Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo (Sant’ Agata di Militello – Messina 1933) è, tra gli scrittori siciliani moderni, una figura atipica di narratore che, pur traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza “isolana” vive da tempo in continente dove si è formato ed ha realizzato le sue più convincenti prove letterarie. Questa distanza gli ha permesso di ricostruire narrativamente momenti e vissuti personali attraverso il “filtro” di un particolare tipo di memoria che spesso si vena di nostalgia. Di particolare interesse è il modello linguistico che per certi versi ricorda il miglior Vittorini (Conversazioni in Sicilia). La” lingua” di Consolo è una ricerca continua di originalità che, solo in parte, deriva dal suo personale timore di non essere riconosciuto o differenziato nell’affollato panorama letterario italiano. A Marino Sinibaldi ha dichiarato in un intervista: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia ed ai suoi esiti. Ma non è dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cercavo di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”. Il suo successo, non commensurato al valore assoluto della sua opera, è stato anche limitato da una sua certa ritrosia ed incapacità di adattarsi alle regole della pubblicità e del consumismo. E’ diventata famosa una sua frase in cui lo scrittore sottolinea che la violenza del tempo e le trasformazioni che ne conseguono finiscono per distruggere un mondo ingiusto, ma pure carico di valori positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e per sovrapprezzo impoverito sul piano umano. Questo osservatore così distante, ma così poco distaccato ha scritto un libro che mi ha stimolato a raccogliere queste brevi riflessioni ed il suo inserimento in questa sezione è il dovuto tributo alla sua onestà intellettuale, al suo garbo di gentiluomo ed al suo genio di scrittore. Il libro si intitola “Le pietre di Pantalica” (1988) ed è diviso in tre sezioni ed è dalla prima di queste (Teatro) che vorrei dedicare la mia attenzione. Nel racconto “Il Fotografo” raccontando il periodo del passaggio del fronte italiano nel suolo siciliano attraverso gli occhi di un fotografo di guerra (Robert Capa) al seguito delle truppe alleate ne descrive così il rapporto con il territorio e le persone in quel particolare, tragico, momento storico:

CAPA-1-TroinaAgosto1943Troina 1943 Robert Capa

“Andava con la sua jeep su per i colli, giù per le vallate, per le distese infinite, gialle nude assolate, con fumi di ristoppie che bruciavano, cocuzzoli giallastri di detriti di zolfare, qualche albero scheletrico qua e là, qualche ciuffo di spino, spaccapietra, vruca, calavèra o di cicerchia, qualche stazzo o masseria solitaria, uguali a quelli di Spagna e della Tunisia, fotografava pastori e contadini. Immobili, con bordoni in mano, logori come la terra su cui stavano, o piegati con gli zapponi a rompere la crosta, sembravano indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Roberta aveva fotografo per quelle lande, fotografato con divertimento e simpatia, uno di questi contadini o pastori, un uomo che s’alzava da terra appena d’una spanna, scavuzzo senza età, terragno monachino, in braghe di tela e gilé di logoro velluto, cenciosa camicia a mille toppe, calzari di tela e pelle di montone, fazzoletto in testa annodato a mo’ di copricapo. Accanto a lui, accovacciato, il culo sui talloni, le braccia sulle cosce, la fede al dito e braccialetto d’oro al polso, uno spilungone di soldato americano, un levigato e bello Gary Cooper, biondo, sano, sorridente. Il contadino, una mano sulla spalla sul soldato, con l’altra, in cui teneva il lungo suo bastone, gl’indicava qualcosa in lontananza, una strada, un paese, forse il miraggio d’un pezzo o d’una fonte. Dietro a loro, la campagna arida, svampante, s’impennava in montarozzi di gessi e silicati. (…) E’ qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle precedenti della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvìo quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali ed impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti.”

Più avanti nello stesso libro Consolo si cimenta nella lettura di due immagini del suo “album” di famiglia, ma, in sintonia con la sua personale poetica, spesso incline alla nostalgia, ne propone una descrizione senza intenti semiologici o tentazioni “barthesiane”. Indossa gli abiti dell’archeologo per effettuare “una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o di frammenti epigrafici da cui partire per la ricostruzione attraverso la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Il concetto di Storia per Consolo, che per certi versi lo accomuna a Georges Perec, tiene conto dell’arbitrarietà e dell’inattendibilità che la caratterizzano, ma lo scrittore siciliano afferma di essere pronto ad affrontare questo rischio “calcolato” proponendosi di navigare a vista attraverso le “Simplegadi dell’allucinazione e del sogno”. Nel 1938, convalescente da una polmonite, Consolo bambino è ospitato in un casello di un paesino montano della provincia di Messina. In quei boschi, dove il padre, commerciante di legnami, si compiono le sue prime timide esperienze affettive evocate, in qualche modo, dalla lettura di due particolari immagini in cui il padre aveva voluto farsi ritrarre dal fotografo del paese accanto al suo principale “strumento” di lavoro, un fiammante camion Fiat 621 targato ME 4318. Con l’ausilio di una lente, Consolo, “legge” così la prima foto:

“Il camion è di faccia, sulla strada in terra battuta, coi quattro fari sul davanti e la maschera del radiatore attraversata in diagonale da una banda bianca. E’ sotto grandi rami di querce che in alto, unendosi, formano come una galleria. La luce piove pezzata sul camion e sulla strada, a chiazze, come in un quadro di Monet. In primo piano, a terra c’è mio padre, un braccio appoggiato al parafango, l’altro ad arco, col pugno puntato contro la vita. E’ in pantaloni scuri e camicia bianca. Sul cassone, sopra il carico di lunghi e grossi tronchi d’albero che sovrasta la cabina, sono altre quattro persone: i due picciotti, gli operai di mio padre, a sinistra, e due boscaioli a destra…”.

In uno “spiazzo sterposo circolare” è collocato, nella seconda foto, l’oggetto dell’orgoglio del padre di Consolo…

“Il camion è posto di traverso, in lungo, quasi infilato nello spazio tra i perfetti coni di due pagliari. Sul vertice dei due pagliari sono in piedi, i pugni contro la vita, come telamonio guglie antropomorfe, i due picciotti; attorno e sopra il camion altre cinque persone: a sinistra, è un boscaiolo in maniche di camicia e gilè di velluto; accanto un uomo anziano, alto, massiccio, barbuto, in gabbanella grigia e coppola, un braccio appoggiato allo sportello del camion, l’altro puntato su un bastone (…) Sul cofano del camion, seduto, a gambe incrociate, le spalle contro il parabrezza, è mio padre: sorride, forse di sé, in quella situazione teatrale, in quella posa per lui innaturale…”.

Ma allo scrittore siciliano non basta questa lettura quasi analitica della “realtà” realizzata attraverso due piccoli cartoncini 8×13 cm. e la memoria entra in scena prepotentemente a rivendicare un suo spazio nell’esperienza formativa del narratore e tra gli inquilini del casello la sua attenzione viene catturata da una creatura davvero “speciale”:

“Amalia, la piccola, una ragazza di dodici o tredici anni, era invece nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri e nervosi. Era lei a fare i lavori esterni e più pesanti: trasportare l’acqua da la fonte, raccogliere frasche e tagliare la legna per la cucina ed il forno, governare una coppia di maiali e tre caprette. Scelsi subito Amalia come mia compagna. Chè selvatica com’era e solitaria, aveva una sua sottile seduzione ed una sua autorevole ed esclusiva possessività. Divenimmo inseparabili. Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero…”.

Una iniziazione, quella di Consolo bambino ai linguaggi naturali che preconfigura l’interesse alla lingua del narratore delle opere di compiuta maturità, da “Il sorriso dell’ignoto marinaio” a “Retablo”. Mi piace concludere queste brevi considerazioni con un ringraziamento ad Amalia, a quella ragazzina “nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri” che lo scrittore lascia al casello…

“Alla fine di settembre lasciammo Ciccardo. Ed io ho impressa per sempre nella memoria la faccia d’ Amalia. Facendo finta di legare fascine, teneva fisso lo sguardo nella cabina. E quando il camion fu messo in moto e cominciò a sussultare, lei lasciò lì le frasche e fuggì, sparì nel bosco, scalza, la testa nera e caprigna, la vesticciola rossa”.

Ad Amalia

dal web fotologie