Isole Dolci Del Dio.

Vincenzo Consolo


Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande
via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo. E anelito e
approdo, l’isola, remissione d’ogni incertezza, ansia,
superamento, scoperta, inizio della conoscenza, progetto
della storia, disegno della convivenza.
Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto,
il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi mondi.
E metafora di questo nostro mondo: scoglio nella vastità del mare, granello nell’infinito spazio;
grembo materno, schermo, siepe oltre la quale si fingono <<interminati spazi e sovrumani silenzi>>. In isole e per isole si svolse la prima e più fascinosa avventura,
il primo poetico viaggio della nostra civiltà.

Per isole di minaccia andò vagando Ulisse, per luoghi di mostruosità e violenza fermi in un tempo precivile; approdò in isole d’incanto e di oblio, di perdita di sé, d’ogni memoria; giunse in isole d’utopia,
di compiuta civiltà. Il regno di Alcinoo nella terra dei Feaci è per Ulisse il luogo di salvezza e insieme di rinascita. Qui, l’ignoto naufrago, rivela il suo nome e narra la sua avventura, opera lo scarto dall’utopia alla storia, dall’idealità alla realtà, dalla dimensione mitica a quella umana.

Dice:

        Itaca è bassa, è l’ultima che in mare
        giace (…)
        rocciosa, aspra, ma buona ad allevare
        giovani forti. Non conosco un’altra
        cosa più dolce della propria terra!
Da isole del mito e insieme della realtà è circondata la più grande isola, la Sicilia,
l’estremo lembo di terra che il furioso Nettuno, lo Scuotiterra, separò con il suo tridente dalla penisola, creando il canale ribollente dello Stretto, dominato, da una parte e dall’altra,
dalle funeste Scilla e Cariddi.

Le Eolie, le Egadi, le Pelagie sono pianeti di quella Trinacria dove, come scrisse Goethe, si sono incrociati tutti i raggi del mondo. Dalla costa tirrenica di Sicilia, si ha davanti dispiegato, fisso e di continuo cangiante, 1o spettacolo delle Eolie. E dal teatro greco sul promontorio del Tindari si gode meglio lo straordinario spettacolo. Per il loro fantasmatico apparire e disparire, per il loro ritrarsi e avanzare, per il mutare loro continuo di forma e di colore, i naviganti preomerici, fenici soprattutto, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi,

le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda. Questo mito raccolse Omero – quel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda.

In Eolia l’eroe è ospite per un mese e riceve in dono, alla partenza, un otre ben sigillato, che gli stolti compagni aprono liberando i venti dell’atroce tempesta che li allontana dalla patria, allunga il tempo della peregrinazione e dell’espiazione.
E certo che la geografia poetica non corrisponde quasi mai alla geografia reale, ma è certo che quella dell’Odissea si può spesso collocare ad occidente della Grecia, nell’ignoto centro del Mediterraneo, che corrisponde alla geografia siciliana nella etnea terra dei Ciclopi, nello Stretto di Messina,
nella piana di Milazzo, dove pascolano gli armenti

del Sole, in Lipari e nelle Eolie, regno di Eolo .,. Il muro di bronzo che cinge Eolia, la liscia roccia a picco sul mare non può non far pensare alla roccia scoscesa della cittadella di Lipari, alle gran mura megalitiche che la circondano. Perché preomerica, antichissima è la civiltà di Lipari e delle altre isole nell’arcipelago, risale al neolitico, conta cinque millenni di storia. Una storia scritta e leggibile, come su un manuale, nei vari strati archeologici del Castello, della contrada Diana e Pianoconte di Lipari, in contrade di Filicudi, di Panarea, di Salina: un grande archivio, come quello grafico di Ebla,

un grande libro di pietre e di cocci di ceramica, di selci e di ossidiana, di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili e di pietre, di crateri e di statue, di monili e di maschere .,. Fin dalla seconda età della pietra sono state abitate le Eolie. Le quali diventano prospere per via del commercio dell’ossidiana. Poi i reperti ci dicono di una violenta distruzione, di incendi e di crolli, di abbandono delle isole, e poi di nuovo del loro risorgere con la colonizzazione greca. E Diodoro Siculo a narrarci nella sua Biblioteca storica la colonizzazione greca delle Eolie. Ci fa conoscere, lo storico, una società di

contadini e di guerrieri, in una netta divisione di ruoli, in una comunione di beni e di consumi da primitivo socialismo; una Lipari prospera e bella, con porti accoglienti e bagni d’acqua salutari. Finisce questa età felice degli eoliani con i saccheggi subiti da parte dei Siracusani e dei Romani. Dopo, in età cristiana, bizantina, araba e quindi normanna, le Eolie vivono una loro lunga epoca di civiltà appartata e autosufficiente. Sospinti dal grecale, navighiamo ora verso occidente, verso le altre isole che coronano la Sicilia. Ustica è la prima che incontriamo (Lustrica, in siciliano, Egina ed Egitta è chiamata da Tolomeo, Strabone e Plinio).

Aspra, inospitale, formata da lave basaltiche e rufi, era in antico disabitata, rifugio ideale di pirati barbareschi. A metà del Settecento i Borboni la popolarono concedendo ai nuovi abitanti franchigie d’ogni sorta, fortificando l’isola, munendola sulle coste di torri di guardia. L’isola allora risorse, venne rimboschita e coltivata. Sospinti ancora da un benefico vento, doppiato il Capo San Vito, incontriamo le isole dello Stagnone, fra Trapani e il Lilibeo, e per prima Levanzo, la più piccola delle Egadi, calcarea, montuosa, che denuncia il suo tempo profondo, i segni primi dell’uomo, nella Grotta del Genovese,

con i disegni e i graffiti preistorici sulla parete dell’ampia caverna. Ma a Favignana però, isola più vasta, ospitale, gli uomini del neolitico escono dalle grotte marine, costruiscono capanni, cacciano e lavorano forse anche la terra, seppelliscono i loro morti in grotticelle a forno scavate nella roccia calcarea. Il tonno propiziatorio dipinto nella grotta di Levanzo qui a Favignana dà il frutto più copioso e duraturo. La tonnara di Favignana, ancora oggi operante, ha scritto la storia più importante della pesca nel Mediterraneo. Marettimo << ultima che in mare giace, rocciosa, aspra>>, è stata da sempre,

come l’Itaca di Ulisse, buona per allevare forte gente di mare. Lo Stagnone ancora contiene, protetta dall’Isola Grande, la gemma più rara: l’isola di Mozia. Stazione degli avventurosi Fenici, ha mantenuto nei millenni intatti le sue mura, i suoi edifici, il suo porto, il suo tofet o necropoli. I Siracusani sconfiggendo i Fenici di Sicilia nella battaglia di Imera, imposero nel trattato di pace di mai più sacrificare i bambini ai loro déi, alla gran madre Tànit o Astante e al gran padre Baal Hammon. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, esultava (<< Chose admirable! >>) per quel salto di civiltà e di

umanità che Gelone di Siracusa aveva fatto compiere a quei Fenici. Un vento leggero e propizio gonfi ora le nostre vele per portarci più a sud, nel mezzo del canale di Sicilia, farci approdare a Pantelleria. È stato da sempre il ponte, quest’isola, tra la vicina lfriqia, oggi Tunisia, e la Sicilia. Ponte per ogni scambio di cultura fra il mondo cristiano e quello musulmano, ponte per scorrerie piratesche, di conquiste, d’emigrazione, nell’uno e nell’altro senso, di lavoratori in cerca di fortuna. Bassa, nera, rocciosa, sferzata dal vento, l’antica Cossira fa pensare alla Tàuride, alla terra d’esilio di Ifigenia.

<<Giace vicina alla steril Cossira / Malta feconda .,.>> ha scritto Ovidio. Ha un lago salato nel centro e soffioni solfiferi, acque termali sparse dovunque. Ma pur così aspra, l’isola è stata da sempre contesa dai Saraceni e dai Cristiani. E’ stato Ruggero il normanno a restituire l’isola alla cristianità. Ma toponomastica, onomastica e lingua sono nell’isola ancora un incrocio di siciliano e di arabo. Ancora più a sud, più vicina alla Libia è Lampedusa. un isolotto di pescatori che la fantasia dell’Ariosto ha innalzato nel cielo della poesia. A Lampedusa l’autore dell’Orlando furioso fa svolgere il celebre duello di tre contro tre, dei saraceni Agramante, Sobrino e Gradasso e dei paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero.   
      Una isoletta è questa, che dal mare
        medesmo che la cinge è circonfusa.
Dice di Libadusa o Lampedusa Ariosto. <<I passi dei nostri eroi che finora hanno spaziato sulla mappa dei continenti, adesso (.,.) fanno perno sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo>> commenta Italo Calvino. E sembra di tornare, in quest’ultima parte del poema ariostesco, agli spazi, alle isole omeriche delI’ Odissea, a quel primo poema, a quei miti da cui siamo partiti.



Note

pag. 11 “Itaca è bassa, ecc.” Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro IX versi 25 -26-27 -28 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 15 “Quindi all’isola Eolia ecc.”Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro X versi l-2-3-+-5 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 35 “Una isoletta è questa, ecc.” Ludovico Ariosto, Orlando Furioso canto XL versi 57-58 Einaudi, Torino 1962 “I passi dei nostri eroi ecc.” Italo alvino, Racconta l’Orlando Furioso capitolo XXI Einaudi Scuola, Torino 1997

I quindici disegni di Giorgio Bertelli (tutti del formato di 14 x 20,5 cm), realizzati a penna su carta uso mano, sono stati ultimati nell’agosto 2000.

Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
**
Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»