turbat intinge il pennello negli olii grassi e preziosi e, con la sapienza dei signori del linguaggio, in una parodia terribile dell’estrema bellezza e dell’estrema eleganza, intacca, corrompe, disgrega, perpetra l’assassinio. E così si varca, tutti, il velo del paravento. Tranne il pazzo: creatura refrattaria alla morte perchè innocente. Ma al di qua è anche la realtà immediata, la carriola, il secchio, la bicicletta; al di qua è l’umanità non contaminata, priva di linguaggio, quella della carta e dell’inchiostro, del segno umile e netto, l’umanità dei disegni dentro cui il pittore avvolge la speranza.
Vincenzo Consolo (1) Huysmans, « A rebours ». (2) Genet, « Les paravents ». Milano, dicembre 1976.
Antonel di Sicilia, uom così chiaro… (G. Santi: Cronica rimata)
In ricordo del cavaliere Lucio Piccolo di Calanovella autore dei Canti Barocchi.
E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che si inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tindari e Vulcano, le onde sollevate dal vento di scirocco l’avevano squassato d’ogni parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata di prora, non aveva sentito che fragore d’acque, cigolii, vele sterzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, dritto e silenzioso dentro il golfo, su un mare placato e come torpido, udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle. Un respiro penoso che si staccava da polmoni rigidi, contratti, con raschi e strappi risaliva la canna del collo e assieme a un lieve lamento usciva da una bocca che s’indovinava spalancata. Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi. Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo… Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone
O Deo, come fui matto quando mi dipartivi la ov’era stato in tanta dignitade E si caro l’accatto e squaglio come nivi…
Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli olivi giacevano città. Erano Abacena e Agatiro, Alunzio, Apollonia e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni. E strinse al petto la tavoletta avvolta nella tela cerata che s’era portata da Lipari, ne tastò con le dita la realtà e la consistenza, ne aspirò i sottili odori di can- fora, ricino e di senape di cui s’era impregnata dopo tanti anni nella bottega dello speziale.
Ma questi odori vennero subito sopraffatti d’altri che galoppanti, sopra lo scirocco, veniva da terra, cupi e forti, d’agliastro, di fico, di nepitella. Con essi, grida e frullio di gabbiani. Un chiarore grande, a ventaglio, saliva dalla profondità del mare: svanirono le stelle, i fani sulle torri impallidirono. Il rantolo s’era cangiato in tosse, secca, ostinata. Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo, le braccia aperte aggrappate a un pennone, che si tendeva ad arco, arrovesciando la testa, e cercava d’allargare il torace spigato per liberarsi come di un grumo che gli rodeva il petto. Una donna gli asciugava la fronte, il collo. S’accorse della presenza del galantuomo, si tolse lo scialletto e lo cinse ai fianchi del malato. L’uomo ebbe l’ultimo terribile squasso di tosse e subito corse verso la murata. Torno bianco, gli occhi dilatati e fissi, e si premeva uno straccio sulla bocca. La moglie l’aiutò a stendersi per terra, tra i cordami.
– Male di pietre – disse una voce quasi dentro l’orecchio del barone. Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero nelle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaro: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E, soprattutto, avvertivasi in colui la grande dignità di un signore.
– Male di pietra – continuò il marinaio – E’ un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola. Non arrivano neanche ai quarant’anni. I medici non sanno che farci e loro vengono a chiedere il miracolo alla Madonna negra qui del Tindari. Lo speziale li cura con senapismi e infusi e ci s’ingrassa. I medici li squartano dopo morti e si danno a studiare quei polmoni bianchi e duri come pietra sui quali ci possono molare i loro coltellini. Che cercano? Pietra è, polvere di pomice. Non capiscono che tutto sta a non fargliela ingoiare. E qui sorrise, amaro e subito ironico. scorgendo stupore e pena sul volto del barone. Il quale, pur seguendo il discorso del marinaio, da un pò di tempo si chiedeva dove mai aveva visto l’uomo e quando. Ne era certo, non era la prima volta che l’incontrava, ci avrebbe scommesso il fondo di Colombo o il cratere del Venditore di Tonno della sua raccolta. Ma dove l’aveva visto? Ma sotto lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore, ritornò con la mente al cavatore. Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante, che chiamasi Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa coi picconi; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi conchiglie segnanti sulla Le ora pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali infiorescenze…), chissà per quale associazione o contrappunto, premevano per affiorare in primo piano. E quindi si presentarono, con disappunto del barone, davanti a quell’uomo indagatore e giudice, ordinate nei loro volumi, con titolo e stamperia e anno d’edizione, gli studi di cui il barone, in altri momenti, intimamente si compiaceva, con un certo orgoglio, con una certa soddisfazione, studi che gli avevano aperto le porte delle più importanti Accademie del Regno: ” Catalogo degli uccelli che si trovano stazionari o di passaggio nelle isole Eolie”, ” Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti”, ” Catalogo e fecondazione delle palme”. . Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione.
Venne da poppa un vociare e lo sferragliare della catena dell’ancora che si srotolava e sprofondava nell’acqua Il bastimento era giunto a Oliveri, sotto la rocca del Tindari. Il marinaio lasciò il barone e si avviò con passo lesto verso il trinchetto. Il sole raggiante sopra la linea dell’orizzonte illuminava la rocca prominente, -col santuario in cima, a picco sopra la grande distesa di acque e di terra. Era, questa spiaggia, un ricamo di ori e di smalti. In lingue sinuose, in cerchi, in ghirigori, la rena gialla creava bacini, canali, laghi, insenature. Le acque contenevano tutti gli azzurri i verdi. Vi crescevano canne e muschi, vischiosi filamenti; vi nuotavano grassi pesci, vi sorvolavano pigri aironi e lenti gabbiani. Luceva sulla rena la madreperla di mitili e conchiglie e il bianco d’asterie calcinate. Piccole barche, dagli alberi senza vela, immobili sopra le acque stagne, fra le dune, sembravano relitti di maree. Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate, gravava sopra la spiaggia.
Qual cosmico evento, qual terribile tremuoto avea precipitato a mare la sommità eccelsa della rocca e, con essa, l’antica città che sopra vi giaceva? Oh i tresori dispersi sotto quelle acque verdi e quella rena, le erbe sconosciute affatto, le impensate vegetazioni, le incrostature che coprivano le bianche levigate braccia, i femori di veneri e dioscuri. Ora, sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa, chiusa nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle, d’acquemarine; l’impassibile Regina, la muta Sibilla, libico èbano, dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro, l’argento di tre gigli.
– Fatti i cazzi tuoi! – intimò a Rosario il Mandralisca. II criato era appena giunto, con un velo di sonno che ancora gli svolazzava sulla testa, e pregava il padrone che andasse a riposare.
– Ma, Eccellenza, sono cose da cristiani queste, passare la nottata all’impiedi, fuori, con quel pezzo di legno sempre attaccato al petto come un nutrico?
– Sasà, lo so io quello che porto qua. Se tu vuoi continuare a ronfare, ronfa, da quell’animale che sei.
– Dormire, Eccellenza? Manco un occhio chiusi, Dio mi fulmini. Buttai a mare fino all’ultima quelle quattro ranfie d’aragosta che ieri sera mi succhiai.
* E tutta polpa dentro la corazza che quelle quattro ranfie facevano camminare, Sasà, affogata in un mare di salsa di capperi.
– Eccellenza si, squisita. Che peccato. – E non parliamo di come l’innaffiasti. – Eccellenza sì giulebbo. Ma dicevo… – – Sasà, capimmo. Torna a dormire. – Eccellenza sì.
L’ignoto marinaio, ritto sopra la coffa, soffiò nel tritone per tre volte e il suono, urtando sulla rocca, ritornò per tre volte al veliero. Si levò dalla spiaggia uno stormo di cornacchie di gabbiani, dalla rupe calarono i corvi e i rondoni. Si staccò un barcone a quattro remi dalla riva d’Olivèri. Dagli angoli dei ponti, dalle stive, sbucarono a gruppi i pellegrini. Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropiani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti, con qua e là crescenze gonfiori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano. Il cavatore di pomice indossava ora, sopra la pelle, lo scapolare di lana di capra, col cappuccio, e in mano teneva un cero grosso, alto quanto lui. Alla moglie la nuca pendevano sul petto, legate al laccio che le segava il collo, due forme a pera, lucide d’olio spalmato, di caciocavallo.
Il barcone toccò il fasciame del veliero e i pellegrini, con voci, con richiami, s’ammassarono alla scala per sbarcare.
Per la strada a serpentina sopra la rocca, che d’Olivèri portava al santuario, si snodava la processione degli altri pellegrini che dalle campagne e dai paesi del Val Dèmone giungevano al Tindari per la festa di settembre. Cantavano, salendo, un canto incomprensibile, che dalla testa rimbalzava alla coda della schiera, s’incrociava nel mezzo, s’aggrovigliava. Ma poi divenne, come amalgamato, dopo tante prove e tanti giri, un canto chiaro, forte, che cresceva in sè, si gonfiava, man mano che la processione avanzava e ‘avvicinava al santuario.
Una fanciulla bella, dai capelli corvini e gli occhi verdi, accesi, già seduta con gli altri dentro il barcone, all’eco dei quel canto, s’alzò in piedi e, dimenandosi, intonò un suo canto: un canto osceno, turpe, che i coatti, lì a Lipari, cantavano la sera, aggrappati alle inferriate del castello. La madre per fermarla, per tapparle la bocca con la mano, si lasciò sfuggire in acqua una testa di cera. Che galleggiò, con la sua fronte pura, e poi s’inabissò.
IL BARONE ENRICO PIRAINO DI MANDRALISCA E LA BARONESSA SUA MOGLIE LA PREGANO DI ONORARLI DI SUA PRESENZA LA SERA DEL 27 OTTOBRE 1852 NELLA LORO CASA DI CITTÁ PER GODERE LA VISIONE DI UNA NUOVA OPERA UNITASI ALLA LORO COLLEZIONE E SI DANNO L’ONORE DI RASSEGNARSI
Dopo il giro in paese, dopo aver per tutta la mattinata salito e disceso scale e scaloni, con quest’ultimo foglio nella mano guantata di bianco, Sasà era dovuto arrivare fino a Castelluccio: attraversando la collina di Santa Barbara, scendendo nel vallone Sant’Oliva, risalendo, con piccole corse qua e là, con aggiramenti, per scansare cani che dietro gli latravano, per ritrovare il passo tra recinti di ginestre e rovi, invocando mali maligni dritti al cuore, al cervello del conte di Baucina, che, ancora di questa stagione, conclusa la vendemmia, già tutti gli altri in paese, se ne stava la, arroccato tra le pietre di Castelluccio.
Tornando, passò da Quattroventi. I mulini gemevano e macinavano il frumento che una fila d’asini, attaccata agli anelli di ferro, avevano trasportato la mattina. Sui mucchi di sterco, tra i garretti, ruspavano galline, sciamavano nugoli di mosche iridescenti. Vespe e zanzare ronzavano ubriache sopra i rigagnoli di mosto dei palmenti. I terrazzani, uscendo dal fondaco, a bocca aperta guardarono Sasà, tutto sgargiante nella sua livrea. A porta di Terra, davanti la forgia, il maniscalco bruciava l’unghia d’un mulo e il puzzo di carogna appestava l’aria. Sconturbato, Sasa scese per corso Ruggero. In questo stretto budello venne assalito dai pescivendoli. Le spalle e un piede al muro, con accanto le sporte, lo assordarono con richiami, con, insulti, con imbonimenti. Uno lo inseguì e gli mise sotto il naso un cefalo sfatto chiuso in una manciata d’alghe sgocciolanti. – Fatt’è è la spesa, la spesa è fatta – gli disse Sasà allontanandogli il braccio con l’indice bianco. Era stanco Sasà, nauseato, ma soprattutto era seccato per le pensate bizzarre del barone.
– Beato te, beato te, Sasà! La barca all’asciutto l’hai – disse una voce cupa, cavernosa, che sbucava da sotto terra, quando i piedi piatti dentro gli scarpini e i grossi polpacci fasciati di bianco sfilarono davanti alle finestrelle con grate e inferriate a livello della strada, sotto l’Osterio Magno.
– Voi, all’asciutto, oh!, senza pensieri, senza combattimenti – rispose ai carcerati Sasà inviperito. Una scarica sonora di scorregge lo investi alle spalle come una fucileria. Presso la spezieria, per non dare in pasto a quella tana di curiosi e malelingue la sua furia e il suo abbattimento, raccolse la pancia e la riporto sotto il freno della cinghia, strinse all’altro il labbro inferiore ch’era pendulo e diede una tiratina di redini allo sguardo per puntarlo dritto e sostenuto nella prospettiva della strada. Sbucato in al piano Duomo, alla vista di quello spazio aperto e quella luce, sospirò. Non poté fare a meno di fermarsi alla potia per chiedere a Pasquale un goccio d’acqua con una spruzzatina di zammù. Si lasciò cadere sulla sedia, appoggiò le braccia sopra buffetta e fece: – Aaahhh.
– Stanco, Sasà? – fu domanda di Pasquale. Con l’amico diede libero sfogo al suo mugugno.
– Come se fosse battesimo, che dico? sposalizio. Fare una festa per un pezzo di sportello di stipo comprato a Lipari dallo speziale, pittato, dice lui, da uno che si chiamava ‘Ntonello, di Messina.
– Messinese? Quando mai hanno saputo fare cose buone i messinesi, cataplasmi come sono ? Che va cercando il barone? Questi son capidopera, Sasà, – e Pasquale indicò con gesto largo il duomo lì di fronte – il nostro potente patrono sopra l’altare, il Santissimo Salvatore, tutto oro e pietre rare, fatto da noi, dai cefalutani!
Le ombre delle chiome delle palme cadevano a piombo sul selciato facendo corona attorno ai tronchi. Uscì dalla Porta dei Re, venne fuori dal portico, scese l’alta gradinata con in cima i vescovi di calce, batté col bastone la bocca digrignata del leone di pietra sotto la vasca della fontana secca, l’organista cieco. Da dietro le bifore delle due torri del duomo si videro oscillare le campane: vibrando nell’aria ferma, come gli archi a zig-zag che correvano intrecciandosi lungo la facciata, il tocco di mezzogiorno si propagò per porta Giudecca fino alla Caldura, per la salita Saraceni fino alla prima balza della rocca, per la porta Piscarìa fino alle barche ferme dentro il porto, fino a Santa Lucia.
Il salone del barone Mandralisca aveva quasi, ormai, l’aspetto d’un museo. I monetari d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapé e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Malvica, tutto era stato rimosso e piano ammassato nell’ingresso e nella studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianchi, i turchesi e rosa della Cocincina. E porcellane di Sassonia e Meissen menne, le frutta d’alabastro, fagiani chiocce gallinacci di Jacob-petit, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro.
Gl’invitati se ne stavano all’impiedi, tranne le anziane dame che occupavano, sotto il gonfiore delle crinoline, le poche sedie e il pouf al centro del salone. Le signorine e i giovanotti facevano cerchio attorno al pianoforte dove la baronessa Maria Francesca accompagnava i gorgheggi della nipote Annetta.
(.,,) Salvatore Spinuzza, che ancora portava sulla fronte e ai polsi i segni delle torture della polizia di Ferdinando, se ne stava in disparte, le braccia incrociate sul petto, gli occhi celesti e il pizzetto biondo puntati in alto, muto e fiero, con ai lati, come Cosma e Damiano, i due fratelli Botta. Lo ignoravano tutti, lo scansavano, tranne i padroni di casa, i loro parenti Agnello e il barone Bordonaro. Tranne Giovanna Oddo. Il duca d’Alberi teneva banco, con la sua voce di petto, tra le dame e i cavalieri più nobili della nobile mastra di Cefalù. Parlava dei turbatori dell’ordine, di giovani con fisime e vessìche in testa, pericolosi nemici di Sua Maestà il Re (Dioguardi) e della Santa Religione. Il signor Luogotenente, il buon principe di Satriano, troppo buono era, magnanimo, a perdere tempo e onze con arresti e con processi (santo diavolone!, non era bastato il quarantotto?): subito, subito la forca ci voleva. Giovanna Oddo si volse verso lo Spinuzza, con sguardo supplichevole, accorato. Totò si scompose, s’appoggiò sull’altra gamba, riportò al suo posto con un colpo di testa il ciuffo biondo caduto sopra la fronte, ricambiò lo sguardo. Accennò appena a un sorriso. Giovanna stava piangendo come fosse già, Madonna!, davanti a quel corpo amato pendente dalla trave come un canavaccio.
– Stupida! – le sussurrò la madre stringendole il gomito con tutta la sua forza – Scriteriata. Vai sul balcone, va’, asciuti quegli occhi. A casa faremo i conti.
– Ah, che mali acquisti fanno ‘ste povere fanciulle d’oggi-giorno! – sentenzio il duca, come continuando il suo discorso. Donna Salvina Oddo emise un sospirone.
– Complimenti, duca, per il vostro monumento – disse subito per sviare l’argomento. Il duca, lusingato, passò alla descrizione della fastosa tomba che s’era fatto costruire nella cappella di S. Michele Arcangelo.
– Non vi dico quanto m’è costata. Tutta marmi policromi, sullo stile del Pampillònia a Gibilmanna. Il mezzo busto, lo stemma e in più la dicitura… ANTE DECESSUM, TUMULUM CUM CARMINE, la data, POSUI, HIC CONDAR CINERES, HAEC CONTEGET URNA SACELLO… eccetera -.
Sette salme le piantai a manna – diceva forte, intanto, il conte di Baucina al vecchio e sordo cavaliere Invidiato – Dieci salme le scassai pel vigneto…
— Ih, come siete funereo con tutte queste salme! – l’apostrofò il duca d’Alberì. E subito tornò alla signora Oddo.
– Una bella cerimonia veramente. Una festa intima, religiosa. Il solo parentado, la confraternita dei Trentatre e l’intervento dell’Abate mitrato per la benedizione e il discorso.
Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del No-velli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena di Pietro Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse che sembrava quella si un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i viventi, fino a quello della giovane che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.
– Vengo, mamma – disse la signorina Micciché, come avesse inteso d’essere chiamata per questione urgente. E si staccò dal gruppo, assieme alla Barranco, alla Pernice e a quella vezzosetta della Coco.
– Madonna, che caldo, andiamo sul balcone -, – Gesù, dove ho lasciato il guanto? — fecero le altre, man mano che ci s’avvicinava alle vetrine dei vasi greci.
Oltre al venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che l’aiutavano a fare toilette, i vasi neri mostravano fauni impudichi, sporcaccioni, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovani inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della loro provenienza. Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare a una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli, valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma.
Entrarono i camerieri con vassoi ricolmi di brioches con burro e mosciamà, biscotti col sèsano, paste di Santa Caterina, buccellati, preferiti coi chiodi di garofano, nucàtoli. Sasà guidava come un capitano, con cenni degli occhi e della mano, grattandosi con l’altra la parrucca che gli faceva prudere il testone, l’assalto ai vari gruppi d’invitati. Ma il suo vero nemico era la, in mezzo alla sala, coperto da un panno, posto sopra un leggio alto, con ai lati due moretti candelieri su colonnine attorcigliate. Sasà, passandovi davanti, lo guardava torvo. Ma le voci l’altri nemici, più vivi e più famelici, entrarono dai balconi aperti sulla strada. Come cani che avessero sentito il filo dell’odore dei dolci che per l’aria muoveva serpeggiando, sbucando dal cortile Gonzaga, dal vicolo Ferraresi, dal Siracusani, dal Monte di Pietà, i carusi sotto i balconi cominciarono a vociare:
– Sasà, Sasà, affacciati, Sasà! E si misero a cantare: Bivuta Martina, chiamata Luscia, Cani canassa, scavassa larduta, viva Cuccagna, la xoia la mia!
-‘Sti vastàsi! – mormorò Sasà, e corse a chiudere i balconi. Nu xù cucussa, la bernagualà Buliu pigliata, sunata tambura, Tubba, catubba, la nanina nà!
cantarono più forte dalla strada, ballando, battendo le mani, le pietre.
– Sasà, – ordinò la baronessa Maria Francesca – fai scendere Rosalia con un vassoio. delle monete,
Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a un cameriere d’accendere le sei candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della stupida giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba ispida di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza del dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa, o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi angolo essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si senti come a disagio.
Da porta d’Ossùna, in quel momento, s’udiron venire colpi di schioppo e abbaiar di cani. Era la ronda che di questi tempi sparava la notte a ogni ombra che vagava fuori le mura. Lo Spinuzza sentì un brivido salirgli per la schiena e si fece inquieto.
Nel silenzio che seguì a quegli spari, l’uomo sopra il leggio sembrava che avesse accentuato il suo sorriso. Il Mandralisca lo guardò e riguardò, aggiustandosi il pince-nez, lisciandosi la barba, come lo vedesse anche lui la prima volta. Si volse poi ai convitati e cominciò, con voce piana, come soprappensiero, gli occhi puntati sul pavimento di maiolica:
— Mi gode l’animo nello sperare, opino, sono in vero fortemente persuaso che trattasi d’opera di mano d’Antonello…
Alzò di colpo lo sguardo, si batté la fronte con la mano ed esclamò:
– Sasà, l’ignoto marinaio!
Sasà aprì le braccia ed atteggiò la faccia come davanti a uno che gli parlasse turco. Ci fu nel salone una gran risata. Il duca d’Alberi, staccandosi dal gruppo e avanzando solo verso il ritratto, tutto piatto dietro e la redingote aperta sul bombè che trionfalmente si portava davanti, con la sua voce acuta di cornetta chiese forte al Mandralisca:
– Barone, a chi ci ride quello? – indicando col dito il personaggio.
Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli! – rispose il Mandralisca.
Vincenzo Consolo pubblicato sulla rivista “Nuovi Argomenti” 1976
“Di ville, di ville; di villette otto locali doppi servissi, di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi…”.Così Gadda, nel descrivere la sua Brianza, “arrondimiento del Serruchòn”, nella regione Keltiké (Lombardia) della nazione Maradagal (Italia) , in una amara e beffarda parodia sudamericana, in quel capolavoro che è “La cognizione del dolore”.“Di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce…di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti i vaghissimi e placidi colli…”. Verrebbe voglia ancora di continuare con questi passi gaddiani almeno fino alla descrizione degli stili che gli architetti milanesi avevano saputo inserire nel verde di quella cmpagna, un’antologia completa del cattivo gusto più squillante. Ma questa Brianza di Gadda-don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino è degli anni intorno al 1920. Che Gadda già vede profanata e irrimediabilmente perduta. Rispetto a prima, forse alla Brianza letterariamente visitata dal Parini, Foscolo, Nievo, Stendhal, Fogazzaro. Un Eden oggi per noi quella campagna di Gadda, quella borghesia, della professione e della rendita, con gli anni si è aggiunta o sotituita un’altra, piccola e piccolissima, di ex contadini e artigiani trasformatisi in imprenditori, industriali, dei mobili, dei tessuti, del cemento. La Brianza diviene così il paradiso degli affari, la provincia serena e opulenta. I brianzoli sono famosi per la loro intraprendenza commerciale, per la loro capacità di fare i dané. Desio, Seveso, Meda, Cantù hanno riempito le case medie d’Italia prima con i loro mobili in “stile” e oggi con quelli in serie creati dai cosiddetti designers. E man mano che gli opifici, le fabbriche aumentavano, e aumentavano le case e le ville, decresceva il verde, spariva. I giornali milanesi di tanto in tanto pubblicavano anonimi trafiletti con inviti come questo, del 1968: “Affrettatevi a visitare la Brianza finché ne resta ancora un po’ “. E l’ultimo grido è quello di Leonardo Borgese che veniva dalle colonne di un settimanale, nel 1970, si proclamva la fine della Brianza: i laghi divenuti ecologicamente defunti, le colline tagliate a fette dai cementifici e, per non far vedere gli squarci, verniciate di verde. Ma è ancora tutto casereccio, brianzolo, paleocapitalistico, ancora tuttavia vivibile e quasi umano: Eden ancora, e doppiamente, se si pensa al lavoro che vi hanno trovato gli operai immigrati, e le “cattedre” i maestri e i professori qui venuti sù dal Sud.Un Eden fino a venerdì 9 luglio 1976. Il giorno dopo, sabato 10 luglio,, questo Eden si rivela improvvisamente un inferno metafisico. Da una di queste fabbriche del lavoro e del benessere, di questo amaro e fittizio benessere per i lavoratori, vantato sempre come miracolo e da sempre sfacciatamente esibito come alibi alle incapacità, agli errori e alle malefatte di una classe politica da troppi anni al potere, da una fabbrica di Seveso, nella bassa Brianza, si sprigiona quella nuvola bianca che porta la morte, impalpabile, incontrollabile, imprevedibile.Il micidiale TCDD, la diosina dalla nuvola distrugge colture e animali, colpisce bambini e adulti.La fabbrica è l’Icmesa, controllata dalla multinazionale Hoffman-La Roche, che produce tricloro fenolo per la casa madre di Ginevra e per la Givaudon Corporetion degli Usa. Da sabato10 luglio, l’allarme scatta una settimana dopo, il sabato 17 luglio, quando gli operai della Icmesa si rifiutano di lavorare. Ma lo sgombero della zona contaminata si decide dopo 14 giorni, sabato 24 luglio, dopo due settimane di dichiarazioni e controdichiarazioni, di rassicurazioni recitate “con faccia di tolla”, dicono a Milano, dagli schermi della TV da tecnici e autorità. In questi 14 giorni, e ancora fino a oggi, in cui sempre più si constata che la pericolosità è grave e investe sempre zone più ampie, in cui altra gente viene fatta sgomberare da altri paesi e bambini e adulti vengono ricoverati d’urgenza in ospedale, in questi giorni abbiamo potuto provare quanto la parodia di Gadda, di cui si diceva all’inizio, della Brianza, della Lombardia e dell’Italia tutta (Maradagàl) come un paese del Sud America, non è più tanto una parodia, una finzione letteraria, ma una realtà. Il nostro si rivela sempre più un paese dell’America Latina, nel Sud della depressione e del colera, nel Friuli del terremoto e nella Lombardia industrializzata e ricca del veleno. Paese latino americano per la disorganizzazione, l’incompetenza e l’incoscienza che dimostrano ogni volta le autorità e i burocrati che dovrebbero essere responsabili. Paese latino americano soprattutto per il cacicchismo dei nostri governanti che consegnano la salute e la vita nostra e dei nostri bambini nelle mani di queste società multinazionali, la cui unica morale è il profitto, i cui metodi sono brutali e disumani: che permettono a fabbriche come la Icmesa, che produce elementi base per i defolianti come quelli impiegati dagli americani nel Vietnam, che in ogni momento, per un incidente, possono spandere veleni i cui effetti si protraggono non si sa quanto nello spazio e nel tempo, permettono a queste fabbriche di installarsi nel nostro territorio. E c’è da chiedersi quante Icmesa ci sono oggi in Italia, e dove; quante altre fabbriche di aziende multinazionali e no spandono dentro le loro mura e fuori quanti altri veleni di cui non sappiamo, noi incompetenti e forse neanche i chimici e i tecnocrati che organizzano e ordinano la produzione. ”Recentemente è stato accertato, dopo la scoperta, due anni fa, che gli operai addetti alla produzione di plastica a base di polivinilcloruro contraggono cancro al fegato, che tra gli abitanti di zone circostanti queste fabbriche si ha una più alta incidenza di tumori al cervello, di malformazioni congenite e di aborti spontanei”: Ha dichiarato il professor Maccacaro. Il fatto è che viviamo oggi in mezzo a una nuova peste, portataci da questi veri e visibili untori, aiutati da allegri manutengoli nostrani. Ma a questi, al contrario dei due innocenti di piazza della Vetra, di Giacomo Mora e di Guglielmo Piazza, nessuna casa, nessuna “officina scellerata” verrà “adeguata” al suolo: nessuna Colonna Infame sarà issata. Ecologia, inquinamento, polluzione: di queste parole si sono riempiti la bocca re in esilio e ameni principi consorti, uomini politici screditati e proprietarie di giornali, scappando subito in luoghi puliti di villeggiatura non appena un odore ripugnante ha sfioratoi loro nasi. Gli hanno subito fatto eco scrittori angosciati e artisti d’avanguardia scrivendo romanzi ecologici e disegnando foglie e pampini. Altri, disperati per la cattiveria dei loro padri inquinatori sono fuggiti piangendo verso Indie dipinte e nuovi paradisi artificiali. Come se il problema non fosse ancora economico, non fosse ancora politico. Vincenzo Consolo
ARTICOLO MAI PUBBLICATO scritto per “Paese sera” e rifiutato dal Direttore Arrigo Benedetti data luglio 1976
… T’avvolge improvvisa voluta di brezza di mare di monte, si fonde all’alga marcita la palma, poseidonia a ginepro fenicio e l’euforbia l’eringio il pino d’Aleppo esposti sui poggi del monte dimora al romito mai visto, pellegrino di grotte di tane, alla furia dei venti, brezza che fiori accarezza spessi d’effluvi di Cipro, spere di conca avvolte nell’oro: allora ti trovi alla balza su cui si erge la reggia. i Oh excelso muro, oh torres coronadas de honor, de majestad, de gallardia!’
Sei giunto dai sobborghi o dal Monte Reale per l’arco di porta dai giganti custodi reggenti la loggia, il belvedere a piramide a smalti e banderuola di latta (vi scorre ai piedi il ruscello, la vena sfuggita dal Nilo, che porta radici larve papiri caimani mostri impensati che il raggio di fuoco suscitò dalla coltre di limo ferace — il principe folle o burlone pietrificò nella villa que’ mostri e altri ne aggiunse, una folla, sognati o pure intravisti alle corti alle feste d’un gran carnevale). E varchi il portale dal timpano rotto in cui si spiegano gli stemmi le armi. Nel chiostro digrada un chiarore filtrato da lucernari di lino, per squarci di cielo turchese di cumuli cirri ammassi di nubi in cammino – sfreccia delle tempeste l’uccello, l’airone migrante, il solitario passero e quello maltese.
Luce in prigione che indugia in labirinti di pietra, losanghe dorsi di selci incastrate, s’ammassa, esita alle colonne, agli archi, ai doppi loggiati, agli scaloni a vite, a rampe, scivola sopra mura scialbate, cilestrine lesene. Sale dalle segrete il rumore dei ferri, dei cavalli il passo, il cigolio di carrozze da viali, cortili dietro cortili, di sedie volanti, da giardini pensili ai bastioni cinguettare d’uccelli, rari del paradiso, de’ tropici, il pavone, l’avvolgersi vischioso di pendule radici, grommose. Passi per gallerie, anditi, ambulacri, ponti, sospese logge, ai vestiboli esiti, alle soglie (il Grande, l’Infanta, l’Antenata Spagnola, il Condottiero da sogno, da parete dipinta ti viene): non badare alla guardia tronfia, al mercenario in brache festose, al buffone che nasconde i sonagli con lucerna spaccona, a pennacchio. Odi, se vuoi, nel tempo sospeso, il bisbiglio di preci per grate, fessure, bussole schiuse d’oratori segreti, cappelle murate, delle fruste gli schiocchi, flagelli, i lamenti, le canzoni dell’anima:
En una noche oscura Con ansias en amores inflamada… 2
Da vani diversi, dietro tende, cortine scarlatte, indovini l’alcova, la mano che indugia, carezza, il pannello d’avorio cinese che scorre e dispiega la scena, licenze… (la sposa del capitano partito per terre conquise s’arrese all’amore d’un giovane a corte; e l’altra – ma qualcuno assicura che la linea del corpo, la pelle riflessa allo specchio appartiene comunque alla stessa velata — fanciulla tenera, fu tolta a un padre in prigione, battiloro ribelle, agitatore, per risveglio di sensi, voglie incrostate di vecchi togati, prelati). Altrove è la forza, alla sala del dio provato da immani fatiche, la schiena le braccia a fasci rigonfi, a fibre nodose. Ma viene il momento: ti trovi al cospetto di vicerè in teoria spiegati, lungo pareti, in effigie, tra bande di onice nero e fastigi, sovrapporte di stucco, imperi di gesso; e l’altro – non sai se vero o dipinto in sostituzione d’un altro – in damasco dorato a garofani a gigli, in seta cangiante, e sboffi di trine, la gorgia che regge un volto di buio (ride o ira tremenda lo scuote?), assiso sul trono: “Maestà Seconda, Quasi Signore, Rappresentante Eccelso, Somma Autorità dopo Qualcuno, Sovrano Limitato, mio Vicerè” dirai piegando un sol ginocchio, mezza la testa e l’altra tieni alta: bada, pensa: sul trono avuto in prestito l’uomo senza volto non conosce il sorriso, il gesto largo, sereno della magnanimità; incrina la sua vita l’astio, l’orgoglio offeso, il pensiero costante d’un potere delegato, d’una grande sicurezza dipendente.
Ora è la volta della discesa, lasciando a mano dritta la macchina trionfale di Filippo, la Soledad, le cupole di sangue tra grappoli di datteri, pompelmi, viticci attorcigliati a le colonne, all’arco di ferro sopra il pozzo. La volta di pietre d’oro, d’ametiste, topazi affumicati, intrecci, geometrie affollate, ricami d’arenaria, rabeschi d’una grande moschea profanata. Vi dimora un cardinale che affonda in bambagie, mollezze porporine e dispiega in riccioli, in volute, in ventagli sfaldati effluvi d’incensi grassi, acide essenze, malsani fermenti. I servi, i paggi corrotti, in fronzoli, in gale, a farandola intorno, e il monaco accanto che regge lo stendardo dell’ulivo e del cane – Misericordia et Iustitia — arrossano i bagliori di roghi notturni sopra la piazza, moltiplicati da cristalli, bocce, vetri piombati. Allora muovi il passo, affrettati allo spazio circolare, al centro da cui partono i quattro punti del mondo. Quattro fontane scrosciano: viene Primavera con Carlo Imperatore e la vergine Cristina; Estate giunge con Filippo e la Ninfa fatta santa; al volger d’Autunno l’altro Filippo e l’Oliva santa; chiude Inverno con Filippo Terzo e la Vergine che tiene sopra il palmo la mammella. Tinvestono quattro venti e quattro canti.
Procedi dunque per la via che si sperde alla Porta Felice – passano le galee, i velieri sul fondale del mare; sosta, riposa alla fresca d’acque fontana teatrale: Orfeo danza, Ercole coi Fiumi i Tritoni le Ninfe, e il Genio della Città, sopra lo stelo di putti di conche di tazze, spande largisce dona in cornucopia canestro festone di frutta, l’albicocca la pera il melograno dischiuso… E guarda, osserva le quinte di pietra: scorgi le scale i portali le grate panciute i balconi pomposi di chiese conventi pretori; contro il cielo cobalto e trionfi di nubi i transetti, i contrafforti a volute, le aeree cupole come orci iridati, maioliche azzurre, splendenti. Il convento ti dona alla ruota l’agnello trafitto, i grappoli d’uva dorata, i trionfi di gola, le frutte di mandoria, cesti canestri nature morte dipinte; e la chiesa, la chiesa il fresco di nave, lo sfavillio, l’abbaglio degli occhi: scansa gl’intarsi catturanti, a mischio tramischio, stàccati dalle spire di colonne a torciglioni, le Allegorie, le cantorie, i coretti, volgi in alto, in alto lo sguardo: vedi i cieli, delle cupole le apoteosi, le glorie, i trionfi sopra balaustre da cui s’affaccia la pavoncella, la lira, il caprifoglio franante; e il Senato poi dispiega sopra i cieli le profane imprese, i Governi, le Giustizie, le Battaglie: cavalli bianchi s’impennano, galoppano tra nuvole, si rovescia il carro, si cozzano le lance; brillano le bocche da fuoco portatili, colpiscono una folla d’affamati…
1 Luis de Góngora: “Sonetti funebri” 2 Juan de la Cruz: “Poesie” Milano, novembre 1974
Il sole raggiante sopra la linea dell’orizzonte illuminava la rocca prominente, col santuario in cima, a picco sopra la grande distesa di acque e di terra. Era; questa spiaggia, un ricamo di ori e di smalti. In lingue sinuose, in cerchi, in ghirigori, la rena gialla creava bacini, canali, laghi, insenature. Le acque contenevano tutti gli azzurri, i verdi. Vi crescevano giunchi e muschi, vischiosi filamenti; vi nuotavano grassi pesci, vi scivolavano pigri aironi e lenti gabbiani. Luceva sulla rena la madreperla di mitili e conchiglie e il bianco d’asterie calcinate. Piccole barche, dagli alberi senza vela, immobili sopra le acque stagne fra le dune, sembravano relitti di maree. Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate, gravava sopra la spiaggia. Qual cosmico evento, qual terribile tremuoto avea precipitato a mare la sommità eccelsa della rocca e, con essa, l’antica città che sopra vi giaceva?
Quindi Adelasia, regina d’alabastro, ferme le trine sullo sbuffo, impassibile attese che il convento si sfacesse. – Chi è, in nome di Dio? — di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde per le celle, i vani enormi, gli anditi vacanti. — Vi manda l’arcivescovo? _
E fuori era il vuoto. Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali, muro d’ arenaria che si sfalda, duna che si spiana, collina, scivolio di pietra, consumo. Il cardo emerge, si torce, offre all’estremo il fiore tremulo, diafano per l’occhio cavo dell’asino bianco. Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse.
Qui una dura quiete si distese, altrove avvennero gli eventi. Di qua si trasse l’ora la stagione la voce l’acqua. Non avvenne neanche che attorno al ficodindia uno sperduto vi girasse. Di più o di meno – chi può dirlo? _ del desolato luogo dove s’attende invano o con speranza: sfugge, si nega finanche al negativo. Perchè non ha un contrappunto, un segno da cui dedurre il suo contrario. Solo sappiamo di qualcuno — o l’abbiamo pensato – che tentato quel luogo fu invaso da sgomento. Ma solo d’un momento è l’ansia che ti prende di varcare le soglie disumane: immagini, senti che oltre, dietro la roccia che di quarzo si mostra, di salino impasto, si cela a sorprenderti l’angoscia; che l’avorio scialbo dell’osso nasconde il coccio che svampa, barbaglia, t’acceca e ti travaglia, ti gioca la memoria … e quella buccia arsa, quelle trame di foglie, quel chiodo d’agave, quel legno logorato?
Ma per certo su la tremula landa sconfinata navigò qualcun altro puntiglioso scoraggiando la perdita, il malessere: di quel luogo tremendo ne riportò i segni, l’idea. Da le carte compare la reliquia di stagione, il tratto che svanisce, la macchia che si squaglia, il confine che oscilla e s’allontana. E oltre, lontano — non sai se sopra o sotto il segno sfocato, rotondo – tu scorgi a malapena un grumo, la coda d’una falda: è vela o l’ala d’un uccello che trapassa?
Sì, che bisogna
scappare, nascondersi. Che bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati.
A cerchi, ad
ellissi, avanzano, ad onde avvolgenti, nella notte isterica, le trombe stridule.
II respiro, mòzzalo. Sfiorano
a parabola – lacera la curva le libre – declinano, a corno svaniscono, schiere di
cherubini opachi («Toh, sfaccime, toh!.,.»), le bùccine d’acciaio, feroci.
Sul blu’ in
diagonale, in vortice di dramma, le mani tra i capelli sulle guance, virano, cabrano,
picchiano, occhi a fessura,
piccole animelle
colombine, agli Scrovegni. Aggelati nel Giudizio, fermi nel cerchio d’oro della
testa… << Per San Michele, tu dal nulla generi la colpa!».
E qui, in questa
muffa d’angolo… Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con sirene lame
della notte. Perchè il silenzio, la pausa ti morde.
Chi sparse
quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. <<…La
rabbia resa spietata da una
lunga
paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle
di mano; o il tirnor di mancare a un’aspettativa generale…; il tirnor fors’anche
di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono
state issate le colonne dell’infamia. Ma tu aspetta, fa’ piano. Deponi le mutrie,
gli orpelli, i giochi insensati d’ogni giorno, lascia scolare nelle fogne la miseria,
concentra la tua mente: sii uomo per un attimo.
Poggia il tuo
piede qui, su questa tela, entra, fissa la scena: in questo spazio invaso dalla
notte troverai i passaggi, le fughe. Esci, esci, se puoi, dalla maledizione della
colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda dal corpo in prospettiva, mantegnesco.
L’uomo è caduto su punte di cristallo.
Mart! Cam t’affuoddi
stumatin
Chi t’arcuogghi
u garafu ‘ntra u sa giggh! (1)
Le buro-barecrazie
innalzano poi barriere, muri, labirinti. E dalle pietre del forte, stella di terrore,
il soave mattaccino murato vivo (hanno fermato il piede che disegna per l’aria libere
buffe spirali) urla nella notte: <<.,,Questa nostra lenta agonia che è già morte civile…
». E l’urlo rimbalza di casa in casa, per scaloni di porfido, cortine di damasco,
su per ciscranne, podi, teche opalescenti.
«Che si laccia tacere!» gridano, alzando sulle teste manti, pluviali,
cappe, palandre
d’ermellino.
Ma vi fu un
tempo idillii. Tempo d’arie e d’acque, di erbe e d’animali, di baite romite, masi.
Luce in ritmi, equilibri, scomposizioni, essenze: vuoto bianco e schiene di purezza,
braccia. Cattedrali d’aria vagano per luci di granato, smeraldine, martire impalato
e fraticello matto invetrati (…per sora acqua e frate sole…), illusioni a suoni
flautati di canne gotiche e ghirigorì barocchi di fumi orientali. Tempo di tessere
smaltate, di giochi bizantini, veloci impasti,
guizzicromie
su fresche scialbature, segni, graffi su mollezze caglianti.
E tempo di
maestri. Punto e linea, luce ferma. Oltre la greppia euclidea, fughe,
profondità, aggetti.
Del chierico
diafano non t’inganni la sua luce di febbre: il sacco copre croste, piaghe,
sozzure, orgogli. Schizofrenia gli cela il flusso degli eventi, condizioni
coatte. Estraneo alla dimora della famiglia dei polli.
ln stie sotterranee,
tra fumi d’arsenico e scoli di cianuro, per il mio e il tuo, beccano il vuoto
tondo dilatato ebete occhio, segano vene, tendini, polpe. In ciclo di crusca e sterco,
crusca e sterco. Sfiora il tao ventre ora, dallo sterno al punto del cordone, con
dita ferme: senti la stimma del tuo gastrosegato, la tacca per la fuga della
bile. E qui, dove le fughe? In pesi squilibrati di colori, in dissonanze, chiusure
dimensionali. In trittici distorti ti rifiuto la tua crusca e il mio sterco. A te,
dalla razza degli angeli!
Ma all’estremo della notte, già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli.
Viene fuori
l’eretico, prendetelo! Caricatelo di catene e mùffole, di torcia, di mitra e sambenito,
stringetegli al collo la corda di ginestra.
E nell’immensa piazza, grida il capitano: «Vivo abrugiato, le sue ceneri al vento siano sparse ».
Vincenzo Consolo
(1) «Morte! Come t’affolli stamattina – A coglierti il garofano dal suo calice!». postille al margine “nasce 1971 in Il sorriso pa,103-105 cap. VII-1976 modificato” dal catalogo della mostra di Luciano Gussoni Villa Reale di Monza 10 novembre – 30 novembre 1971 Barecrazie 71 Volo da una finestra 1° Luciano Gussoni
Ama molto camminare a piedi. Dal suo solito albergo vicino la stazione scendiamo verso il centro. Alla Libreria Internazionale Cavour facciamo il giro delle tre vetrine cariche di libri. Libri, libri. Ed essendo periodo di «strenne», vi sono vecchi titoli ristampati e riproposti in nuove e lussuose confezioni come fossero panettoni raffermi rinforzati, scatole di dolci scadenti in involucri preziosi e accattivanti. Libri sui vini, sulle automobili, sui fiori, guide gastronomiche, guide ai piaceri di Londra e di New York, guide al raggiungimento delle perfette intese sessuali. Proseguiamo per via Manzoni. Parliamo dello scrivere e del non scrivere. «Che fai, lavori, Leonardo?». «Vorrei scrivere tre o quattro cose ancora, prima di smettere (o di morire: ma spero di arrivare a smettere per avere il tempo di prepararmi a morire). Ma c’è qualcosa nell’aria che, si direbbe a Napoli, ti fa cadere la penna di mano; e in Sicilia specialmente. Scrivere è ora una lotta non solo con la realtà ma con me stesso. Forse il successo che i miei libri hanno avuto, mentre le condizioni della Sicilia peggiorano al punto che poco più è morte, ha creato in me uno stato d’animo che somiglia alla vergogna e al rimorso. Avendo concepito lo scrivere come azione, sconfitto nell’azione sento come una forma d’irrisione il successo in “letteratura”. Ma scrivere è la mia vocazione e il mio mestiere: e continuerò a scrivere anche se tutte le ragioni per cui ho scritto ora si rivoltano a non farmi scrivere». Alla Libreria Einaudi, in Galleria, il direttore Aldrovandi ci accoglie come vecchi amici. Ci chiede di Attilio. Attilio Mangano è un giovane siciliano di Palermo che, avendo fatto una interessante tesi su Vittorini, era stato chiamato da Einaudi e messo qui, in libreria, a fare il commesso. Un giorno – fui spettatore – entrarono nel negozio due ragazze e chiesero ad Attilio ventidue romanzi che fossero divertenti, un po’ «spinti» senza essere «eccitanti». Aiutai Attilio a scegliere i titoli. «Scusate. Per chi servono?». «Per una squadra di calcio in ritiro. Gli undici giocatori e le riserve». Attilio lasciò la libreria e tornò in Sicilia. Ora è di nuovo qui a Milano e insegna in un ginnasio. Entrano giovani barbuti e con mantelli, ragazze con lunghissimi cappotti e occhialoni alla clown, e chiedono Marcuse e le opere del «Che», la «Monthly Review» e i «Quaderni Piacentini». Ma entrano anche persone, meno giovani, che chiedono «tutto Pavese», Le confessioni di Nat Turner e A ciascuno il suo. «La crisi del romanzo non esiste se non dentro quella che direi la generale crisi dello scrivere. Perché ci dovrebbe essere una particolare crisi del romanzo? Ancora c’è chi li sa scrivere; e moltissimi sono quelli che sanno leggerli, anche se nessuno, al disotto dei quarant’anni, è disposto ad ammettere che legge romanzi. La lettura dei libri di narrativa è diventata una specie di vizio segreto, da quando certi galantuomini che non ne sanno scrivere si danno da fare a lanciare la moda del non leggerli: “Non leggo più romanzi, leggo saggi”; come ieri si diceva “non leggo più poesie, leggo romanzi”. La verità è che leggiamo poesia e leggiamo romanzi: quando troviamo un buon poeta, un buon narratore. E in quanto ai saggi, se ne comprano certamente molti, ma direi che se ne leggono pochi». Davanti alla bancarella di un siciliano, in piazza Matteotti, Sciascia mi parla dello stare nell’isola e dell’andarsene. «Il mio stare in Sicilia non ha niente a che fare col dovere e col sacrificio, né ha comportato alcun rischio. Mi piace starci e ci sto: tutto qui. O meglio: finora mi è piaciuto starci. Comincio infatti a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: in parte perché mi sento, pirandellianamente, imprigionato nella forma di “quello che sta in Sicilia” (il che Vittorini mi prediceva quando io ero ancora lontano dal sentirne il disagio); in parte per ragioni più oggettive, che si posso no oggettivamente riassumere nella constatazione che fa il personaggio di un mio libro: che uscendo di casa incontri tutte le persone che non vorresti incontrare, e quasi mai quelle che ti piacerebbe incontrare».
* Questo articolo è stato scritto per L’Ora ed è raccolto nel libro “Esercizi di cronaca” (Sellerio editore)
“Incidono lo
spazio,” si diceva, “sono una perentoria affermazione dell’esistenza”.
E li osservava,
nelle loro linee nette, nel loro scuro cloisonnage che li stagliava contro il fondo chiaro,
nelle dure capigliature scolpite, nei colori forti, accesi delle loro facce. In
contrasto, gli altri apparivano deboli, labili, indeterminati; i loro colori
incerti sfumavano nel grigio chiaro dello sfondo, il pallore delle loro facce
era come una nebulosa che svaniva verso l’inconsistenza. E concludeva,
sintetizzando: “Nero e bianco: l’esistenza e l’inesistenza; la vita e la morte.
Avviene nei popoli”, si diceva”quello che avviene nella vita di un uomo. Il
nascere, cioè, il farsi giovane, maturo, vecchio e poi il morire. Ecco, noi ci
stiamo avvicinando alla morte. Come m’avvicino io, sbiancando ogni giorno nei
capelli, nella pelle, preludio a quel bianco definitivo che è la morte”.
Andava
rimuginando questi pensieri (ma che pensieri?, larve d’idee, banali congetture,
sensazioni; e ridicole anche: andare incautamente ad affogarsi nel periglioso
mare dei popoli e delle razze), affogarsi in quei pensieri dettati da noia e
malumore, passeggiando il tardo pomeriggio d’un sabato a Porta Venezia, o Porta
Orientale, come la chiamò Manzoni, là dov’era il lazzaretto degli
appestati. Il quartiere, quello di Porta Venezia, che più amava in quella
grigia città ch’era diventata ormai Milano, e il più vero, al confronto dei
noiosi e irritanti quartieri del centro, le strade della moda, della sartoria
ridondante, o di quegli squallidi teatrini provinciali, di quell’affaristica
organizzazione del divertimento di fine settimana che sono i quartieri di Brera
o dei Navigli. Amava quella Porta Orientale, quel Corso Buenos Aires popolare,
multietnico, quel quartiere lontano dagli infiniti cantieri edili, dalla Milano
trionfante dell’Esposizione Universale, e lontana dai penosi quartieri
periferici da dove si spazzano via come rifiuti umani gli zingari accampati.
Era di giugno. Il sole tramontava dietro le trame degli ippocastani e dei tigli
dei Giardini, arrossava il cielo terso. Ma dalla parte opposta, a oriente,
nuvole nere erano squarciate da saette: si preparava il temporale della sera dopo
la giornata di caldo appiccicoso. Lungo il Corso i negozi già abbassavano le
saracinesche. Da via Castaldi e da via Palazzi sbucavano a gruppi gli eritrei,
riservati e dignitosi, con le loro donne in veli bianchi. E frotte d’arabi,
tunisini ed egiziani, allegri e chiassosi, ragazzotti con l’aria di libertà e
di canagliesca innocenza come quella dei gitani. Solitari marocchini, immobili
e guardinghi, stavano con le loro
cassette piene di paccottiglia d’orologi, occhiali, accendini, radioline,
davanti a quei supermarket del cibo che si chiamano fast food. Davanti alle
uscite della metro stavano invece gli africani della Costa d’Avorio o del
Senegal con la loro mercanzia stesa a terra di collanine, anelli, bracciali,
gazzelle, elefanti e maschere d’ebano, d’un marrone lucido come la loro pelle.
In angoli appartati o dentro le gallerie, stavano in cerchio, a cinguettare
come stormi d’uccelli sopra un ramo, donne e uomini filippini, cingalesi.
Da questa
umanità intensamente colorata, si partiva poi tutta una gamma di bruno
meridionale. Ed erano quelli dietro le bancarelle dei dolciumi “tipici”; erano
famigliole di siciliani, calabresi, pugliesi, con i pacchi e le buste di
plastica delle loro compere, che tornavano a casa o sostavano davanti alla
gelateria per far prendere il cono ai loro bambini irrequieti.
Erano, i
marciapiedi di Corso Buenos Aires, in quel tardo pomeriggio di sabato, tutta
un’ondata di mediterraneità, di meridionalità, dentro cui egli s’immergeva e si
crogiolava, con una sensazione di distensione, di riconciliazione. Lui che non
era nato in quella nordica metropoli, lui trapiantato qui, come tanti, da un
Sud dove la storia s’era conclusa, o come quegli africani, da una terra
d’esistenza (o negazione d’esistenza) dove la storia è appena o non è ancora
cominciata; lui che era di tante razze e che non apparteneva a nessuna razza,
frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione
araba, del seppellimento etiope, lui, da una svariata commistione nato per caso
bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Si distendeva e crogiolava dentro
quell’umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino. Ma dal
nero africano, dal bruno meridionale, si arriva al biondo, chiaro scialbo.
Erano gruppi di nordici che uscivano da gioiellerie e da boutique; erano frotte
di lunari, astratti punk nei loro neri abiti, nelle loro criniere arancione e
verde, nelle loro borchie, nei piercing e orecchini, aggressivi e fragili.
I nuvoloni
avevano coperto tutto il cielo e si faceva buio; i lampi ora vicini
anticipavano tuoni fragorosi. E improvvisa, violenta arrivò la pioggia.
Rimbalzava a campanelle sul marciapiede e sulla lamiera delle auto. E subito si
trasformò in grandine, fragorosa come una cascata di ghiaia. Ci fu un fuggi
fuggi generale, un rifugiarsi sotto i balconi, negli androni dei palazzi, nelle
gallerie, dentro la metro. Le automobili, sul Corso, erano ferme, incastrate a
causa dei semafori guasti, e con clacson e trombe lanciavano un rabbioso,
assordante urlo.
Tenendo il giornale
sulla testa, corse in direzione di Porta Venezia, scantonò per via Palazzi. I
bar erano pieni, pieni ristoranti e pizzerie. Più avanti, fu attratto da
un’insegna in caratteri amharici e con sotto la traduzione italiana:
“Ristorante eritreo”. Spinse la porta a vetri ed entrò. Subito s’accesero le
luci e da dietro il bancone del bar sbucarono un uomo e una donna sorridenti
che lo invitarono ad accomodarsi a uno dei tavoli.
– Vuole mangiare
? – gli chiese l’uomo.
– Vorrei prima
asciugarmi. Mi porti intanto del vino.
Stese sulla
spalliera d’una sedia il giornale che non aveva ancora letto, ridotto quasi a
una pasta mucida. Ma per la verità leggeva di quel giornale, che comprava solo
il sabato, le pagine dei libri. E quelle, all’interno, erano in qualche modo
ancora leggibili.
Cominciarono ad
arrivare eritrei, tutti zuppi come lui, e sorridenti. La sala si empiva a poco
a poco. La donna era scomparsa in cucina; l’uomo, dietro il banco, lo teneva
d’occhio. Gli fece cenno di venire. Gli consigliò il loro piatto tipico, lo zichinì.
Era piccantissimo. Lacrimava, ma con quegli occhi addosso non osava smettere di
mangiare o fare alcuna smorfia d’intolleranza. Mandava giù biccchieri colmi di
vino. Alla fine aveva vampe in bocca, nello stomaco, e la testa gli girava per
il vino. Gli eritrei, uomini e donne, ridevano con tutti i loro denti
bianchissimi, ma non era in grado di capire se ridevano di lui. Anche loro
mangiavano lo zichini, ma non usavano la forchetta, attingevano con le
dita a un grande piatto comune posto al centro d’ogni tavolo. Si ricordò che
anche così si usava in Sicilia nelle famiglie contadine. E gli venne di pensare
che il Nord, il mondo industriale, era anche questo, la rottura della
comunione, la separazione, la solitudine.
– Piccante ? –
gli chiese l’uomo togliendogli il piatto, e gli sembrò che avesse un tono
ironico.
– Un po’ –
rispose, con sussiego. E si trovò subito ridicolo. Fumando si mise poi a
leggere su quel giornale disastrato la recensione a un libro di grande
successo, un best-seller, come si dice; la lesse senza interesse, senza
attenzione, non capiva neanche quello
che vi si diceva. Bruciore per bruciore, continuò a bere, bevve fin quasi tutta
la bottiglia.
Uscì che barcollava.
Pioveva ancora. Si riparò la testa con quel residuo di giornale che gli
restava. Sbucò in via Castaldi e lì ancora un’insegna esotica l’attrasse: Bar
Cleopatra. Il locale era pieno di egiziani. Dal cd si diffondeva una di quelle
nenie senza inizio e senza fine, dolcissime, strazianti, che hanno il ritmo
delle carovane, il tono del deserto, nenie che sono la matrice d’ogni musica
mediterranea, del cante jondo andaluso, dei canti dei carrettieri siciliani,
delle serenate napoletane. Qualcuno degli egiziani cantava assieme al cantante
del cd, altri tamburellavano con le dita sul piano del tavolino, un altro
ballava, dondolando la testa dai capelli crespi. Ordinò un caffè. Che fu
insufficiente a far svanire i fumi del vino. Gli egiziani bevevano tè scuro
dentro bicchieri, fumavano. Parlavano fra loro a voce alta, con suoni gravi,
gutturali e fortemente aspirati, spesso sghignazzavano. Erano meno riservati
degli eritrei, più caciaroni, più scugnizzi.
Uno si accostò
al suo tavolo.
– Piace muscica
araba ? – gli chiese.
– Piace, piace
tanto.
E, sedendosi al
suo tavolo, cominciò a sciorinargli nomi di divi delle loro canzoni, fra cui riuscì a distinguere solo
quello della mitica Om Kalsoum. Gli chiese di fargli ascoltare Om Kalsoum.
Appena s’udirono le prime note, andò a risedersi e smise di parlare, si chiuse
nel silenzio, in religioso ascolto. Anche gli altri si fecero silenziosi e
malinconici.
In quella,
s’aprì di schianto la porta ed irruppero nella stanza tre poliziotti.
Ordinarono a tutti d’alzarsi e, mani in alto, di mettersi con la faccia al
muro. Egli rimase fermo al suo posto. Un poliziotto l’afferrò per un braccio e
lo spinse contro il muro. Li perquisirono tutti, palpandoli da sotto le ascelle
fino alle caviglie. Quindi chiesero a ognuno il passaporto.
– Non ce l’ho, –
egli disse – ho la patente.
– La patente ? Tu
guidi in Italia?
– E dove devo
guidare ?
– Ma sei
italiano ?
Gli venne voglia
di gridargli, con voce profonfa, gutturale, “No, no, sono africano, sono arabo,
sono ebreo, sono di tutte le razze, come te! “
– Fai vedere la
patente.
Gliela mostrò e,
ancor più vigliaccamente, gli mostrò quel tesserino dei Pubblicisti per cui
s’appartiene, sia pure da sottufficiali, al magnifico Ordine dei Giornalisti. E
il poliziotto, subito:
– Dotto’, a
quest’ora di notte, per questi quartieri è assai pericoloso. Si faccia
accompagnare almeno da un fotografo.
“Ecco,“
ritornando umiliato a casa”così difendiamo il nostro ultimo respiro, la nostra
agonia, noi vecchi esangui. Ci illudiamo di sopravvivere difendendo il nostro
benessere da ogni minima minaccia. Tutta questa nostra ricchezza sotto cui
finiremo schiacciati, sepolti, bianchi e immobili per sempre”.
Vincenzo Consolo Milano, 4 aprile 2008 Milano settembre 1968