L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo tra finzioni e funzioni della letteraturatura

In L’Italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congressodell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma, 9-12 settembre 2015), a cura di B. Alfonzetti, T. Cancro, V. Di Iasio, E. Pietrobon, Roma, Adi editore, 2017

CINZIA GALLO

L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo tra finzioni e funzioni della letteratura

L’olivo e l’olivastro (1994) costituisce una tappa importante nella ricerca espressiva di Consolo, che asserendo, in apertura, «Ora non può narrare», pone subito in evidenza la distinzione fra scrivere e narrare e il tema dell’«afasia». Come dichiara, infatti, un’ intervista, «Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori […]. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere». In primo piano è, perciò, la funzione civile dello scrittore che, però, mette in pericolo «il corpo letterario del racconto». Da qui il carattere ibrido del nostro testo: i diciassette capitoli si snodano, quasi indipendenti l’uno dall’altro, in una sorta di collage, fra narrazione, diario di viaggio, poesia, saggio, digressioni, descrizioni. Analogamente, il gioco citazionistico – con ricorso, anche, alla memoria interna (l’allusione a Lunaria, ed altri testi consoliani)-, la tecnica dell’accumulo, la finzione letteraria – con le varie voci narranti -, rappresentano un’ulteriore riflessione sull’ autoreferenzialità della letteratura. L’olivo e l’olivastro fornisce, dunque, un chiaro esempio di metaletteratura.

L’olivo e l’olivastro (1994) rappresenta una tappa importante nella ricerca ideologica edespressiva di Vincenzo Consolo. Già il titolo mostra l’intreccio di finzioni e funzioni su cui si basa. Ne Lo spazio in letteratura, del 1999, Consolo spiega, difatti:

Anche chi qui scrive, nella sua vicenda letteraria, […] è risalito, soprattutto nei due ultimi libri, L’olivo e l’olivastro e Lo Spasimo di Palermo, all’archetipo omerico, a quell’Odissea da cui siamo partiti. Lo spazio, in questi due romanzi, si dispiega fra due poli, Milano e la Sicilia. Ma l’Odissea , sappiamo, è una metafora della vita, del viaggio della vita. Casualmente nasciamo in un’Itaca dove tramiamo i nostri affetti, dove piantiamo i nostri olivi, dove attorno all’olivo costruiamo il nostro talamo nuziale, dove generiamo i nostri figli. Ecco, noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare a Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico. 1

Il testo omerico, dunque, costituisce, secondo la terminologia genettiana, un vero e proprio ‘ipotesto’ per Consolo, che organizza, attraverso delle particolari finzione narrative, la funzione ideologico-civile a cui ha sempre mirato, come precisa in Memorie:

La prosa dunque della narrazione nasce per me da un contesto storico e allo stesso contesto si rivolge. Si rivolge con quella parte logica, di comunicazione che sempre ha in sé il racconto. Che è, per questa sua origine per questo suo destino, un genere letterario “sociale”. Sociale voglio dire soprattutto perché, in opposizione tematica e linguistica al potere, responsabile del malessere sociale […] il narratore vuole rimediare almeno l’infelicità contingente. 2

Il secondo capitolo de L’olivo e l’olivastro presenta perciò Ulisse che, dopo essere approdato, «Spossato, lacero, […] in preda a smarrimento, panico […]», nella terra dei Feaci, «trova riparo in una tana» posta «tra un olivo e un olivastro»3 (O, 17). Il carattere simbolico di queste piante

  • subito chiarito da Consolo:
  • spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura (O, 17-18).

In realtà, tutta la vicenda di Ulisse è ripercorsa in senso simbolico: non solo «diventa metafora che consente a Consolo di ritrovare nel mito e nella letteratura un senso drammatico e

  1. V.CONSOLO, Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999, 270.
  • CONSOLO, Memorie, in La mia isola è Las Vegas, Milano, Mondadori, 2012, 136.
  • Tutte le citazioni dal nostro testo, indicato con la lettera O, sono tratte da: V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994.

complesso dell’esistenza personale e collettiva»,4 ma costituisce un’esortazione, per tutti gli uomini, alla lucidità, alla ragione, a non cadere in errori generati da vicende esterne o interiori. Mentre, difatti, la terra dei Feaci, con «il rigoglioso giardino, la […] fastosa reggia, la saggia […] regina, […] l’accogliente corte, il popolo amico; e l’esercizio in loro della ragione, l’amore per il canto, la poesia», rappresenta «una città ideale, un regno d’armonia» (O, 18), il viaggio di Ulisse in seguito alla disfatta di Troia è «il luogo dove il reale, il concreto, si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il genitore dei mostri, immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi» (O, 19). Ulisse si è reso colpevole, difatti, di aver costruito il cavallo con cui Troia è stata distrutta, perciò «il racconto del viaggio di ritorno fatto da Odisseo è quello della colpa e espiazione, della catarsi soggettiva».5 La vicenda di Odisseo, dunque, è «Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli: epifania crudele, periglioso sbandare nella procella del mare, nell’infernale natura; salvezza possibile dopo tanto travaglio, approdo a un’amara saggezza, a una disillusa intelligenza» (O, 22). Consolo esprime allora il disorientamento del siciliano, simbolo di tutti gli uomini, attraverso varie figure retoriche (enumerazioni, antitesi, anafore, chiasmi), ponendo termini aulici accanto ad altri più comuni, mettendo in evidenza la sua propensione verso quella forma espressiva che egli stesso definisce «poema narrativo» (O, 48).

Il nostro testo, difatti, esprime all’inizio («Ora non può narrare» [O, 9]) l’impossibilità di narrare, cioè di portare avanti, di condurre una «scrittura creativa».6 Appunto per questo non c’è, ne L’olivo, «una chiara diegesi, né all’interno dei singoli capitoli, né che li colleghi fra di loro: invece, la narrazione procede seguendo una serie di immagini ‘poetiche’, largamente connesse, del passato».7 Fra queste, solo il meccanico terremotato racconta la propria storia in prima persona, come accadrà alla fine del quattordicesimo capitolo, quando il viaggiatore esprimerà il proprio disorientamento; le altre figure, chiaramente autobiografiche, di emigranti, parlano in terza persona, in quanto, «nella modernità le colpe non sono più soggettive, sono oggettive, sono della storia»: di conseguenza «l’introspezione non è necessaria».8 Consolo, allora, da una parte arricchisce i suoi exempla con citazioni autoriali (Dante, Pisacane, Ungaretti, per esempio), dall’altra dà nuovo significato all’ antitesi classica fra città e campagna. A Messina, Roma, Milano, tutte rappresentate negativamente, si contrappone la «Bellissima Toscana contadina», simbolo dei valori «del lavoro, della fatica umana» e perciò «civilissima» (O, 13). L’esplosione della raffineria di Milazzo, ricordata nel terzo capitolo, è l’esempio, invece, di come l’intervento dell’uomo, sull’ambiente, non sia stato sempre positivo. La raffineria è infatti in contrasto con «il castello, le mura saracene, sveve e aragonesi, i torrioni […] la grotta di Polifemo, […] il porto, il Borgo, le chiese, i conventi. […] la vasta piana […] ricca di agrumi, ulivi, viti, orti. Ricca di gelsomini» (O, 24) fra cui si aggirava il ragazzo, recatosi a visitare i parenti nelle Eolie (altra proiezione autobiografica, in quanto Consolo ha realmente una sorella sposata con un notaio di Lipari, come appare nel quarto capitolo), aspettando il treno che l’avrebbe riportato a casa. Narrare allora, con chiara allusione a Il Narratore di Benjamin, «significa socializzare esperienze ricordate. La narrazione […] “attinge sempre alla memoria” e la memoria […] è “madre della poesia”, che […] è […] l’espressione di verità condivisibili riguardo la nostra umana condizione».9 In altre parole, il «narratore benjaminiano […] impartisce conoscenza e cerca

  • M. LOLLINI, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», 82, 1 (Spring 2005), 24-43: 25.
  • V. CONSOLO – M. NICOLAO, Il viaggio di Odisseo, Milano, Bompiani, 1999, 21.
  • J. FRANCESE, Vincenzo Consolo, Firenze, Firenze University Press, 2015, 4.
  • Ivi, 27.
  • CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio…, 22.
  • FRANCESE, Vincenzo Consolo, 86. Lo stesso Consolo spiega il termine «narrazione» richiamandosi a Benjamin: «Dico narrazione nel senso in cui l’ha definita Walter Benjamin in Angelus Novus. Dice in sintesi, il critico, che la narrazione è antecedente al romanzo, che essa è affidata più all’oralità che alla scrittura, che è il resoconto di un’esperienza, la relazione di un viaggio. “Chi viaggia, ha molto da raccontare” dice. “E il narratore è sempre colui che viene da lontano. C’è sempre dunque, nella narrazione, una

attivamente di trasformare il presente raccontando un passato personale eppur condivisibile, passato che, per analogia, può guidare il suo pubblico verso il futuro».10 L’obiettivo è raggiunto attraverso quella che Consolo definisce «narrazione poematica», che comporta da una parte «la frantumazione del flusso diegetico attraverso l’inserzione di incisi, […] immagini», dall’altra l’uso di «exempla, eventi elevati a metafora».11 Ecco, allora, che Consolo, rifacendosi a quella che Genette chiama funzione di attestazione, menziona alcuni passi dell’ Enciclopedia Italiana Treccani, della Enciclopedia sistematica del regno vegetale, del testo Flora sicula. Dizionario trilingue illustrato, per mettere in rilievo le origini arabe del gelsomino, simbolo, così, del sincretismo culturale della Sicilia ma anche della bellezza incontaminata della pianura di Milazzo. Quella che lo storico Giuseppe Piaggia, infatti, ritiene «uno de’ più incantevoli teatri dell’intera Sicilia», in cui cresceva il gelsomino, «pascolavano gli armenti del Sole», ricordati nell’Odissea, è diventata «una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura» (O, 28). Affiora così in primo piano la funzione ideologica: come i compagni di Ulisse sono puniti per aver ucciso le vacche del Sole, così i superstiti dell’esplosione della raffineria di Milazzo si augurano che «le neri pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni dei ministri» (O, 28). Sotto questo segno si conclude, anche, il quarto capitolo («Altre tempeste, altre eruzioni, piogge di ceneri e scorrere di lave, altre incursioni di corsari investirono e distrussero le sue Eolie, le Planctai, le isole lievi e trasparenti, sospese in cielo, ferme nel ricordo» [O, 32]), grazie all’anafora, ai parallelismi, all’antitesi («sospese» – «ferme»). «lievi, […] sospese in cielo» (O, 29) sono apparse le isole anche all’inizio del capitolo, a suggerire la struttura circolare, propria di Consolo, su cui è costruito L’olivo e l’olivastro: alla fine, difatti, rivedremo il meccanico di Gibellina che ripeterà: «Sono nato a Gibellina, di anni ventitrè» (O, 9, 147). Le assonanze («lievi» – «trasparenti»; «sospese» – «ferme»), d’altra parte, sottolineano l’importanza degli aggettivi, uniti in quelle enumerazioni che formano la «ritrazione musicale» caratteristica del poema narrativo («un ibrido, un incontro di logico e di magico, di razionale-comunicativo e di lirico -poetico»12). Grazie all’ enumerazione, poi, il ricordo personale si fonde con la memoria di una civiltà, attraverso la finzione del resoconto di un viaggio, in perfetta consonanza con il narratore descritto da Benjamin («il narratore è pre-borghese, è colui che riferisce un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio»13). Gli esempi sono innumerevoli, in questo senso. Osserviamo quanto accade ad Augusta:

Il vento di Borea, sceso dalle anguste gole del Peloro, lo sospinse alla costa dei coloni venuti da Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto, tra Megara Hyblea e Thapsos, lo portò nel golfetto più in là di punta Izzo, nel témenos di smarrimento e allucinazione, d’incanto e rapimento

, dove, nella luce aurorale d’un agosto, al giovane studioso di dialetti ionici, apparve, emergendo dal mare, la creatura sublime e brutale, adolescente e millenaria, innocente e sapiente, la sirena silente [omoteleuto] che invade e possiede, trascina nelle immote dimore [assonanza], negli abissi senza tempo, senza suono (O, 33).

In altri casi le immagini del mito, inserite in metafore, combinate con altre figure retoriche (anafore, enumerazioni), servono a rafforzare la degenerazione del presente:

Corre sulla strada per Siracusa, lungo la costa bianca e porosa di calcare, ai piedi del tavolato degli Iblei, va oltre Tauro, Brùcoli, Villasmundo, va dentro l’immenso inferno di ferro e fiamme, vapori e fumi, dentro fabbriche di cementi e concimi, acidi e diossine, centrali termoelettriche e raffinerie, dentro Melilli e Priolo di cilindri e piramidi, serbatoi di

lontananza di spazio e di tempo”. E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità» (I ritorni, in Di qua dal faro, 144).

  1. Ivi, 64.
  2. Ivi, 71.
  3. CONSOLO, L’invenzione della lingua, in «MicroMega», 5 (1996), 115

nafte, oli, benzine, dentro il regno sinistro di Lestrigoni potenti, di feroci giganti che calpestano uomini, leggi, morale, corrompono e ricattano, devìa per Agosta, l’Austa sul chersoneso fra due porti, Xifonio e Megarese, nell’isola congiunta alla terra da due ponti. La città dei due Augusti, il romano e lo svevo, chiusa nel superbo castello, nei baluardi, nelle mura, circondata da scogli con forti dai nomi sonanti, Ávalos, García, Vittoria, crollati per terremoti e guerre e sempre ricostruiti, varcata la Porta Spagnola, gli appare nella luce cinerea, nella tristezza di un’Ilio espugnata e distrutta, nella consunzione dell’abbandono, nell’avvelenamento di cielo, mare, suolo (O, 34).

Attraverso un inciso («Come sempre le guerre»), poi, il narratore dà valore generale alla singola esperienza, che pone sullo stesso piano lo scempio causato dagli uomini e quello determinato dalle calamità naturali:

Contro lo sfondo di caserme mimetiche e hangar vuoti e forati da raffiche e schegge, contro lo scenario fermo di un’ultima guerra di follia e massacro, come sempre le guerre, erano le nuove macerie del terremoto d’una notte di dicembre che aveva aperto tetti, mura di case, chiese, inclinato colonne, paraste, mutilato statue, distrutte e rese fantasma le case della Borgata (O, 34).

Sono allora le città del passato, come asserito anche in Retablo, a rappresentare gli aspetti positivi, i valori smarriti al presente, con palese richiamo all’ «inversione storica»14 di Bachtin. Lo sottolineano le anafore, le enumerazioni, il poliptoto, le metafore:

Ama quella sua città, non vede quelle mura dirute, quelle chiese puntellate da travi, quelle case deserte, quel porto, quel mare oleoso invaso da petroliere, quella campagna intorno di ulivi e mandorli neri, quelle spiagge caliginose e affollate di bagnanti, quell’orizzonte, quello sky-line di tralicci, di tubi, di silos. Amano [poliptoto], lui e lo zio professore, pensionato della scuola, la città del passato, antecedente a quella dei Romani, a quella che il gran Federico munì di castello e privilegi, la remota città che conoscono in ogni pietra, in ogni vicenda, su cui insieme scrivono una notizia, una guida: amano un sogno, un mondo lontano, lontano [anadiplosi] dall’orrore presente (O, 35).

Rappresentano dunque, questi moduli espressivi, l’unica possibilità in un periodo di crisi. I rapporti «tra parola e realtà nella società contemporanea»15 sono del resto discussi nel sesto capitolo, di chiaro orientamento metaletterario, che ripropone, in apertura, la situazione già presentata in Catarsi. Anche qui, infatti, Pausania dichiara di essere «il messaggero, l’ ánghelos», a cui «è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio..» (O, 39). Ma Empedocle, analogamente che in Catarsi, definisce «ogni parola […] misera convenzione» (O, 41), per cui pronuncia «parole d’una lingua morta, / di corpo incenerito, privo delle scorie / putride dello scambio, dell’utile / come la lingua alta, irraggiungibile, / come la lingua altra, oscura, / della Pizia o la Sibilla / che dall’antro libera al vento mugghii, foglie…» (O, 44). Queste posizioni, d’altra parte, porteranno Consolo a dichiarare, in I ritorni:

Ma oggi, in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo? Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo. 16

  1. M.BACHTIN, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, 294.
  1. M.ATTANASIO, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, 26.
  1. CONSOLO, I ritorni, 145.

E ne Lo Spasimo di Palermo:

Abborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. 17

Consolo concludeva, in tal modo, un discorso iniziato precedentemente, in Fuga dall’Etna e in

Nottetempo, casa per casa. Nel primo, aveva asserito:

Il romanzo […] sta degenerando […] Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da ‘felici pochi’. 18

  • in Nottetempo, casa per casa:
  • è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? E’ possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, de grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. 19

Modello, allora, della nuova forma narrativa sono I Malavoglia, privi di «intreccio […] di romanzesco» (O, 48). I suoi moduli espressivi corrispondono a un dolore assoluto:

Un poema narrativo, un’epica popolana, un’odissea chiusa, circolare, che dà il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante, nei proverbi gravi e immutabili come sentenze giuridiche o versetti di sacre scritture, Bibbia, Talmud o Corano, dà il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo, suggerisce l’immagine della fissità: della predestinazione, della condanna, della pena senza rimedio (O, 48).

Ma, secondo Consolo, al presente la situazione è degenerata: la speculazione edilizia ha fatto sparire «le casipole, le barche, i fariglioni. […] gli scogli, la rupe del castello di Aci, il Capo Mulini, l’intero orizzonte» (O, 49), in contrapposizione a Vizzini, luogo carico di memorie verghiane. Si verifica, di conseguenza, la «fine del poema», con un «turbinìo di parole, suoni privi di senso, di memoria» (O, 49). Un esempio è l’accumulo di termini che descrivono il procedere del viaggiatore lungo la costa catanese:

Va dentro il frastuono, la ressa, l’anidride, il piombo, lo stridore, le trombe, gli insulti, la teppaglia che caracolla, s’accosta, frantuma il vetro, preme alla tempia la canna agghiacciante, scippa, strappa anelli collane bracciali, scappa ridendo nella faccia di ceffo fanciullo, scavalca, s’impenna, zigzaga fra spazi invisibili, vola rombando, dispare. Va lungo la nera scogliera, il cobalto del mare, la palma che s’alza dai muri, la buganvillea, l’agave che sboccia tra i massi, va sopra l’asfalto in cui sfociano tutti gli asfalti che ripidi scendono dalle falde in cemento del monte, da Cibali Barriera Canalicchio Novalucello, oltrepassa Ognina, la chiesa, il porto d’Ulisse, coperti da cavalcavie rondò svincoli raccordi motel palazzi – urlano ai margini venditori di pesci, di molluschi di nafta -, oltrepassa la rupe e il castello di lava a picco sul mare, giunge al luogo dello stupro, dell’oltraggio (O, 46-47).

  1. V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, 105.
  1. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, 60-61.
  1. V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992, 68-69.

Che Catania sia «pietrosa e inospitale, emblema d’ogni luogo fermo o imbarbarito» (O, 58),

  • dimostrato dalla scarsa attenzione riservata, già dai suoi stessi contemporanei, a Verga, che viene così a rappresentare l’intellettuale esule nella sua stessa città, un «inferno [….] che sempre e in continuo fu coperta dalle lave, squassata e rovinata dai tremuoti» (O, 57). Da qui la «sfida spavalda e irridente» (O, 57) degli abitanti, che rivolgono, invece, la loro attenzione a Rapisardi, «il versificatore vuoto e roboante» (O, 58). Quando, perciò, Catania organizza una cerimonia per festeggiare gli ottant’anni di Verga, costui vede ben chiare «le due facce […] di quella odiosamata sua città, di quel paese: la maschera ottusa, buffona e ruffiana della farsa e quella furba e falsa della retorica, dell’eroismo teatrale e decadente» (O, 62). E non è certamente un caso che sia Pirandello a rendersi conto dell’estraneità di Verga, che un sapiente uso dell’aggettivazione, delle figure retoriche (anafore, metafore, enumerazioni) sottolineano, costituendo un ulteriore esempio di scrittura poematica:

Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la Demente, la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che un barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente (O, 67).

.

Difatti, se, come è noto, Consolo individua una differenza fra la cultura della parte orientale dell’isola, in cui collochiamo Verga, interessata ai temi dell’esistenza, della natura, e quella della parte occidentale, di cui è rappresentante Pirandello, orientata ai problemi della storia, sono questi, adesso, ad essere considerati più urgenti. Nel decimo capitolo, perciò, il viaggiatore, giunto a Caltagirone, incontra la sua amica Maria Attanasio, un vero e proprio modello di intellettuale e scrittrice. Vive in disparte «dal mondo», in quanto, consapevole degli aspetti negativi della sua terra, «come tutti i poeti ama un altro mondo, un altro paese» (O, 71). Analogamente alla protagonista del suo romanzo Correva l’anno 1698 e in città avvenne il fatto memoriabile, Maria, allora, «s’era mascherata da uomo, da poliziotto, per combattere l‘incuria, ildisordine amministrativo, il sopruso mafioso» (O, 75), che si riflettono nella conformazione della città, in linea con la grande importanza che Consolo attribuisce, sempre, alla geografia, agli spazi. «Al di qua del paese saraceno, giudeo, genovese e spagnolo, […] è sulla piana un altro paese speculare di cemento: quartieri e quartieri uniformi di case nuove e vuote, deserte. […] mostruosità nate dalla cultura di massa, […]» (O, 70). La condanna di questa, che ha provocato la perdita della memoria, della storia, testimoniate dalle ceramiche delle facciate di edifici pubblici e privati – a rivelare il carattere visivo-figurativo20 della scrittura consoliana, è senz’appello, grazie, sempre, alle figure retoriche utilizzate:

  • Infatti, «[…] la historia de la escritura de Vincenzo Consolo puede reconstruire idealmente a partir de una percepción cromática desarrollada en una página inédita, […] El narrador incipiente […] estaría ofreciendo ya una de las claves de construcción – y de lectura – de su obra futura: “Pensate a un quadro”» (M.Á. CUEVAS, Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10 (2005), 63-77: 64). Lo stesso Consolo, del resto, dichiara in un’intervista: «Sempre ho avvertito l’esigenza di equilibrare la seduzione […] della parola con la visualità, con la visione di una concretezza visiva» (D. O’CONNELL, Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo, in «The Italianist», 24: II, 2004, 251)-

Sembra così, questo piccolo paese nel cuore della Sicilia, il plastico, l’emblema del più grande paese, della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinqant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l‘Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze (O, 71).

I danni della cultura di massa, verso cui Consolo è sempre molto critico,21 sono chiari a Gela, dove un ragazzo, «nutrito» di una «demente cultura», di «libri di vuote chiacchiere», «della furbastra e volgare letteratura sulla degradazione e la marginalità sociale», come appare nei «serials televisivi, […] Piovra 1, Piovra 2, Piovra 3…», dimenticando «ogni cognizione del giusto e dell’ingiusto, della pietà e della ferocia, ogni fraterno affetto» (O, 80-81), ha ucciso il fratello per futili motivi. Il verbo ‘nutrire’, ripetuto in anafora, è ovviamente usato in funzione antifrastica, in quanto è evidente che la cultura ha perso ogni aspetto formativo e solo la scrittura poematica può alludere a tale degenerazione («Dire di Gela nel modo più vero e forte, dire di questo estremo disumano, quest’olivastro, questo frutto amaro, questo feto osceno del potere e del progresso, dire del suo male infinite volte detto, dirlo fuor di racconto, di metafora, è impresa ardua o vana» [O, 77]). Riprendendo infatti quanto asserito in Memorie («in questo ibrido letterario che è il racconto», la «parte logica [ …] può invadere per altissima febbre civile tutta la colonnina, […] con […] rischi mortali per il corpo letterario del racconto»,22 Consolo adesso dichiara: «Ma oltre Gela o Milazzo, Augusta o Catania, è in questo tempo per chi scrive un mortale rischio tradire il campo, uscire dal racconto, negare la finzione e il miele letterario, riferire d’una realtà vera, d’un ritorno amaro, d’un viaggio nel disastro [O, 77]). L’intellettuale, difatti, al presente non è ascoltato. Consolo, di conseguenza, svela le cause del malessere di Gela attraverso una prosa che adotta, ancora una volta, l’andamento ritmico della poesia (grazie all’anafora, all’enumerazione, alla metafora, all’allitterazione) e in cui convivono termini aulici («obliato»), anche di memoria montaliana («cocci», «muraglia»), con altri più comuni:

Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d’ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi. Nacque la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme pitosfori e buganvillee dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell’edilizia selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e all’immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d’oli, dai frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasìa, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo (O, 78-79).

  • In un’intervista del 2007, Consolo osserva che con la mutazione antropologica «teorizzata da Pasolini. Il nostro Paese si modernizzava velocemente, subendo però i modelli importati dall’esterno. Da qui un asservimento culturale, linguistico negli usi, nei costumi e nei consumi. […] Da qui la perdita di ogni forza espressiva e di ogni verità storica» («Consolo ‘Le ombre della nostra cultura’». Intervista. laRepubblica.it,
  • novembre 2007, 1). Tre anni prima, del resto, ha ricordato con piacere come «il poeta ed etnologo Antonino Uccello, […] nel momento della grande mutazione antropologica, vale a dire della fine della civiltà contadina», sia riuscito a raccogliere «antichi canti popolari» (Consolo, Pino Veneziano e la canzone popolare, Milano 19 luglio 2004, pinoveneziano.altervista.org/consolo_e_fo.html). Critiche alla televisione sono anche contenute in La pallottola in testa (La mia isola è Las Vegas, 157-162).
  • CONSOLO, Memorie…, 136.


Ed è proprio l’importanza attribuita alla storia e alla memoria a tenere lontano Consolo dal postmodernismo, come ha puntualizzato Norma Bouchard.23 Consolo immagina allora che dalle rovine del tempio di Atena, che quindi si pongono come depositarie e custodi di autentici valori, si elevino alcuni versi dell’Agamennone di Eschilo («Quale erba cresciuta / nel veleno, quale acqua

  • sgorgata dal fondo del mare / hai ingoiato...» [O, 81]). Analogamente, le citazioni che,nell’undicesimo capitolo, descrivono Siracusa24 non possono essere ricondotte al gioco citazionistico del postmodernismo, ma mettono in evidenza come questa città, «d’antica gloria», rappresenti «la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto» (O, 84). Siracusa, descritta con la consueta tecnica dell’accumulo («Molteplice città, di cinque nomi, d’antico fasto, di potenza, d’ineguagliabile bellezza, di re sapienti e di tiranni ciechi, di lunghe paci e rovinose guerre [chiasmo], di barbarici assalti e di saccheggi» [O, 83]), oppone, alla decadenza del presente, i valori della storia e della poesia, in quanto costituisce la «patria d’ognuno […] che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura» (O, 84). Appunto per questo Consolo ricorda il soggiorno a Siracusa di importanti personaggi (Maupassant, Von Platen), i quali, spinti «a viaggiare per quel Sud mediterraneo che, nell’abbaglio, nella mitologia poetica, aveva ereditato dalla Grecia la Bellezza», vi trovano una città «dell’infinito tramonto e dell’abbandono» (O, 102). È proprio il verbo ‘trovare’, ripetuto in anafora, ad attestare lo scarto tra le aspettative di Von Platen, che cerca «come consolazione al suo male, rimedio al suo scontento, solo bellezza ed armonia greca» (O, 103), e la realtà:

Trova vento e tempesta quell’inizio d’inverno a Siracusa, la tramontana che sferza il mare del porto Grande, piega i ficus della passeggiata Adorno, i papiri del Ciane, illividisce la facciata barocca del Duomo d’Atena e di Santa Lucia, le colonne dei templi, le pareti delle latomie. Trova solitudine e disperazione, consunto dalla febbre, dal vomito, dalla dissenteria, trova la morte nella povera locanda Aretusa di via Amalfitania (O, 103).

Due secoli prima, del resto, pure Caravaggio ha giudicato Siracusa un «ammasso di macerie», un «fosso di miseria e d’abbandono» (O, 90). La pochezza intellettuale della città è dimostrata dal discorso del vescovo di fronte al quadro di Santa Lucia commissionato a Caravaggio, discorso perfettamente in linea con l’idea consoliana del racconto come genere «ibrido»,25 in cui le enumerazioni si combinano con le anafore («non possiamo», «nostro-nostra»), con l’anadiplosi («perdoni, perdoni»):

  • La Santa nostra Lucia ci perdoni, perdoni la nostra stoltezza e il nostro inganno. Noi non possiamo ora celebrare, avanti a questo scempio, a quei brutali ignudi incombenti sull’altare, al cadavere reale della donna, a una santa priva di nimbo, a quello squarcio sanguinoso sul suo collo, ai fedeli impiccioliti, al vescovo nascosto…, non possiamo celebrare il santo sacrificio della Messa, non possiamo benedire questo quadro. L’artista capisca e si studi d’aggiustare… (O, 94-95).

La reazione di Caravaggio, che sembra ricordare Fabrizio Clerici di Retablo per il suo legame con il paggio Martino e per aver visto una «turba d’infelici, accattoni e infermi»26 (O, 91) nelle strade della città, è di uscire «nella piazza vasta, nella luce del mattino» (O, 95): vastità di spazi e

  • «It is important to point out that even though Consolo’s novels exhibit many of the rhetorical devices that we have come to associate with postmodern writing practices, they also remain fundamentally distinct from dominant, majoritarian forms of postmodernism» (N. BOUCHARD, Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy, «Italica», 82, 1 [Spring 2005, 5-23: 10-11]).
  • «’I’ son Lucia; / lasciatemi pigliar costui che dorme; / sì l’agevolerò per la sua via’» (Purgatorio, XI, 55-57), (O,

83); «Calava a Siracusa senza luna / La notte e l’acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina, / Un cordaro si mosse dal remoto (G. UNGARETTI, Ultimi cori per la terra promessa, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. PICCIONI, Milano, Mondadori, 1982, 281), (O, 84).

  • CONSOLO, Memorie…, 136.
  • Clerici incontra, per le strade di Palermo, «una folla d’accattoni, finti storpi o affetti da morbi repugnanti» (CONSOLO, Retablo, Milano, Mondadori, 2000, 11).

luce, in sostanza, in contrapposizione alle tenebre dell’ignoranza.27 Ma, al presente, la degenerazione è tale che gli spazi, i luoghi non riescono più ad influire sul modo di pensare. Se, perciò, ad Avola, «La vasta piazza quadrata, il centro del quadrato inscritto nell’esagono, lo spazio in cui sfociano le strade del mare, dei monti, di Siracusa, di Pachino, fu sempre il teatro d’ogni incontro, convegno, assemblea, dibattito civile, la scena dove si proclamò il progetto, si liberò il lamento, l’invettiva» (O, 110), adesso essa è «vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra» (O, 112). Responsabile è l’omologazione, l’avvento della cultura di massa: tanti giovani, «con l’orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca, che fumano, muti e vacui fissano la vacuità della piazza come in attesa di qualcuno, di qualcosa che li scuota, che li salvi. O li uccida» (O, 112). Tutte le costruzioni umane, dunque, anche quelle che insistono nello spazio, testimoniano la crisi: il viaggiatore che giunge a Siracusa, di conseguenza, ritiene giusto che le lacrime della Vergine, «nel presente oscuro e allarmante, si siano unite, solidificate nel cemento di una immensa lacrima» [il santuario della Medonna delle Lacrime] (O, 100). L’impressione negativa causata dal degrado, dall’incuria in cui versano gli edifici di Noto è rafforzata, ancora una volta, dalle enumerazioni, dall’accurata scelta di aggettivi, sostantivi, verbi:

Il suo tufo dorato si è corroso, sfaldato, le sue architetture di stupore si sono incrinate, i fregi son crollati per vecchiezza, inquinamento, incuria, per le infinite, ricorrenti scosse del suolo. […] chiese e palazzi e conventi pericolanti, imbracati, puntellati da fitti tubi di ferro, da tavole e travi, invasi nelle fenditure, nelle crepe, nei làstrici, nelle logge evacuate, da cespugli di rovi, da edere, fichi selvatici. […] un liceo, un vasto edificio sulla via principale puntellato da travi. Dentro era tutto disfatto, corroso, divorato dal cancro, invaso dalle erbe, sepolto dalla polvere del tufo (O, 116-117).

I luoghi, però, mettendo in modo il meccanismo della memoria, consentono di tramandare dei principi che dovrebbero far riflettere. Il viaggiatore, infatti, ricordando, davanti al mare, un viaggio compiuto in Africa, fino ad Utica, dove il ricordo dei versi di Dante fa sentire ancora vivo l’esempio di Catone, come altri «luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, […] Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora, e Argo, Thuburbo Majus, Cirene, Leptis Magna, Tipaza… […] Algeri, dove don Miguel scriveva l’ottava […] per il poeta Antonio Veneziano», sente di odiare «la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione» (O, 105). Quest’immagine è amplificata dapprima attraverso l’anafora, l’enumerazione, il richiamo al sacrificio di Ifigenia, poi con la citazione di un passo del Lamento della città caduta di Ducas, presente pure, come epigrafe,28 in Retablo. Questo esempio di memoria interna, insieme ai riferimenti a Lunaria,29 a Lo Spasimo di Palermo, a Il sorriso dell’ignoto marinaio, a Le pietre di Pantalica attesta i profondi legami esistenti fra le varie opere di Consolo, la loro sostanziale unitarietà oltre che una riflessione sull’ autoreferenzialità della letteratura. A questa, in sostanza, spetta mantenere in vita un patrimonio di idee destinato, altrimenti, a tramontare. Il viaggiatore nota, difatti, non solo che la vecchia madre ha dimenticato tutto il «carico di pene, di ricordi» (O,

  1. della sua esistenza, ma pure che la casa dove era cresciuto con la sua famiglia è stata abbattuta per far posto a un nuovo quartiere. Nato in un paese «ai piedi dei Nèbrodi» (O, 122), egli, dietro cui è ormai facile scorgere lo stesso Consolo, decide di viaggiare, di andare «verso occidente, verso i luoghi della storia» (O, 123), che attestano il sincretismo culturale sempre
  • Cfr., sul motivo della luce nei testi di Consolo, P. CAPPONI, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, 49-61.
  • L’importanza, la funzione delle epigrafi sono chiarite da Consolo in Le epigrafi, (Di qua dal faro,198-202).
  • A Noto, il viaggiatore ricorda di avere assistito, «anni prima alla rappresentazione di un’operetta barocca, una favola in cui si narrava d’un viceré malinconico e d’una luna che si sfalda e che cade. / Ma la Luna, la Luna la Luna / la maculata Luna è dissonanza, / è creatura atonica, scorata, / caduta dalla traccia del suo cerchio, / vagante negli spazi desolanti» (O, 117). Questi versi sono, appunto, in Lunaria (Torino, Einaudi, 1985,52).

molto caro al nostro autore. Egli si innamora, infatti, di Cefalù, in cui le radici arabe e normanne sono perfettamente fuse, «siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca»30 (O, 124). A Cefalù trova il ritratto dell’Ignoto, «che un barone, un erudito, amante d’arte, aveva trovato nelle Eolie e insieme poi ad una sua raccolta aveva lasciato in dono al suo paese» (O, 124). Il percorso compiuto dal quadro, «dal mare verso la terra», descritto in apertura de Il sorriso dell’Ignoto marinaio, sembra perciò coincidere con quello del viaggiatore, cioè «dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura» (O, 124), alla grande storia di Palermo. Ma la crisi, il decadimento è tale che il quadro di Antonello non può più costituire un punto di riferimento: esso è diventato, semmai, “Le pitture nere” di Goya. Arrivato a Palermo, allora, il viaggiatore decide di non fermarsi. Se, al solito, le enumerazioni marcano questa raffigurazione negativa, riprendendo quanto affermato ne Le pietre di Pantalica31 («Non volle fermarsi in quel luogo dell’agguato, del crepitio dei kalashnikov e del fragore del tritolo, delle membra proiettate contro alberi e facciate, delle strade di crateri e di sangue, dell’intrigo e del ricatto, delle massonerie e delle cosche, in quel luogo dell’Opus Dei, degli eterni Gesuiti del potere e dei politici di retorica e spettacolo, della plebe più cieca e feroce, della borghesia più avida e ipocrita, della nobiltà più decaduta e dissennnata»), un’interrogativa rileva come, ormai, il disfacimento sia generale («Ma è Palermo o è Milano, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Firenze?» [O, 125]). Nemmeno i luoghi delle antiche civiltà, allora, possono dirsi custodi di antichi, autentici valori: Segesta è «dissacrata» dagli incendi dolosi, dalle «comitive chiassose» (O, 126), così come lo è il teatro greco di Siracusa, ne Le pietre di Pantalica. Analogamente, Trapani, «città d’un tempo degli scambi, del porto affollato di velieri, della rotta per Tunisi e Algeri, della civiltà dei commerci, di banchi, di mercati, di ràbati e giudecche, di botteghe», è adesso «caduta nel dominio delle logge, delle cosche mafiose più segrete e più feroci» (O, 129). Dimostra questi concetti, sottolineati da assonanze (banchi-mercati- ràbati; giudecche -botteghe) ed allitterazioni, l’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, tanto più grave in quanto il giudice «crea una verità, quella giuridica, definitiva e incontrovertibile, di fronte alla quale la verità storica non ha più valore» (O, 132). E a testimoniare lo stravolgimento di valori e principi, il viaggiatore vede, in una stanza del museo, di un luogo, cioè, che di per sé custodisce le memorie del passato, una ghigliottina, rimasta in funzione fino agli anni successivi all’unificazione italiana. Gli appare quale «rappresentazione della giustizia assurta a crudele astrazione, a geometrica follia, a demente iterazione rituale, a terrifica recitazione» (O, 130): ciò significa attribuire una motivazione storica alla contemporanea degenerazione della Sicilia. Consolo, del resto, si mostra attento ai fatti di Bronte,32 alle rivolte di Cefalù, di Alcàra Li Fusi. Solo dalla letteratura, dunque, potrebbe giungere una salvezza, come sarà evidenziato ne Lo Spasimo di Palermo. Perciò, se scrittori come Hugo, Camus guardano con «raccapriccio» (O, 130) allaghigliottina, Consolo immagina che, ad Erice, mentre gli scienziati «Parlano e parlano, enunciano teorie, scoperte, espongono programmi, [… ] contrastano come gli antichi cerusici al capezzale del malato» (O, 134), il suo amico Nino De Vita scriva «poemi in vernacolo alto, in una pura, classica lingua simile all’arabo, al greco, all’ebraico» (O, 135), poemi, quindi, che scavano in verticale nella storia della Sicilia, «barbarica» (O, 141) al presente. Infatti, mentre Michele Amari ricorda che l’arrivo degli Arabi «diede risveglio, ricchezza, cultura, fantasia» (O,

  1. alla Sicilia, Mazara, in seguito agli aiuti economici ricevuti dal Governo negli anni Sessanta del Novecento, ha fatto registrare tantissimi casi di razzismo contro Arabi e Neri. I fatti di cronaca si mescolano così alle memorie del passato, personali e collettive, dando vita ad un
  • Il particolare significato che Consolo attribuisce a Cefalù è spiegato ne La corona e le armi (La mia isola è Las Vegas, 98-102).
  • Qui Consolo ha scritto: «Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta» (Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1995, 132).
  • Cfr. E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte, in La mia isola è Las Vegas, 103-110.

testo che si pone «fuori da ogni vincolo di genere letterario».33 Alla letteratura, però, continua a guardare Consolo. Sono infatti «i racconti scritti di Tomasi di Lampedusa e quelli orali di Lucio Piccolo di Calanovella» a guidare il viaggiatore nell’ultima tappa del suo viaggio, un vero e proprio «itinerario di conoscenza e amore, lungo sentieri di storia» (O, 143). Ancora, tra le macerie di Gibellina, vede Carlo Levi, sente «le sue parole di speranza rivolte ai contadini intorno» (O, 144), vede Ignazio Buttitta, Leonardo Sciascia, tutti scrittori che concepiscono la loro attività in funzione civile. 34 Non sempre, però, i nuovi tempi lo consentono. Già Consolo si

  • chiesto: «Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assassino? Cos’è successo a te che stai leggendo?» (O, 81). Sotto il segno di una finzione, che è mezzo per affermare la funzione civile della letteratura, si conclude, allora, il nostro testo. Consolo immagina che, «sopra il colle che fu di Gibellina» (O, 148), si rappresenti la tragedia di Masada nell’interpretazione di Giuseppe Flavio, a suggellare la volontà di difendere i valori autentici del consorzio civile dall’attacco omologante della società di massa, del degrado portato avanti da un falso sviluppo tecnologico, incarnato dai romani «con tute di pelle, […] caschi, […] motociclette» (O, 149):
  • Da gran tempo avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del dio… In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna… Siamo stati i primi a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo sia una grazia concessa dal dio questa di poter morire con onore e in libertà… Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù… (O, 148).

«Narra una voce» (O, 148): solo così, cioè, salvaguardando la propria humanitas, gli uomini possono creare letteratura, la cui funzione propria è ‘politica’. Consolo lo dichiara esplicitamente:

Ma: cos’è la letteratura, la narrativa soprattutto, con la sua scrittura in prosa più o meno di comunicazione, immediatamente o mediatamente, se non politica? Politica nel senso che nasce, essa letteratura, da un contesto storico e sociale e ad esso si rivolge? E si rivolge, naturalmente, con linguaggio suo proprio, col linguaggio letterario (leggeremmo, se no, trattati di storia, perorazioni politiche, relazioni giornalistiche …). Linguaggio che fa sì che il fatto narrato sia quello storico, sia quello politico, ma insieme sia altro oltre la significazione storica; altro nel senso della generale ed eterna condizione umana. Linguaggio che muovendo dalla comunicazione verso l’espressione attinge quindi alla poesia. 35

  • G. FERRONI, Il calore della protesta, in «Nuove Effemeridi», VIII, 29 (1995/I), 174.
  • Si evince dalle pagine che Consolo dedica a questi scrittori negli articoli riuniti in Di qua dal faro e ne Le pietre di Pantalica.
  • CONSOLO, Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, 229.

Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola



 La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
 59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola  Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.

Il tema dell’ingiustizia come violazione del tabù L’esigenza dell’impegno

„Scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici [quali crede] dovrebbero essere gli scrittori, liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici”. Con queste parole Salvatore Mazzarella definisce l’atteggiamento ideologico di Consolo1 . Parlare dell’ingiustizia, della sofferenza e dell’umiltà nella cultura occidentale significa addentrarsi in una zona pericolosa. Di solito questi argomenti vengono sviluppati in un discorso dedicato alle radici cristiane della nostra civiltà e quando si espone la nozione di sofferenza in una dimensione universale. Il divieto, l’esteticità, l’inopportunità e la convenzione — tutti i concetti indicati appaiono quando si parla del tabù. Esso diventa una sempre più diffusa zona che interessa l’esperienza morale al pari di quella concettuale e da cui l’uomo di cultura si sente attratto e nello stesso tempo deluso. I critici e i lettori sono convinti che lo scrittore sia caratterizzato da “una profonda tensione etica che lo avvicina ai grandi moralisti del passato, tesi ed attenti al compito di descrivere l’uomo nella sua mutevole, e pure,
1  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 65. 38
eterna storia”2 .
E non basta dire che lo scrittore è propenso a fare del suo stile “un mezzo di intervento e di rivolta, ma anche di proposta umanistica” 3 . Per tale ragione, l’esortazione a non fargli mancare “l’impegno per la giustizia e il risalto netto della voce dei deboli” diventa l’elemento fermo della sua narrativa 4 . Nati spesso dalla suggestione delle letture, degli incontri e delle polemiche dell’attualità, i dilemmi che muovono la riflessione del narratore siciliano relativo alla distinzione tra lo scrivere e il narrare si avvicinano nella loro forma e contenuto all’esercizio scrittorio “capace di incidere sul reale in senso conoscitivo e trasformativo”5 , ideati nei turbini della realtà estranea e vergati su molteplici esperienze, fino a costruire una congerie omogenea e ordinata di sequenze. Dice Consolo: Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità6 . Considerando la genesi della scrittura consoliana, è necessario sottolineare lo stretto legame che intercorre fra la complessità delle cose e le vibrazioni affettive e razionali che costituiscono il tratto distintivo della sua scelta di scrittura.
2  F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 28. 3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 30. 5  F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 6. 6  V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli Editore, 1993, pp. 51—53. (Dalla nota dell’editore: l’intervista a Vincenzo Consolo raccolta in questo volume è stata effettuata il 25 giugno del 1993 a Roma. L’incontro era stato organizzato dall’Imes (Istituto meridionale di storia e scienza sociali), nall’ambito di una iniziativa intitolata “Percorsi di ricerca”, tesa a indagare l’interazione tra la vicenda umana e l’itinerario intellettuale di alcune figure particolarmente significative della cultura del nostro tempo).
L’esigenza dell’impegno.  A ben vedere i tratti che segnano le opere consoliane sono caratterizzati da una propria articolazione della realtà attraverso una comunicazione più immediata e da una responsabilità etica e civile: la presenza di ciò che ha contraddistinto la maggior parte della sua esistenza. Non sarà un caso che all’interno dell’opera il pensiero sul ruolo della produzione letteraria si presenti con frequenza: accompagnato dal senso di una necessità naturale e spesso corretto da una speranza nella capacità della scrittura di mettere ordine e di “portare armonia là dove c’è caos e quindi impossibilità di comunicare”7 . Si pensi alla confessione dello scrittore stesso: “La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo”8 . Le allusioni a David e a Don Chisciotte mettono in rilievo la consapevolezza che la riflessione e la scrittura, e soprattutto una scrittura eticamente e politicamente impegnata, sono una missione. All’atteggiamento di una tale consapevolezza sono dedicate tutte le narrazioni consoliane. Secondo Vincenzo Consolo la narrativa dovrebbe esprimere una responsabilità civile e prendere posizione davanti agli avvenimenti. L’accostamento della scrittura e della responsabilità testimonia la sua personale forma di opposizione o di impulso verso qualcosa di migliore. Quello che conta nelle opere consoliane sono la verosimiglianza dell’osservazione morale, la consapevolezza ritradotta in disincanto e in frustrazione delle speranze, la ribellione, e infine, l’indagine. È possibile comprendere più a fondo le scelte espressive di Consolo confrontando il presente frammento: […] lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare. Narrare oggettivamente in terza persona dei mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di rimorso, pri
7  L. Canali: Che schiaffo la furia civile di Consolo. “L’Unità” 1998, il 7 ottobre, pp. 1, 19. 8  V. Consolo: Fuga dall’Etna…, p. 70. 40
vi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati, felicemente conviviamo 9 . Per accrescere la forza espressiva della riflessione, Consolo aggiunge al generico e spoglio verbo “narrare” l’avverbio: “oggettivamente” che non solo mostra la direzione dell’accurato lavoro di chi scrive ma rivela la stretta connessione fra il messaggio e la responsabilità dell’esistenza altrui. La preoccupazione dell’avvenire, che interessa scarsamente l’uomo mentre gode dei piaceri mondani, è infatti sollecitata dall’acre percezione del dolore subito nel passato. Il frammento sopraccitato indica il coinvolgimento degli intellettuali nell’ordine etico, determinando gli accessibili modelli della presentazione. Molte volte viene sottolineato il fatto che quello che sconcerta il lettore è che non vi è stata giustizia in passato e non vi è nemmeno nel presente. Fortunatamente esiste ancora chi non si arrende. Il protagonista del capolavoro consoliano Il sorriso dell’ignoto marinaio, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca dichiara la crisi irreversibile del suo ruolo di intellettuale organico alla classe dominante: la consapevolezza di una “Storia come scrittura continua di privilegiati” (SIM, 112), di un’impossibilità delle classi subalterne a far sentire la loro voce e il loro giudizio, si salda alla consapevolezza dei “vizi” e delle “storture” che gravano sui pensieri e sulle parole degli stessi aristocratici e borghesi “cosiddetti illuminati”, dell’oggettiva incapacità dei loro “codici” a “interpretare” i problemi delle masse oppresse10. Dunque l’attaccamento all’esperienza della giustizia deve affrontare continuamente il pensiero della frustrazione e con la temibile insidia della debolezza. Se il pensiero della sconfitta può essere solo attenuato dal grido e dal pianto, sempre pronto a svelare gli indegni comportamenti umani, il rimedio all’impotenza va cercato altrove. Si legga l’ampio pensiero di Giuseppe Amoroso: Nella prosa di Vincenzo Consolo, quello che appare e percuote e grida e geme è una presenza vera di lacrime e certezze e anche
9 Ibidem, p. 22. 10 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia. “Rinascita” 1976, il 23 luglio. L’esigenza dell’impegno 41 un assiduo riprendere, del tempo, ciò che si è smarrito, non del tutto, non per sempre, portandosi dentro anche i gloriosi cascami della storia […], questa prosa mostra una solennità intangibile, pure dove si china sulle frange, sui refoli, sui margini, in cerca di colori e oggetti e riti di una volta11. Dopo aver constatato che l’espressività di questa prosa è dovuta all’argomento analizzato, Amoroso prosegue con la descrizione della scrittura consoliana marcata da una funzione inconfondibile. Il vuoto e l’insoddisfazione dovuti all’avanzare dell’ingiustizia si placano nella convinzione che “la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare i mostri creati dai potenti. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità”12. Tramite l’analisi presentata il critico vuole decisamente sottolineare l’atteggiamento spirituale piuttosto romantico dello scrittore e l’espressione dei pensieri come studiata e ripensata. Nell’insieme, la produzione consoliana, secondo Amoroso, ha una sua solida struttura, e fa presagire le future ampiezze di respiro lirico. I cinque romanzi sottoposti alla presente analisi sono stati scritti nell’arco di oltre trent’anni. La circostanza, ad avvalorare l’immagine di instancabile ribelle che Consolo ha lasciato di sé, non manca di presentare traccia nella varietà degli argomenti, e dei punti di vista che sono diventati i motivi costanti nella sua scrittura. Spesso si ha l’impressione che l’omogeneità della sua prosa risponda a un’intima esigenza di impegno etico, civile, ideologico e sperimentale. Queste considerazioni, se non illustrano organicamente la poetica della sua prosa, meritano di essere tenute in conto per comprendere, se non altro, i tempi adombrati dai fantasmi delle oppressioni descritte dallo scrittore siciliano. Con Nottetempo, casa per casa in Consolo subentra una rimeditazione, una sosta pensosa sui fatti, sui luoghi, la denuncia. Il testo si basa sulla deliberata ricerca del clima apocalittico, preannunciato dal titolo, e sul resoconto mai banale della pena più antica del tempo, della storia, dell’esistere. Come con
11 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia editore, 2000, pp. 464—467. 12 V. Consolo: Fuga dall’Etna…, pp. 51—53. 42
stata Antonio Grillo, abbiamo la forte affermazione della necessità di un impegno da parte degli scrittori13. E Consolo, parlando delle questioni di moralità, vuole sensibilizzare la percezione dei lettori. Silvio Perella, accortosi di tale valenza etica, aggiunge: “il fatto è che, giustamente, l’aspetto etico della sua letteratura sta molto a cuore a Consolo”14. Sa bene lo scrittore che la forza e l’incisività del suo messaggio stanno nell’immediatezza del comunicato espressa dalle narrazioni nei suoi frammenti più drammatici. Il che costituisce, se non una prova del rivolgere la sua attenzione alle sorti degli emarginati, certo una riflessione eloquente sul bisogno di narrare, di raccontare le vecchie e le nuove pene. E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento. N, 53
La caratteristica principale di quest’articolazione non è la spontaneità peculiare piuttosto dei romantici, ma lo sforzo di trovare le parole più adatte. Grazie al potere di nominare i fenomeni, precedentemente impossibili da esprimere, acquistano l’esistenza, e in conseguenza la propria identità. La forma lirica invece assume una responsabilità che rende possibile l’esistenza di un soggetto e la cognizione di esso. L’anticlimax: “catrame — lava — ossidiana — polvere — cenere — nulla” sottolinea la vanità dello sforzo artistico nei confronti della prepotenza e del dolore che ostacolano il processo creativo. Vengono qui evidenziati, quindi, un appassionato attacco
13 Cfr. A. Grillo: Appunti su Odisseo e il suo viaggio nella cultura siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo e a Cattafi. In: Ulisse nel tempo. La metafora infinita. A cura di S. Nicosia. Venezia, Marsilio, 2000, pp. 593—597. 14 S. Perella: Tra etica e barocco. “L’Indice” 1992, maggio.
all’ingiustizia che assume valore universale, la contradditoria asistematicità di un ricerca esistenziale che non esita a dar voce anche alle pulsioni inconsce e persino alle più inconfessabili, confermata nell’elenco degli espedienti retorici che precedono direttamente l’espressione finale dell’impotenza di “raccontare la vita, il patimento”. Si potrebbe dire che la scrittura si ponga piuttosto come terreno di conflitto che come luogo della sua soluzione. L’esigenza di messaggio è indubitabile15. La caustica riflessione dello scrittore sigla l’amara ricognizione sulle cause della caduta delle forti e generose illusioni riguardanti le facoltà comunicative. Infatti, in una delle sue interviste Consolo dichiara: È necessario scrivere in una forma non più dialogante e comunicativa, ma spostarsi sempre più verso la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo. Per questo la mia prosa è organizzata in senso ritmico, come se fossero dei versi16. Nottetempo, casa per casa è, in confronto al Sorriso dell’ignoto marinaio, più compatto, più chiuso in una sua forma ritmica, densa di significati e piuttosto ermetica. E continua: Ho voluto scrivere una tragedia — niente è più tragico della follia — con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione della scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
17 15 Cfr. L. Canali: Che schiaffo…, pp. 1, 19. 16 Intervista con Vincenzo Consolo. A cura di D. Marraffa e R. Corpaci. “Italialibri” 2001, www.italialibri.it (data di consultazione: il 28 dicembre 2006). 17 Ibidem.
Infatti, lo spunto questa volta è tragico; ma quell’antica ispirazione malinconica diventa antitetica, forse per reminiscenze classiche di simile allegoria a sfondo politico. E specialmente nella sua espressione contiene l’eco della giovinezza povera, triste, ma fiera e disperatamente fiduciosa. Sullo sfondo, per di più, è impossibile non intravedere la forza di questo progetto. La presa di posizione dello scrittore a favore della poesia potrebbe essere interpretata come un attacco a un preciso bersaglio critico. Se la scienza fornisce un’immagine del mondo in cui non c’è posto per le antiche credenze metafisiche, gli strumenti proposti attualmente si rivelano inutili, se non addirittura fuorvianti. L’obbligo di dare ragione Nati sul filo della conversazione del passato con il presente, i romanzi consoliani sono intessuti di quella curiosità intellettuale che si pone l’obiettivo di raccontare la realtà. Le narrazioni dello scrittore concorrono ad elaborare il comune problema delle vicende dell’uomo di cultura nel quadro della società odierna. Un compito arduo, tanto che molti scrittori di oggi assistono alla progressiva riduzione del proprio spazio in una società che vive accanto, al di fuori delle loro possibilità. Sembra concentrarsi all’efficacia di testimonianza e di verifica e alla partecipazione dell’individuo all’esistenza comunitaria. Secondo Grazia Cherchi “il narratore intellettuale del nostro tempo non ha altro scampo che la parodia”18, e l’autore è d’accordo con lei: lo scrivere in negativo, usare tutti gli abrasivi e corrosivi: l’ironia, il sarcasmo testimoniano il valore delle opere19. Consolo stesso ammette:
18 G. Cherchi: Mille e una notte. “L’Unità” 1987, il 11 novembre. 19
Come verrà verificato nelle analisi successive, Vincenzo Consolo valorizza la prospettiva intertestuale e la parodia come forma specifica di un dialogo tra i testi che è diventata una delle sue tecniche preferite a cui ricorre. Lo scrittore nella maggior parte dei casi realizza questo ‘dialogo’ intertestuale riprendendo la voce altrui e reinterpretandola antiteticamente rispetto al testo di origine.
Cfr. M. Billi: Dialogo testuale e dialettica culturale. La parodia nel romanzo
Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori della finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi j’accuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani. Nel mio pendolarismo tra la Sicilia e Milano c’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria 20. Questa coscienza estetica e letteraria nell’ambito della quale l’autore cerca di delineare la funzione e il significato delle componenti della cosiddetta “poetica negativa”21 si inscrive nella specificità della letteratura moderna. I protagonisti dei romanzi consoliani rappresentano un catalogo di atteggiamenti diversi orientati verso la lotta contro l’ingiustizia: l’angustia di Gioacchino Martinez ha accanimenti feroci: trovare un senso, placare un malessere, imboccare una “cerchia confidente”22, invece la presa di coscienza del Mandralisca, in realtà, manifesta la sua interna fecondità e incidenza a un livello diverso e anche più profondo 23. Prende così corpo una vicenda romanzesca non organicamente distesa ma articolata in alcuni episodi emblematici, funzionali del protagonista: un aristocratico di provincia, sincero ma cauto patriota, innamorato dell’arte e dell’archeologia, dedito soprattutto agli studi di erudizione scientifica. Proprio a costui accade di trovarsi spettatore degli eccidi di Alcara Li Fusi; ed è appunto la sua vocazione umanistica a consentirgli di capire la giustizia profonda contemporaneo di lingua inglese. In:
Dialettiche della parodia. A cura di M. Bonafin. Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 213. 20 V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversità. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven — Louvain-la-Neuve — Namur — Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583—586. 21 R. Nycz: Literatura jako trop rzeczywistości. Kraków, Universitas, 2001, p. 17. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea…, pp. 464—467. 23 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia…
che anima la rivolta contro una legge di oppressione 24. Degna di nota è, senza dubbio, l’attenzione alla dimensione simbolica dei contenuti narrativi riguardanti gli atteggiamenti dei protagonisti, aspetto che lo scrittore non trascura, data la sua conoscenza delle questioni letterarie non solo dell’età antica ma anche della moderna. Ma Consolo collega l’aspetto simbolico e reale del problema nella convinzione che la letteratura dovrebbe conoscere il mondo e dare ragione e nome ai disastri dei nostri tempi. E secondo Giulio Ferroni dovremmo essergli grati “di questi lumi che vengono a rischiarare il nostro tempo cupo e notturno, la nostra notte fantasmagorica e telematica”25. Anche nello studio del passato la curiosità ha un peso considerevole, tanto da costruire un originale canone. Secondo Andrea Zanzotto la narrazione in questo caso non è un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano ad una passione; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto 26. I romanzi consoliani danno degno compimento a un’attività vissuta all’insegna della convinzione basata sul senso di giustizia, confermando quanto fosse ancor viva e inappagata nel loro autore la naturale propensione a parlare al posto altrui, al posto degli oppressi perché estranei al mezzo linguistico usato negli strati acculturati, il quale, precisa Christophe Charle “non permette loro di esprimere le proprie ragioni, e nemmeno le proprie speranze e la propria disperazione”27. I romanzi di Consolo costituiscono una traversata dei luoghi dell’impostura e cioè delle istituzioni: chiesa, scuola, famiglia, amministrazioni della giustizia, partito. L’argomento ricorrente è quello di fare conti con le credenze imposte o che s’impongono.
24 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile. “L’Unità” 1976, il 4 luglio. 25 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 26 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo: ‘Le pietre di Pantalica’. In: Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento italiano. Vol. 2. A cura di G.M. Villalta. Milano, Oscar Mondadori, 2001, pp. 308—310. 27 Per le idee di Consolo sull’impegno letterario si veda la sua introduzione a C. Charle: Letteratura e potere. Palermo, Sellerio, 1979.
Scrittore — testimone — osservatore  Scrittore — testimone — osservatore Senza dubbio gli scritti di Consolo continuano a evidenziare la tensione fra l’autore e il testo, a sottolinearla, a tal punto che, tutta l’opera sembra apparire come una metafora dell’impossibilità di padroneggiare in modo assoluto del proprio testo. Questa inquietudine percorre l’opera di Consolo e unifica i suoi aspetti tematici. Se si scorrono i romanzi consoliani non si tarda ad accorgersi dei frutti dolceamari dell’esplorazione di larga parte della storia italiana. Nello sguardo mobile, accorto, pungente che lo scrittore volge al mondo contemporaneo c’è un relativismo prospettico, non nuovo nel suo pensiero, ma nutrito nello scrittore siciliano di affabile cultura e sostenuto da esperienze vissute. Nelle narrazioni di Consolo le funzioni di scrittore e di interprete si sono trovate accomunate nella medesima situazione. Non ci sono più le garanzie che consentono un’indipendenza e un’autenticità alle funzioni indicate o se sia possibile il ritorno ad un loro ruolo spirituale e umanistico. La diretta esperienza dei variegati costumi umani aiuta a comprendere la labilità dei parametri di giudizio. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo, casa per casa Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso dell’ignoto marinaio tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo di Palermo tra gli anni Trenta e l’inizio degli anni Novanta, con le morti di Falcone e Borsellino. Rossend Arqués parla direttamente delle fasi storiche, tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione 28. Ma è proprio la prospettiva questo fattore decisivo da cui si guarda alle opinioni degli uomini a mettere in crisi le false certezze. La testimonianza di Consolo ha un significato particolare se inserita nel
28 Cfr. R. Arqués: Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: “Nottetempo, casa per casa” di Consolo. “Quaderns d’Italià” 2005, n. 10, p. 80. 48 
coevo dibattito sull’identità della cultura moderna e l’importanza del contributo del passato. L’oggettività è per lo scrittore un’autentica misura dell’impegno, in letteratura come nelle belle arti, e discrimina la percezione fenomenica e i processi cognitivi sottolineando la dimensione “forte” della letteratura. Questa convinzione trova la sua conferma nella constatazione consoliana secondo la quale lo scrivere diventa un confronto con la materia viva e la materia morta. Lo scrittore non vuole esclusivamente accettare l’immagine convenzionale della realtà conservata nelle abitudini e nei rituali. Tale punto di vista determina l’obiettivo fondamentale che, secondo Consolo, si realizza solo nella scrittura come l’unica possibilità di testimonianza, di protesta, e persino di riscatto. L’artista, attraverso l’arte della parola, registra la realtà inafferrabile fino ai tempi odierni, mostrandone la forma e l’importanza. L’ibridazione dei generi e dei codici serve a moltiplicare i punti di vista. Uno sguardo nostalgico alla memoria dei linguaggi in via d’estinzione vuole sottolineare una relazione tra stabilità e movimento, tra parola e immagine, tra superficialità e profondità simbolica. Il segno distintivo di un vero artista è proprio la facoltà di cambiare la parola in un elemento più sostanziale, più tangibile. Dunque la scrittura per Consolo può assumere diverse funzioni, anche quella confortativa, come nel caso di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa. “Uuuhhh…” ululò prostrato a terra “uuhh… uhm… um… umm… umm… umm…” e in quei suoni fondi, molli, desiderava perdersi, sciogliere la testa, il petto. Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…” scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo. N, 38—39
Scrittore — testimone — osservatore
Questo frammento parla del grido, o meglio dell’urlo della Sicilia dolente che soffre di un male antico, raccolto da sempre da Consolo, tenuto sempre dentro, prima fatto vedere, ora esploso irrimediabilmente, anche se momentaneamente stemperato, alla fine del frammento, da questo chiasmo “la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”29. L’espressione artistica che trova la realizzazione nella scrittura diventa nella narrativa consoliana la testimonianza di una realtà che non è più trasparente e che di conseguenza genera una sensazione di incertezza e di mancanza di stabilizzazione. Il conforto è sempre la scrittura: raccontare può essere cedimento, debolezza, mentre ritirarsi in se stesso e tacere forse più vale. È la parallela alla lontananza geografica che a Petro sembra essere necessaria per avere dentro sé la chiarezza del dolore, e per riuscire a raccontarne30. Una forte credenza nell’ordine nascosto dei valori rende la scrittura consoliana responsabile ed eticamente stabile. Grazie a questa denotazione assiologica delle sue narrazioni, Consolo viene considerato lo scrittore dei campi esclusi dalla realtà non solo storica ma anche presente. I momenti delle narrazioni che riflettono sulle vicende umane evocano la pluralità delle circostanze in cui si verificano diversi atti abusivi. Il ridimensionamento della dignità umana imposto dagli sconvolgenti avvenimenti degli ultimi due secoli è analizzato con lo sguardo limpido e disincantato dell’uomo di ragione: il permanere di una giustizia-fiducia insiste nel fatto stesso dello scrivere, che colma, secondo Andrea Zanzotto, fa spazio, fa riapparire radici e racconta di una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia31. Ma l’intellettuale che spoglia l’universo del fascino della sicurezza superficiale pare consapevole dell’irreparabile perdita delle “favole antiche”. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio il punto di vista narrante nonché la voce etico-politica sono affidati non ad un personaggio del popolo ma ad un nobile siciliano, il barone Enrico Pirajno di 29
C. Ternullo: Vincenzo Consolo…, p. 56. 30 Cfr. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, p. 64. 31 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo…, pp. 308—310.
Mandralisca. Questi, pur essendo un aristocratico, non è “un pazzo allegro o un imbecille”, né tantomeno un intellettuale scettico e malinconico come, per esempio, il principe di Salina nel Gattopardo. Consolo polemizza idealmente con il modello proposto da Tomasi di una cultura “della crisi”. Flora Di Legami aggiunge che anche il barone di Mandralisca è animato da un criticismo smagato, ma non rinuncia alla fiducia in possibili trasformazioni sociali a favore degli oppressi32. Consolo, come autore moderno, è autonomo e il suo sapere non lo si può staccare dalle sue primarie condizioni linguistiche, culturali, empiriche e soggettive. Rendendosi conto delle conseguenze di questa dislocazione, lo scrittore cerca di stabilire il nesso tra il ruolo dell’intellettuale e l’importanza della cognizione. Rimanendo dunque ben conscio della varietà delle impressioni umane e della loro incongruenza Consolo, attraverso la narrazione dei fatti esclusi dalla versione ufficiale della storia del Risorgimento italiano, vuole mettere in rilievo l’importanza del fondamento gnoseologico e dei principi della conoscenza. Per precisare la definizione dell’atteggiamento ideologico di Consolo, vale la pena rievocare la constatazione di Linda Hutcheon che la sua “è una riscrittura consapevole e autoriflessiva della scrittura storiografica tradizionale”33. A ribadire questa sembra valido ricorrere a Vittorio Spinazzola che rievoca Consolo stesso: “Non siamo innocenti, questo è certo; si cerca di evitare, per quanto possibile, la malafede e la menzogna”. Sarebbe difficile non essere d’accordo con Sebastiano Addamo, che vede in Consolo la continuazione di una preminente direzione verso l’esterno, verso il mondo e l’uomo, dato che il suo punto di partenza è una fede disperata, “una fede a onta di tutto e nonostante tutto”34. Però è altrettanto vero che, anche se lo scrittore usa la terza persona per narrare, si immedesima con i suoi protagonisti parlando dei problemi del mondo attuale 35.
32 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 23—24. 33 Cfr. L. Hutcheon: A Poetics of Postmodernism, History, Fiction, Theory. London, Routledge, 1988. 34 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 35 Ibidem.
In questa riflessione, oltre che un rifiuto alle deduzioni spesso ostentate dai critici di professione, vi è percepibile anche la fiducia nelle risorse della facoltà autocritica. Lo conferma la constatazione seguente di Vittorio Spinazzola, tale da indurre a un sensibile ottimismo sulla disponibilità emotiva degli intellettuali illuminati a schierarsi dalla parte del proletariato 36. Nella prosa consoliana vi è un aspetto edificante privo dell’amarezza provocatoria peculiare degli scrittori siciliani. Lo spostamento verso il Nord costituisce la condizione indispensabile dell’avventura culturale di Consolo, necessaria all’acquisizione e alla comunicazione del sapere. Il motivo dello spostamento nei suoi romanzi si rivela, allora, il luogo privilegiato per raccogliere testimonianze sulla relatività, l’incongruenza, la sproporzione, la fragilità delle categorie umane nel tempo circoscritto. Elena Germano osserva acutamente che la Sicilia rappresentata nel primo romanzo di Consolo, intitolato La ferita dell’aprile non è “una dimensione geografica: essa è soprattutto la dimensione morale che caratterizza l’esistenza dei personaggi di questa storia, che ne condiziona i rapporti con la realtà e le reazioni”37. Il relativismo prospettico in cui Consolo si mostra esperto non impedisce, dunque, di stabilire un rapporto fra le discordanze, perché dal parallelo e dalla comparazione nasce la curiosità, la conoscenza e la comprensione. I testi consoliani diventano strumenti della critica della modernità, delle sue illusioni e della cultura moderna. Tale poetica può riprendere la problematica dell’esperienza sia esteriore che interiore servendosi della metafora dello sguardo. L’osservazione dei costumi e degli stereotipi del carattere regionale si congiunge alla massima efficacia espressiva in alcuni frammenti della prosa consoliana. La pratica degli uomini, l’interesse per l’esplorazione e gli scambi si organizzano in sequenze collegate fra loro come nelle parti dedicate alle dolorose sorti dei protagonisti, e una ricca panoramica delle scoperte di diverse abitudini. Giusta
36 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile… 37 E. Germano: Politica e Mezzogiorno, I, 2 (aprile—giugno 1964). In: A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, p. 193.
mente si accorge di questa caratteristica Elena Germano: “La seduzione della scrittura consoliana agisce soprattutto sull’aspetto visivo, gioca con l’immagine, lo stimolo ottico38”. Consolo pone al centro del suo secondo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, una rinnovata inchiesta sul rapporto potere— classi subalterne e sul conseguente nodo fra scrittura e oralità, che egli presenta come espressione di un divario sociale. Flora Di Legami constata addirittura che all’acutezza della ragione, esemplata metaforicamente nell’ironico sguardo dell’ignoto marinaio, il narratore affida il compito di denunciare le “imposture” della storia39. In un osservatore così acuto e aggiornato è forte la consapevolezza dell’integrazione esistente ormai fra i mondi diversi, tale da creare persino una certa conformità nell’atteggiamento mentale. Nel suo primo romanzo, La ferita dell’aprile lo sguardo memoriale del narratore e quello reale dell’adolescente che osserva e filtra la realtà degli adulti (con i suoi problemi e contrasti), conferiscono alla narrazione un timbro favoloso e insieme vivido40. Il mese di aprile, ferito e dolente, diventa metafora di una giovinezza difficile e sofferente. Questo espediente retorico della “natura che sente” non è originale, dato che l’hanno già adottato i romantici e poi, tra gli altri, Eliot a cui Consolo ha attinto direttamente41. L’obiettivo principale era quello di conserva
Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts sui sapori della cucina consoliana e i numerosi passi del romanzo dedicati ai piaceri culinari (fra l’altro, pp. 45, 51, 56—57). Cfr. W. Geerts: L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo. In: Soavi sapori della cultura italiana. Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.P., Verona/ Soave, 27—29 agosto 1998. Ed. B. Van den Bossche. Firenze, Cesati, 2000. 39 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 22. 40 Ibidem, p. 14. 41 Oltre al titolo del romanzo di debutto La ferita dell’aprile, pure nell’ultimo romanzo Lo spasimo di Palermo vi è evidente una forte presenza della poetica di T.S. Eliot: “Let us go then, You and I, / When the evening is spread out against the sky…” [Allora andiamo, tu ed io, Quando la sera si stende contro il cielo…] (T.S. Eliot: Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock. In: Idem: Opere 1904.1939. Milano, Bompiani, 2001, pp. 277—285).
Consolo introduce, nell’originale inglese, il verso eliotiano alla fine del quinto capitolo del romanzo per mettere in rilievo la scomparsa di ogni speranza, la mancanza della ragione e la conclusione del nòstos (non vi mancano i riferimenti al capolavoro omerico), del ritorno alla terra di origine. 53 l’influsso della natura di cui parlava anche Walter Benjamin42. Tale esperienza poetica ammette il fenomeno della “reciprocità sensuale” e trasgredisce i limiti di una semplice antropomorfizzazione e tende a rovesciare la prospettiva e la percezione. L’uomo viene percepito da un punto di vista non più umano, tuttavia non “disumano”. Le descrizioni penetranti si realizzano grazie alla lingua che non parla ma guarda e con l’occhio ammassa diversi elementi componendone un mosaico variopinto. Angelo Guglielmi costata che i romanzi di Consolo assomigliano a una sorta di magazzino che non conserva esemplari scelti o in qualche modo preziosi ma semplici cose gravi di tutta la materialità del quotidiano43. A paragone di molte osservazioni di costume, sfruttate dallo scrittore per la sua indagine morale, non sono poche nei romanzi le descrizioni di paesaggi legati alla memoria autobiografica, come ad esempio quella presente nel romanzo intitolato Retablo che è un autentico elogio della Sicilia, terra di nascita dello scrittore. Questo testo è permeato dalla presenza di chi apprezza la bellezza e le sue rappresentazioni nelle arti figurative. La retorica dello sguardo, e in particolare lo sguardo del pittore, legge la realtà nel corso del viaggio. Il protagonista del romanzo è un pittore, che vede uomini, palazzi, rovine e paesaggi con spiccata sensibilità visiva e professionale. Dato che non si tratta di un pittore immaginario ma di uno dei più vivaci esponenti del surrealismo e della pittura metafisica e visionaria italiana contemporanea, Fabrizio Clerici, fatto rivivere indietro nel tempo, per virtù fantastorica, in un’età carica di accensioni barocche e romantiche, la narrazione assume una dimensione più verosimile44. Attento osservatore dei costumi, Consolo dedica un’ampia parte della sua narrazione alla riflessione sulla natura umana. piamento eseguito da Consolo tra il protagonista e la voce narrante interrompe il necessario distacco perché possa instillare l’autobiografia intellettuale nella finzione romanzesca.
Cfr. W. Benjamin: O kilku motywach u Baudelaire’a. Przeł. B. Surowska. „Przegląd Humanistyczny” 1970, z. 6, p. 113. 43 Cfr. A. Guglielmi: A cuore freddo. “L’Ora” 1978, il 12 maggio. 44 Cfr. R. Ceserani: Vincenzo Consolo. Retablo. “Belfagor” [Firenze] 1988, anno XLIII, p. 233. 54 
Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campane della Magione sonarono l’Avemaria. M’impuntai e dissi l’orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare: “Frate monaco, frate monaco, pigliate”. E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘na pagnottella e un pugno di cerase. “Pe’ l’anima purgante del mio sposo”. Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. R, 21 La descrizione del primo incontro del frate Isidoro con Rosalia assume caratteri antitetici e ugualmente positivi. Due sono le indicazioni che si possono trarre dal raffronto presentato nel frammento scelto. Da un lato, l’osservazione morale muove da una persuasa e matura consapevolezza delle contraddizioni e dei limiti dell’uomo. Il frate rimane assorto nelle preghiere e dedito alla sua vocazione fino al momento in cui vede, per un istante solo, una bellissima fanciulla. Le sue qualità riferite a quelle di un angelo rievocano un modo di paragonare peculiare per gli stilnovisti. Dall’altro, Consolo è portato a credere che le qualità morali si manifestino con maggiore chiarezza e in modo positivo solo nell’interazione sociale. L’abbandono del servizio spirituale a favore di quello secolare, mostra la figura di Isidoro nella sua umanistica pienezza. Se fra i romanzi si prendono in esame i momenti in cui si riflette sugli ambiti morali, sui sentimenti e sui comportamenti umani, s’impone con evidenza una costante significativa: il ricorso al linguaggio della pittura e a formule enciclopediche per esprimere i risultati dell’analisi etica. Il che, naturalmente, non stupisce in uno scrittore così intimamente permeato dalla forma mentis logica, ma indica quanto sia importante conservare uno sguardo limpido e rigoroso nell’osservare anche i fenomeni morali. Quanto più Consolo concepisce come ambigua, volubile e sfuggente la psiche umana, tanto più prova a definirla con l’aiuto di immagini semplici, essenziali, analitiche.

Si pensi al paragone fra le proprietà dell’elenco naturalistico e le facoltà dei fenomeni uditivi: “mare che valica il cancello”, visivi: “nel cielo appare la sfera d’opalina”, olfattivi: “spande odorosi fiati, olezzi” e infine tattili: “che m’ha punto, ahi!”, presenti nel brano seguente: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi, distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. R, 17 A tale esigenza di chiarezza si presta particolarmente la struttura logico-espressiva dei paragoni, che è modello molto frequente nella narrativa di Consolo. Come nel caso del protagonista del romanzo intitolato Retablo, Fabrizio Clerici: la sconfinata facoltà visionaria, la capacità di fare esplodere attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia diventa il mezzo diretto della rappresentazione della realtà45. “All’artista non rimane che guardare da lontano” — come afferma in Retablo don Gennaro, maestro di canto: “Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta con invidia, con nostalgia struggente allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti” (R, 197). Non è la prima volta che Consolo sceglie un quadro per dare l’avvio a un romanzo: nel Sorriso dell’ignoto marinaio si trattava di un dipinto di Antonello da Messina, qui, al centro della vicenda si trova il dipinto a scomparti, a scene,
45 Cfr. L. Sciascia: Cruciverba. Milano, Adelphi Edizioni, 1998, p. 43. 56
questo quadro delle meraviglie che incanta i popolani e che è poi una citazione da Cervantes. Come la parola stessa “retablo” suona misteriosamente, così anche i quadri dipinti da Fabrizio Clerici risultano misteriosi perché sembra che rappresentino sogni e incubi. In questo contesto bisogna essere d’accordo con Paolo Mauri, secondo cui, in effetti, il pittore diventa narratore di un’altra realtà46. Sotto lo splendore del clima barocco è molto visibile la trama drammatica dell’amore insoddisfatto. Basta affinare lo sguardo e osservare senza pregiudizi l’intreccio per comprendere le reali motivazioni dell’agire, le ragioni o i torti della morale. La scrittura per quadri, per scene successive, facilita all’occhio indagatore una penetrazione ai margini dei fatti che costituiscono la vera e propria prassi della narrazione. L’adottata da Consolo retorica dello sguardo viene rafforzata dal procedimento straniante. Nel frammento sopraccitato il richiamo all’atteggiamento distante enfatizza le inconciliabili: “invidia” e “nostalgia”. Sintomo delle ambivalenze radicate nella morale è anche l’uso disinteressato dell’espressione: “ai margini, ai bordi della strada”. La distanza che domina in questo caso il comportamento conduce a conseguenze paradossali: secondo la convinzione comune l’artista, e specialmente il pittore dovrebbe avvicinarsi all’oggetto, qui invece la meta risulta inafferrabile. Per questa ragione Consolo, studioso e appassionato divulgatore di pittura, cerca di conciliare le argomentazioni della “logica comune” con i procedimenti delle “arti figurative”, accreditando ad ambedue la propria fiducia. Invece nel quadro tracciato dal romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio la doppiezza della morale e l’inautenticità della vita risaltano con netta evidenza grazie all’espediente formale della sproporzione, nuovamente fondata sullo snodo del paragone nel frammento seguente: Entrò nello studio assieme a Interdonato e chiuse la porta dietro le spalle. […] “Sto solo attendento adesso a un’opera che riguarda la generale malacologia terrestre e fluviatile della Sicilia che da parecchio tempo m’impegna fino in fondo e mi procura 46
Cfr. P. Mauri: Consolo: sognando il passato. In: Idem: L’opera imminente. Diario di un critico. Torino, Einaudi, 1998.
affanno…” spiegò il Mandralisca buttandosi a sedere come stanco sopra la sedia dietro la scrivania. “E voi pensate, Mandralisca, che in questo momento siano tutti lì ad aspettare di sapere i fatti intimi e privati, delle scorze e delle bave, dei lumaconi siciliani?” “Non dico, non dico…” disse il Mandralisca un po’ ferito. “Ma io l’ho promesso, già da quindici anni, dal tempo della stampa della mia memoria sopra la malcologia delle Madonie…” “Ma Mandralisca, vi rendete conto di tutto quello che è successo in questi quindici anni e del momento che viviamo?” “Io non vi permetto!…” scattò il Mandralisca. SIM, 43 Al centro del dialogo, che procede in toni acri e pungenti, è il contrasto tra una cultura aristocratica e separata, “la malacologia terrestre e fluviatile”, di cui il barone siciliano si sentiva fiero e pago, e un’attualità di eventi (i moti risorgimentali del ’56 a Cefalù e poi l’insurrezione di Alcara nel ’60) rispetto ai quali non si poteva non prendere posizione. Qui la frase pronunciata dal barone si sostanzia di un paragone con la moderna ottica, per sottolineare l’illusorietà degli studi se rimangono distanti dalle questioni ordinarie della realtà. Al modello di necessità ed obbligo si affiancano alcune riflessioni di diverso tono, che correggono l’eccesso di autocritica del protagonista e incitano a seguire l’impulso delle passioni. L’inclinazione verso l’approfondimento del sapere e il fascino dell’avventura possono unirsi, in effetti, con l’attrazione per la giustizia e la dominazione della ragione. Attraverso il discorso del Mandralisca con l’Interdonato Consolo esibisce una convinzione morale rilevata dal rapido ammonimento e nello stesso tempo dalla domanda retorica. La lezione di Consolo va qui al di là dell’esempio stilistico: si tratta di un’affinità nell’indagare l’uomo con acume e ironia. Seguendo ottica adottata, con lo stesso spregiudicato realismo psicologico Consolo sostiene che nessun’azione è veramente pura, disinteressata e schietta allo sguardo di chi con la luce della mente vede addentro le cose. È il caso del padre di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa sofferente di licantropia che attraverso questa forma di teriomorfismo rappresenta il dolore universale. Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna. Un’ombra rotolò sotto la luna, tra i rovi e le rocce di calcare. Corse, uomo o bestia, come inseguito, assillato d’altre bestie o demoni invisibili. Ed eccitò col suo lamento, col suo latrar dolente, uccelli cani capre. Fu un concerto allor di pigolii di guaiti di belati quale al risveglio del mondo sull’aurora o al presentimento, per onde d’aria o il vibrare sommesso della terra, d’un diluvio rovinoso, d’un tremuoto. N, 6 Il padre del protagonista diventa vittima di forze incontrollabili causate da uno stato di depressione permanente e l’espressione terrificante del lato scuro della sua psiche viene accompagnato da una facoltà di ipersensibilità che gli permette di vedere e sentire le cose in un modo ben più profondo. Seguendo le ricerche di Julia Kristeva in merito, si può azzardare la constatazione che il depresso sia un osservatore lucido, che vigila notte e giorno sulle sue sventure e sui suoi malesseri, e l’ossessione di vigilanza lo lascia perennemente dissociato dalla sua vita affettiva nel corso dei periodi “normali” che separano gli attacchi melanconici47. Così assegnando allo sguardo un ruolo demiurgico, Consolo crede nell’efficacia dei buoni ammaestramenti e non dubita che il senso della vista possa indirizzare alla giusta percezione. Dall’accostamento fra morale e pittura risulta più chiara l’esigenza di consolidare la “purezza” e la “forza” di un’azione con la “libertà” e la “disinvoltura” della libera creazione. Un atteggiamento morale di natura può derivare da un’assidua applicazione che solo nell’uomo veramente abile si muta in una seconda natura.
47 Cfr. J. Kristeva: Sole nero. Depressione e melanconia. Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 52—53

Consolo e la Spagna

Cervantino contro i padri illuministi: Consolo e la Spagna

Sciascia, Moravia, Calvino, usciti dal fascismo e dalla guerra, avevano scelto la Francia dei lumi come cultura di elezione: Vincenzo Consolo opponeva loro il dissesto del mondo e la dolce follia rappresentati dai classici spagnoli, in primis Cervantes

Vincenzo Consolo nel 1998
 Vincenzo Consolo nel 1998 foto Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo aveva il viso levigato come un ciottolo marino. Un viso bello e lucente. Nel parlare la statura della sua persona, certo non alta, aumentava. E un sorriso pieno di sottintesi si faceva strada, e tu lo guardavi e ne eri contagiato. Forse Vincenzo sorrideva per gioco, e quel gioco veniva voglia di farlo anche a te.
Se gli stavi vicino, seduto con lui allo stesso tavolo, non potevi non sentirne l’energia; così tanta che ti sembrava a volte che il suo corpo tremasse, soprattutto le mani. I suoi furori civili emergevano netti. E capivi che oramai non si sentiva a casa da nessuna parte. Però la sua vera casa era chiaro dove fosse: in Sicilia, non c’era nessun dubbio. Ma lui si era fatto maestro dei dubbi, e per anni aveva viaggiato come se fosse stato in una fuga continua.
Ma non si pensi solo alla fuga di chi scappa, di chi non riesce a stare in nessun luogo; si pensi anche alla figura musicale della fuga. Quella che lui cercava era una polifonia geografica, dentro la quale i luoghi si versavano l’uno nell’altro, e il Nord e il Sud perdevano i loro connotati primari e ne assumevano altri, dai quali lo scrittore traeva una vasta gamma di sonorità e di ritmi. Manzoni e Verga si davano la mano.
Il viso di Consolo somigliava al ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Si tratta di un piccolo quadro, piccolo come spesso piccole sono le pitture di un artista che aveva tutte le qualità per esser considerato anche un miniaturista. Il quadro se ne sta a Cefalù, nel museo Mandralisca; ha una sala tutta per sé, e quando gli capiti dinanzi ti guarda con occhi ambigui; sembra che ti segua; forse sta prendendoti per i fondelli.
Per arrivare dinanzi al suo sguardo malandrino, hai attraversato alcune sale, e soprattutto ti sei fermato ad ammirare la collezione di conchiglie che il barone Mandralisca, fervente malacologo, era stato capace di radunare in pochi metri quadri. Mandano barbagli nella stanza in cui sono esposte, e gli occhi si perdono nel gioco di curve che li movimenta. La figura della spirale si fa avanti con prepotenza e la linea retta deve retrocedere (si tratta, si sa, di temi cari al saggismo e alla narrativa di Consolo).
È tale l’identificazione visiva che lo scrittore stabilì tra sé e il ritratto di Antonello che a volte viene il ghiribizzo di lasciarsi trasportare nel flusso di un anacronismo fruttuoso e pensare che sia stato proprio lo scrittore di Sant’Agata di Militello a posare per lui.
Parlando di Antonello e del barone Mandralisca siamo già entrati, quasi senza volerlo, tra le pagine del secondo libro di Consolo, quel Sorriso dell’ignoto marinaio che fu il frutto di una lunga elaborazione e che venne definito da Leonardo Sciascia come un parricidio.
Eh sì, da qual momento Consolo aveva scelto una sua strada che lo distanziava dall’illuminismo linguistico del suo maestro: punto di vista plurimo, stratificazione linguistica, prosa ritmica, inserti di materiali documentali, e soprattutto un modo di considerare la Storia come un’enorme cava dalla quale estrapolare materiali da sottoporre alla traduzione della letteratura.
Tutto questo era anche il risultato di uno spostamento dello sguardo: dalla Francia prediletta da Sciascia (ma anche da Calvino, che fu sempre un altro suo punto di riferimento) alla Spagna. L’irrequietezza geografica di Consolo lo aveva fatto approdare al paese del Chischiotte; i suoi pendolarismi tra l’illuminismo milanese (a Milano era andato a vivere quando aveva deciso di spostarsi dalla Sicilia) e il ribollire paesaggistico di una Sicilia girata in lungo e in largo durante i periodici ritorni, lo avevano portato a un’esplorazione fatta per strati ellittici.
Un incontro a Messina
Della sua predilezione per la Spagna, Vincenzo parlò anche durante un lungo incontro pubblico che avemmo a Messina. Sentiamo cosa disse a proposito.
«Devo dire che gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino, come Sciascia, avevano scelto la strada della Francia. Erano passati attraverso la Toscana rinascimentale, soprattutto dal punto di vista linguistico, e oltrepassando le Alpi, com’era già avvenuto a Manzoni, erano approdati alla Francia degli illuministi. La loro concezione del mondo rifletteva proprio questo reticolo della lingua, e non solo della lingua, quella che Leopardi chiama la lingua geometrizzata dei francesi. Questo lo si vede nella lingua cristallina, limpida, che hanno usato questi scrittori. Io mi sono sempre chiesto del perché questi scrittori, che hanno vissuto il periodo del fascismo e il periodo della guerra, abbiano optato per questo tipo di illuminismo, di scritture illuministiche e di concezione illuministica del mondo. Io ho pensato che appunto, avendo vissuto il fascismo e la guerra, speravano, era una scrittura di speranza la loro, speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare. Era la concezione utopica anche di Manzoni, quando immagina che in questo paese finalmente si potesse parlare un’unica lingua. I panni che sciacquava in Arno erano panni che aveva portato già umidi dalla Senna, e mentre li sciacquava in Arno, immaginava una lingua ideale, la lingua attica che era l’italiano comune.
Quelli della mia generazione, che hanno visto succedersi al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo. E quindi il mio itinerario mi portava non più alla Francia, ma verso la Spagna.
La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraverso tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Quindi la mia educazione, sia di contenuti che stilistica, è di tipo spagnolo».
Le segrete dell’Inquisizione
La Spagna in Sicilia significa anche Inquisizione. Consolo lo sapeva benissimo. E anche lui, come Sciascia, aveva voluto ficcare i suoi occhi nelle segrete di Palazzo Steri a Palermo. Era lì che aveva avuto sede il terribile tribunale e lì erano stati incarcerati i prigionieri. Alle pareti rimangono i loro segni, e spesso sono molto più che segni o semplici graffiti. Si tratta infatti di narrazioni murali, di poesie, di piccoli affreschi monocromi, di grida silenziose.
Consolo non poteva non essere attratto da quello che può considerarsi il documento più sconcertante di come si provi a mantenersi umani in un regime disumano. Basta riaprire Retablo – e riaprirlo seguendo la pista spagnola che già il titolo mette in rilievo in modo così palese – per imbattersi nelle prime pagine in una duplicità di sguardo: da una parte c’è la descrizione dell’arrivo del pittore lombardo Clerici nel porto di Palermo: «In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittade, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiare d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e di oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade».
Dall’altra, nel bel mezzo di quest’incanto, la presenza inquietante di «istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto». Tra questi spicca il «più tristo»: «lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i capi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare».
Incanto e tormento: parole che si slanciano a carezzare il paesaggio e parole che sono costrette a documentare l’orrore macchinale di questi obbrobriosi oggetti atti alla tortura. Mai come in Retablo, che usci nel 1987 come numero 160 della collana di Sellerio intitolata a «La memoria», lo scrittore si abbandona al fluire giocoso e serissimo delle parole, al loro sommovimento sintattico, al gusto per la spirale che il barone Mandralisca aveva esaltato nel suo museo di Cefalù. E sempre al centro della narrazione c’è un viaggio, un andare e un cercare insieme dei due protagonisti: Fabrizio Clerici (i disegni del «vero» Clerici adornano il libro) e Isidoro. E di nuovo si rinnova il tacito modello duale di Don Chischiotte e del suo scudiero Sancio Panza, in un processo di «infinita derivanza», che mescola le epoche e che mette le persone le une dinanzi alle altre, e tutte alla ricerca de El retablo dela maravillas cervantino, usato alla stregua di un velo di Maya: «velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza, dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii».
Amore e movimento
Entrambi i viaggiatori consoliani sono innamorati di donne che non li corrispondono: Isidoro, addirittura, vive in una sorta di deliquio continuo per la sua Rosalia. L’amore li spinge al movimento, a un ennesimo attraversamento della Sicilia, in parte coincidente con quello di Goethe, in parte dissimile. E anche ne L’olivo e l’olivastro avverrà qualcosa di simile. Ma non più in un tempo retrodatato, piuttosto tra le rovine della contemporaneità; e tali sono, in alcuni casi, queste rovine, che lo scrittore decide di «saltare» a piè pari Palermo, la capitale corrotta, il luogo del delitti, lo sprofondo del paese. Ma ci tornerà, ci tornerà con Lo Spasimo di Palermo. E di nuovo saprà individuare il luogo emblematico, quella chiesa senza tetto, dove gli alberi sono cresciuti cercando il cielo. Chiesa di grande bellezza, a segnare un confine dentro il quartiere della Kalsa.
Ogni volta è così: Consolo si «consola» proiettando se stesso in un manufatto esterno a lui; ne cerca le rassomiglianza; ne estrapola il dna visivo e se lo inocula.
In questo senso fa pensare al grande scultore che compare in Retablo, al «cavalier Serpotta». Chi abbia visitato i suoi oratori palermitani, sa bene di che genio si tratti. Bianchissime figure danzano le loro forme in sequenza. Sono modellate all’infinito, con una tecnica che disdegna il marmo, e fa uso di un materiale più malleabile. Si tratterebbe di stucchi, ma il Serpotta è stato capace di rafforzarli facendo cadere nei punti nevralgici una polverina di marmo.
Ma non fa solo figure umane, santi e sante; raffigura anche la battaglia di Lepanto, nella quale aveva combattuto Cervantes. Le navi hanno le vele fatte d’oro, e sembrano anticipare le svelte e filiformi figure di Fausto Melotti.
La battaglia viene rappresentata «in discesa», rendendo possibile all’occhio dell’osservatore di gustarne i dettagli e di avere una visione d’insieme. A ben pensarci, Consolo adotta nella scrittura una tecnica simile a quella del Serpotta. Modella la lingua con agilità, conoscendone le verticalità, usando i depositi di lessico scartati dal tempo. E quando è necessario fissa il tutto con una polverina marmorea.
Ma torniamo a Cervantes. Per lo scrittore siciliano contava non solo l’opera; lui considerava Cervantes «una figura straordinaria, oltre alla grandezza dello scrittore e del poeta, perché era quello che aveva sofferto la prigionia nei Bagni di Algeri. Aveva scritto due opere, I Bagni di Algeri e Vita in Algeri, proprio mentre era prigioniero, e poi anche nel Don Chisciotte c’è un lungo capitolo intitolato “Il prigioniero”, che è autobiografico, dove racconta la sua esperienza. Lì era stato prigioniero con un poeta siciliano, si chiamava Antonio Veneziano. Si erano incontrati, questi due ingegni, questi due poeti, nella prigione di Algeri, e Veneziano era stato riscattato prima perché pensavano che fosse un uomo di poco valore, mentre avevano intuito che Cervantes doveva costare molto e quindi il suo riscatto avvenne successivamente. In seguito i due ebbero uno scambio di versi, e lo spagnolo scrisse le Ottave per Antonio Veneziano. Cervantes, che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, ed era stato a Messina, si era imbarcato a Messina, mi era caro anche per questa congiunzione tra Sicilia e Spagna».
Leggere Cervantes significava anche spostare il baricentro della narrazione. Dai racconti marini, «dove la realtà svanisce, e dove c’è l’irruzione della favola e del mito», che avevano visto nascere i poemi omerici, al romanzo del viaggio. «Cervantes sposta il viaggio, fa dell’andare, del peregrinare, una cifra che poi adottò Vittorini con Conversazione in Sicilia. Ecco, Cervantes è stato quello che ha spostato il viaggio dal mare alla terra, ed è una terra di desolazione, di dolore – la Mancia – che diventa metafora del mondo».
Gli anni ammutoliti
E quella terra di desolazione, con il tempo si estende, e lo stesso Mediterraneo che per lo scrittore era stato «uno dei luoghi civili per eccellenza, dove c’era stato un grande scambio di cultura, una grande commistione, una reciproca conoscenza», si contamina, diventa guerresco, riaffiorano le guerre di religione, risorgono i nazionalismi.
Sono gli anni in cui lo scrittore si ammutolisce. Continua a viaggiare, ma il suo sguardo ha perso in prensilità. L’arte della fuga perde i suoi caratteri musicali e diventa un andare da una Milano che si desidera abbandonare a una Sicilia che si fa sempre più fatica a riconoscere. Il mondo è diventato casa d’altri. Il velo di Maya gli è stato levato per sempre, pensa tra sé e sé. Forse comincia a dubitare della stessa letteratura, che vede prostituirsi in facili commedie di genere.
Però è sempre dalla letteratura che trae i suoi esempi; è da lì che riparte. A Messina, alla fine del nostro colloquio – che ho poi trascritto in un mio libro di viaggi siciliani, intitolato In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, ed edito da Mesogea – disse con il sorriso da ignoto marinaio affiorante sul volto levigato come un ciottolo marino: «Mi piace sempre ricordare una frase che Calvino mette in bocca, ne Il castello dei destini incrociati, a Macbeth». La frase suona così: «Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro».

Silvio Perrella
Il Manifesto Alias Domenica Edizione del 30.08.2015

Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (trailer)

Il trailer ( ricaricato ) dello spettacolo su Pio la Torre, orgoglio di Sicilia dal testo di Vincenzo Consolo presentato al Franco Parenti lo scorso Maggio. Grazie a Leonardo Mancini e a tutti coloro che hanno lavorato con noi.

Atto unico di Vincenzo Consolo.

Regia di Leonardo Mancini
Con: Marco Gambino, Viviana Lombardo e Giannandrea Dagnino
Musiche: Maria Chiara Pavone, Daniele Prestigiacomo

In collaborazione con: Rettoria San Giovanni Decollato e Centro di Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre

L’ onore di Sicilia

31dWTrIm2QL._BO1,204,203,200_   L’ONORE DI SICILIA

Prefazione in RITA BORSELLINO – LA SFIDA SICILIANA – PAG. 7-11

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti Roma 2006

Da Antigone, da questa donna bisogna partire, da questa eroina di Sofocle che ha il coraggio di ribellarsi all’ingiusto comando di un tiranno, Creonte, per ubbidire a  “leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi, non da  ieri vivono, ma eterne…” Sono, quelle a cui ubbidisce Antigone, le leggi dell’umano, della pietà, della giustizia, leggi che la spingono a seppellire “il corpo morto di un figlio di mia madre”, il corpo del fratello Polinice. Ma ci insegna il trageda greco che sì, si può anche seppellire subito il corpo di un uomo ucciso, ma quel corpo rimarrà virtualmente insepolto sino a quando non si saprà la verità su quell’assassinio, sino a quando i suoi congiunti non avranno giustizia.

E sorelle di Antigone sono tutte quelle donne che hanno reclamato verità, reclamato giustizia per il loro congiunto ammazzato; sorelle di Antigone sono in Sicilia madri, spose o sorelle che hanno reclamato verità e giustizia per il loro famigliare ucciso dalla mafia, ucciso dal potere politico-mafioso. Solo giustizia e verità posso infine far seppellire quel corpo oltraggiato, dilaniato da colpi di lupara, di kalashnikov, da esplosione di tritolo. Sorella di Antigone è Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, quella contadina, quella nobile donna che Carlo Levi incontra a Sciara e di lei scrive:”Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione  di un processo verbale, con una profonda, assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata è la Giustizia. La Giustizia vera…” Sorella di Antigone, sorella di Francesca Serio è Saveria Antiochia , madre dell’agente Roberto, ucciso, nel 1985, insieme al suo capo e amico, il commissario Ninni Cassarà. Saveria racconta in Nonostante donne. Storie civili al femminile:”Le donne a volte piangono e gridano. E’ una questione di carattere. Ma io so che chi non piange e non grida muore dentro di dolore. Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te”.

Sorella di Antigone, di Francesca Serio, di Saveria Antiochia,  di Pina Grassi è Rita Borsellino. Anche lei, Rita, “s’è fatta in un giorno” come dice Levi, quel terribile, tragico 19 luglio del 1992 in cui fu ucciso, in via D’Amelio, insieme ai poveri cinque ragazzi della scorta, il fratello Paolo.

Sorelle di Antigone: donne tutte che contraddicono, cancellano lo stereotipo siciliano della Santuzza, della Mena o della Diodata, che mettono in luce la tradizione della donna siciliana attiva, quella che dai Fasci socialisti al Primo e al Secondo dopoguerra ha combattuto accanto agli uomini, con essi ha scioperato, ha occupato le terre incolte dei feudi, e ne ha subito la repressione, è stata ferita o uccisa, com’è successo a Portella della Ginestra. Dice all’Assemblea Costituente Girolamo Li Causi il 2 maggio 1947: “Ho visto una bambina di tre anni trucidata, cinque orfani impietriti dall’orrore, attorno alla madre morta. Ho visto una vecchia di settantatré anni ferita…”. Donne quelle non più verghiate, ma vittoriniane, donne come la madre Concezione di Conversazione in Sicilia, come Erica, come la Garibaldina o, fuor di letteratura, come Maria Occhipinti di Una donna di Ragusa.

Rita Borsellino ci narra del prima e del dopo quella domenica del 19 luglio 1992 in questo libro. Ci dice della sua famiglia d’origine, del padre Diego e della madre Maria Pia Lepanto, farmacisti alla Kalsa, ‘al-Halisah’, l’eletta, l’antico quartiere arabo di Palermo, quartiere ora degradato, popolare, povero. E la farmacia Borsellino, di via Vetriera prima e quindi della vicina Carlo Rao, è il luogo dove gli abitanti del quartiere vanno a confidare, a “depositare” le loro angustie, i loro mali, a prendere le medicine a credito, crediti che il dottor Diego segna su un quaderno che poi butta via.

Nel quartiere della Kalsa è cresciuto anche Giovanni Falcone, che racconta: “Abitavo nel centro storico, in piazza Magione. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari”. Era dunque la Kalsa, come altri di Palermo, il quartiere delle strade che s’incrociano e delle strade che divergono: dei giovani che diventano magistrati, tutori del diritto, delle leggi dello Stato, che hanno un uguale, tragico destino; il quartiere dei giovani che diventano picciotti,  killer al servizio della mafia, la mafia delle cosche e quella più occulta della borghesia imprenditoriale e politica, la mafia “bianca”, la più invisibile, la più insospettabile.

Rita è l’ultima di quattro fratelli, viene dopo Adele, Salvatore e Paolo, è la piccola di casa, fatalmente la più vezzeggiata, ma è anche la più timida, la più chiusa. “Ero una ragazza patologicamente timida” scrive, “Ero una persona chiusa, silenziosa, timida”.

Alla morte del padre, Rita si iscrive alla facoltà di Farmacia, e quindi va a lavorare là in via Vetriera nel negozio di famiglia. Che è per lei la scuola della conoscenza del mondo, dell’ “altro” mondo, quello dei sofferenti, dei diseredati, degli emarginati. E’ di famiglia cattolica, è cattolica praticante lei stessa, e nella farmacia, che non è quella delle vane chiacchiere dello speziale don Franco de I Malavoglia, mette in pratica la carità cristiana, la solidarietà verso l’umanità bisognosa. Sposa Renato Fiore, farmacista anche lui, ed ha tre figli, Claudio, Cecilia e Marta. Ma da prima, e ancora dopo, non cessa il suo rapporto di affinità, di amicizia col fratello Paolo, che da sempre l’ha prediletta e protetta. E leggiamo quindi con quale dolore, con quale strazio, orrore e furore Rita ci racconta di quel fatale giorno, di quella domenica di luglio in cui avviene la strage, là, in via D’Amelio, nel momento in cui il magistrato sta per compiere l’azione più umana, filiale, quella di andare a trovare la vecchia madre. Una strage, 55 giorni dopo la strage di Capaci, annunziata, annunziata dallo stesso magistrato, una strage prevedibile, e quindi comandata chissà da quali oscure, segrete entità, ai manovali della mafia, agli esecutori di morte.

E da quel giorno cambia la vita di Rita Borsellino. “La seconda vita”, come lei la chiama. Scrive:”Non ci si lascia annientare dal dolore (…) Perché quello che ci spinge, che spinge tanti famigliari delle vittime della violenza  a mettersi in gioco, a mettersi in cammino (…) è l’amore, è la voglia di far continuare quello che i nostri cari stavano facendo”.

Diventa quindi una persona pubblica, Rita Borsellino, una missionaria della Giustizia

della verità, della civiltà. E incontra nel ’93 don Luigi Ciotti, s’impegna a lavorare indefessamente per l’associazione Libera, a parlare a migliaia e migliaia di giovani, in Italia e all’estero, di giustizia, di legalità.

Si è dimessa ora da presidente onorario di Libera per affrontare un altro impegno: quello politico, quello di candidata del centro sinistra alla presidenza della Regione Siciliana.

Questa nostra regione autonoma a statuto speciale, strumento democratico concesso allora dal governo centrale per scongiurare le spinte indipendentiste che certe formazioni politiche allora fomentavano. Strumento democratico  usato quindi, dalle eterne forze della conservazione, nel peggiore dei modi: come strumento di privilegio, di potere clientelare, se non spesso di malaffare, come l’ha usato per esempio l’ultimo governo regionale di centro destra, di cui alcuni membri sono stati arrestati per concorso in associazione mafiosa, sono inquisiti per la stessa imputazione o per favoreggiamento aggravato alla mafia, come il presidente Salvatore Cuffaro che se ne sta ancora là, a governare la nostra infelice isola.

Rita Borsellino, ne siamo certi, restituirà dignità, democrazia e giustizia, di cui questa nostra Sicilia ha tanto bisogno, come del resto l’intero Paese, questa Sicilia che ha cominciato la sua storia politica dal  Secondo dopoguerra in poi con la violenza, con il sangue, con tutta una sequela di morti che da Portella della Ginestra arriva fino al 1992 e oltre.

“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia ! “ declamava alla prima seduta dell’Assemblea Regionale il Presidente (per anzianità) Lo Presti, il 25 maggio 1947.  E ancora oggi, dopo le elezioni di aprile, la Borsellino, la prima donna presidente della Regione, potrà esclamare: “Giustizia per la Sicilia, onore per la Sicilia !”.

Vincenzo Consolo

Milano,6.2.2006

Prefazione al libro “Rita Borsellino, la sfida siciliana” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti 2006

Paolo Borsellino


Paolo-borsellinow
PAOLO BORSELLINO

Per Minimum Fax

 

 

“[…] e tra due folti

cespugli si infilò, nati da un ceppo,

l’uno di olivo e l’altro di olivastro”.

È il naufrago Ulisse che solo, martoriato riesce a toccare terra a Schèria, nell’isola dei Feaci. L’olivo e l’olivastro che spuntano da uno stesso ceppo, i rami fittamente intrecciati tra loro, sono il simbolo del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, sono presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura.

Lasciato il mare rovinoso, Ulisse entra nella città dei Feaci, nel regno dell’utopia, nella società ideale. Dopo il lungo racconto, l’eroe raggiunge finalmente l’Itaca della realtà e degli affetti, ritrova l’armonia perduta.

L’omerica immagine del ceppo che nutre due rami diversi, incisiva come quella del virgiliano ramo d’oro sul duplice albero che coglie Enea prima di scendere agli inferi, è il simbolo alto della civiltà che s’innesta, con gesto di coltura e cultura, di volontà e di sapienza, sul tronco dove insieme è cresciuto, spontaneo, selvatico, il ramo dell’olivastro; della civiltà che, se non è curata, difesa, può regredire e perdersi nel disordine da cui proviene, nel caos, nel mare della tempesta. È il simbolo più che mai, quel ceppo dai due rami fittamente intrecciati, di questa “nostra terra bellissima e disgraziata” come l’ha definita Paolo Borsellino, della Sicilia della più antica, più ricca civiltà e insieme della barbarie più feroce e rovinosa, dell’inciviltà più buia, della regressione più umiliante; di quest’Isola che fu dimora ideale dell’albero mediterraneo, dell’argenteo olivo del nutrimento e della luce che i Greci consacrarono all’Atena della ragione e della sapienza. È l’albero che immaginò, che vide sul palcoscenico Pirandello, la notte della sua agonia, a risolvere l’ultimo atto di un dramma, di un mito che non avrebbe potuto più scrivere, è l’olivo della cultura e della poesia contro l’irrompere a valle dei barbarici Giganti della montagna.

Fuori dal simbolo, dentro la realtà, dentro la storia, sappiamo che il duplice, atroce destino della Sicilia, l’intreccio suo inestricabile di civiltà e di barbarie, non è dovuto a un evento della natura, a una legge dell’esistenza, a un destino, a una condanna genetica, come spesso neo-lombrosiani d’accatto hanno voluto fra credere, ma a precise responsabilità, a colpe della storia.

Chi ha uso di ragione, possesso di cognizione sa che la mafia, questa mala pianta, quest’olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo storico in cui l’Isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa costantemente perpetrata da dominazioni, governi, da ottuse, cieche caste di privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia s’è sviluppata con l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto dei regimi politici, di poteri statali insipienti o corrotti.
Un medioevo di illiberalità, di ingiustizia, di violenza ha gravato su questa regione, una lunga storia di oppressione e sfruttamento dei deboli, di ribellioni popolari, di feroci repressioni, un’assenza dei grandi principi liberali instauratisi in Europa con la rivoluzione del 1789.

C’è, nel museo Pepoli di Trapani, una terribile macchina; c’è, alta sui due montanti tenuti dall’architrave del potere, una ghigliottina, questo orrendo palchetto, questa truce scenografia per la rappresentazione della Giustizia.

Priva qui del terrifico, disumano ma grandioso sfondo storico contro cui si ergeva la francese consorella, dialettale com’è nel lessico, nella sintassi dei suoi congegni, diventa ancor più incomprensibile, più crudele. Si sa che la ghigliottina di Trapani veniva anche montata sulle piazze dei vari paesi del Circolo giudiziario; si sa ch’essa funzionò fin dopo l’Unità, sotto i Savoia; si sa che non tagliò teste di re, di nobili, di  Amici del popolo o di Incorruttibili, ma solamente teste di ribelli o banditi. Proviamo orrore per ogni tipo di pena di  morte, diciamo con Voltaire che quella pena offre vantaggi solo per il boia, ma è vero che la tremenda macchina di Trapani non tagliò mai teste di mafiosi.

Chè allora della mafia, da parte di magistrati, di funzionari statali, di politici, di intellettuali, si negava l’esistenza o se ne dava una spiegazione di ordine psicologico o folcloristico. Qualche magistrato, qualche politico avvertì della mafia la vera natura, la forza sua invasiva e distruttiva: il procuratore generale di Trapani don Pietro Ulloa, il giudice agrigentino Alessandro Mirabile, il socialista corleonese Bernardino Verro, il repubblicano ennese Napoleone Colajanni. Questa negazione della mafia come associazione, come ferrea, gerarchica struttura criminale, da parte del potere politico, degli organi dello Stato, è durata, si sa, fino a ieri. Tanto più negata la mafia, si direbbe, quanto più le sue azioni criminose si facevano frequenti e clamorose, la sua azione antisociale, antistatale sempre più distruttiva e arrogante, quanto più la pubblicistica, l’informazione su di essa si arricchiva e diffondeva. Negazione della mafia, nel migliore dei casi, per la regressiva, falsa difesa dell’ “onor di Sicilia”, per insipienza, per malafede: per privato, meschino tornaconto, per colpevole connivenza con gruppi di potere.
Sicchè i morti, tutti i morti di mafia pesano, oltre che sui diretti assassini, su quei responsabili, su quegli uomini che meritano di giacere nel “tristo buco”, nel “pozzo scuro” della dantesca Caina.
Pesano su quei responsabili i braccianti, i capilega, i sindacalisti uccisi sopra le terre dei feudi negli anni Venti e nel Secondo Dopoguerra; pesano i contadini, le donne, i bambini uccisi a Portella della Ginestra.

Oh il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

stanco di solitudine, stanco di catene…

scriveva qualche mese prima della strage, Quasimodo.

Pesa su quei responsabili la morte di tutti quelli – magistrati, militari, politici

burocrati, imprenditori, sacerdoti, comuni cittadini – che nella tremenda, lunga guerra contro la mafia sono caduti. Pesa su di loro la morte di due uomini eroici, di due simboli alti: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

C’è, nella storia di quest’uomo, uno sfondo storico siciliano, una dimensione umana,  spesso ignorata. C’è una parca, dignitosa misura della vita, un pudore, una ritrazione di gesto e di parola, un rigoroso, inflessibile senso morale e civile, una disillusa, lucida conoscenza e accettazione della realtà e un modo aspro, diretto e schietto di affrontarla; c’è un senso privo di limiti del sacrificio, una generosità di sé senza risparmio; c’è infine in quest’uomo  orgoglio e candore.

L’eredità culturale paterna, del rigoroso, severo farmacista di via Vetriera, è temperata dalla dolcezza della madre, di Maria Lepanto, che, cresciuto in quel Belmonte Mezzagno che s’affacciava sulla meraviglia della Conca D’Oro, ha assorbito bellezza e sentimento.

L’adolescente Paolo si muove in quello spazio ricco di segni, di echi, di memorie, di immagini e di suoni ormai perduti che era il cuore antico della Palermo tra la Cala, la Kalsa, Piazza Marina e la Magione, la chiesa di San Francesco e la Gancia. È lo stesso spazio, quello di Borsellino, la stessa geometria, la stessa  scenografia su cui e dentro cui si muove negli stessi anni Giovanni Falcone; si muovono tantissimi altri ragazzi che prenderanno altre strade, avranno altro destino: si trasformeranno, sbucando da quella couche, da quella cultura, in spinosi, selvatici oleastri. “La rilevanza di una tale ‘promiscuità’ tra mafia e società siciliana non è sempre chiara. Palermo è al riguardo un tipico esempio. Io vi ho vissuto fino all’età di venticinque anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero” ricorda Falcone.

La prematura morte del padre segna per Paolo, appena laureato, la fine della giovinezza, la fine vale a dire delle illusioni e delle divagazioni. Si assume a ventidue anni, con serietà, rigore, il ruolo di capo famiglia. Lo studio per il concorso in magistratura diventa un impegno totale. “Se vengo bocciato, per la disperazione mi getto dentro il Tevere” dice alla madre prima di partire per Roma. Ma vince e compie il suo apprendistato a Palermo, presso il collega anziano Cesare Terranova. Nessuno ancora sapeva, ma si stava formando a Palermo, in Sicilia, e naturalmente anche nel resto del Paese, verso la fine degli anni Sessanta, una nuova leva di magistrati, di giovani di nuova cultura, di nuova moralità, di nuovo impegno.

Il neofita della scienza delle leggi, il diacono della mentalità giuridica si appassiona al diritto civile, e crediamo che immagini di tracciare per sé e di perseguire, con l’ardore e la tenacia che sono del suo carattere, la strada della ricerca, del perfezionamento, di giungere, grado a grado, com’è nell’ascesi, com’è nella scienza e nell’arte, a quella condizione di grazia, in cui il lavoro perde chiarità, diventa gioia.

La famiglia, quella d’origine, la madre e i fratelli, la nuova che aveva appena formato, il lavoro di magistrato unito alla scelta, alla passione per il diritto civile ci fanno pensare che Borsellino immaginasse – com’era normale, com’era giusto immaginare – di vivere in uno Stato di diritto, in una società civile, in cui la sfera privata, l’umano regno degli affetti trovasse rispetto e difesa; dove anche l’avere, il frutto dell’onesto lavoro, trovasse legittimità e protezione.

Abbiamo tutti, tutti creduto, noi cittadini, forse anche i magistrati, creduto per molto tempo, fino a ieri, che la vecchia, parassita, velenosa mala pianta della mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati: forze dell’ordine e magistratura.

Borsellino e gli altri magistrati di nuova cultura e di nuova morale hanno visto a un punto che la mafia tutto invadeva e distruggeva in Sicilia, in questo Paese, che era un mostro osceno, un bestiale Polifemo che stritola e divora uomini, che minacciava ogni giorno di più, nonché l’avere, il primo dei beni, la vita, minacciava la sfera privata della famiglia, la pubblica sfera, distruggeva i valori della civiltà. Uccideva e uccideva la mafia, spargeva morte e morte per le strade di Palermo e di ogni città di Sicilia, la morte – lo diciamo qui con Savinio – “ che insudicia quello che era pulito. Intorpida quello che era limpido. Inaridisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso. Istupidisce quello che era intelligente. Immiserisce quello che era ricco..”

La mafia umiliava e infamava nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della filosofia, del diritto. Dopo l’uccisione dei magistrati Terranova, Costa, Basile, del commissario Boris Giuliano, Chinnici e gli altri magistrati  seppero che in Sicilia era la guerra: guerra contro la civiltà, contro la democrazia.

Decisero di combattere, quei magistrati, e si fecero, per la Sicilia, per noi, soldati di prima linea.

Non vogliamo qui raccontare ancora la vita di sacrifici a cui si sottoposero i giudici del pool antimafia, l’altissimo prezzo che hanno pagato in quella guerra le loro famiglie.

Uno dopo l’altro caddero nella guerra i valorosi capitani, caddero quei san Michele e san Giorgio in lotta contro il drago. Caddero a Palermo Chinnici, Saetta, Livatino, Falcone, Borsellino…Caddero nel modo più atroce, più straziante. Paolo Borsellino poi nel modo più inaccettabile: lungo un itinerario prevedibile e previsto; nel momento più umano e più tenero in cui si reca dalla madre: avrebbe dovuto condurla dal medico per farle controllare il cuore.

In quel quieto, deserto primo pomeriggio d’una domenica di luglio, la vecchia madre, dopo il trillo del campanello che il figlio aveva pigiato, ode il tremendo boato, il fragore infernale.

Noi, non più giovani o vecchi, riusciamo solo a dire, parafrasando il poeta de La terra desolata: con il ricordo di Paolo Borsellino e degli altri, con la lezione del loro sacrificio riusciamo oggi a puntellare le nostre macerie. Le macerie della nostra vita civile, le macerie in cui oggi il potere politico vuole ridurre l’edificio della Giustizia, l’autonoma istituzione della Magistratura e, con essa, violare i sacri principi della nostra Costituzione.

Milano, 29 giugno 2010                                                   Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo (Sant’ Agata di Militello – Messina 1933) è, tra gli scrittori siciliani moderni, una figura atipica di narratore che, pur traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza “isolana” vive da tempo in continente dove si è formato ed ha realizzato le sue più convincenti prove letterarie. Questa distanza gli ha permesso di ricostruire narrativamente momenti e vissuti personali attraverso il “filtro” di un particolare tipo di memoria che spesso si vena di nostalgia. Di particolare interesse è il modello linguistico che per certi versi ricorda il miglior Vittorini (Conversazioni in Sicilia). La” lingua” di Consolo è una ricerca continua di originalità che, solo in parte, deriva dal suo personale timore di non essere riconosciuto o differenziato nell’affollato panorama letterario italiano. A Marino Sinibaldi ha dichiarato in un intervista: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia ed ai suoi esiti. Ma non è dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cercavo di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”. Il suo successo, non commensurato al valore assoluto della sua opera, è stato anche limitato da una sua certa ritrosia ed incapacità di adattarsi alle regole della pubblicità e del consumismo. E’ diventata famosa una sua frase in cui lo scrittore sottolinea che la violenza del tempo e le trasformazioni che ne conseguono finiscono per distruggere un mondo ingiusto, ma pure carico di valori positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e per sovrapprezzo impoverito sul piano umano. Questo osservatore così distante, ma così poco distaccato ha scritto un libro che mi ha stimolato a raccogliere queste brevi riflessioni ed il suo inserimento in questa sezione è il dovuto tributo alla sua onestà intellettuale, al suo garbo di gentiluomo ed al suo genio di scrittore. Il libro si intitola “Le pietre di Pantalica” (1988) ed è diviso in tre sezioni ed è dalla prima di queste (Teatro) che vorrei dedicare la mia attenzione. Nel racconto “Il Fotografo” raccontando il periodo del passaggio del fronte italiano nel suolo siciliano attraverso gli occhi di un fotografo di guerra (Robert Capa) al seguito delle truppe alleate ne descrive così il rapporto con il territorio e le persone in quel particolare, tragico, momento storico:

CAPA-1-TroinaAgosto1943Troina 1943 Robert Capa

“Andava con la sua jeep su per i colli, giù per le vallate, per le distese infinite, gialle nude assolate, con fumi di ristoppie che bruciavano, cocuzzoli giallastri di detriti di zolfare, qualche albero scheletrico qua e là, qualche ciuffo di spino, spaccapietra, vruca, calavèra o di cicerchia, qualche stazzo o masseria solitaria, uguali a quelli di Spagna e della Tunisia, fotografava pastori e contadini. Immobili, con bordoni in mano, logori come la terra su cui stavano, o piegati con gli zapponi a rompere la crosta, sembravano indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Roberta aveva fotografo per quelle lande, fotografato con divertimento e simpatia, uno di questi contadini o pastori, un uomo che s’alzava da terra appena d’una spanna, scavuzzo senza età, terragno monachino, in braghe di tela e gilé di logoro velluto, cenciosa camicia a mille toppe, calzari di tela e pelle di montone, fazzoletto in testa annodato a mo’ di copricapo. Accanto a lui, accovacciato, il culo sui talloni, le braccia sulle cosce, la fede al dito e braccialetto d’oro al polso, uno spilungone di soldato americano, un levigato e bello Gary Cooper, biondo, sano, sorridente. Il contadino, una mano sulla spalla sul soldato, con l’altra, in cui teneva il lungo suo bastone, gl’indicava qualcosa in lontananza, una strada, un paese, forse il miraggio d’un pezzo o d’una fonte. Dietro a loro, la campagna arida, svampante, s’impennava in montarozzi di gessi e silicati. (…) E’ qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle precedenti della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvìo quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali ed impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti.”

Più avanti nello stesso libro Consolo si cimenta nella lettura di due immagini del suo “album” di famiglia, ma, in sintonia con la sua personale poetica, spesso incline alla nostalgia, ne propone una descrizione senza intenti semiologici o tentazioni “barthesiane”. Indossa gli abiti dell’archeologo per effettuare “una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o di frammenti epigrafici da cui partire per la ricostruzione attraverso la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Il concetto di Storia per Consolo, che per certi versi lo accomuna a Georges Perec, tiene conto dell’arbitrarietà e dell’inattendibilità che la caratterizzano, ma lo scrittore siciliano afferma di essere pronto ad affrontare questo rischio “calcolato” proponendosi di navigare a vista attraverso le “Simplegadi dell’allucinazione e del sogno”. Nel 1938, convalescente da una polmonite, Consolo bambino è ospitato in un casello di un paesino montano della provincia di Messina. In quei boschi, dove il padre, commerciante di legnami, si compiono le sue prime timide esperienze affettive evocate, in qualche modo, dalla lettura di due particolari immagini in cui il padre aveva voluto farsi ritrarre dal fotografo del paese accanto al suo principale “strumento” di lavoro, un fiammante camion Fiat 621 targato ME 4318. Con l’ausilio di una lente, Consolo, “legge” così la prima foto:

“Il camion è di faccia, sulla strada in terra battuta, coi quattro fari sul davanti e la maschera del radiatore attraversata in diagonale da una banda bianca. E’ sotto grandi rami di querce che in alto, unendosi, formano come una galleria. La luce piove pezzata sul camion e sulla strada, a chiazze, come in un quadro di Monet. In primo piano, a terra c’è mio padre, un braccio appoggiato al parafango, l’altro ad arco, col pugno puntato contro la vita. E’ in pantaloni scuri e camicia bianca. Sul cassone, sopra il carico di lunghi e grossi tronchi d’albero che sovrasta la cabina, sono altre quattro persone: i due picciotti, gli operai di mio padre, a sinistra, e due boscaioli a destra…”.

In uno “spiazzo sterposo circolare” è collocato, nella seconda foto, l’oggetto dell’orgoglio del padre di Consolo…

“Il camion è posto di traverso, in lungo, quasi infilato nello spazio tra i perfetti coni di due pagliari. Sul vertice dei due pagliari sono in piedi, i pugni contro la vita, come telamonio guglie antropomorfe, i due picciotti; attorno e sopra il camion altre cinque persone: a sinistra, è un boscaiolo in maniche di camicia e gilè di velluto; accanto un uomo anziano, alto, massiccio, barbuto, in gabbanella grigia e coppola, un braccio appoggiato allo sportello del camion, l’altro puntato su un bastone (…) Sul cofano del camion, seduto, a gambe incrociate, le spalle contro il parabrezza, è mio padre: sorride, forse di sé, in quella situazione teatrale, in quella posa per lui innaturale…”.

Ma allo scrittore siciliano non basta questa lettura quasi analitica della “realtà” realizzata attraverso due piccoli cartoncini 8×13 cm. e la memoria entra in scena prepotentemente a rivendicare un suo spazio nell’esperienza formativa del narratore e tra gli inquilini del casello la sua attenzione viene catturata da una creatura davvero “speciale”:

“Amalia, la piccola, una ragazza di dodici o tredici anni, era invece nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri e nervosi. Era lei a fare i lavori esterni e più pesanti: trasportare l’acqua da la fonte, raccogliere frasche e tagliare la legna per la cucina ed il forno, governare una coppia di maiali e tre caprette. Scelsi subito Amalia come mia compagna. Chè selvatica com’era e solitaria, aveva una sua sottile seduzione ed una sua autorevole ed esclusiva possessività. Divenimmo inseparabili. Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero…”.

Una iniziazione, quella di Consolo bambino ai linguaggi naturali che preconfigura l’interesse alla lingua del narratore delle opere di compiuta maturità, da “Il sorriso dell’ignoto marinaio” a “Retablo”. Mi piace concludere queste brevi considerazioni con un ringraziamento ad Amalia, a quella ragazzina “nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri” che lo scrittore lascia al casello…

“Alla fine di settembre lasciammo Ciccardo. Ed io ho impressa per sempre nella memoria la faccia d’ Amalia. Facendo finta di legare fascine, teneva fisso lo sguardo nella cabina. E quando il camion fu messo in moto e cominciò a sussultare, lei lasciò lì le frasche e fuggì, sparì nel bosco, scalza, la testa nera e caprigna, la vesticciola rossa”.

Ad Amalia

dal web fotologie

Le isole

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LE ISOLE

di Vincenzo Consolo

 

 

Una dopo l’altra sulla linea dell’orizzonte, ora vicine e nitide, leggibili nelle case, negli anfratti, nelle casupole bianche, nei fari, nei fuochi e nei fiumi del vulcano, ora lontane e fantasmagoriche, aeree e trasparenti come brandelli di lino o pergamena, erano le isole davanti ai miei occhi, l’arcipelago davanti alla mia casa  dell’infanzia sulla costa tirrenica di Sicilia; un mondo separato, sconosciuto, un teatro di congetture e fantasie. E lì, in quello spazio chiuso tra Stromboli e Alicudi , collacasi naturalmente, alla prima lettura l’Odissea. Su quel mare, tra quelle isole immaginai che si svolsero tutte le disavventure dell’eroe, tutte le tempeste i fortunosi approdi, le soste maliose e le partenze. Lì era per me non solo il regno del custode dei venti, ma anche l’Ogigia di Calipso, e l’Enea di Circe, lì l’isola dei Lestrigoni, dei Lotofagi e dei Feaci. Lì l’antro di Polifemo e le fatali Scilla e Cariddi… Lì era Itaca lontana e irraggiungibile.

Capii dopo che mi trovavo così come i naviganti preomerici, all’origine, all’infanzia dell’avventura e del racconto. Che sempre intorno o sopra isole si svolgono in questi mondi separati. In questi grembi, nella loro misteriosa conclusione e lontananza, di ogni mito, di ogni fantasia.

Per isole e su isole è stato dunque il nostro primo peregrinare di lettori curiosi e innocenti. E’ stato il mio.