La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo

a cura di Annagrazia D’Oria

La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?

In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.

C’è una soluzione per continuare a scrivere?

Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.

Che cosa intende per “spirito socratico”?

Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.

  Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.

Parlaci di Catarsi…

E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o  suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.

Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.

Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.

C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”

, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.

E la Sicilia di Pirandello?

Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?

La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di

Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).

E Sciascia?

Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al  potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non  vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?

Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.

Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.

Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.

Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.

Vincenzo Consolo

Prologo

Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
 senza scampo, l’abisso smisurato;
 è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
 gli estremi: le forze naturali
 il deserto di ceneri, di lave
 e la parola che squarcia ogni velame,
 valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
 vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
 ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
 per la dura sordità del mondo,
 la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
 e di Memoria, alle Muse trapassate,
 chiediamo aiuto a tanti, a molti,
 poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
 necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
 e il rimorso è un segno oscuro
 o chiaro che in questa notte spessa
 tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
 il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
 la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia,  l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.

1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002

Isole Dolci Del Dio.

Vincenzo Consolo


Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande
via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo. E anelito e
approdo, l’isola, remissione d’ogni incertezza, ansia,
superamento, scoperta, inizio della conoscenza, progetto
della storia, disegno della convivenza.
Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto,
il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi mondi.
E metafora di questo nostro mondo: scoglio nella vastità del mare, granello nell’infinito spazio;
grembo materno, schermo, siepe oltre la quale si fingono <<interminati spazi e sovrumani silenzi>>. In isole e per isole si svolse la prima e più fascinosa avventura,
il primo poetico viaggio della nostra civiltà.

Per isole di minaccia andò vagando Ulisse, per luoghi di mostruosità e violenza fermi in un tempo precivile; approdò in isole d’incanto e di oblio, di perdita di sé, d’ogni memoria; giunse in isole d’utopia,
di compiuta civiltà. Il regno di Alcinoo nella terra dei Feaci è per Ulisse il luogo di salvezza e insieme di rinascita. Qui, l’ignoto naufrago, rivela il suo nome e narra la sua avventura, opera lo scarto dall’utopia alla storia, dall’idealità alla realtà, dalla dimensione mitica a quella umana.

Dice:

        Itaca è bassa, è l’ultima che in mare
        giace (…)
        rocciosa, aspra, ma buona ad allevare
        giovani forti. Non conosco un’altra
        cosa più dolce della propria terra!
Da isole del mito e insieme della realtà è circondata la più grande isola, la Sicilia,
l’estremo lembo di terra che il furioso Nettuno, lo Scuotiterra, separò con il suo tridente dalla penisola, creando il canale ribollente dello Stretto, dominato, da una parte e dall’altra,
dalle funeste Scilla e Cariddi.

Le Eolie, le Egadi, le Pelagie sono pianeti di quella Trinacria dove, come scrisse Goethe, si sono incrociati tutti i raggi del mondo. Dalla costa tirrenica di Sicilia, si ha davanti dispiegato, fisso e di continuo cangiante, 1o spettacolo delle Eolie. E dal teatro greco sul promontorio del Tindari si gode meglio lo straordinario spettacolo. Per il loro fantasmatico apparire e disparire, per il loro ritrarsi e avanzare, per il mutare loro continuo di forma e di colore, i naviganti preomerici, fenici soprattutto, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi,

le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda. Questo mito raccolse Omero – quel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda.

In Eolia l’eroe è ospite per un mese e riceve in dono, alla partenza, un otre ben sigillato, che gli stolti compagni aprono liberando i venti dell’atroce tempesta che li allontana dalla patria, allunga il tempo della peregrinazione e dell’espiazione.
E certo che la geografia poetica non corrisponde quasi mai alla geografia reale, ma è certo che quella dell’Odissea si può spesso collocare ad occidente della Grecia, nell’ignoto centro del Mediterraneo, che corrisponde alla geografia siciliana nella etnea terra dei Ciclopi, nello Stretto di Messina,
nella piana di Milazzo, dove pascolano gli armenti

del Sole, in Lipari e nelle Eolie, regno di Eolo .,. Il muro di bronzo che cinge Eolia, la liscia roccia a picco sul mare non può non far pensare alla roccia scoscesa della cittadella di Lipari, alle gran mura megalitiche che la circondano. Perché preomerica, antichissima è la civiltà di Lipari e delle altre isole nell’arcipelago, risale al neolitico, conta cinque millenni di storia. Una storia scritta e leggibile, come su un manuale, nei vari strati archeologici del Castello, della contrada Diana e Pianoconte di Lipari, in contrade di Filicudi, di Panarea, di Salina: un grande archivio, come quello grafico di Ebla,

un grande libro di pietre e di cocci di ceramica, di selci e di ossidiana, di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili e di pietre, di crateri e di statue, di monili e di maschere .,. Fin dalla seconda età della pietra sono state abitate le Eolie. Le quali diventano prospere per via del commercio dell’ossidiana. Poi i reperti ci dicono di una violenta distruzione, di incendi e di crolli, di abbandono delle isole, e poi di nuovo del loro risorgere con la colonizzazione greca. E Diodoro Siculo a narrarci nella sua Biblioteca storica la colonizzazione greca delle Eolie. Ci fa conoscere, lo storico, una società di

contadini e di guerrieri, in una netta divisione di ruoli, in una comunione di beni e di consumi da primitivo socialismo; una Lipari prospera e bella, con porti accoglienti e bagni d’acqua salutari. Finisce questa età felice degli eoliani con i saccheggi subiti da parte dei Siracusani e dei Romani. Dopo, in età cristiana, bizantina, araba e quindi normanna, le Eolie vivono una loro lunga epoca di civiltà appartata e autosufficiente. Sospinti dal grecale, navighiamo ora verso occidente, verso le altre isole che coronano la Sicilia. Ustica è la prima che incontriamo (Lustrica, in siciliano, Egina ed Egitta è chiamata da Tolomeo, Strabone e Plinio).

Aspra, inospitale, formata da lave basaltiche e rufi, era in antico disabitata, rifugio ideale di pirati barbareschi. A metà del Settecento i Borboni la popolarono concedendo ai nuovi abitanti franchigie d’ogni sorta, fortificando l’isola, munendola sulle coste di torri di guardia. L’isola allora risorse, venne rimboschita e coltivata. Sospinti ancora da un benefico vento, doppiato il Capo San Vito, incontriamo le isole dello Stagnone, fra Trapani e il Lilibeo, e per prima Levanzo, la più piccola delle Egadi, calcarea, montuosa, che denuncia il suo tempo profondo, i segni primi dell’uomo, nella Grotta del Genovese,

con i disegni e i graffiti preistorici sulla parete dell’ampia caverna. Ma a Favignana però, isola più vasta, ospitale, gli uomini del neolitico escono dalle grotte marine, costruiscono capanni, cacciano e lavorano forse anche la terra, seppelliscono i loro morti in grotticelle a forno scavate nella roccia calcarea. Il tonno propiziatorio dipinto nella grotta di Levanzo qui a Favignana dà il frutto più copioso e duraturo. La tonnara di Favignana, ancora oggi operante, ha scritto la storia più importante della pesca nel Mediterraneo. Marettimo << ultima che in mare giace, rocciosa, aspra>>, è stata da sempre,

come l’Itaca di Ulisse, buona per allevare forte gente di mare. Lo Stagnone ancora contiene, protetta dall’Isola Grande, la gemma più rara: l’isola di Mozia. Stazione degli avventurosi Fenici, ha mantenuto nei millenni intatti le sue mura, i suoi edifici, il suo porto, il suo tofet o necropoli. I Siracusani sconfiggendo i Fenici di Sicilia nella battaglia di Imera, imposero nel trattato di pace di mai più sacrificare i bambini ai loro déi, alla gran madre Tànit o Astante e al gran padre Baal Hammon. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, esultava (<< Chose admirable! >>) per quel salto di civiltà e di

umanità che Gelone di Siracusa aveva fatto compiere a quei Fenici. Un vento leggero e propizio gonfi ora le nostre vele per portarci più a sud, nel mezzo del canale di Sicilia, farci approdare a Pantelleria. È stato da sempre il ponte, quest’isola, tra la vicina lfriqia, oggi Tunisia, e la Sicilia. Ponte per ogni scambio di cultura fra il mondo cristiano e quello musulmano, ponte per scorrerie piratesche, di conquiste, d’emigrazione, nell’uno e nell’altro senso, di lavoratori in cerca di fortuna. Bassa, nera, rocciosa, sferzata dal vento, l’antica Cossira fa pensare alla Tàuride, alla terra d’esilio di Ifigenia.

<<Giace vicina alla steril Cossira / Malta feconda .,.>> ha scritto Ovidio. Ha un lago salato nel centro e soffioni solfiferi, acque termali sparse dovunque. Ma pur così aspra, l’isola è stata da sempre contesa dai Saraceni e dai Cristiani. E’ stato Ruggero il normanno a restituire l’isola alla cristianità. Ma toponomastica, onomastica e lingua sono nell’isola ancora un incrocio di siciliano e di arabo. Ancora più a sud, più vicina alla Libia è Lampedusa. un isolotto di pescatori che la fantasia dell’Ariosto ha innalzato nel cielo della poesia. A Lampedusa l’autore dell’Orlando furioso fa svolgere il celebre duello di tre contro tre, dei saraceni Agramante, Sobrino e Gradasso e dei paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero.   
      Una isoletta è questa, che dal mare
        medesmo che la cinge è circonfusa.
Dice di Libadusa o Lampedusa Ariosto. <<I passi dei nostri eroi che finora hanno spaziato sulla mappa dei continenti, adesso (.,.) fanno perno sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo>> commenta Italo Calvino. E sembra di tornare, in quest’ultima parte del poema ariostesco, agli spazi, alle isole omeriche delI’ Odissea, a quel primo poema, a quei miti da cui siamo partiti.



Note

pag. 11 “Itaca è bassa, ecc.” Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro IX versi 25 -26-27 -28 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 15 “Quindi all’isola Eolia ecc.”Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro X versi l-2-3-+-5 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 35 “Una isoletta è questa, ecc.” Ludovico Ariosto, Orlando Furioso canto XL versi 57-58 Einaudi, Torino 1962 “I passi dei nostri eroi ecc.” Italo alvino, Racconta l’Orlando Furioso capitolo XXI Einaudi Scuola, Torino 1997

I quindici disegni di Giorgio Bertelli (tutti del formato di 14 x 20,5 cm), realizzati a penna su carta uso mano, sono stati ultimati nell’agosto 2000.

Risorgimento e letteratura il Romanzo post-risorgientale siciliano – Vincenzo Consolo

RISORGIMENTO E LETTERATURA
IL ROMANZO POST-RISORGIMENTALE SICILIANO

(letto all’Università del Connecticut il 1° maggio 2002
pubblicato in “Italian culture” XXI – 2003 Michigan State University Press
pag. 149-163 tradotto in inglese da Norma Bouchard
letto alla Biblioteca della Camera dei Deputati, 2011
pubblicato nella rivista italiana della facoltà di Lingue dell’Università Nazionale di Cordoba, Argentina, pag. 117-130, nel 2011

Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,
Terra antiqua, potens armis atque ubere glebae;
Oenotri coluere viri: nunc fama minores
Italiam dixisse, ducis de nomine, gentem.

(Esiste una terra, Esperia i Greci la chiamano,
terra antica, potente d’armi e feconda di zolla;
gli Enotri l’ebbero, ora è fama che i giovani
Italia abbian detto, dal nome di un capo, la gente).
(1-Virgilio – Eneide libro III, versi 163-166 )

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincia, ma bordello !
(2-Dante Alighieri -La Divina Commedia – Purgatorio Canto VI – versi 76-78)

Di quell’umile Italia fia salute,
per cui morì la vergine Camilla,
Eurialo e Turno e Niso, di ferute
(3-Dante Alighieri – La Divina Commedia – Inferno Canto I -versi 106-108)

Italia mia, benché il parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel tuo corpo sì spesso veggio,
piacemi almen che’ miei sospir sian quali
spera ‘l Tevere e l’Arno
e ‘l Po, dove doglioso e grave or seggio.
(4-Francesco Petrarca – Le Rime – CXXVIII – versi 1-6)

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
che lividor, che sangue!
(5-Giacomo Leopardi – Canti – All’Italia -versi 1-9)

Si potrebbe continuare formando una vasta antologia poetica in cui l’idea o l’ideale dell’Italia, come unità di terra, di popolo, di lingua, di cultura è stato vivo e presente molti secoli prima che l’unità politica italiana si concretizzasse.
I versi sopra riportati dell’Eneide di Virgilio appartengono a un poema concepito in gloria dell’Italia, di Roma, della gens Julia, di Ottaviano Augusto. Dalla fine dell’impero romano, dalla frantumazione dell’Italia in varie regioni o città stato, dalle invasioni straniere e dalle guerre che dilaniano quell’antica terra, non è nei poeti, da Dante in poi, che rimpianto dell’antica grandezza, dolore per l’infinita decadenza, invettiva nei confronti dei responsabili di tanta miseria. Nasce allora da questo rimpianto, dolore e furore l’idea di una rinascita, del Risorgimento, il movimento di pensiero e il processo politico che culmina con l’Unità del 1861, ma che ha i suoi sviluppi ancora con la terza guerra d’indipendenza e l’annessione del Veneto e con la conquista di Roma del 1870. Ha un’origine letteraria dunque l’ideale del Risorgimento, ma diviene processo politico con l’età napoleonica. Si riferisce esso certo alla Rivoluzione francese, come rivolta contro l’assolutismo e l’affermazione dei principi di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, dei principi di democrazia vale a dire nel futuro statuto nazionale. Alla Rivoluzione francese si riferisce l’ideale risorgimentale e quindi anche alla Rivoluzione e all’indipendenza americana. Il termine risorgimento ha la sua matrice nel Rinascimento, il secolo d’oro italiano, ma rimanda forse ancora a un archetipo religioso, alla Resurrezione del Cristo. Ma, scrive Gramsci, “Nasce nell’800 il termine ‘risorgimento’ in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di ‘riscossa nazionale’: che è un’idea, un ideale non più o non solo poetico, ma intellettuale, di pensatori, di politici che cospirano, lottano per liberare l’Italia dalle dominazioni straniere, restituire alla sua Unità, monarchica, come l’ha voluta e ottenuta Cavour, o repubblicana, come l’ha desiderata Mazzini.
E il popolo? Il popolo soprattutto nel Meridione, nel Regno borbonico delle Due Sicilie, il popolo soprattutto dopo le insurrezioni del 1848, ha inteso i termini Risorgimento, riscossa e riscatto, non o non soltanto in senso di liberazione nazionale, ma di liberazione, riscatto sociale: liberazione dalla schiavitù feudale in cui le masse dei contadini erano state tenute nel sistema economico di tipo feudale; liberazione dalle miserie urbane in cui si trovavano i popolani di città come Napoli o Palermo; liberazione per tutti dalla miseria, malattie, ignoranza.
Era questo il popolo in cui era penetrato, intorno agli anni Cinquanta, il messaggio degli intellettuali, dei politici. Quel popolo, quella plebe che prima
aveva gioito, ballato e applaudito intorno ai palchi in cui erano stati impiccati o ghigliottinati i protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, patrioti come Francesco Caracciolo, Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano, Domenico Cirillo… “In tutta la sua storia posteriore, fino alla sua definitiva caduta, in tutti i momenti di pericolo, si sente nella monarchia (borbonica), l’attesa, trepida di speranza, che si ripeta il miracolo del 1799 e dal suolo napoletano prorompano a salvarla contadini e lazzari e briganti” scrive Benedetto Croce in Storia del Regno di Napoli.(6) Quei contadini, quei lazzari che, ancora nel 1857, affrontano e sopraffanno i soldati della spedizione del mazziniano Carlo Pisacane, quei soldati che erano approdati nel Salernitano, presso Sapri, per liberare le masse popolari. Il Pisacane, sopraffatto, si uccide.
“Eran trecento, eran giovani e forti, / e sono morti!” è il ritornello della poesia La spigolatrice di Sapri (7) di Luigi Mercantini.
Ma in Sicilia la situazione era diversa, più gravi essendo nell’isola le condizioni di sfruttamento e di miseria delle classi popolari. Il Risorgimento come riscatto sociale era quindi penetrato nelle classi popolari, nelle plebi di città e nei contadini e zolfatari dell’interno dell’isola.
Una insurrezione avvenne il 4 aprile del 1859 nel centro storico di Palermo, nel convento della Gancia; un’altra seguì dopo due giorni a Messina: tutte e due furono ferocemente represse. Ma la rivoluzione esplose, da lì a poco,l’11 maggio del 1860, allo sbarco di Garibaldi e dei Mille a Marsala dai due vapori Lombardo e Piemonte, salpati da Quarto, presso Genova.
A Salemi, Garibaldi assunse la dittatura col motto “Italia e Vittorio Emanuele”. Ai mille garibaldini partiti da Quarto, si aggiunsero man mano i volontari, i “picciotti”, sicché alla conquista o liberazione dell’isola, l’esercito garibaldino ammontava a cinquantamila soldati.
Durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese e intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia.
Man mano che i garibaldini procedevano, di battaglia in battaglia, nella liberazione della Sicilia dal giogo borbonico, qua e là in vari paesi o villaggi avvenivano rivolte popolari contro le locali classi egemoni, contro i borghesi proprietari terrieri, usurpatori di terre demaniali. E i garibaldini dovevano accorrere per reprimere queste forme di jacquerie . É stata questa la pagina più drammatica e dolorosa di tutta l’epopea risorgimentale. “É da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia Nazionale anticontadina;
è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente” scrive Gramsci (Il Risorgimento) (8).Ad Alcara Li Fusi, a Prizzi, Licata, Randazzo, Linguaglossa, Biancavilla e soprattutto a Bronte scoppiarono queste rivolte. Rivolte di contadini e braccianti contro i cosiddetti civili (sorci o cappelli venivano chiamati). “Implacabile la reazione del Governo garibaldino, che nel catanese inviò una spedizione al comando di Bixio, il quale prometteva di dare un esempio tremendo avvertendo: ‘o voi rimanete tranquilli o noi in nome della Giustizia e della Patria nostra vi distruggiamo come nemici dell’umanità’, e infatti restaurava l’ordine con pugno di ferro, riducendo i contadini alla ragione coi consigli di guerra e le fucilazioni sommarie”.
Sulle due rivolte, di Alcara e di Bronte, parleremo più avanti per i riflessi che esse hanno avuto in ambito letterario.
Le contraddizioni fra le due visioni o concezioni del Risorgimento in Sicilia, le si vedono già nel libro-memoria del garibaldino piemontese Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno-noterelle di uno dei Mille,(9) libro agiografico, intriso spesso di retorica, ma che qua e là ha delle smagliature per cui s’intravvede la cruda realtà.
“13 maggio. Salemi. Una donna, con panno nero giù sulla faccia, mi stese la mano borbottando.
Che cosa? – dissi io.
Staio morendo de fame, eccellenza!
Che ci si canzona qui? Esclamai: e allora un signore diede alla donna un urtone, e mi offerse da bere, un gran boccale di terra. Fui lì per darglielo in faccia: ma accostai le labbra per creanza, poi piantai lui per raggiungere quella donna. Non mi riuscì di trovarla”(10) scrive Abba e ancora oltre, e più significativamente: “ Mi sono fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco, e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il calvario con le tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva. Avrebbe voluto esser uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
Non posso.
Forse perchè siete frate ? Ce n’abbiamo già uno. E poi, altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
Verrei, se sapessi che farete qualcosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dire altro che volete unire l’Italia.
Certo; per farne un grande e solo popolo.
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Un solo territorio…In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre: ed io non so se vogliate farlo felice.
Felice! Il popolo avrà la libertà e le scuole…
E nient’altro! Interruppe il frate: – perchè la libertà non è pane e le scuole nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi; per noi, qui, no.
Dunque, che ci vorrebbe per voi?
Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
Anche contro di noi; anzi, prima che contro d’ogni altro. Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei, a quest’ora, quasi ancora con voi soli.
Ma le squadre?
E chi vi dice che non aspettino qualcosa di più ?
Non seppi più che rispondere e mi alzai.”(11)
Qualcosa di più aspettavano da quella rivoluzione le squadre dei contadini, dei picciotti che s’erano uniti ai Mille di Garibaldi. Aspettavano Libertà e Giustizia, ripristino dei loro diritti da sempre conculcati, liberazione dallo sfruttamento dei feudatari e dei loro rappresentanti nel feudo, che erano i soprastanti, i gabelloti, i campieri, quelli che sarebbero diventati i capi della mafia rurale.
Compiutasi l’Unità d’Italia, formatosi lo Stato monarchico, sorse subito, nelle plaghe meridionali del Regno, e soprattutto nel ceto popolare di Sicilia un sentimento di delusione per le aspettative, le speranze tradite di un cambiamento sociale. Nel nuovo stato unitario le condizioni dei contadini e dei braccianti nonché migliorare, erano, se possibile, peggiorate, per nuove tasse, dazi e balzelli che gravavano sul ceto popolare, per l’obbligo della leva militare, che durava cinque anni…In più, contadini e braccianti, avevano visto tornare al potere i nobili e i borghesi di prima, i trasformisti di sempre, e constatato che con il nuovo Regno nulla nella sostanza era cambiato. La delusione e il malcontento fecero riesplodere in Sicilia i ribellismi. Nel 1866 a Palermo. Ribellione di 30/40 uomini in armi che durò sette giorni e mezzo e che fu repressa dal generale piemontese Raffaele Cadorna. Scrive il marchese di Torrearsa, esponente della destra moderata “É un fatto che non bisogna ritenere come esplosione accidentale e come conseguenza delle mene dei frati e dei reazionari. Niente affatto: per me è il logico risultato della profonda demoralizzazione delle masse che non mancherebbe di accadere altre volte, se una causa occasionale ne offrisse nuovamente il destro”.(12)
E la causa si presentò ancora nel 1893, con il diffondersi questa volta del messaggio socialista, e con i fatti dei Fasci dei lavoratori, che non possono più
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ascriversi a un ribellismo istintivo, ma a una precisa consapevolezza di lotta da parte di contadini e zolfatari. Anche i Fasci, i loro scioperi e le loro manifestazioni, furono ferocemente repressi dalle forze dell’ordine statali.
Il Governo di Roma, di mentalità piemontese, di cavouriana borghesia conservatrice, ignorava i problemi del Regno, soprattutto delle plaghe meridionali. Esso doveva amministrare un Paese di 23 milioni di abitanti, in prevalenza rurale e povero, arretrato. Dei 23 milioni di abitanti, 17 milioni erano analfabeti; soltanto il 2,4% sapeva parlare in italiano. 25 anni dopo l’Unità l’Istituto geografico militare potè fornire al Governo una misura definitiva del territorio nazionale (286.588 chilometri quadrati). La classe dirigente dunque, nei primi decenni dell’Unità, del nuovo Regno, si trovò di fronte a un Paese sconosciuto, completamente ignoto soprattutto nella periferia, nel Meridione, in quello che era stato il dispotico e corrotto Regno borbonico delle due Sicilie e in parte anche lo Stato pontificio. É allora in questo periodo che si sentì la necessità di avviare le prime inchieste, pubbliche e private. Inchieste soprattutto, dopo il 1870, sui fenomeni sociali, che i fatti della Comune di Parigi avevano messo in evidenza; fenomeni che avevano dato i loro segni, come abbiamo visto nei ribellismi del 1860, nel ’66 e ancora con i moti della tassa sul macinato, con la renitenza alla leva e con l’incrudelire del brigantaggio. Il quale aveva due facce o nature: una populista, giustizialista, robinoodiana; l’altra reazionaria, mafiosa, di un banditismo vale a dire al servizio della classe dominante, dei feudatari per controllare e sfruttare i contadini. Vengono dunque fatte le prime inchieste pubbliche: Relazioni intorno alle condizioni dell’agricoltura – Atti del Comitato dell’inchiesta industriale – Atti della Commissione per la statistica sanitaria. Nel 1875 e ’76 si svolgono le due più famose inchieste in Sicilia, una pubblica, parlamentare, e l’altra privata: Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino. Due inchieste in Sicilia: perchè dalla Sicilia arrivavano le relazioni, le notizie più preoccupanti sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari. L’una, quella ufficiale, era di taglio ministeriale, da ministero degli Interni e della Giustizia; l’altra, di taglio più politico-sociale, se non umanitario. Dell’inchiesta dei due studiosi Franchetti e Sonnino, di questi due conservatori illuminati, quello che aveva colpito di più l’opinione pubblica nazionale era stato il capitolo supplementare dell’inchiesta, dal titolo Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane: si alzava per la prima volta un velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta e l’Italia ne rimaneva inorridita. Inorridita rimaneva anche per un velo che si alzava su un altro fenomeno siciliano: quello della mafia. Già nel 1838 don Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani, aveva inviato al ministro della Giustizia una relazione sullo stato economico e politico della Sicilia, in cui vien fuori l’organizzazione ch’egli chiama
”fratellanza”, e trent’anni dopo, con la rappresentazione della commedia I mafiusi della Vicaria di Rizzotto e Mosca (13), si chiamerà Mafia. “Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza di un capo, che qui è possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione con i rei. Come accadono furti, escono dei mediatori ad offrire transazioni pel recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste ‘fratellanze’ di un’egida impenetrabile…”(14) così scriveva Ulloa nella sua relazione.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta di Sonnino e Franchetti, dove si diceva di questa specificità siciliana della malavita, della mafia, molti intellettuali l’hanno accolta come una diffamazione dell’Isola, e soprattutto l’etnologo Giuseppe Pitrè e lo scrittore Luigi Capuana. Quest’ultimo scrive un pamphlet contro l’inchiesta dei due studiosi, un saggio dal titolo La Sicilia e il brigantaggio(15).
A quel tempo risale la convinzione in alcuni sicilianisti o nazionalisti oltranzisti, che ogni volta che si mettono in luce i gravi problemi siciliani o italiani, soprattutto problemi di mafia o di corruzione politica, si infanga il buon nome dell’Isola, si nuoce al Paese. Questo sosteneva nel passato il primo ministro Giulio Andreotti quando si scagliava contro il cinema neorealista di Rossellini o di De Sica, sostenendo che i panni sporchi si lavano in famiglia, che voleva dire non si lavano mai. Questo sostiene oggi il primo ministro Berlusconi accusando i serials televisivi, che hanno per argomento la mafia e che vanno sotto il nome de La Piovra, che nuocciono all’economia del Paese: nasce così la cosiddetta Questione meridionale. Questione che dal Fascismo sarà occultata e che riemergerà in tutta la sua drammaticità nel Secondo Dopoguerra. E gli intellettuali, gli scrittori che avevano sognato l’Unità d’Italia, l’avevano sentita come un impegno morale, prima che politico, tramandato dai grandi poeti del passato; gli intellettuali e gli scrittori che avevano anche indossato la camicia rossa dei garibaldini, come Giuseppe Cesare Abba, loro, o i loro figli e nipoti, come hanno reagito di fronte a un Risorgimento che non era quello ideale a cui avevano aspirato? Scrivono essi, con i loro racconti e romanzi, una contro-storia d’Italia, una storia anti-risorgimentale che si può declinare di volta in volta come denuncia di un mancato cambiamento politico e sociale, del trasformismo delle classi dominanti, del tradimento degli alti ideali risorgimentali, dell’immiserimento, nella cinica pratica politica, dei principi democratici. Si può ancora declinare come revanscismo o rimpianto dei vecchi ordini di potere, rimpianto del distrutto regno borbonico. E ancora, in una visione metastorica, in cui ogni volontà o azione ai fini di un cambiamento sociale non è che inganno, poiché l’individuo, l’uomo,di qualsiasi condizione sociale,è fatalmente destinato
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alla perdita, alla sconfitta: egli è sempre e comunque un Vinto. O al di là di questo assoluto pessimismo, si può declinare in una visione scettica nei confronti della storia. La quale non è che un processo deterministico, in cui le classi o i poteri si spengono e spariscono, vengono sostituiti da altri per una fisica, meccanica necessità.
Stiamo parlando di racconti e romanzi di autori siciliani scritti come critica al Risorgimento. Stiamo parlando della novella Libertà e del romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga, de I Vicerè di Federico De Roberto, de I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, de Il Quarantotto di Leonardo Sciascia e de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Nella novella Libertà racconta della rivolta di Bronte del 1860, della strage dei ‘civili’ e della repressione da parte di Nino Bixio. L’intellettuale conservatore, lo scrittore rivoluzionario Giovanni Verga vede i rivoltosi di Bronte come degli incoscienti ed illusi che hanno creduto nel cambiamento del loro stato sociale e alla fine ne pagano le conseguenze con la morte o il carcere. “Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? – in galera ? – O perchè ? Non mi è toccato neppure un palmo di terra ! Se avevano detto che c’era la libertà!…”(16)
Ne I Malavoglia la storia è vista dagli umili pescatori di Acitrezza come un evento fuori dalla loro vita, storia che, quando arriva a investirli, non è che portatrice di sciagura, come quella che tocca a Luca, nipote di padron ‘Ntoni , che muore nel 1866 durante la battaglia di Lissa.
De Roberto rovescia la concezione fatalistica verghiana, riporta la sua polemica antirisorgimentale sul piano storicistico, dimostra che vinti non sono gli uomini per destino, ma per precise ragioni storico-sociali, che i potenti, adattandosi con cinismo ai nuovi assetti politici, riescono sempre ad essere, a restare vincitori. Consalvo Uzeda, principe di Francalanza, neo eletto al nuovo Parlamento italiano dice alla altezzosa zia conservatrice donna Ferdinanda:”La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perchè mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento”(17). E conclude: “Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine. Di simili ostinazioni nel bene e nel male…(…) Vostra eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto.No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”(18).
I vecchi e i giovani di Pirandello è un grande affresco storico, come I Viceré di De Roberto.É il romanzo del fallimento, pubblico e privato,di tutti i personaggi,
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sia dei garibaldini del ’60, come Mauro Mortara, sia dei socialisti dei Fasci del 1893, come Lando Laurentano, del borbonico principe don Ippolito Laurentano e della sorella Caterina, dell’eccentrico ed estraneo del mondo, don Cosmo, dei deputati D’Atri, Covazza e Selpi, dei socialisti velleitari Lizio e Pigna, del folle Marco Prèola…Inganni e fallimenti della politica, tradimento del Risorgimento, scandali come quello della Banca Romana…Scrive il critico Carlo Salinari:”Nel romanzo si ha l’acuta consepevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e della arretratezza delle masse”(19).
Ne Il Quarantotto di Sciascia è messo ancora a fuoco, come ne I Viceré di De Roberto, il trasformismo della classe egemone siciliana. Il barone Garziano, borbonico e reazionario, allo sbarco dei garibaldini ospita a casa sua Garibaldi, Sirtori, Ippolito Nievo, Carini, Türr…e diviene emerito patriota.
“Nunc et in hora mortis nostrae”: fra questi due punti inesorabili, fra questa sorgente e questa foce, fra il presente e la sua fine, sotto l’esiguo raggio tra due tenebre scorre il fiume della vita, si svolge il filo del racconto; dalla riva della lucidità e del disincanto si posa sopra il mondo, sopra gli eventi, lo sguardo freddo di Salina e insieme di Lampedusa; sulla nota bassa e melanconica della consapevolezza della morte s’imposta la sua voce. Morte dell’individuo, del principone, e insieme morte d’un tempo, quello del Regno borbonico, e di una classe, l’aristocrazia siciliana. Con questa visione di disincanto, di scetticismo il Lampedusa interpreta il Risorgimento. E vede così ineluttabile la decadenza dei Gattopardi e l’ascesa degli sciacalli e delle iene come don Calogero Sedara, ineluttabile il cinismo e l’opportunismo del nipote Tancredi, il giusto suo accoppiamento con la bellissima e sensuale Angelica, nipote di Peppe Mmerda. Rifiuta, don Fabrizio, il laticlavio del nuovo senato del Regno che l’inviato del Governo Chevalley viene ad offrirgli, ma accetta la filosofia del giovane rampante Tancredi, simile a quella di Consalvo Uzeda:”Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”(20).
In occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fra le celebrazioni dell’anniversario, c’era stata anche una rilettura critica del Risorgimento, la sua liberazione dall’oleografia in cui era stato avvolto. Si rilessero i romanzi sopra citati, ma anche la storiografia critica sino a quel momento negletta. Nel 1963 , Leonardo Sciascia curava e faceva ripubblicare il libro di Benedetto Radice sui fatti sanguinosi di Bronte, già pubblicato nel 1910, Nino Bixio a Bronte.(21) Da questa memoria storica venne tratto il film di Florestano Vancini, sceneggiato
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dallo stesso Sciascia, Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. La filmografia sul Risorgimento era stata fino ad allora di tipo evocativo ed agiografico: Viva l’Italia di Rossellini, 1860 di Blasetti, Camicie rosse di Alessandrini. Il film dunque di Vancini, che faceva scendere dal piedestallo del monumento un eroe come Nino Bixio, aveva suscitato scandalo e polemiche.
Nel clima delle celebrazioni del centenario e nella rilettura del Risorgimento, concepii il mio Sorriso dell’ignoto marinaio. Partii dalla lettura della storiografia risorgimentale, da Croce a De Sanctis, Salvemini, Romano, Romeo, Giarrizzo, Della Peruta, Mack Smith, fino all’eterodosso Renzo Del Carria, al suo Proletari senza rivoluzione (22), e fino alla più minuta memorialistica, alle storie del ribellismo locali del ’60, come la ribellione di Alcara Valdemone, un paese sui Nebrodi, molto vicino al paese dove io ero nato. E ancora avevo percorso la rilettura di argomento risorgimentale, di cui sopra ho riferito. Clamorosamente esplodeva in quegli anni, in cui si leggeva criticamente il Risorgimento, il fenomeno del Gattopardo. Il tono evocativo-romantico di un tempo e di un mondo perduti, aumentava il fascino del romanzo e faceva accettare il suo messaggio conservativo. La visione scettica di Lampedusa, nonché verso il Risorgimento, era verso ogni sconvolgimento d’un ordine (“quell’ebreuccio di cui non ricordo il nome”)(23), d’un ordine che, pur nella sua ineludibile iniquità, possiede una sua naturale armonia che in alto, per lenta distillazione di linfe, può dare i fiori più belli d’una civiltà.
Irritava così il romanzo i neo-risorgimentali, gli intellettuali che, nel nome di Marx, nel nome di Gramsci, al di là d’ogni bellezza, fosse pure letteraria, poetica, credevano nella giustizia, nell’equità come portato della storia, nel rispetto d’ogni diritto e umana dignità, nel recupero alla società d’ogni margine di debolezza e impotenza. Queste istanze, si sa, penetrarono non già nei contadini e braccianti meridionali – com’era accaduto alla fine dell’Ottocento – ché costoro, con l’infrangersi dell’antico sogno della terra, con il fallimento d’una riforma agraria sempre voluta, con il rapido e unico sviluppo in senso industriale del Paese, in massa erano emigrati nel Nord, ma erano penetrate, le istanze, in contesti urbani e industriali, a Torino, a Milano erano deflagrate.
M’ero trasferito nel 1968 dalla mia Sicilia a Milano e subito mi trovai di fronte a uno sfondo industriale, a un conflitto sociale fra i più accesi del dopoguerra, che il potere e le forze della conservazione cercavano di placare con omicidi e stragi, che il terrorismo politico poi, con uguale metodo e uguali misfatti contrbuì a dissolvere; mi trovai di fronte a una profonda crisi culturale, alla contestazione in letteratura operata dai due fronti contrapposti degli avanguardisti e degli sperimentalisti.
Mi trasferii dunque a Milano nel ’68 con l’idea incerta del mio Sorriso, e la
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nuova realtà, il nuovo clima in cui ero immerso, mi spaesarono, sì, obbligandomi però a osservare, a studiare, a cercare di capire, di capirmi. E passarono anni per definire il progetto, convincermi della sua consonanza con il tempo, con la realtà, con le nuove etiche e le nuove estetiche che essa imponeva, assicurarmi della sua plausibilità. Assicurarmi anzitutto che il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale, passo obbligato, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, era per me l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali (l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura storiografica e letteraria, la “voce” di chi non ha il potere della scrittura, per accennarne solo alcune) e insieme utilizzare la mia memoria, consolidare e sviluppare la mia scelta stilistica, linguistica originaria, che m’aveva posto e mi poneva, sotto la lunga ombra verghiana, nel filone dei più recenti sperimentatori, fra cui spiccavano Gadda e Pasolini. La struttura poi del romanzo, la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni, lo connotava come metaromanzo o antiromanzo storico. “Antigattopardo” fu detto il Sorriso, con riferimento alla più vicina e ingombrante cifra, ma per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini. Era il superamento insomma di quel “fiore” di civiltà, di arte, rappresentato dall’ignoto di Antonello da Messina, il dipinto che fa da leit-motiv al romanzo, superamento del suo ironico sorriso, dell’uscita, lungo la spirale della chiocciola (altro simbolo del libro), dal sotterraneo labirinto, dell’approdo alla consapevolezza, alla pari opportunità dialettica. Romanzo fortemente metaforico quindi il Sorriso. Di quella metafora che sempre, quando s’irradia da un nucleo di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.

Vincenzo Consolo

Note:
(1) Virgilio, Eneide Libro III – versi 163-166 – To -Edizioni Einaud 1974
(2) Dante Alighieri, La divina Commedia, Purgatorio Canto VI versi 76-78
Me – Casa Editrice Giuseppe Principato 1963
(3) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I versi 106-108
Me – Casa Editrice Giuseppe Principato 1963
(4) Francesco Petrarca, Le Rime CXXVIII, versi 1-8 Mi Riccardo
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Ricciardi Editore, 1951 – pag. 183
(5) Giacomo Leopardi, da i Canti, All’Italia, versi 1-9 – Fi Sansoni Editore
1969 – pag.3
(6) Benedetto Croce Storia del Regno di Napoli, Bari – Giuseppe Laterza
& Figli 1966 – pag. 209
(7) Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri, versi 1-2, Mi – Riccardo
Ricciardi Editore 1963 – pag. 1079
(8) Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Roma – Editori Riuniti 1971 – pag.133
(9) Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno,Roma – Gherardo Casini
Editore 1966
(10) prima citazione stesso volume – pag. 43
(11) seconda citazione stesso volume – pag.67-68
(12) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. I (citazione di
Torrearsa), Pa – Sellerio Editore 1984 – pag. 208-209
(13) Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca – commedia rappresentata per la
prima volta nel 1863
(14) Leonardo Sciascia, Opere 1971-1983 in Cruciverba (citazione di Pietro
Ulloa) Mi – Bompiani 1989 – pag. 1107-1108
(15) Luigi Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, Roma – Editore Il Falchetto
1892
(16) Giovanni Verga, Tutte le novelle, da la Libertà, Mi – Mondadori 1971
pag. 338
(17) Federico De Roberto, I Vicerè, Mi – Garzanti Editore 1963
prima citazione– pag. 652
(18) seconda citazione stesso volume – pag. 654-655
(19) Carlo Salinari, Boccaccio, Manzoni, Pirandello, Roma – Editori Riuniti
1979 – pag. 185
(20) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Mi – Giangiacomo
Feltrinelli Editore 1974 – pag. 36
(21) Benedetto Radice, Bino Bixio a Bronte, Caltanissetta – Edizioni
Salvatore Sciascia 1963
(22) Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Roma – Savelli Editore
1975
(23) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Mi – Giangiacomo
Feltrinelli 1974 – pag. 211

Milano, 13.4.2011

Viaggio in Palestina, con il Parlamento Internazionale degli Scrittori.

Nel marzo 2002, su invito del poeta palestinese Mahmoud Darwish, da mesi assediato a Ramallah dall’esercito israeliano, una delegazione del Parlamento Internazionale degli Scrittori si reca nei territori palestinesi. Sono otto autori provenienti da quattro continenti: il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka, il sudafricano Breyten Breutenbach, il poeta cinese dissidente Bei Dao, il romanziere americano Russell Banks, il premio Nobel portoghese José Saramago, l’italiano Vincenzo Consolo, lo spagnolo Juan Goytisolo e lo scrittore francese Christian Salmon, presidente del P.I.S. I testi pubblicati per rompere l’isolamento di scrittori e poeti palestinesi sono il racconto di una realtà che la cronaca ha consumato al punto da impedire una vera presa di coscienza.

***

Giorno 24.03.2002

Partenza ore 9.30 – 10 da Charles De Gaulle

Controlli e controlli.
Arrivo con tutti gli altri scrittori e il seguito dei giornalisti a Tel Aviv alle 15 (ora locale).
Controlli a non finire.
In pullman partenza per Ramallah. Segni della guerra. Selvaggio come quello del tavolato degli Iblei. Posti di blocco, soldati armati e con fucili puntati dietro muretti di cemento e sacchi di sabbia. Controlli rigorosi.
Ti salutano sorridendo.
Dopo il secondo controllo veniamo presi in consegna dai palestinesi.
Ci precede una macchina della polizia coi lampeggianti e con un suono lugubre della sirena. Ci conducono, non si capisce perché, dentro il recinto di una caserma.
Chi ci guida è un addetto del consolato francese.
Usciamo dal recinto militare e quindi, attraversate le strade desolate di Ramallah, arriviamo all’Hotel che si chiama Grand Park.
Ci offrono all’arrivo, nella hall succo d’arancia. La camera è confortevole.

…….. è molto gentile con me. Mi spiega tante cose. Egli è stato qui durante la prima intifada, già due volte.
Mi avvertono al telefono dalla portineria che alle 20 incontriamo qui in albergo il poeta Maḥmūd Darwīsh .
Incontro con Maḥmūd Darwīsh a cena in un altro albergo. Molti intellettuali invitati.
Uno mi fa vedere un ….. di coloni da cui hanno sparato.
Risveglio a Ramallah. Paesaggio della mia infanzia, macerie e cose sparse, macchine che vanno su strade sterrate.

Giorno 25.03.2002

Visita al centro culturale. Noi parliamo, parlano in tanti di loro.
Visita al centro di Ramallah con Juan Goytisolo
Visita al campo profughi di al-Am’ari
  Visioni terribili
Centro sportivo sfondato da parte a parte.
Quattro donne, sedute, sono come una casa greca. Tanti, tanti bambini.
Visita all’Università di Bir Zeit. 
Checkpoint Ragazze quasi tutte col foulard in testa.
Acclamazione di Darwish. Incontro al teatro, strapieno, letture di nostri poeti.

Ore 12

Incontro al centro della Stampa – Saramago
Vice di campo di concentramento (Auschwitz)
Una giornalista israeliana che sta in Palestina, dice “dove sono le camere a gas?”

L’indomani incidente nei giornali. Polemiche
Soldati di guardia nel pianerottolo.

Giorno 26.03

Partenza per Gaza (60 km) Paesaggio collinare roccioso e desolato.
Villaggi coloniali. Oppressione agricola.
Arrivo al checkpoint.
Ci attendono le macchine dell’ONU con il rappresentante Bressan (francese)
Dopo tanta attesa scortati partiamo per Gaza. Hotel Beach

Ore 11-14

Visita al campo dei rifugiati a Khan Yunis e Rafah –
Scritte sui muri, foto di uccisi.
C’è una cerimonia funebre (tre giorni) sulla strada improvvisata. Mangiano e fanno musica.
Vado a vedere con Soyirca
Ritorno a Gaza. Checkpoint.
File di macchine, perenni.
Incontro con intellettuali per i diritti umani.

Giorno 27.03

Partenza per Jerusalem –
Ore 10 – Partiti di nuovo con i pullman dell’ONU –
Intanto son partiti, ieri sera, Breitenbach – Bei Dao(Cinese) e…
Sappiamo che Peres s’incontra con Soiynca e Breitenbach
Lunga attesa al checkpoint.
Controlli minuziosi
Sul pullman finalmente, Laila al microfono fa l’imitazione di una guida
turistica israeliana.
Ci fanno vedere lungo la strada, installazioni di colonie israeliane.
Dappertutto venivano rasi al suolo i villaggi palestinesi e la gente massacrata,
seppellita in fosse comuni, su una di queste forse hanno costruito un manicomio.
Il responsabile del massacro, anche, lui alla fine è divenuto pazzo
1948 Jerusalem Begin

Arrivo a Jerusalem alle 12 – American Colony Hotel di lusso

Pranzo – Due israeliani dissidenti con noi.
Visita alla città vecchia.
C’è con noi la moglie del Console francese, Darla, una bella ragazza cubana che ha studiato a
Firenze e parla italiano.
Un professore iraniano dell’Università di Bir Zeit ci fa da guida.
Visita al Santo Sepolcro, ai quartieri palestinesi e israeliani.
Visita al Muro del Pianto. Gli ortodossi, nelle loro fogge nere, coi cappelloni di pelo in testa,
corrono per l’ora della preghiera.
Ritorno in albergo
Sera: ricevimento al Consolato francese
C’è anche il Console italiano.
(Incrociamo la processione dei francescani)

Giorno 28.03

Telefono a Caterina e mi dice terrorizzata dell’attentato a Netanya.
Siamo nella hall dell’albergo molto tristi. Arriva, con passo svelto, David Grossman.
Si appresta a parlare con Russel. Dovremmo ora tutti insieme riunirci con Grossman.
Ma non si sa.
Telefono alla corrispondente dell’Ansa, Barbara Alighiero, che è qui in albergo, e mi dice
che sono arrivati a Tel Aviv 100 pacifisti italiani, con tre parlamentari Verdi, e sono stati bloccati.
Adesso loro stanno facendo un sit-in all’aeroporto.
Incontro alle 10.30 con Grossman

Ore 11.30

Laila ci lascia (teme per la vita)
Ora Saramago, Cecità Goya, Il sonno della ragione

(loro chiamano Hitler Arafat) la Direttrice della Cinematheque dice a Saramago di ritirare la parola
Auschwitz. Replica Direttrice Van Leer – Soyinka.  Teologia della morte.

Ore 12

Partenza in pullman per Jaffa. Incontro il giornalista …
Elias Sabar dice che Sharon ha ordinato a tutte le autorità non governative di evacuare Ramallah
(significa che ha intenzione di bombardare)
Conferenza stampa a Jaffa.
Mangiato a un ristorante palestinese sulla spiaggia che poteva essere povero e di cattivo gusto
(ma in cui si mangiava bene), di una qualche spiaggia siciliana, napoletana o laziale (come quella di Ostia). E in più è grigio e piove.

Ore 16.30 (italiane)

Mi telefona da Ramallah Piera Redaelli, mi dice che sono chiusi in casa da 2 giorni, senza luce, che hanno ucciso 5 palestinesi, che sono circondati dai carri cingolati.

Le 9 liriche del grande Piccolo Vincenzo Consolo

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

In fotografia, Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo immortalati da Ferdinando Scianna. Riproduzione riservata © Ferdinando Scianna/Magnum Photos.

 


Le 9 liriche del grande Piccolo

  Successe che scesero dai monti sulla costa, dove già  vi erano i castelli, al rumore di ferro del convoglio che affumava gallerie d’aranci, scuoteva torri in disuso ardite sugli scogli, crepavano i muri, cadevano le mensole e gridando cercava altro riparo il gabbiano.
Qui costruirono case intricate su vicoli segreti, inchiodarono agli angoli di spalliere sui terrazzi teste mozze di mori che la sera avevano il fiato agre di cedronella; nei pozzoluce murarono i tarì.

D’ Alcara solo due, e uno era sciancato. Il resto era rimasto sotto terra al castel Turio (pietà , cristiani!), le gole aperte con le cesoie per la lana dai pastori il giorno della vendetta amara, da sempre covata, nello spiazzo d’ Adelasia Regina (e questo fu il sessanta).
Poi si seppe -ma loro non lo ammisero- ch’erano i campieri di Gallego, d’Aragona e Branciforti.
I più erano scemi, altri si incattivirono o impazzirono a covare le primavere le zagare con gli occhi (ah! le risate dei potatori di Gioiosa, così liberi, beffardi, ingiuriosi).

E ogni giorno crebbero con noi, e fu uno sforzo staccarseli di dosso, così ingombranti, prepotenti, fastidiosi. Talchè, in un attacco di acuta giovinezza, meditammo -estrema soluzione- la deflagrazione del Casino. Di don Stapìno si diceva ch’era figlio di sgarro della marchesa Fi.
Girava, don Stapìno, per i paesi, Capo d’ Orlando, Olivieri, Montalbano, con la cassetta orizzontale sulla pancia (ch’aveva incavata) a vendere aghi, cordelle, stringhe, bottoni di madreperla; affittava il canocchiale -un tanto la guardata- che portava allungato sotto l’ascella.

Nei giorni di luglio, quando Lipari e Salina scivolano sull’acqua e tornano alla costa (gli aprono la strada schiere di pomice e meduse), passava sulla spiaggia, sotto il faro del Capo (luceva al sole la sua giacchetta d’alpagà ) e poneva sopra l’occhio velato d’una lacrima quel tubo nero che conteneva solo la notte, parlando nell’orecchio : scorgi se vuoi, ad ovest, caicchi levantini, il brigantino svevo, la danza dei delfini; ad est, nel nero delle terre, cisterne senza acqua, colonne di calce reggenti il pergolato, infino il fiore di cappero e l’uva vizza della malvasia.
A casa (viveva nelle segrete, al castello dove la notte, tra l’edere, dai fiori del becco soffiava il gufo mai veduto), leggeva la ventura della gente. e apparire faceva facce di morti nell’acqua del bacile, marciare a tempo i trespoli del letto, parlare turco un gatto con voce di bambina.
Col tempo (avevo avuto la ventura di capire ciò che mio padre non aveva saputo fare), mi rimase solo nel cuore don Stapìno. I campieri -ed i padroni d’essi- erano già  passati nella testa, dove l’amore e l’odio hanno la porta chiusa.
Don Stapìno morì (trovarono quaderni che gli spazzini gettarono nel crine che bruciava del suo letto) e ritornò a vivere.

Era del Capo, ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in motoretta. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una gioia incomprensibile. M’accadeva di incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva.
Mi trovavo un giorno nella bottega del tipografo con sette dita (tre gliele aveva mangiate la rotativa) quando entrò il barone : anche così fermo, davanti a un banco a un passo da me, fuggiva. Parlò, e parlò di poesie, che Settedita gli doveva stampare con i suoi caratteri “frusti e poco leggibili”, legare i fogli in una copertina marrone marmorizzata, a fingere un bloc-notes, in sessanta copie e non di più. E nei silenzi continuava a parlare, gli affiorava alle labbra un respiro intriso di parole smozzicate, sillabe, suoni, bolle d’un suo discorso interno irrefrenabile.
Uscì il barone, ed io, incantato, non rispondevo a Settedita che mi chiedeva i soldi per l’Ariosto rilegato e che ora aveva dodici dita e il tredicesimo già  gli fioriva, storto, sopra il dorso della terza mano.
Questo fu verso la fine del ’53 : era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria, in Sicilia la Madonna piangeva al capezzale dell’ operaio e per un soffio, alle elezioni, la legge del Poliziotto non scattò.
Capii che la nobiltà  diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito.
Tutti sappiamo quale sorte ebbe poi quel bloc-notes intitolato 9 liriche, ce lo racconta Montale in appendice al volume dello ‘Specchio’ Gioco a nascondere – Canti barocchi.
(Le sessanta copie di quel libretto originario, 9 liriche, si dispersero al vento come spore, non si sa in quali bui e sordi recessi andarono a finire. Dopo anni -una vita- ho avuto in dono dal figlio dello stampatore Zuccarello una copia di quel raro, prezioso libretto).

Lucio Piccolo di Calanovella è nato a Palermo nel 1903 e ha vissuto nella sua villa -bianca e gialla, su un’ altura, dove si arriva per una stradina a spirale dentro fitti alberi, che domina la piana di limoni; le Eolie, Milazzo e Cefalù nel cerchio dell’orizzonte; nelle sale tra quadri e busti di antenati, drappi, tondi, casse, bacheche dove brillano, all’incerta luce, piatti e brocche arabe, ceramiche Daruta e di Faenza, panciuti vasi Ming su tavoli e credenze – alla Piana di Capo d’Orlando.
Troviamo dapprima questi Piccolo (allora Pizzoli) a Messina, dove vi erano venuti con gli Aragonesi. Verso il Quattrocento s’ imparentarono più volte coi Lancia di Brolo e così si diramarono nei territori di Naso e Ficarra.
Nell’ Ottocento di trasferirono a Palermo, dove abitarono in un villino in via Libertà , presso piazza Croci.
Il nonno del poeta sposò Agata Notarbartolo Moncada, mentre la madre era una Tasca Filangeri di Cutò (una cui sorella andava sposa al pricipe Tomasi di Lampedusa). Nel 1930 ritornarono definitivamente a Capo d’Orlando.

Così, nel poeta, convivono due anime, quella palermitana, spagnola, barocca, delle vecchie chiese, dei conventi, degli oratori, tutta scenografia interna che fa da sfondo alla sua infanzia-adolescenza; e quella messinese, greca, della campagna, della natura, scenografia esterna che fa da sfondo alla sua giovinezza-maturità , ma che egli riduce -è bene dirlo- sempre alla cifra barocca.
“I campi siciliani sono metropoli vegetali” dice Brancati, e bisogna aver visto questi del territorio di Capo d’Orlando (in novembre, quando l’ odore d’ olivo pigiato impregna l’ aria) per capire quale brulichio, quale sfrenatezza, quali intrichi e contorcimenti può avere la vita vegetale (e si legga al riguardo, Veneris venefica agrestis o Anna perenna).
Dopo Gioco a nascondere – Canti barocchi, il poeta ha pubblicato un’ altra raccolta di liriche, Plumelia. E, infine, un balletto, Le esequie della luna. Diciamo balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico, Pastorale ne formano i tre tempi. La luna, fanciulla che si ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese) : ne vediamo gli effetti alla corte di un vicerè, in un convento di trepide suore e in una campagna, dove infine la luna, fanciulla ricomposta, in un’ urna viene sepolta presso le acque.
La prosa è limpida, quasi modesta, da relazione, ma che, a tratti, ha momenti di accensione lirica, di presa suggestiva sul lettore. E l’ ironia è la sua forza, l’ ironia che incide, ad esempio, tre figurette amabili, la suor Crocefissa, la speziale e, ultima, donna Pasqua, “fimmina di badia”, che ci lascia incantati e perplessi con la visione della sua tonda faccia di luna, stupita per interne dolci commozioni, dietro la grata, tra la malvetta e il garofano.

Questo scritto, ampliato da Vincenzo Consolo, era apparso in Delle cose di Sicilia, Palermo, Sellerio, 1986.

Vincenzo Consolo

 

 

Il prodigio

*


Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale dei limoni, granato di mezzelune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.

Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.

“Il prodigio” Con una Considerazione sulla forma racconto , prefazione
di Ambrogio Borsani.
in copertina: disegno di Manuela Bertoli.


Il prodigio

Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale di limoni, granato di mezze lune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.



  
                                                                  Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.


Edizioni Libreria Dante & Descartes

” Cutusìu ” di Nino De Vita prefazione di Vincenzo Consolo

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PREFAZIONE

Voglio, subito, ricordare, rievocare un tempo, una stagione vicina, ma che appare ormai lontana, quasi remota. Rievocare un tempo in cui in Sicilia, giovani o non più giovani, come raggiun­ti da un messaggio, si muovevano da città o paesi e convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Di­segnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, in quegli itinerari, in quella convergenza vittoriniana, una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito.

Cominciò quel movimento tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella frattura che la guerra aveva creato, nel vuoto, nello smarrimento e nel vuoto anche per il biblico esodo in quegli anni del­le masse contadine dall’Isola, quegli uomini volevano ricreare un’altra mappa, memori di quelle che passate generazioni, in stagioni straordinariamente luminose, erano riuscite a disegna­re. Le mappe di Verga, De Roberto, Capuana e le altre di Pirandello, Rosso di San Secondo, Lanza, Savarese e ancora di Borgese, Brancati, Quasimodo, Vittorini…

E fu, il primo e il più attraente punto di convergenza una città nel cuore della Sicilia, Caltanissetta (con Racalmuto e la contra­da Noce – un Cutusìu allora di radi alberi, d’aridume e di vento; un collinare Càusu, una Tebìdi girgentana). Il richiamo era Leonardo Sciascia. Attorno a lui – con lo sfondo della casa editrice del commendatore Sciascia, della rivista «Galleria», dei Quaderni di Galleria e della collana di poesia Un coup de dés – erano poeti come Stefano Vilardo e Alfonso Campanile, pittori, incisori. Let­ti e scelti da Sciascia, pubblicavano nei Quaderni Pasolini, Capro­ni, Bodini, Roversi, La Cava, Fortini, Cesare Vivaldi, Biagio Marin, Marniti, Volpini, Compagnone, Salvatore Comes, Fiore Torrisi, Antonino Uccello…

Da Racalmuto si andava poi in comitiva ad Agrigento, dove s’incontravano altri scrittori, poeti. E luoghi di richiamo, di con­vergenza furono ancora Palermo, Bagheria – all’Aspra dove impe­rava con la sua voce di ferro Ignazio Buttitta –, a Catania, a Sira­cusa, a Capo d’Orlando, in quella contrada Vina dove modulava i suoi versi Lucio Piccolo, a Lentini, a Enna, a Ragusa, a Mineo…

Anno dopo anno, si tessé allora una trama di consonanze, si stese un registro di appartenenza, un libro contabile dove credi­ti e debiti appartenevano a un bilancio non solo delle parole, ma soprattutto dei gesti, s’inscrivevano nella spirituale economia dell’insegnamento e dell’apprendimento. E noi, i catecumeni, gli apprendisti, il maggiore debito l’avevamo contratto con quel maestro, con quel grand’uomo e grande scrittore che è stato Leonardo Sciascia. Quest’Isola dei destini incrociati si trasformò poi nel giardino dei sentieri che si biforcano. Giunse per me, per altri, il tempo dell’andare, dell’abbandono dell’Isola, dell’emigrazione in altro luogo. Ma quella trama certo non cessava, s’infitti­va anzi, s’arricchiva. S’arricchiva con Bufalino. Le crudeli scomparse, le lontananze, gli esìli, sembra che abbiano arrestato la na­vicella che scorreva sul telaio, abbiano tagliato quei fili, relegato la trama in altro tempo. Così non è, se ancora tesse e annoda oggi un poeta come Nino De Vita. Il più giovane di noi, egli ha raccolto il testimone di quella stagione, di quel tempo. Un autentico poeta, vero artefice di quel mistero, di quel miracolo che si chiama poesia. Appartato, pudico, da quel suo ònfalo, da quel luogo profondo che è Cutusìu egli ha saputo liberare suoni, parole, ricreare un mondo.

La prima sua raccolta in lingua, Fosse Chiti (Lunarionuovo – Società di Poesia, 1984 e quindi Amadeus, 1989), attirava l’attenzio­ne di lettori avveduti: Raboni, Onofri, Di Grado, Delìa… «Nutrita di buone letture novecentesche (da Sbarbaro, direi, a Sereni), estranea a qualsiasi inquietante proposito di oltranzismo o palingenesi formale, la sua poesia vive di una sommessa, incantevole, ‘inspiegabile’ precisione. Erbe, fiori, insetti sono osserva­ti e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il batti­to, il tremore di una sottile febbre amorosa»,1 scriveva Raboni.

Quell’inspiegabile avanzato da Raboni, conoscendo De Vita, il suo teatro, quell’angolo del mondo che si chiama Cutusìu, quella campagna marsalese tra lo Stagnone e il monte, tra Mozia ed Erice, le saline e le crete, e alla luce poi della sua svolta lingui­stica, del suo primo libretto in dialetto Bbinirittèdda, diventa spiegabilissimo. L’asciuttezza, la scabrosità della parola, la perfetta adesione della parola alla cosa, la precisione non potevano che scaturire dalla conoscenza, e dalla conoscenza l’amore. Poesia, quella, del trasalimento di fronte allo spettacolo del mon­do, dello stupore di fronte alla natura, al cosmo. Fra zolle, piante, fiori, insetti, uccelli, cieli e acque, volgere di giorni, di stagioni, l’uomo non compare mai, lo si immagina in quest’universo, nel­la dura fatica dell’esistere. E qui solo l’occhio del poeta che guar­da, nomina e crea. Crea un paesaggio ora edenico ora infernale, rigoglioso e arido, sereno e drammatico. Ci sono echi e temi del­la grande poesia, dall’antica alla moderna, modulazioni piccoliane come questa: «Scirocco piega il giunco/ a ciuffi sulla spiaggia/ – porta gocce/ salate sui germogli…». E c’è ancora, nella cristallina lingua di Fosse Chiti, nella sua scabra sostantivazione montaliana, quel che Montale stesso dice della lingua catalana del poeta Maravall, di scoppiettare di pigna verde sopra il fuoco. «S’aprono per il caldo/ sull’albero le pigne/ che sono ancora ver­di:/ è crepitìo/ come legna che il fuoco/ arde.» La pura lingua di Fosse Chiti sta per aprirsi come la pigna: ha già del resto in sé del­le crepe, dei varchi verso un’altra lingua, verso un più profondo suono: giummo, cianciane, graste sono quei varchi.

Del 1991 è il primo libretto che ho ricordato, Bbinirittèdda, e quindi, uno dopo l’altro, puntuali fino al 1998, fino a L’arànci, altri libretti. Libretti che sono in parte confluiti nella raccolta Cutusìu del 1994. Puntuali m’arrivavano a Milano questi libretti e quindi le raccolte, belli, eleganti, preziosi, pubblicati a proprie spese e quasi sempre stampati nelle stesse tipografie Corrao o Campo, rispettivamente di Trapani e di Alca­mo, m’arrivavano con su sempre la stessa dedica: «A Vincenzo e Caterina, con affetto, Nino». Messaggi d’affetto m’arrivavano, d’amicizia, luminosi doni di poesia che venivano da quel Cutusio lontano, da quella riva moziese di ricordo e nostalgia.

Quel passaggio dalla lingua al dialetto che era stato un bisogno e una scelta, metteva De Vita accanto a confrères, ad altri poeti in dialetto che per rigore, per ripudio d’una lingua dominata, saccheggiata, s’era fatta impraticabile, metteva De Vita accanto a Zanzotto, Loi, Bandini…

Ci sembrano, questi poeti in dialetto, i veri poeti della fine. Ci fanno pensare a quei poeti e scrittori che presentendo la cadu­ta di Bisanzio, la fine di un mondo, di una cultura – Michele Psello, Anna Comnena, Teodoro Prodromo, Eustazio di Tessalonica… – si misero a scrivere in greco classico, in lingua attica.

«Il dialetto non finirà mai di richiamarci, anche in questo momento in cui molti segni sembrano parlarci della sua morte, alla sua forza di presenza, alla sua insospettata capacità di rinno­varsi, alla sua ricchezza e profondità di parola, al suo riportarci al corpo di noi e delle cose»,2 scrive Franco Loi a proposito della lin­gua di De Vita. E Siciliano: «I poeti in dialetto, oggi in Italia, sono di una specie singolare. Sono una setta di rivoltati in lotta silenziosa, e pertinace, contro la lingua oleata, vasellinacea, non più colta, che si parla, su sollecitazione di impulsi che passano via etere, dalla Vetta d’Italia a Capo Pachino (…) Voltata la schiena al parlato consueto (…) questi poeti attingono alla sorgiva naturalez­za delle lingue materne, e non l’accolgono trascrivendone ingenuamente la nativa purezza: ne fanno oggetto di un culto del tutto espressivo, ne potenziano le squisitezze, le possibilità ritmi­che, percussive, come con l’italiano medio a nessuno scrittore riu­scirebbe. I dialetti acquistano così una rara, e nuova, elezione d’arte».3

La scelta del dialetto, da parte degli attuali poeti, come lingua altra, come lingua alta, è dovuta al saccheggio e alla consun­zione dell’italiano. Essi sì, i poeti, hanno potuto farlo, perché la poesia è lo spazio del monologo, è l’assòlo del coreuta. Il narratore invece no, egli è costretto a usare, oltre quello espressivo, anche il registro comunicativo. Da qui, nella schiera degli speri­mentatori espressivi, quella ricerca costante, attraverso commistioni, innesti, digressioni o quant’altro, di una lingua possibile per poter narrare. Un movimento questo dal basso verso l’alto, dai giacimenti di parole altre, che abbiano dignità filologica, plausibilità di significato e di significante, verso la superficie della comunicazione. Impera e imperversa oggi invece una prosa letteraria in quella lingua tecnologico-aziendale o mediatica di cui Pasolini già nel 1961 aveva annunciato la nascita come lingua nazionale. Ancora peggio, si assiste al ritorno di un mistilinguismo di maniera i cui innesti o le cui digressioni apparten­gono a un dialetto corrotto, osceno, che i media hanno ricreato con intenti comico-grotteschi, e infine oltraggiosi, regressivi. Il neo-dialettalismo dei poeti d’oggi, oggi in cui i contesti dialetta­li sono pressoché estinti, non è riproposta sentimentale o revanscistica, non è chiusura nel mito: è sprofondamento necessario nel­la verità seppellita nella lingua originaria, di primo grado, materna, classica, come opposizione alla koiné paterna e sociale, espressione di una società degradata, di violenza e di menzogna. Chiusura, regressione era stata invece in altri tempi la visione pandialettale ed etnomitica di un poeta e scrittore come Alessio Di Giovanni, a cui s’era unito Francesco Lanza. Due scrittori siciliani che poi ingenuamente e fatalmente avevano aderito a quel movimento linguistico-estetico e politico che si chiamò Felibrisme, promosso in Provenza da Federico Mistral. Altra consapevolezza linguistica, e avvertenza dei rischi insiti nei vagheggia­menti dialettali, aveva invece il filologo Pirandello, che a Bonn stendeva quella sua tesi Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Girgenti (ripubblicata ancora nel 1984 dalle Edizioni della Cometa e prefata da Giovanni Nencioni). Per quella consapevolezza, Pirandello poteva mettere tra virgolette le sue opere dialettali, filologicamente perfette, prendere le distanze da quel dialettalismo allora imperante dei Martoglio e dei teatranti catanesi, Angelo Musco in testa, e scrivere poi la sua sterminata opera in quell’italiano controllatissimo, espressivo e insieme fortemente comunicativo.

Noi ci auguriamo che ora uno studente, un filologo di Bonn o di Palermo, si appresti a stendere la sua tesi su Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Cutusìu, della magnifica lingua cutusie­se di Nino De Vita.

E a lui ora torniamo, a quel capolavoro di poesia narrativa che è appunto la seconda raccolta Cutusìu. Il musicale attacco proemiale ci dà subito il clima, il tono del suo mondo reale e poeti­co. «Timpùni assulazzàtu Cutusìu» è il tema musicale che in variazione ritorna, come in Béla Bartók, in altra composizione, nel secondo tempo di Paricchiati.

Inizia, il poema narrativo, con 8 giugno 1950, con il racconto della nascita del poeta. E ricorda certo, questa composizione, Leopar­di. «Nasce l’uomo a fatica/ ed è rischio di morte il nascimento./ Prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato». Per concludere terribilmente: «Se la vita è sventura,/ perché da noi si dura?». Questi versi, sappiamo, sono tratti dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Canto scaturito, apprendiamo dallo Zibaldone, dalla lettura del Voyage d’Orembourg à Boukara del barone Meyendorff, dove si dice di nomadi kirghisi che improvvi­sano tristi canti contemplando la luna. «Ed io che sono?», fa dire Leopardi al pastore smarrito nella contemplazione, immerso in quell’infinito sereno, in quella solitudine immensa. De Vita capovolge l’interrogatorio leopardiano, dice «Io sono». Da qui l’accettazione umile, «cristiana» diremmo, dell’esistere, del mondo in cui si è trovato a vivere, della solidarietà, dell’amore verso uomini, animali e cose. C’è stupore e tenerezza nella contemplazio­ne del paesaggio, del mondo animato e inanimato, delle creature che in questo mondo si muovono, che con il poeta condividono il destino. La tenerezza e insieme la violenza e il dolore che fatal­mente accompagnano la vita, accompagnano le vicende, le avventure, i giochi proibiti degli scagnozzelli di Cutusio. Ricor­da, questo mondo d’innocenza, tenerezza e insieme violenza, quel­lo infantile che Dylan Thomas ha narrato in Ritratto dell’artista da cucciolo. C’è poesia e insieme incosciente crudeltà nei giochi di Rriccardu, Cimuni, Filippeddu. C’è amore e dolore, trage­dia anche in Àngilu, Bbatassanu, Ggiammitrina, Bbicitedda, Mastru ’Nzinu, in Nuô puzzu e soprattutto in Bbnirittedda.

«Bloccate da uno sguardo attento e severo (non impassibile), le scene della contrada Cutusio o dello Stagnone che fronteggia Mozia e le altre isole presso Marsala, diventano le intermittenti rivelazioni e i casuali affioramenti di una storia che appare intemporale, o circolarmente vòlta alla ripetizione di se stessa (pas­sano solo le vite umane, che più non ritornano come le stagio­ni)», scrive Pietro Gibellini nella prefazione a Cutusìu. Certo, di creature fragili, precarie è il mondo di Cutusio, della vita che repentinamente si consuma. Come ne I Malavoglia, consumatasi la tragedia, il tempo lineare e impassibile continua a scorrere. Si riaccendono nel cielo di Acitrezza i Tre re e la Puddara, si apre l’alba del nuovo giorno. Ma il pessimismo e la tristezza verghia­ne qui sono riscattati dai brevi bagliori di gioia e di intensa umanità che quelle vite emettono, legate dal dolore e dalla pietà.

«… ma certo in me s’apriva/ e umile e tremenda/ la voce che da sempre dura/ e che ci lega, ognuno/ di noi, al dolore d’ognu­no anche ignorato», ha scritto Lucio Piccolo.4

Un autentico poeta, Nino De Vita, sul quale in tanti ormai hanno appuntato lo sguardo per la novità e la bellezza dei suoi versi. E salutiamo questa pubblicazione di Cutusìu, in edizione non più privata, «clandestina», ma per felice scelta dell’edizio­ne Mesogea di Ugo Magno.

Dicevo all’inizio di quella trama letteraria o di letterati che nel passato in Sicilia si era tessuta. De Vita ne è oggi il più ammi­revole continuatore. Sciascia, il maestro di tutti, se avesse potuto leggere gli odierni approdi devitiani di Cutusìu avrebbe sorriso in quel suo modo umano di approvazione e di compiacimento.

 

Vincenzo Consolo
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Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci

Articolo pubblicato da “Liberazione“del 2 Ottobre 2001

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci

“ Parole che conducono alla violenza “

 

« Che rimescolio di razze, di lingue in questa turba vitale, invadente, in questi dominatori venuti dal mare, dai deserti lontani, in questi guerrieri audaci e sereni coltivatori di palme, d’ulivi, di cedri! Sono insieme arabi, persiani, egizi, libici, sudanesi, berberi, spagnoli, tutti uniti nella fede in Allah. Sono rudi, incolti, feroci e sapienti, dottissimi, cultori di numeri, astronomie, raffinati poeti (…) Palermo fu, per questi ispirati invasori, il divano della loro nostalgia delle sabbie e delle oasi, ricordo e ricreazione del Cairo, di Baghdad, Medina, Damasco, della Mecca. » Tra le pagine più intense dell’opera di Vincenzo consolo, vi sono quelle che lo scrittore siciliano ha dedicato alla presenza araba e musulmana nel mezzogiorno d’Italia. In particolare è alla Sicilia normanna che Consolo guarda come ad un’epoca di sviluppo, fondata sull’incontro tra le culture, su una convivenza vissuta come ricchezza, meticciato, crescita nel confronto reciproco. Un periodo in cui Palermo era «una città dalle trecento moschee, in un bosco di minareti da cui muezzin modulano il loro richiamo, di chiese bizantine e romane, di sinagoghe ebraiche».

Per un intellettuale che ha fatto di queste radici multiple la chiave del proprio approccio alla storia siciliana e la base della sua stessa personale esperienza culturale, le violente parole usate da Oriana Fallaci sul “Corriere della Sera” di sabato 29 – e destinate a diventare un istant-book – contro il mondo musulmano e gli immigrati che vivono in Italia, non possono suscitare che disgusto e indignazione.

«Non varrebbe nemmeno la pena di commentare un simile sproloquio violento e viscerale – spiega Consolo – se non fosse che queste parole sono cadute in un momento delicato non solo per l’Italia ma per tutto il mondo. Credo che tutto derivi dalla situazione personale della Fallaci, quella di una persona molto malata, lo dico perché è lei stessa a parlarne, condizione che, unita al fatto che lei si trovava a Manhattan al momento degli attacchi, l’ha portata però a esacerbare certe reazioni non razionali. Siamo tutti concordi nel deprecare il terrorismo e la violenza, ma questo non c’entra nulla con ciò che lei ha detto. Mi sono sembrati in particolare brutti e molto bassi  suoi giudizi contro gli immigrati, ad esempio quando parla delle piazze di Firenze. La Fallaci ha evidentemente ben poca consapevolezza di quelle che sono le culture del mondo. E’ vero, si è fatta una larga esperienza come corrispondente nei luoghi più orrendi del pianeta, ma io ricordo che in tutti i grandi corrispondenti c’era soprattutto un senso di pietà, penso ad un fotografo come Robert Kapa e a tanti altri. Invece questo atto della Fallaci è solo violento, ingiusto, non solo non è improntato alla ragione o alla cultura, ma può spingere i meno avveduti a agire di conseguenza, in particolare contro gli immigrati».

Le frasi della Fallaci non sono però isolate, arrivano dopo quelle di politici che, da Bush a Berlusconi, hanno voluto proprio sottolineare l’idea che ci si trovi di fronte a uno “ scontro di civiltà” e che in questo conflitto si esprima “ la superiorità” della cultura occidentale. Lei, anche negli scorsi anni, era già intervenuto contro una simile deriva, ad esempio dopo le parole del cardinale di Bologna Biffi sui pericoli dell’immigrazione musulmana.

«Io vengo da una terra che ha conosciuto il passaggio di tante culture, di tante civiltà, e di questo si è molto arricchita. Ovunque nel mondo il genere umano è cresciuto e progredito attraverso lo scambio: ha dato e ricevuto altre culture. Quanto ad estremismo e fondamentalismo, è sotto gli occhi di tutti che si tratta di fenomeni che ci sono e sono criminali da tutte le parti. Sulla questione della “gerarchia” delle culture, credo che né Bush, né Berlusconi abbiano mai letto alcun libro sul mondo musulmano; Bush è lontano, ma un europeo dovrebbe sapere cosa ha rappresentato questo incontro per noi, in particolare proprio in Italia. Inoltre è incredibile e assurdo che da noi qualcuno se la prenda con gli arabi o esistano xenofobia e razzismo, visto che siamo stati tutti figli di immigrati. E’ chiaro che l’attacco dell’ 11 settembre ha dato la stura ha quello che già c’era precedentemente. Tutti ricordiamo Biffi e Bossi e la criminalizzazione dei clandestini: chi arriva oggi nel nostro paese è giudicato nemico e ostile. Vorrei ricordare a tutti quanto è già accaduto nel passato dell’Europa, quando questa idea che la diversità fosse da eliminare ha prodotto vergogne che nessuno potrà mai cancellare».

La Sicilia che lei ha descritto in molti dei suoi romanzi appare quasi come un modello all’inverso, rispetto a questo clima da crociata, frutto di molteplici contaminazioni, di una convivenza feconda di stimoli.

« Il cammino della civiltà è stato tracciato con l’incrocio tra le culture e, in particolare la Palermo del periodo dei normanni, ospitava le lingue e etnie più varie e fu uno dei periodi più alti della civiltà dell’isola, come del resto è accaduto in Andalusia o più recentemente a Sarajevo: tutte città cosmopolite arricchite dalle culture del mondo, mentre la chiusura verso gli altri conduce alla  Vandea e alle forme di intolleranza più idiota. Anche Beirut era una di queste città cosmopolite, come lo sono Londra o Parigi oggi, centri che mostrano tutta la ricchezza di un simile processo. Paesi e città monoculturali sono invece destinati alla regressione».

Si ha l’impressione che le valutazioni violente che vengono espresse in questi giorni sull’Islam, servano a dipingere la cultura musulmana per quello che si vorrebbe fosse, per costruire “un nemico” a cui opporsi, piuttosto che definire i contorni di una civiltà estesa in tutto il mondo.

«A questi temi è dedicato il mio ultimo libro, che raccoglie una serie di saggi dedicati alla storia dei rapporti tra Sicilia e Maghreb e dell’emigrazione meridionale della fine dell’800 che si indirizzò verso la Tunisia, l’Algeria e il Marocco. Si trattava di masse di braccianti e lavoratori meridionali che arrivarono dal nord africa ancora prima dell’inizio del protettorato francese e furono accolti benissimo. Molti nutrivano speranze verso quella terra al di là del mare: ci fu anche un’emigrazione politica di persone che parteciparono ai moti risorgimentali e che si rifugiarono nel Maghreb. Oggi sta succedendo il contrario, è da quelle coste che approdano qui da noi e subito ci allarmiamo, diciamo che sono dei criminali. Tornando a quanto è accaduto: per affrontare questi argomenti ci vogliono ragione e cultura e io credo che Oriana Fallaci sia priva sia dell’uno che dell’altra».

Guido Caldiron