Nei mari estremi con Lalla Romano.

 

 

Tutta l’opera di Lalla Romano è contrassegnata dalla dialettica tra natura e cultura, istinto e ragione, oblio e memoria. Il suo nativo moralismo, la sua “severità paesana e subalpina”, come dice Cesare Segre, che le viene da un luogo di aspra natura e di contratta comunicazione, da una regione, fra poche di solida struttura sociale e di ineludibili regole, la porta a scegliere subito un registro linguistico quanto mai economico, chiaro, lineare. Trovava poi, questa sua scelta, consonanza e verifica nella patria immaginaria di ogni nostro scrittore di ansia loica e laica, nella Francia dei Lumi, nell’Europa della grande letteratura moderna.

Afferma Luigi Russo che la poesia di Verga nasce dal conflitto linguistico, dall’opposizione al codice dato di un codice inventato, all’italiano, di una lingua altra irradiata di dialettalità. In Lalla Romano il conflitto, e la poesia che da esso ne scaturisce, è tra la dispiegazione logica, civile, articolata, e la ritrazione, la severa economia lessicale, la sintesi e il ritmo della frase, la reticenza e l’implicito che verticalizza la sua scrittura, rimanda a interne, profonde risonanze.

I suoi temi sono quelli eterni dell’esistenza, della vita umana, indagata soprattutto nei momenti cruciali della nascita, dell’amore, della morte. Il suo paesaggio è quello umano prossimo con cui la scrittrice si è trovata nel miracoloso viaggio della vita: la famiglia d’origine, il marito, il figlio; e quello intorno, come mare che circonda l’isola di rifugio e di stupore: parenti, amici, conoscenti, famiglia; e ancora quello fisico, materiale: la campagna, la città, la casa, le cose.  Dice, in un sogno del racconto Pomeriggio sul fiume: “Faccio un tremendo sforzo per tradurre in parole le cose, ma mancando i nessi non riesco a combinare un discorso. Cerco di inventare, ma sento sempre più che il senso mi sfugge, mentre tanto più pesano con la loro massiccia evidenza, le cose.  È una sensazione al tempo stesso di oscurità e di impotenza”. Passata poi, la scrittrice, dal sonno alla veglia, l’angoscia è uguale: ha davanti agli occhi la realtà, le cose che deve tradurre in parole, mutare in racconto.

 

È certo che siamo in quel sogno di fronte al dramma dello scrivere, al miracolo di dare nome alle cose, senso allo stupore del mondo. Siamo certo, in quel sogno, in un’epifania, al momento della creazione di nuove parole, di nuovi nessi, della poetica di uno scrittore.  Il paesaggio è visto di volta in volta nel suo sfondo storico ( gli anni Venti in Piemonte, Trenta a Torino, la guerra, la Resistenza – una Resistenza intimista, come l’ha chiamata la stessa autrice – il Dopoguerra e gli anni seguenti a Milano), visto nelle sue implicazioni sociali (la borghesia e l’ambiente intellettuale e artistico, il mondo contadino e subalterno, di dolore e rassegnazione verghiani, che è anche quello di Pavese e di Nuto Revelli, vissuto attraverso quel “cuore semplice” che è la stupenda Maria).   La scrittura laica e logica della Romano non può non far leggere un’orgogliosa, tenace volontà di superare sgomento, disperazione, abbandono; un’ostinazione a dare ordine al caos, significato al fenomeno; un’ardita indagine e ricerca della verità al di là di ogni velo di emozione e convenzione.  Non può non restituire, quella scrittura, un’ardente solidarietà umana, una celata scontrosa pietà.  Per quell’imprescindibile bisogno di verità, per la tenace ricerca di ordine, senso, l’esperienza in lei, ogni esperienza, si trasferisce ineluttabilmente nella scrittura, solo regno ove si scioglie ogni conflitto, si rinviene l’unica verità incontestabile.  “Io non temo il vissuto.  La parola scritta, il ritmo delle frasi non dipendono da esso.  L’arte è astrazione” dichiara la scrittrice nella presentazione all’ultima edizione einaudiana di Nei mari estremi, 1996.

Così nel cammino verso la trasfigurazione dell’esperienza nella scrittura, elimina man mano i molteplici punti di vista, suggeriti dai vari personaggi, e arriva all’unico punto di vista, che è quello dell’io narrante, dell’autrice.  La svolta stilistica avviene necessariamente nell’affrontare l’esperienza, il tema acuto, assoluto della nascita del figlio, della sua maternità.   Le parole tra noi leggere segna questa svolta, questa nuova resa poetica.  Le parole tra noi leggère, titolo montaliano, si può volgere in Le parole tra noi léggere, le parole tra madre e figlio; léggere, cioè scegliere le parole dell’indagine sul grande mistero della maternità.

Nell’indagine si scopre allora che ogni figlio è un Minotauro che la natura provvede a nascondere nel labirinto della visceralità (è la parola qui più esatta), dell’amore, nel buio dell’istinto, del “morboso”, come dice l’autrice.

E lei, la madre, la scrittrice, con lucidità e coraggio, ha voluto liberare il fenomeno dall’occultamento, ucciderne l’ambigua natura, portare fuori dal labirinto, alla luce della ragione, la verità natura umana della creatura.

Le parole tra noi leggère è il mare delle origini, è il racconto speculare a Nei mari estremi, in cui si affrontano gli altri due temi acuti e assoluti dell’esistenza: l’amore e la morte.

Il racconto, del 1987, è diviso in due parti, che portano rispettivamente i titoli di Quattro anni e di Quattro mesi, di cui la prima è come un flash-back, una disgressione memoriale, un controcanto – il controcanto dell’amore – alla seconda, al canto, all’”allegro tragico” della morte.

Nei mari estremi, titolo preso da Andersen, trova il suo referente visivo in una immagine.  “Ho due immagini incorniciate nel mio studio da anni (…)  Una l’avevo ritagliata da un giornale. È un paesaggio, non penso di dover dire simbolico, reale di un al di là. È un iceberg spaccato: una nave passa nel mezzo fra le due pareti di ghiaccio, come attraverso una valle”

scrive Lalla Romano. Ecco, la scelta istintiva di quell’immagine da parte dell’autrice, ricordiamo che trova consonanza, parola e cadenza in una lirica di un grande poeta, di Aleksandr Block.

 

Tutto muore al mondo, madre e giovinezza: (…)

Prendi la tua barca, salpa verso il polo

fra mura di ghiaccio, e in silenzio oblia

come l’uomo ama, lotta e muore solo:

dimentica il paese dell’umana follia.

 

La prima parte dunque è il racconto dell’amore tra l’io narrante e il deuteragonista, che diventa protagonista, Innocenzo. Un personaggio, questo, di grande spessore, di grande racconto, che si delinea man mano per brevi tocchi, per accenni, per bagliori e visioni.  Fra cui, quella centrale ed epifanica che innesca la storia, che accende amore e passione, possesso, gelosia, isolamento, di lui che in montagna spacca la legna. Immagine e situazione lawrenciana, ma spogliata di mitologia naturalistica, di vertigine panica, ridotta a un piano di realtà in cui si equilibrano natura e cultura, passione e amore, forza e tenerezza, abbandono e sapienza, furia e pazienza, di armonia infine fisica e spirituale.  La seconda parte è il racconto della morte di Innocenzo.

È preceduta, questa, da un’epigrafe della stessa autrice: “Da una ruvida mano siamo spinti … “.

Molti scrittori hanno raccontato la morte.  Fra tutti, e i più alti, ricordiamo Tolstoj de La morte di Ivan Il’ič e Verga del Mastro-don Gesualdo.  Qui, Nei mari estremi, siamo certo nella zona tolstojana, il cui Il’ič  è citato e messo come in esergo dallo stesso protagonista:  “Il primo che ci ha insegnato a  morire è stato Tolstoj”.  Ma la situazione è certo diversa.  Qui non c’è incoscienza, attorno a chi sta intraprendendo l’ultimo viaggio, non c’è la crudele indifferenza della vita che continua a scorrere negli ottusi binari delle abitudini e delle forme.  Qui il ruolo umano, soccorrevole e consolatorio del mužik Gerasim è assunto dalla deuteragonista, dall’io narrante, che non rappresenta solo la generosa naturalità del giovane contadino, “fresco, pulito, sempre allegro, chiaro”, ma è la donna che ha amato quell’uomo morente per tutta la vita, ed è anche la scrittrice che vuole indagare e sapere su quell’atroce mistero, su quell’assenza insopportabile che si fa sempre più imminente.  Qui “l’estremo – scrive Segre – è quello della sincerità, coraggiosa, spietata. Sempre meno allusiva, meno reticente, la scrittrice dice, ora, tutto.  Questo il rischio supremo, affrontato o superato “.

Siamo, in questo romanzo, per l’urgenza del dolore, nella volontà di strappare quel velo di mäyä che, secondo Schopenhauer, copre il fenomeno.  E siamo certo nella tragedia, in cui si manifesta il grado più alto della volontà umana. Una tragedia però senza sfondo mitologico, senza colpa, che diventa quindi, per lo spirito socratico che la permea, secondo la tesi di Szondi, un moderno dramma dialettico: quello della vita, della sua fatale conclusione.

 

Vincenzo Consolo
31 marzo 1997

Palermo, città raccontate da scrittori – Vincenzo Consolo

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Palermo è rossa. Palermo è una bambina. Rossa come  immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici. Bambina, perché dormiente e ferma, compiaciuta della sua bellezza, da sempre dominata. Rigogliosa e molle, si stende in una conca difesa a semicerchio da alti colli che a sud la difendono dai venti africani, che verso il mare terminano nei due baluardi del monte Cofano e del monte Pellegrino (il più bel promontorio del mondo, una detta di Goethe). Questa conca così protetta permette alle piante, anche alle più esotiche e rare, di attecchire e crescere, o di degenerare, come succede alle rose Paul Neyron del Giardino del Principe di Salina. Parliamo di questa conca al presente, ma è al passato che dobbiamo riferirci, poiché  ormai un’orrenda colata di cemento ha coperto la famosa Conca d’oro, spegnendo come dice Rosario Assunto, una luce sul mondo. Palermo è stata, oltre che preistorica e sicana, punica o fenicia, greca, latina e bizantina. Ma non rimane nulla di questo suo vario passato (qualche vago nome: Sotto i fenici sembra si chiamasse Ziz, fiore); non rimangono stele di tufo o statue di Astarte, non colonne di marmo per dei dell’Olimpo. Quasi tutti i reperti archeologici chiusi nel suo museo provengono da altri siti: Himera Solunto, Selinunte, Lilibeo… Palermo comincia a essere realtà storicizzabile dal Momento in cui sbarcarono in Sicilia (827 d.C.), tutta invadendola, “come uno sciame d’api “, dice il monaco Erchemperto, i Musulmani. I cui Emiri scelsero Palermo, che chiamarono Balarm, come sede del diwan e come Capitale dei Tre Valli di Sicilia. Sotto i Musulmani, Palermo s’ingrandisce e abbellisce, diviene quella Città di commerci e di agi che contende il primato nel Mediterraneo a Cordoba o a Quairouan.
Palermo, col suo nome greco Panormos, “tutto-porto”, non aveva col mare in verità gran rapporto. Era costruita su un altura, bagnata alla base dai due torrenti Kemonia e Papireto, difesa da mura;. Altura che è ancora ogga la parte più monumentale della città. Da allora, e per tutto il periodo romano e bizantino, la città non subì cambiamenti. Lo straripamento dei brevi confini, dalle anguste mura, avviene col dominio musulmano. Ai siciliani, ai Greci, ai Longobardi, agli Ebrei si uni ora una Nuova, nutrita popolazione di Arabi, Berberi, Persiani, Negri. Questi abitanti così vari, di razza, di costume, di lingua, di religione fa di Palermo la prima grande citta cosmopolita dell’Alto Medioevo. Uscita dalle mura, la citta si espande verso il mare, verso l’antico porto, la Cala, dove ora s’alza la nuova cittadella fortificata, con il palazzo dell’emiro e l’arsenale, e dove intorno sorge il quartiere della Kalsa che, con quello degli Schiavoni, del Borgo Nuovo, degli Ebrei, forma la nuova faccia di Palermo. Sotto i Musulmani, Palermo diviene un importante emporio di scambi; Il suo porto è uno scalo d’obbligo per i pellegrini che dalla Spagna si recano alla Mecca. E la città delle trecento moschee, dei numerosissimi bagni Pubblici, dei brulicanti suk. Un’eco di questi mercati si ha in quelli odierni della Vucciria, di Ballarà (Suk-el-Balhars), del Capo, dei Luttarini (Suk-el-Attarin ). Questa Palermo, divenuta più monumentale sotto i Normanni e Svevi- maestranze bizantine, arabe e normanne crearono insieme capolavori di architettura come la Cappella Palatina, la Cattedrale, S.Giovanni degli Eremiti, Santa Maria dell’Ammiraglio e il Duomo di Monreale; crearono fascinose dimore per i regnanti del Nord, ville suburbane che si chiamavano Zisa, Favara, Cuba-, questa Palermo, con la sua singolare aura normanna e moresca, con le sue chiese-moschee, con i suoi mosaici, i suoi chiostri, i suoi giardini, le sue squillanti cupole rosse, sopravvisse per secoli, trapassò l’epoca angioina e quella aragonese, in cui le potenti famiglie feudali –Ventimiglia, Chiaramonte, Sclafani, Palizzi, Rosso, Alagona, Peralta, Abatellis- costruirono i loro palazzi- fortezze,  le loro regge; sopravvisse ai Vicerè Spagnoli e Borboni, e arrivò quasi intatta fino all’Ottocento. Alla fine del ‘500, viene aperta, a incrocio della più importante via esistente, Càssaro o Toledo, che dall’alto della cittadella scende fino al mare, la via Maqueda. Le due vie tagliano ortogonalmente la città, la dividono in quattro quartieri , in quattro labirinti. E all’incrocio viene costruita la barocca piazza Vigliena o dei Quattro Canti. Questa, assieme alla Cattedrale, al Palazzo Reale, alla piazza dei Bologni, del Pretorio, della Marina, al Foro Borbonico,  fu uno dei teatri che più affascinò i viaggiatori, italiani e stranieri, del Sette e Ottocento. All’epoca dei re e viceré, di Principi e Baroni, successe quella borghese dei Florio, che significa imprenditoria commerciale, industriale, finanziaria. Ma Florio significa anche rinnovato fervore edilizio, significa architettura e ristrutturazione urbanistica dei due Basile, di Giachery, di Damiani Almeyda; e nuovi palazzi, ville, teatri, boulevards, giardini e piazze, in quel neo-barocco che è lo stile liberty. Tramontata l’era dei Florio, non è stato che sonno e abbandono, ma soprattutto cieca, violenta distruzione. Alle bombe americane del ’43, di cui parla Lampedusa che distrussero uno dei centri storici più vasti e interessanti del Mediterraneo, si aggiunse, a partire dagli anni sessanta, il tritolo e il dominio sulla città della mafia. Mafia e potere politico, in trionfale, perfetta simbiosi, che devastarono, cancellarono la vecchia Palermo, ne costruirono un’altra di volgare, offensiva prepotenza, lasciando al centro intatte le macerie della guerra.
Il tritolo poi non servì più ad abbattere ville liberty, palazzi storici, distruggere giardini per costruire casermoni, ma a compiere stragi, a sterminare chi contro la mafia cominciò a lottare. Ma questa è la storia d’appena ieri che conosciamo tutti.

Vincenzo Consolo

Milano, 28 marzo 1997

Zeppelin, città raccontate da scrittori

I libri di diario.

 

 

Julian Pacheco. Muro di Spagna


di Vincenzo Consolo

E’ aperta a Milano una mostra del pittore antifascista spagnolo Julian Pacheco, noto nel nostro paese fin da quando ritirò clamorosamente le proprie opere dalla Biennale di Venezia, perché non voleva in nessun modo essere accomunato – nella mostra sulla Spagna ad artisti compromessi al regime  prima di Franco poi di Juan Carlos
Vincenzo Consolo scrittore, e giornalista siciliano, autore fra l’altro de Il sorriso dell’ignoto marinaio, ha scritto il saggio introduttivo del catalogo di questa mostra. A lui abbiamo chiesto di presentare la mostra di
Julian Pacheco per i lettori di Fronte popolare.

Nella primavera del ’65, durante lavori di restauro, furono aperte a Palermo, in quel famoso palazzo che va sotto il nome di Steri, fosca costruzione trecentesca della famiglia Chiaramonte, adibita poi a carcere dell’inquisizione (<<E qui nelle notti scure e rigide d’inverno quando il vento fischi sinistro, par di sentire come cupi gemiti di sepolti vivi e strida orribili di torturati… >>, scrive l’etnologo Giuseppe Pitrè), furono scoperte, dicevamo, delle celle che , con l’abolizione del Sant’Uffizio (1782), erano state murate e mai più da nessuno viste, nemmeno dal Pitrè stesso, che nel 1906 delle mura di altre celle di questo carcere aveva decifrato scritte, graffiti, disegni, riportando tutto nel libro Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso. E un giorno di quella primavera, dunque, alla notizia della scoperta di quelle celle << inedite>>, ci demmo convegno a Palermo  per visitarle, Leonardo Sciascia,  che aveva appena pubblicato Morte dell’inquisitore, la cui vicenda in quel carcere si svolgeva, il fotografo Ferdinando Scianna, il poeta spagnolo Gonzalo Alvarez e il sottoscritto. Forte dovette essere l’impressione di quella visita, della lettura delle scritte sui muri (una me ne ricordo, ironica e amara, che diceva press’a poco: <<Allegro, o carcerato, chè se piove o tira vento, qui al sicuro sei>>) se, a distanza d’anni – io posso dire ora obiettivamente, e spero sia chiaro che sono costretto a parlare di me per dire d’altro – nel mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio ho immaginato delle scritte sui muri di un carcere che dei contadini rivoltosi avevano lasciate. Questi muri e queste scritte di rabbia, di rivolta, me li trovai materializzati, <<reali>>, nei quadri di Julian Pacheco: frammenti, pezzi di stacco, di riporto di muri di quel grande carcere dell’Inquisizione che è stato, che continua a essere la Spagna, nonostante la morte per putrefazione del dittatore-belva, nonostante gli abbracci e i baciamano a papi e capi di stato del re-infante scappato da una malriuscita, rappresentazione teatrale di secoli passati.
Julian Pacheco, spagnolo della Mancia, nasce nel ’37, in piena guerra civile, l’anno della battaglia del Jarama, di Guadalajara, in cui il fascismo e l’antifascismo italiano si scontrarono in terra di Spagna, e l’anno del bombardamento nazista di Guernica. Contadino e povero, viene avviato a quel mestiere – <<arte>> lo chiamano gli impostori – di torero in cui i ragazzi proletari di Spagna vengono sacrificati a un tragico tòtem
 in cui il rituale di morte che esalta l’istinto delle masse fino al delirio, all’ ottundimento della ragione (il goyesco << sueno de la razon >>),
all’ assopimento della coscienza storica.
Pacheco scappa da questa Spagna dell’inquisizione e del delirio ed è esule a Parigi ( vuole scrivere, dice, un libro sulla corrida, sulla miseria della corrida) e qui entra nel gruppo della << Nuova figurazione >>, con Aillaud, Arroyo, Del Pezzo, Recacati, Pozzati, etc. Subito la pittura di Pacheco è realistica ed espressionistica, di immediata e violenta denunzia di una realtà storico-politica violenta e criminale, pittura nella quale è bandito ogni attardo formale, ogni concessione alle squisitezze estetiche. Sono immagini dir e con facce di maiale, di caudilli con naso a becco, di rapaci carnivori, di cardinali funzionari carabineros soddisfatti e ottusi da cibi e da bevande, come in quel Banchetto nel Mozambico di brueghelliano ricalco in cui vengono servite teste mozze di negri.
L’altro timbro di Pacheco sono questi muri: Muro del Toledo, Muro de Canete, de Aragon, de Barcelona, de Cadiz… fino a quel grande Muro di Spagna dove, sopra le scritte, emerge l’ironico e amaro manifesto a trompe-l’oeil che annuncia. <<Plaza de Burgos – 6 revolucionarios vascos – seran tourturados y a muerte – Matadores: Francisco Franco. Carrero Blanco – Sobresaliente J. Carlos de Bordon>>.
Questo Muro di Spagna ci ricorda immediatamente il famoso e stereotipato lorchiano << bianco muro di Spagna >>, per coglierne la differenza, il diverso messaggio, oltre e al di là d’ogni valutazione d’ordine poetico o estetico, ammesso che sia possibile. Tra un abbagliato e abbagliante, antico e immutabile muro bianco << sconciato >> da scritte, graffiti, disegni, vi è la differenza che tra l’esistenza e la storia di quella storia che scaturisce da una << morada vital >>, come dice Americo Castro, e che immediatamente politica. Ma<, anche nella storia, ci sono muri e muri, segni e segni. Il muro è stato usato anche dal potere per tracciarvi a grandi lettere ordinate la propria retorica opprimente, l’iterazione ossessiva dei propri imperativi. E, in pittura, segni sono anche di Tapies, di Klee, di Burrio Capogrossi, ma di una realtà narrabile e non storicizzabile che ci porta a condizioni primigenie, come quella segnata dai petroglifi dei Camuni o di Lascaux e Altamira, o dai disegni ingenui e << felici>> dei bambini. Ma oltre quei muri e questi segni, c’è una scrittura murale che è scrittura notturna e furtiva, cioè d’opposizione, scrittura popolare e politica, libro d4el popolo sempre cancellato e sempre riscritto. Pacheco ha riportato sulla tela frammenti di questi muri, compiendo opera di recupero e di memoria: perché quelle scritte di protesta (REY NO – ABAJO – NO – FAI  -PAZ – REP…) non si dimentichino quando i nuovi regimi faranno stendere sui muri di Spagna veli di bianco, di rosa o di grigio. Quei nuovi regimi che già cominciano a stemperare e a mischiare i colori per mascherare in quella Spagna le nuove carceri, le nuove inquisizioni.
Pacheco, combattente radicale e libertario, avverte questo, e la sua pittura e i suoi gesti allora si fanno sempre più netti e inequivocabili, come quello per esempio, di ritirare le sue opere dal padiglione spagnolo della Biennale di Venezia del ’76, non volendosi trovare vicino e confuso con pittori contrabbandati per oppositori ma che col regime di Franco avevano trescato: sempre succede, ovunque, che alla fine di una dittatura o di un regime i trasformismi emergono, si mettono al servizio del potere nuovo. E anche in Italia, lo sappiamo è già successo.

Pubblicato da Fronte popolare
Edizioni Movimento Studentesco
6 marzo 1977

Julian Pacheco

I corpi di Orvieto di Fabrizio Clerici

E’ un eclisse totale di sole il primo remoto, infantile ricordo di Pirandello. “Come l’ombra della luna lo investe, la luce del sole diviene fioca. Alle 2 pomeridiane il disco è interamente ottenebrato, ma lo circonda un anello di fuoco. Allora son tenebre di crepuscolo, gli uccelli si rincantucciano, il colore degli oggetti circostanti è pallido, fosforico”, così annota lo storico agrigentino Picone alla data 22 dicembre 1870.

L’eclisse sul Caos, la “campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare”, dove la famiglia s’era rifugiata per sfuggire al colera. E ancora, nell’infanzia dello scrittore, la serva Maria Stella che lo inizia al terrifico mondo magico-popolare, che lo porta nella chiesa di Santo Spirito dove, sopra l’altare, si dispiega lo scenario bianco, come di sudario scosso e sagomato dal vento, degli stucchi del Serpotta, e, al colmo dell’arco trionfale dell’abside, un Padreterno – un padre! – si sporge e incombe, con spropositata apertura di braccia, sovrasta uno schiumoso fondale di nuvole colombe raggiere angeli santi. Si aggiunga il teatro di Agrigento, il luogo dove la storia s’è spenta, s’è bloccato il conato, e dove regnano vuoto, ammasso di pietre, colonne che si sgretolano, ipogei di zolfo e labirinti di cenere. Da questa profonda memoria, da queste assenze, violenze, da questi terrori crediamo sia nato il mondo pirandelliano, in questo lontano momento si sia spezzata la linea retta, abbia avuto inizio la parallela della sua postica: la sua dialettica, la infinita perorazione, la crudele conversazione che rimbalza da una parete all’altra della sua “stanza della tortura”. “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa (..) E intendeva forse significare con questo che, oltre ai limiti della memoria, vi sono percezioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in un altro tempo…” dice Bobbio-Pirandello. Per queste percezioni, per queste impressioni seppellite nel buio di catacombe imrnemorabili – che mai le violino archeologi disincantati, freddi analisti di reperti ineffabili! – s’è prodotto strappo sul fondale d’una realtà apparente; su queste fondamenta vibranti di risonanze infinite i grandi architetti hanno costruito il loro mondo di verità ulteriore, la poesia della verità trascendente.
Quali mai sono state le percezioni, le impressioni, al di là d’ogni memoria, di Fabrizio Clerici? Su quale terreno di meraviglie, stupori, affanni, terrori poggia il suo straordinario mondo fantastico? Noi possediamo solo la mappa, anche fallace per la semplicità delle linee, per la perentoria evidenza del disegno, del suo percorso umano. Sappiamo della nascita a Milano, in quel centro storico di stradine circolari e labirintiche, di architetture discrete, di severi prospetti che dietro nebbie e fumi svanivano. Del primo suo altrove, della prima avventura nell’Umbria, all’abbazia di Montelabate, nella cui cripta scopre i cadaveri dei cappuccini – erano nudi e sulla terra distesi come Francesco o in orbace? In piedi e con paramenti come i prelati delle cripte di Palermo o seduti in poltrona come le badesse di un convento di Ischia?
La mappa ancora ci dice degli studi presso i Gesuiti di Roma. Nella Roma crogiolo d’ogni storia e mito, d’ogni fasto e decadenza, d’ogni rovina e reperto, delle dimore papali e delle fontane sonanti, del Bernini e del Borromini, dei marmi della chiesa di S. Ignazio, dei riti pomposi e degli esercizi spirituali, delle reliquie e delle volute oleose degli incensi. Ci dice ancora dei viaggi a Napoli e ai Campi Flegrei, ad Atene e a Constantinopoli, degli studi di architettura e della frequentazione di morgues e di teatri anatomici – un involontario Zumbo per necessità di vita – e delle fughe, le fughe verso gli orienti di civiltà e di idoli estinti, di deserti, di luci accecanti e di miraggi. Quale miracolosa alchimia si è compiuta tra il fondo immemoriale, le esperienze, le visioni straordinarie e la singolare, vertiginosa cultura di Fabrizio Clerici? E quale profondo disagio, quale malinconia della storia ha spinto l’artista a creare linguaggi inusitati, stabilire inediti, sorprendenti nessi sintattici?
La sua mano si è mossa per disegnare, dipingere, in una coazione, com’è nei veri artisti, in una ricerca, in un lavorio virtualmente infinito.
I primi rapporti sono i disegni famosi, La grande fame, Troppo visto, troppo sentito, Souvenir d’Italie, Stanchezza degli Omenoni, Crisi del secolo.., in cui si è abbattuta sul mondo una tragedia che è della storia ed è insieme del tempo, per cui si giunge alla tempera Recupero del cavallo di Troia, alla rappresentazione del simbolo bellico, dell’inganno blasfemo, della disumana scienza, dell’ordigno di tecnologia crudele che ha seminato devastazione e morte, ha creato la mutazione, ha generato la colpa, ha provocato la maledizione: nei legni consunti, calcinati, nel paesaggio roccioso e deserto, nel cielo striato di grigio si vede Hiroshima più che nella rappresentazione diretta della Piccola atomica.
Da qui crediamo derivino tutti i deserti, le città fantasmatiche, i labirinti, le architetture babeliche, le barche solari, i promontori goyeschi, da qui cerchi di pietra rotanti e il loro frantumarsi, e le apparizioni di litici falchi occhi arieti, di obelischi dagli alfabeti consunti. Da qui le stanze della crudele geometria, del vuoto, dell’assenza, dello sgomento d’un cavallo, delle bocche dei baratri, del sorgere di isole dei morti, malinconie, feluche infernali, sfingi, idoli, prosopopee d’un oltremondo d’inganno. Da qui l’uovo della morte, il teschio eburneo tra le pieghe d’una grazia di stucco, gli squarci tremendi nel sipario dell’abbaglio. Siamo di certo nel cuore del paesaggio leopardiano, nella notte illune di un pastore errante sul manto di lave, in cui è assente anche la ginestra, dello “sterminator Vesevo” o nell’assoluta desolazione del “gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta (…) Parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”. O il sogno d’un ipogeo profondo, d’una catacomba del tempo, della bellezza, dell’arte, un Infero ermetico dove il melograno ha nutrito l’eterno.

Vogliamo affermare, e a questo punto in modo tardivo, che, oltre il simbolismo, il surrealismo, la metafisica, o grazie ad esse, nella nostra epoca, pochi artisti come Clerici, e meno i realisti, i didascalici, meno ancora forse gli apocalittici dell’astrazione, hanno saputo esprimere l’offesa, la profonda ferita della storia, l’angoscia dell’evento remoto e incombente, la malinconia del tempo, la pietà per il nostro destino.
Nessuno, in modo tanto forte, di fronte a noi, smarriti, attoniti, lontani e ciecamente brulicanti nell’anfiteatro precario del mondo, ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia.
Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, di sequestri processi condanne, di morti ammazzati sopra l’asfalto – su questo terreno convergevano L’uomo solo di Clerici e L’affaire Moro di Sciascia – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei “Corpi di Orvieto”. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di
S. Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione, ha mostrato tremulo, fuggente in preda al terrore d’un finimondo incombente; fulminato, offeso, violentato nel dominio del Male; e decaduto, dilaniato, soffocato nel groviglio terribile con i corpi di demoni verdastri, cinerini, bluastri, muniti d’escrescenze, pelami, membrane ripugnanti, dopo la definitiva condanna…
La chiave di lettura del poema del Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare d’una delle pareti affrescate. “Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così la funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia” racconta.
La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. “Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna” narra Vasari. Clerici rapporta la violenza di Cortona, di quel tempo, alla violenza del suo, del nostro tempo all’orrore per l’offesa alla vita, per lo scempio d’una nobile essenza, sembianza; quel dolore di allora di un uomo al dolore ora di ognuno per l’armonia che viene bandita dal mondo.
In un prezioso diario dell’estate-autunno del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. Ci rivela, come solevano fare gli antichi maestri, quella sua stagione di possessione, ossessione, furore creativo, le misure rigorose, ineludibili della sua lucida, tagliente geometria, la tormentata conquista degli equilibri assoluti nelle sue architetture allarmanti. Egli legge – lo diciamo nel senso latino di scegliere, cogliere – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio, nelle stanze della ritrazione e della riflessione, negli antri cumani delle profezie inquietanti.
“La stanza è la testimonianza di una passata violenza. Quello che noi vediamo è come attraverso il filtro del tempo, è come una peluria di luce, peluria cromatica che fa pensare alla polvere, tutto è molto pulito, tutto è molto terso, ma tutto avviene attraverso un leggero pulviscolo, come delle diafane emanazioni di luce, di una luce che non si sa proprio da che parte arrivi…”. E non si sa proprio da che parte arrivi questa pittura orvietana di Clerici, questa teoria di scene dove non si scorge più sforzo fonetico, traccia di segno, travaglio sintattico, dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo. Certo l’allarme, l’inquietudine è subito per la sua “pelle” levigata di perla, di lucore sommesso, chiarore di pergamena, fissità del mistero. E dunque nel testo, la fuga di assi interrotta da una buca, “impronta di bara”, su cui, imbrigliato da corde d’aloe o di canapa, sta sospeso il gran masso, il frammento d’affresco, il papiro, la terzina incompleta che dice del giovane corpo riverso, sparsi i capelli, attoniti gli occhi: sul torso ormai fragile premono piedi, rotule ferree; le sedie rovesciate, i frammenti di osso dicono che qui ancora e sempre s’è compiuto l’oltraggio, s’è perpetrato il delitto, s’è celebrata l’infamia. Altra stanza, con fuga prospettica del pavimento e mattonelle divelte, quadri su cavalletti in piani paralleli contro il piano della parete: sono ancora, in variazione di toni, sfumature di tinte, modulazioni di luce, giovani corpi riversi e oppressi. E ancora, anelli in convergenza e in controluce, in penombra, su convergenza di luci, riverbero tenue d’un fuori deserto. La stazione ulteriore è il faccia a faccia di due dipinti, e in quello visibile, centro del dramma, l’atroce più acuto, un cappio tirato da forza brutale che finisce un inerme. Si ripete la scena in un tempo seguente in cui avviene che una nuvola lieve abbassa i toni, proietta le ombre il grido si fa compianto.

Siamo, in questa clericiana sequenza pittorica dei “Corpi di Orvieto”, e nel coro de disegni, siamo per Signorelli, come prima per Hböcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di Calderon, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, nella stanza dove dialetticamente si scontrano e conflagrano idea e fenomeno, allegoria e storia, geometria e caos, ragione e delirio, armonia e violenza. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.

Milano, 25 settembre 1996
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

“Ricordando Fabrizio Clerici”

Prolusione presso l’Accademia Nazionale di San Luca, Roma 10 giugno 1994….

La mia, naturalmente non è una relazione, è solo un breve ricordo di Fabrizio Clerici.

Era quello di Clerici, sul mondo, uno sguardo leopardiano, del poeta della Ginestra, dell’Infinito del Pastore errante. Era lo sguardo su colpi di lava, di basalto, che hanno coperto, cancellato ogni vestigia di vita, ogni segno umano. Lo sguardo sugli infiniti spazi di smarrimento, panico; su sconfinate distese, desolanti, sotto celi notturni.

Era, quello di Fabrizio Clerici, dolore per il fluire inesorabile del tempo; per l’inconsistenza della storia, era la compassione per il destino umano: malinconia del passato, struggimento delle rovine, insopportabilità d’ogni presente misero e atroce.

Erano, i suoi mondi di pietra, le sue distanze, le sue stasi campannelliane, le sue allarmanti apparizioni nelle stanze, i suoi vuoti, le sue quieti, il suo onirismo e la sua metafisica; non erano dunque che difesa, schermo, un travaglio incessante, d’un assillo senza tregua, d’un dolore senza rimedio.

Per parte mia voi sapete, vorrei sottrarmi dalla tempesta insana d’ogni sentimento; percorrendo a ritroso vecchi antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento ceco, incontrollato, fino al punto oscuro, iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo; nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica.

Oggi, sta in quella quiete Fabrizio Clerici, a noi, del suo passaggio in mezzo alla tempesta, nella sua sosta sopra le lave dello sterminato corso reso, l’eredità di un arte sublime e umanissima; la testimonianza della compassione per il dolore che ognuno ha anche ignorato, compassione per il mondo.

A me, come ad altri scrittori, il dono speciale, per mezzo della sua arte, della sua personalità, dell’ispirazione di un racconto.

La donna nella letteratura siciliana

La donna nella letteratura siciliana

Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.

Vincenzo Consolo

Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino

Un ricordo di Vincenzo Consolo

Enrico Muscetra

È solo con un grande sforzo che, superando una naturale e pudica ritrosia a parlare di un poeta amico che non c’è più, mi permetto di raccontare due episodi “lievi” che si sono succeduti durante un percorso più che ventennale di amicizia con il grande scrittore. Due episodi che fanno sentire intero il colore caldo di un’ironia affettuosa, profonda e mai disgiunta dal sentimento di stretta amicizia con cui mi gratificava. Invitai Vincenzo, il 2 agosto 2001, a venire in Salento per una conferenza sulle “Culture migranti e il Canale di Sicilia” da tenere nel mio paese di Gallipoli e per inaugurare anche il mio monumento al “Riccio” di mare. Arrivò nella mia casa di campagna in un giorno di insopportabile calura e subito mi chiese, assetato e forse ancor prima di salutarmi, di poter placare quella terribile arsura. Presi immediatamente una bottiglia dal frigo e colmai d’acqua fresca un grande bicchiere che tracannò in un istante. Ma subito dopo lo vidi esagitato che tentava di rimettere quell’acqua bevuta, che in realtà era l’acqua di mare con cui dovevo lavare e insaporire il pesce che dovevamo mangiare. Un errore che commisi, credo, per l’agitazione e la gioia procuratomi dal suo arrivo. Fatto che lui avvertii perfettamente perché, anziché rimproverarmi, mi disse più divertito e allegro di prima che solo un bravo amico poteva dargli il benvenuto con un bicchiere di acqua salata. Il secondo “lieve” episodio, più emblematico del suo sentire l’amicizia e la poetica ironia, è per me un po’ triste perché risale a qualche settimana fa. Io avevo in passato il vezzo di andare ogni tanto a cucinare nella sua casa di Milano perché era un modo per passare con lui e Caterina una piacevole serata. Cosi due settimane fa lo chiamai al telefono e gli raccontai il sogno che avevo fatto la notte precedente e cioè che ero arrivato a Milano con i tortelli della Versilia e li avevo cucinati e degustati con lui nella sua casa. Gli dissi anche, a serata inoltrata, che ero un po’ preoccupato per questa sua consuetudine ad attardarsi eccessivamente (Caterina, sua moglie, era andata già da un bel po’ a riposare) e che sarebbe stato più saggio andare a riposare ad orari più consoni al suo stato di salute. Fu a questo punto che mi interruppe per dirmi – sempre in sogno – e con un’ironia che includeva tutta intera la generosità di un’ospitale amicizia, che lui aveva la sana abitudine di coricarsi la sera presto e solo l’eccezione di avere a casa amici cuochi-rompicoglioni come me lo induceva a fare tardi. Insomma gli raccontai questo sogno e lui rise divertito ancora una volta. Fu l’ultima volta che parlai con lui.

Vincenzo Consolo con Enrico Muscetra
 
A Vincenzo Consolo. 22 aprile 1996 Caro Vincenzo, oggi sabato ti ho telefonato a Sant’Agata, ma eri già partito, cosi non ho fatto in tempo a salutarti mentre eri ancora in terra siciliana. Mi è venuto, improvviso e intenso, un desiderio di trasmetterti alcune sensazioni che, oggi, in questa bella primavera Salentina, mi attraversano più che la mente il cuore. Ieri pomeriggio mentre maneggiavo la mia segreteria telefonica difettosa ho ascoltato improvvisamente, e del tutto impreparato, la voce dell’amico Siro Teodorani, che alcuni mesi addietro mi aveva chiamato al telefono da Milano. Ciò mi ha procurato per alcuni interminabili istanti la confusa e irreale sensazione fisica che fosse ancora vivo. Di riflesso, o per un riflesso condizionato parallelo, mi sono venute in mente, e con un impeto emozionale da far battere forte il cuore, anche le figure di mio Padre e quella del nostro comune amico Renato Guttuso, entrambi “dipartiti” nel 1987. A questo punto è spuntato in me e si è ingrandito – come una secrezione nefasta in un vaso chiuso – il virus auto intossicante di un risentimento acceso, quantunque bonario, nei confronti di questi assenti per l’eternità, e mi ha fatto sentire tutta la morsa dolorosa della loro irreversibile e assurda mancanza. Ed è con questa sensazione di impotenza, la stessa che mi fa detestare la contingenza orrida del reale e che mi induce a rivoltarmi, che mi avvio fastidiato verso la prefigurazione di altri ipotetici fantasmi, me stesso compreso, che sbarcano o si imbarcano su una innominabile e mai desiderata locomotiva. Una locomotiva che viaggia in uno spazio-tempo che ruota attorno ad un’orbita la cui direzione e finalità sembra sia del tutto improntata alla totale assenza di un qualche superiore significato. A questo punto ho riflettuto sul “senso” del tempo – convincendomi che non ne abbia alcuno – e ho pensato al significato della storia, significato che da altro non deriva e non da altro è definibile se non dalla somma dei valori creati e prodotti dalle umane agitazioni che in essa si succedono. E che malgrado queste, e in virtù di queste, l’uomo è comunque predestinato (almeno per ora) a finire; e che ogni futuro dato, dato e scontato nell’infinito divenire, si annuncia ripetitivo e dunque già trascorso. Per questo solo fatto, se non per altro, saremo sempre, nei confronti del divenire, posseduti da un irriducibile complesso: un complesso similare a quello dell’orfano, del diseredato. Così, orfano anche di Dio, vedo ricomparire i miei fantasmi: mio Padre e gli altri, e continuo inutilmente a chiedermi dove mai saranno e il perché del loro essere stati dal momento che sarebbero dovuti poi svanire. Interrogativi ai quali nessun Dio pare voglia rispondere e ai quali non c’è risposta. A meno che non voglia proferirla in segreto quella voce inudibile che è interna alla stessa assurda inutilità del vivere e quindi del fare. Non resta allora alcuna alternativa, neanche alla rivolta, se non quella di agire solo per “sfida”: sfidare l’universo e lo stesso “nulla”, e sentirsi, per un momento sospeso, dei Kamikaze dello spazio, o per meglio dire, del grande vuoto. Spesso osservo il Tuo sorriso e non mi sembra che – al pari della Tua prosa – presagisca possibili imminenti inondazioni di luce e tanto meno la convinzione che qualche superstite albero dell’innocenza possa essere innestato. Scusami per le sciocchezze che ti scrivo, e per farmi un po’ perdonare ti accludo una foto polaroid che ho scattato ieri al mare: sono ritratti i ricci che ho preso con un amico che ha la muta. Ne ho contati più di cento e tutti grandi e profumati. Stasera cucinerò gli spaghetti ai ricci di mare e, pindaricamente, li mangerò assieme a Te. Un caro abbraccio. Enrico

Scultura di Enrico Muscetra

A Vincenzo Consolo

29 luglio 2000 Caro Vincenzo, ti giunga assieme a questa lettera una corrente di aria serena e un augurio di pace feconda alla germinazione del Tuo pensiero e del Tuo lavoro. E non sorridere ironico alla lettura di questo augurio steso in modo un po’ pretesco: sono sempre più convinto che, salvando il buon vino e le rose, sia giunto il tempo di rinunciare ad un sacco di cose, se vogliamo che non ci fottano, per arrivare a vivere una vita serena, essenziale e non assorbibile dalla pesante spugna del divenire. Sono contento di averti sentito al telefono, ma sono dispiaciuto perché so che stai attraversando un periodo di difficoltà dovute anche a preoccupazioni familiari. Lo so, anche perché, se non ci siamo sentiti per tanto tempo, e questo è dipeso da Te, è certo a causa del Tuo pensiero turbato da tali preoccupazioni. Ma io so che le avversità non ti scoraggeranno e che anzi le saprai far decantare in parole, in immagini vive, da inserire nel bell’alfabeto classico costituito dalla Tua luminosa letteratura. Proprio oggi, 29 luglio, anniversario della morte di Vincent Van Gogh, artista e simbolo sommo della spiritualità moderna, mi torna in mente un passo di una sua lettera a Theo. Voglio riportartelo: Non ho grandi piani per il futuro: se a momenti sento sorgere in me il desiderio di una vita senza pensieri, delle prosperità, ogni volta riguardo con un certo affetto i guai e le avversità, una vita piena di sofferenze, e penso, è meglio cosi; imparo di più, non mi degrada, non è questa la strada su cui uno perisce. Gli uomini, se fossero meno stupidi e vani, dovrebbero capire che i veri santi sono questi. Sì! Sono i grandi artisti quelli che hanno battuto per primi, pagando con la vita, le strade che ci consentono di uscire dalle prigioni del conformismo, dalle galere della bruttezza, dalla civiltà della facilità assurta a mito universale di consumo. Quando penso che Van Gogh ha guardato la vita, la natura, le stelle, insomma le cose che guardiamo anche noi, mi sento per un momento un grande privilegiato. Lui è la prova più tangibile che la bellezza esiste e che vale la pena di dare tutto di sé per poterla possedere. E ti confesso che se non avessi nessuna speranza di poter convivere con essa, sia pure episodicamente o raramente, credo, non vorrei vivere affatto. Nei momenti più bui o quando più intensamente percepisco la sua scomparsa o il suo allontanamento progressivo da questo pianeta popolato di dementi rumorosi, mi soccorre il pensiero di mio Padre, il ricordo della Sua immacolata innocenza, della Sua dignità nel duro lavoro. La bellezza di questo uomo semplice, la sua memoria è per me una guida, un riscatto alle pecche, ai vizi con i quali scendo a patti frequentando le paludi, le tentazioni che fanno desiderare un certo privilegio. Spesso, non mi vergogno a dirlo, piango di gioia nel sentire una musica bella, una voce vera come quella di Carlos Gardel. Oppure esulto se penso che non sono solo perché da qualche parte c’è, quando si ha la fortuna di averlo, un amico vero che mi vuole bene. Insomma ho incominciato col farti un augurio un po’ pretesco e sto finendo con il confessarmi a Te come se il prete fossi Tu. Ma Tu sei, anche se in qualche momento ho avuto la debolezza di dubitarne, un amico: un amico che considero fortunato perché svolge, come pure svolgo io, un lavoro creativo. Alla fine quel che conta davvero è questo lavoro che ci aggrada, e non è neanche tanto importante avere successo o meno, anche se ciò a volte può stimolare. Importante è invece riuscire a trovare quella luce, quella verità che risiede nella bellezza. Camus scrisse, e in questo lo sento affine, che aspirava, alla fine di una vita, a ritrovare le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto. Ma lascio stare il cuore perché negli ultimi tempi ne ho dipinti tanti e una casa farmaceutica (l’istituto Gentili) sta preparando un calendario illustrato con dodici cuori da me dipinti ad uso e consumo per un anno intero di tedio per migliaia di poveretti che dovranno guardarlo. Per il momento finisco con il tediare il mio amico Vincenzo Consolo. Augurandoti di cuore, di cuore vero, quello greco, ogni bene, ti abbraccio e ti sono vicino con affetto. Enrico


Opera di Enrico Muscetra

La palma celeste per Enrico Muscetra

E nel mattino
il mattino apriva le celesti cataratte,
rotolava ossidi, cristalli,
rossi di fuochi siderali,
azzurri intenebrati,
bianchi di vibranti incandescenze,
bruni residuali, dissolti ricordi della notte.
S’apriva il giorno nell’abbaglio,
nel dominio solenne del fulgore.
Bruciava linee,
contorni,
dissolveva masse, consistenze,
fugava ogni sostanza,
in spettro variava,
modulava in fughe,
dissonanze,
vortici,
sequenze:
che fu di quel lontano tempo,
di quel giorno fisso,
delle meridiane eluse,
della sabbia del sonno,
di quel vuoto immenso,
di quel silenzio teso,
e dell’avvento eòo,
di quel panico antico
e sempre nuovo?
D’ogni traccia perdemmo la memoria.
Ora tutto ritorna
in eco lontana e
dissolvente,
incerto battere di nocche,
vibrare d’una corda,
modulare lieve d’una canna,
 appare in febbrile astrazione,
in figura mobile,
in ricreazione,
in cosmo verginale di colori:
è ansia d’infinito,
l’incessante cataclisma,
l’empedoclea metamorfosi,
è spasmodico crescendo,
sfida,
varco,
brama
dell’immensa stasi.
Quindi agli smarrimenti succedono i regressi,
i bisogni di memoria,
di misure note e consolanti.
Nel calo del fervore crudo e accecante,
nella clemenza dell’occaso,
nella scansione umana delle ore,
risorgono dal sogno
cieli,
terre,
acque,
lune serene e trasognate,
globi sanguigni e vorticanti.
Risorgono
come in albe o sere primordiali,
negli incerti vesperi,
isole vaganti su mari di cobalto,
borghi favolosi,
dimore di lumi palpitanti,
fani di approdi
o di notturne partenze
per Atlantidi o regni dei Feaci,
ricerche su mappe leggendarie
di navigli sommersi,
tesori sigillati.
Risorgono
dalla nostalgia d’una Fenicia
di porpore, di vetri e di coralli
le venuste palme di regalità orientale.
Si ergono
dalla quieta piana sconfinata
nel corpo snello,
nell’orgoglioso slancio,
nella folta chioma
nello zampillo verde,
nella cascata d’aerea fontana
a ritmare spazi,
indicare rotte, sensi,
essere bussole,
stelle,
emblemi di cavallerie,
blasoni di casate.
Bruciano
gli steli delle vergini altere,
oscillano,
si flettono,
fremono
nel subbuglio delle primavere,
nel desiderio d’un connubio,
d’una pace feconda:
nel sogno
d’un seme che germoglia,
d’una spata che si schiude,
della pioggia di miele e ambra
come nella Terra promessa
o nell’oasi del miraggio.
Ritorna nella sera
la figura famigliare,
l’ombra che mai s’è allontanata,
l’apparenza costante,
si staglia amorosa
nel rosso d’un riquadro,
nella soglia d’una porta,
nella trama celeste
d’una palma.

Vincenzo Consolo


In occasione della,
Mostra castello Angioino, Gallipoli agosto-settembre 1996

L’olivo e L’olivastro. Le due Sicilie di Consolo.


Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro.
Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.

L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare ( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione, tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post -industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di “sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio), percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote, lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo, ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa, scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento, contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione, espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro Kurosawa.

Sergio Palumbo
(articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)

” Incontri ” Matteo Reale intervista Vincenzo Consolo

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Incontro con Vincenzo Consolo


di Matteo Reale

“Noi siciliani siamo fortemente segnati da questa nascita. Non so bene spiegare il perché’ di questi segni così profondi che ci portiamo appresso: probabilmente è la storia siciliana che è molto forte, molto ricca, molto stratificata per cui il modo d’essere siciliano è molto più inquietante, credo, rispetto a qualsiasi regione italiana. E’ un’inquietudine ma anche una ricchezza culturale. Questo Pirandello l’ha capito e l’ha espresso nella sua opera: noi siciliani siamo uno, nessuno e centomila. Siamo in costante ricerca della nostra identità`, perché’ la Sicilia è fatta di tante culture, di tante anime, è passata attraverso tante dominazioni. E’ un’isola di un’infelicità sociale molto forte, che non ha mai conosciuto, nel corso della storia, armonia e pace. Perciò nasce il bisogno di fuggire da questa condizione, ma nel momento stesso in cui si fugge questi segni sembrano diventare più forti fino ad impedire un distacco definitivo.”

Così Vincenzo Consolo, scrittore messinese, descrive il particolare e indissolubile legame che si stabilisce tra il siciliano e la Sicilia. Legame che emerge come tratto caratterizzante dell’opera di ogni artista di quest’isola, nella letteratura come nelle arti figurative.

Il mio incontro con l’autore avviene nella sua abitazione durante un periodo di riposo tra un viaggio e un altro, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “L’olivo e l’olivastro” (Mondadori). Questa conversazione mi permette di appagare un’esigenza profonda, quella di rispondere al richiamo di sirena della Sicilia, al suo stesso bisogno di essere capita e accettata, anche attraverso la letteratura.

“Una letteratura connotata come la nostra, seppure su altri versanti, è la triestina: i triestini sentono come noi una condizione di marginalità`, in bilico come sono tra il mondo italiano e quello mitteleuropeo (si veda per esempio Svevo, Saba, Slataper, Magris). Quella siciliana, pero`, è molto più realistica, si rivolge ai problemi storico-sociali, da Verga al Pirandello de “I vecchi e i giovani”, a Lampedusa, a Sciascia.”

L’olivo e l’olivastro, racconto-romanzo sulla Sicilia di ieri e di oggi, è frutto di un approccio poetico e al contempo di una riflessione intorno al trapasso dalla millenaria civiltà contadina alla civiltà della Europa odierna, figlie di una cultura greca della quale, spiega Consolo, oggi non rimangono che necropoli, pietre inaridite.

“Il compito dello scrittore è quello di recuperare la coscienza del passato e del presente. Il segno più importante della nostra epoca, infatti, è quello della perdita della memoria. Si vive in un presente assoluto privo di passato e senza prospettive per il futuro. E non soltanto nella civiltà occidentale, ma anche nel mondo orientale, che fu dominato dal cosiddetto socialismo reale. C’è un tentativo da parte del potere economico e di quello politico di cancellazione di quelle che sono le piccole identità culturali: un processo di uniformazione, di omologazione. Si rischia di cadere in una sorta di distacco dalla realtà`, in una condizione di alienazione. Noi dobbiamo cercare di ricordare anche attraverso il linguaggio, perché anche il linguaggio viene cancellato: oggi siamo privati di un nostro linguaggio e siamo sottoposti ad un altro a noi estraneo.”

Così la concezione del tempo e dell’esistenza che fu di Joyce, di Eliot, di Hemingway, la linea del “perpetuo presente” viene rifiutata sul piano storico e letterario da Consolo, che vi oppone la memoria, intesa come strumento linguistico e culturale. Il linguaggio di Consolo, un impasto colto e inclita (l’olivo e l’olivastro!), utilizza le inesauribili risorse del dialetto, delle lingue straniere, del latino, di tutti gli strati linguistici che si sono accumulati nel corso dei secoli e hanno arricchito il patrimonio culturale siciliano. Il suo lavoro lessicale consiste in una sorta di scavo filologico, di ricerca in profondità e nel tempo, per recuperare e vivificare. Si svolge quindi, come lui stesso ebbe occasione di dire, seguendo due movimenti: uno verticale, storico e filologico, l’altro orizzontale, ritmico e sonoro. Stile personalissimo, che è stato definito barocco (Brancati disse che il barocchismo è una costante, un umore della letteratura siciliana), che ha fatto pensare ora a Gadda, ora a D’Arrigo: tuttavia esso diviene struttura portante dell’impianto narrativo, non resta mero esercizio di stile. Così ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), nel quale è riempito il divario tra realtà e finzione e reinventato il romanzo, così in “Retablo” (1987), nel quale la “prosa d’arte” è di per se’ uno schema, un gioco narrativo che crea una Sicilia remota ma viva e ironica.

“La mia matrice culturale è nel solco della tradizione siciliana. Lo schema letterario dei miei primi racconti è di tipo verghiano: non si può prescindere da una figura “sacra” come quella di Verga. Ho pubblicato solo quando ero sicuro di avere una mia identità`. Il mio modo di scrivere non è casuale: d’altronde è stata la sperimentazione linguistica che ha reso grande Verga: egli ha preso l’italiano e lo ha immerso nel dialetto, senza peraltro usare parole in siciliano.”

Quindi quello di Consolo è un linguaggio calato interamente nel mondo siciliano e appartenente forse ad entrambi i filoni in cui lo stesso autore distingue la letteratura della sua isola nella prefazione al saggio “Sirene Siciliane” di Basilio Reale (Sellerio, 1986). Quello occidentale di Pirandello, Sciascia e Lampedusa, storico e razionale, “e giù giù quelli del periodo normanno, svevo, aragonese, etc.”, e quello orientale, esistenziale e poetico, “a partire dal periodo bizantino, e quindi romano, greco, e indietro fino ai punti più profondi e insondati del passato, ai più arcaici e indecifrati come i loculi rupestri di Pantalica.”

Consolo svolge la sua ricerca sia sul versante storico-sociale, sia su quello lirico-poetico, addentrandosi nei crucci e nei dubbi esistenziali di una Sicilia assurta a metafora. Emergono così dai suoi romanzi, dai suoi racconti problemi costanti nella “sicilianità`”: la ricerca della propria identità`, perché’ “i siciliani”, affermava Sciascia riprendendo il Lampedusa del Gattopardo, “sono stati del tutto impermeabili alle dominazioni straniere, e un’autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli”; “il fatalismo individualista”, è ancora Sciascia a parlare, “che ci viene dalla nostra anima araba. La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi”; la dissoluzione del mondo mitizzato del passato e la conseguente alienazione di cui parla il nostro autore.

“In Sicilia questo smarrimento è dovuto ad un’identità molto fragile, proprio perché abbiamo molte identità: per questo è difficile essere siciliani. Fin da piccoli viviamo in quel maremoto che è la realtà siciliana. Si rischia continuamente il naufragio, la perdita della ragione. “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.” Io, questa frase di Sciascia la intendo in senso esistenziale: quando il siciliano non impazzisce diviene un uomo con una disperazione dentro. Pirandello questo lo fa dire a Mattia Pascal. Il tema della disgregazione l’ho sempre affrontato. Ci sono due modi per uscire dalla ragione: si può uscire dall’alto con la fantasia creativa (è il destino dell’artista, che non si muove su piani razionali ma poetici) o con l’impegno politico. Ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” una ragazza sfregia in un momento di follia il quadro col sorriso (che rappresenta la ragione dell’uomo maturo che si può permettere l’ironia) perché nutre ansie politiche e vuole la realizzazione di istanze sociali. Dalla ragione si può anche uscire dal basso per disgregazione della stessa: la follia del monaco nel capitolo “Morti sacrata”, ancora ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, è la corruzione della ragione.”

“E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, è cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo, è dolorosa saggezza, disperata intelligenza” (Le pietre di Pantalica).

La stessa attività dell’artista, pur nutrita dalla fantasia poetica, rimane sempre sospesa tra l’afasia di chi trattiene un grido di fronte alla corruzione del presente e l’affabulazione continua, logorroica, accumulativa di chi butta fuori tutto, come un folle, in un impeto liberatorio. “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto. Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con un bagaglio di rimorsi e pene. Partì da una valle d’assenza e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci.” (Da “L’olivo e l’olivastro”)

I personaggi religiosi come quello di “Morti sacrata”, sono centrali e ricorrenti anche nell’ultima opera: ad essi Consolo associa dolori, ribellioni, pazzie. “I preti, i frati, le monache sono frequenti nel panorama della letteratura italiana (in Boccaccio e in Manzoni). Nella mia opera c’è una frequenza maggiore per via dei miei primi anni di studio all’Istituto religioso. Mi hanno sempre incuriosito: per me è impensabile come un uomo possa lasciare la vita quotidiana per accettare un ordine costituito: è tale poi la soggezione a queste regole che si ribellano, impazziscono o si innamorano (come frate Isidoro in Retablo).”

Il cattolicesimo ha dunque segnato la formazione dell’autore, come uomo e come artista. Egli, attratto dal mito di Verga e Vittorini, si trasferì a Milano per iniziare gli studi universitari proprio all’Università Cattolica.

“Mi si offri`, presa la licenza superiore, l’opportunità di fare gli studi fuori. La mia scelta di Milano fu motivata dal fatto che segretamente avevo fin da allora aspirazioni letterarie. Ma mi iscrissi a giurisprudenza perché non osai chiedere a mio padre di iscrivermi a lettere. Andai all’Università Cattolica perché c’era la possibilità di vivere in un pensionato (ricordo che costava ventimila lire al mese). Arrivai a Milano nel novembre del 1952, era seconda volta che uscivo dalla Sicilia: questa città mi colpì molto. Mi impressionò il fatto che potevo guardare il sole a occhio nudo di giorno: mi sembrava la luna siciliana.

Io frequentavo, oltre a Giurisprudenza, anche i corsi di letteratura italiana del professor Apollonio, su Pirandello per esempio. In quegli anni alla Cattolica c’erano i fratelli Prodi, i fratelli De Mita, e anche Emilio Isgrò, Raffaele Crovi, Basilio Reale, che ancora frequento.”

Consolo finì gli studi a Messina e si laureò. Risalì a Milano anni dopo, nel 1968, per restarvi. Ma senza abbandonare la Sicilia, dove è sempre ritornato per godersela e visitarla.

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.

Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (da “Le pietre di Pantalica”).

Intervista di Matteo Reale pubblicata nel 1995 su “Fabula Review”, in quella che è stata la prima rivista letteraria on line

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Nella fotografia, Vincenzo Consolo (a sinistra) presenta, insieme a Vittorio Fagone, il volume di poesie I ricambi di Basilio Reale (a destra), nel 1969 a Palermo.

Incontri : Scrittori d’oggi e tradizione classica

 

VINCENZO CONSOLO

PADOVA,  01/06/1995

Ringrazio i due presentatori, il professor Mariani e il professor Pianezzola. Sono onorato di essere qui a Padova, di essere in questa gloriosa università. Ricordavo al professor Pianezzola che sono già stato qui venti anni fa, nel ‘76, invitato nella sua aula dal prof. Folena, quando era uscito il mio romanzo, che si intitolava  Il sorriso di un ignoto marinaio. C’era stato un linguista che aveva messo in versi la mia prosa, rivelando in qualche modo quella che è la mia sperimentazione linguistica e la mia concezione dello scrivere quelli che si chiamano romanzi; ma su questo poi spero di avere occasione di soffermarmi.

Io non ho pratica universitaria; ci sono molti miei colleghi scrittori che sono anche universitari; io li invidio perché, avendo pratica didattica, sono abituati alle aule universitarie. Quindi mi scuso, metto le mani avanti per le mie esitazioni, per le mie inceppature e tutto quanto non rende fluido il linguaggio. Ecco, io non parto, dovendo affrontare questo tema, il tema del ritorno, del nÒstoj, non parto dall’archetipo, da Omero, dall’Odissea, ma voglio partire proprio dalla mia terra, dal primo degli scrittori siciliani che sono emigrati, che sono andati fuori dall’isola e che poi sono tornati: voglio partire da Verga.

La mia terra, l’isola, la Sicilia, è una terra estrema, che ha sempre, da una parte, persone non felici socialmente, che, spinte dalla necessità, sono state portate ad emigrare; ma questo non solo dalla Sicilia, ma da tutto il meridione, come voi sapete, e anche da zone depresse di questo Veneto. Però da parte degli intellettuali, degli scrittori c’è sempre stata, se non la necessità, il desiderio di arrivare al centro, di lasciare questa periferia incerta, cercando un centro che in volta in volta si identificava in Roma, in Firenze, ma soprattutto in Milano.

Verga, per non andare molto lontano, è stato il primo di questi emigranti, il primo di questi scrittori che ha lasciato l’isola per arrivare a Firenze, che era allora capitale d’Italia, e quindi a Milano.

Quando giunse a Milano, un giorno di novembre del 1872, immaginava di trovare una città immobile come era Firenze, capitale allora d’Italia, come dicevo, ma anche capitale della cultura, capitale della lingua; aveva già una carriera ben disegnata di scrittore: fino a quel momento aveva scritto, da giovane,  I carbonari della montagna, Amore e Patria,  Sulle lagune .

 

 

Ma a Firenze aveva lasciato questi temi di tipo storico-patriottico, e aveva intrapreso un altro filone, che poi è stato definito “mondano”: romanzi d’amore e passione, che si chiamano  La peccatrice, Eva, Tigre reale, Eros, ecc.

E dunque giunge a Milano nel 1872, con un biglietto di presentazione molto ambizioso e molto gratificante per quell’epoca: era l’autore della  Storia di una capinera; era il tema, allora molto di moda, di derivazione diderotiana, manzoniana della malmonacata. E quindi si presentava nei salotti milanesi, nei salotti delle varie contesse, della contessa Maffei, Castiglione o altre contesse, con questo affascinante biglietto da visita. Ma si presentava soprattutto col suo fascino di meridionale, di uomo taciturno e misterioso. Affascinava soprattutto le signore, in questi salotti, al punto da suscitare la gelosia e l’ira di Carducci  perché sembra che abbia, in qualche modo, corteggiato l’amante di Carducci, Lidia, e Carducci manda un biglietto iratissimo a questa sua amante, dicendo che questo parvenu si presenta con un falso titolo, come cavaliere; per di più, è uno che ha scritto un romanzo epistolare, che era appunto la Storia di una capinera, e, ancora peggio, è un siciliano e quindi un uomo volgare. Il vate era pieno di furori, come voi sapete.

Quindi Verga immagina la società di Milano come una società assolutamente immobile. Ma Milano, nel ‘72, immobile non era: era in preda alla prima rivoluzione industriale; era una città in grande movimento: si aprivano le fabbriche, si apriva la Pirelli & Co. per la lavorazione della gomma e poi, naturalmente, anche opifici; il conte Melzi d’Eril aveva regalato al Comune delle sue proprietà, dove erano sorti nuovi quartieri; erano sorte nuove stazioni ferroviarie; c’era un grande movimento commerciale. Naturalmente, con questa nuova rivoluzione industriale incominciavano le prime conquiste sociali: nel ‘72 si apriva a Milano la prima sezione dell’Internazionale socialista, a Lodi si stampava un giornale che si chiamava […]; Garibaldi sciveva al direttore di questo giornale, a Bignami, dicendo del grande impegno che aveva questo giornale nei confronti della classe lavoratrice.

 Verga, di fronte a questo mondo che non conosceva, che non capiva, si trovò immediatamente spiazzato e cadde in crisi, come spesso capita alla letteratura nei confronti della storia, della storia nel momento in cui si svolge. Questa rivoluzione industriale culmina nel 1881 con l’Esposizione universale di Milano. In questa esposizione Arrigo Boito tiene un discorso in uno dei padiglioni, un discorso tutto inneggiante al progresso, alla nuova era che avanzava; alla Scala si rappresenta il Ballo Excelsior con i versi di Marenco, dove si inneggia appunto alle nuove scoperte, all’elettricità; è una sorta di balletto a ritmo di polka, dove si parla appunto del traforo del Sempione, della scoperta dell’elettricità; insomma, si apriva tutto un mondo di grandi promesse. Verga rimane assolutamente dubbioso di tutto questo e la sua crisi  culmina con l’81, l’anno della pubblicazione dei Malavoglia; ma questa svolta stilistica di Verga incomincia già negli anni precedenti. I primi segni si avvertono in un racconto, un racconto singolare che lui poi ha ripudiato, anzi scrive al suo traduttore francese, al […], che è assolutamente un racconto brutto, che non vuole che si traduca in francese. Però è un racconto singolare, perché è una svolta di epifania di quella che poi sarà la sua confessione stilistica, il suo ritorno in Sicilia. Questo racconto si chiama La storia del castello di Trezza. E’ un racconto di tipo gotico, dove c’è una cornice di tipo medievale e poi, dentro questa cornice, una storia contemporanea, dove c’è una contessa, la contessa Violante, che guarda dall’alto di questa torre le casipole e i fariglioni, che sono gli elementi che compariranno poi nei Malavoglia; li guarda dall’alto e prova compassione verso questa povera gente che abita in questa spiaggia, che è la spiaggia di Aci Trezza. Poi, quello che sarà il manifesto della sua svolta stilistica sarà un racconto che si chiama Fantasticheria. Natalino Sapegno dice che Verga, con  questa sua crisi, ritorna con la memoria alla terra delle madri, ritorna alla sua Sicilia, al mondo intatto della sua infanzia.

Ecco, lui si portava dentro questo mondo e c’è voluto il contatto, l’impatto con Milano per poter scoprire dentro di sè questa sua memoria. Ma soprattutto scopre una lingua che sino ad allora non aveva praticato, che era un lingua diversa da quella con la quale aveva scritto fino ad allora i cosiddetti romanzi mondani. Era questa antilingua, questa lingua di opposizione al codice linguistico toscano, che non era assolutamente siciliano perché se, in un primo momento, nei racconti della Vita dei campi e poi Novelle rusticane ci sone delle esitazioni, ci sono ancora dei vocaboli siciliani scritti in corsivo, che sono come dei buchi dentro la pagina, a poco a poco questo liguaggio si amalgama; questa lingua non è più dialettale, è una lingua che è irradiata di dialettalità, non arriva mai al dialetto. Anzi Verga, quando prese coscienza di quello che stava facendo, di quello che aveva fatto, prende le distanze dal dialetto perché capisce che la sua operazione era un’operazione assolutamente linguistica, non era un’operazione di tipo dialettale; anzi, aveva avuto un diverbio, una polemica con Capuana, col suo confrère, appunto sull’uso del dialetto. Ecco, lui capiva che aveva inventato un linguaggio che era il linguaggio dei personaggi che lui trattava; era la storia che narrava (proprio per la sua concezione dell’impersonalità), era la storia che si parlava da sè. Si parlava da sè attraverso questa lingua, che è fatta come i versetti di un libro sacro, della Bibbia o del Corano: sono i proverbi tramandati dalla sapienza dei vecchi, dalla sapienza degli antichi, sono questi proverbi che si ripetono e naturalmente sono accettati passivamente da parte dei personaggi dei romanzi e dei racconti che lui va scrivendo. Comunque delinea, proprio nella concezione che Verga aveva di fronte a questa concezione progressiva, di tipo leibniziano o mamiano, quello sul quale avevano appuntato i loro strali ironici da una parte Leopardi e dall’altra Voltaire; Voltaire nei confronti di Leibniz, con il suo romanzo Candide, mentre Leopardi nei confronti di Terenzio Mariani ne La ginestra. Lui si era ripiegato in sé stesso, si era ripiegato nella stagione dell’infanzia, in una terra immobile che era la terra dell’immobilità più […] della  Sicilia e che aveva trasferito in una dimensione esistenziale, in una dimensione quasi metafisica. Era la concezione del fato, della assoluta ininfluenza della storia nei confronti dei destini umani. Fato viene da “parlare”, for, faris e, quindi, quello che è detto è detto una volta per tutte, una volta per sempre. C’è, nella cultura arabo-musulmana, una frase del Corano, che dice “men tub” [?]; c’è anche questa matrice araba, non solo greca, nella concezione nella concezione verghiana del fato. “Men tub” significa “Ciò che è scritto è scritto”, e quindi c’è questo mondo circolare di Verga. Ora, io credo che nessuno come Verga poteva avere un concezione, in Sicilia, propria di un uomo che era nato sulle pendici di una terribilità naturale come l’Etna. L’Etna è quel vulcano che continuamente minaccia, che continuamente distrugge. Le popolazioni che sono vissute sulle falde di questo vulcano hanno sempre avuto questa concezione fatalistica della vita; quindi Verga interpreta perfettamente quella che è la concezione di questa popolazione, di questi esseri che vivono proprio sotto le minacce di una natura terribile e distruttiva come può essere quella di un vulcano. Un vulcano che poi non è altro che il simbolo, la pietrificazione di un altro elemento infido, un elemento minaccioso di cui non bisogna fidarsi, che è il mare. Lui pone la prima azione del suo romanzo, de I Malavoglia, al limite di questi due mondi, di questo mare pietrificato che è la lava, la sciara, e di quel mare tempestoso dove i Malavoglia incontreranno la loro sciagura, dove perderanno tutte le loro speranze, dove affogherà,  dove si naufragherà la barca che si chiama Provvidenza.  Dunque, questo mondo immobile, che è un incrocio fra Leopardi e il mondo tragico di Sofocle o di Euripide o di Eschilo. Naturalmente c’è una assoluta sfiducia nei confronti di una società organizzata, nei confronti della storia. Verga ritorna con la memoria in Sicilia, ma ritorna poi anche fisicamente, biograficamente nella sua Catania. In questa Catania, si chiude nella sua casa di Sant’Anna, pensa di scrivere quello che è il terzo episodio del Ciclo dei Vinti. Ma dissipa il suo tempo, ritorna come in questo alvo materno in cui rimane imprigionato. C’è una sorta di regressione, che già aveva espresso in modo poetico nelle sue opere, ma è anche una regressione di ordine biografico di Verga stesso. Ecco, dice: tutti sanno che sta scrivendo il terzo libro che è La duchessa di Leyra, e invece lo scrive [?]. Quando poi morirà, nel 1922, ecco si scopre che del terzo libro, del terzo episodio, de La duchessa di Leyra aveva tracciato soltanto il primo capitolo. E’ l’assoluta sfiducia che ha Verga nei confronti di un libro che avrebbe dovuto uscire fuori da quella che è la rigidità del poema narrativo rappresentato da I Malavoglia e, in qualche modo, anche dal Mastro don Gesualdo. Uscire fuori è scrivere il terzo romanzo, che avrebbe dovuto avere l’articolazione del romanzo ottocentesco, che avrebbe presupposto una fiducia in una società alla quale rivolgersi. Ma Verga non aveva fiducia più in questa società perché la sua riduzione stilistica, la sua rivoluzione linguistica, la scoperta di questo mondo dei vinti, aveva trovato una assoluta sordità nel mondo che lo circondava.

Ci saranno, come poi io racconto nel mio libro, le celebrazioni degli ottanta anni di Verga nel 1920 e sarà chiamato un personaggio emblematico di quella che è la rottura verghiana a pronunciare un discorso di commemorazione per questo genetliaco di Verga, Luigi Pirandello. Pirandello è stato chiamato perché era l’autore più rappresentativo in quegli anni in Italia, ma, voglio dire, è anche un simbolo di quello che Pirandello rappresenta in questo mondo verghiano. Rappresenta la rottura del cerchio, della condanna del fato verghiano; Pirandello, che viene dall’altra parte della Sicilia, anche lui abitava a Roma in quel periodo, ma viene da Agrigento, in una zona dove non c’è una terribilità naturale come quella della parte orientale, non c’è una presenza come quella del vulcano, ma è una realtà, quella girgentana, coma la chiama Pirandello, dove la storia si è fermata.

C’è un racconto, proprio di Pirandello, dove c’è questa antica storia, la storia dell’antica Grecia, che è come ferma, come cristallizzata in questo mondo agrigentino. Pirandello però vive in una realtà che era una sorta di specularità di quella che era stata la rivoluzione industriale del Nord dell’Italia, della rivoluzione industriale di Milano. Vive nella realtà delle zolfare. Le zolfare in Sicilia: proprio questa scoperta di una industria così penosa, così terribile, così sotterranea, catactonia quasi, ha creato una sorta di verticalizzazione di quello che era il mondo verghiano, il mondo della rassegnazione, il mondo del fato, che era il mondo contadino; verticalizzazione, perché si riproduce, all’interno della miniera di zolfo, quella era la gerarchia dello sfruttamento che esisteva in superficie, e quindi ci sono le varie gradualità, sino ad arrivare dal padrone al picconiere e al caruso. Proprio negli anni in cui Verga era a Milano, nel 1876, era stata fatta la prima inchiesta in Sicilia; ne era stata fatta una promossa dal governo italiano, ma come tutte le incheste burocratiche ufficiali non aveva rivelato la realtà drammatica meridionale, siciliana. Ma nel ‘76 due studiosi, uno piemontese, l’altro toscano, Sonnino e Franchetti, avevano fatto per conto loro questa inchiesta in Sicilia, soprattutto per quanto riguarda la malavita organizzata in Sicilia, per quanto riguarda la mafia, la corruzione delle strutture dello stato in Sicilia. Ma c’era stato un capitolo che aveva fatto indignare l’opinione pubblica italiana, ed era l’ultimo capitolo di quello che riguardava le condizioni dei contadini siciliani: era proprio il lavoro dei carusi, cioè dei bambini nelle miniere di zolfo. Ecco, si scoprì questa realtà terribile, vergognosa dello sfruttamento di questi bambini: i bambini entravano in miniera a cinque anni e rimanevano legati  al picconiere; il picconiere pagava un prezzo per avere in affitto questi bambini e le famiglie davano questi bambini, ma dovevano poi pagare questo prezzo che avevano avuto per riscattare, diciamo, questa sorta di piccolo schiavo. Naturalmente il riscatto non avveniva mai, perché le famiglie non avevano la possibiltà di restituire il denaro e quindi questo caruso, che era un bambino, restava caruso fino all’età di trenta anni e oltre. Insomma si scoprì questa realtà dello sfruttamento di questo lavoro dei bambini e il mondo italiano, e non solo italiano, rimase inorridito. Ci furono molti studiosi che poi vollero capire questa realtà. E ci fu una donna inglese […], che era la moglie di un eroe risorgimentale che era arrivata in Sicilia e anche lei aveva fatto una inchiesta su queste miniere di zolfo. Comunque si tendeva a colpevolizzare massimamente il picconiere, ma le colpe erano ben più in alto, erano più da parte dei proprietari e dei commercianti dello zolfo, di questa grande scoperta che si era fatta in Sicilia.

Ma, ripeto, questa terribilità, questo mondo cunicolare, questo mondo sotterraneo era talmente disumano, talmente insopportabile che aveva portato questi uomini a una sorta di rivoluzione culturale. Coincide proprio, questa rivoluzione culturale, con l’avvento di quello che era il messaggio, diciamo come un messaggio religioso, che era il messaggio del socialismo. E quindi questi lavoratori, quelli che non si disgregavano, quelli che non morivano, che non impazzivano, perché marciavano su un crinale molto pericoloso, e prendevano coscienza della loro condizione si univano, e quindi credettero in questo messaggio socialista e cominciarono le prime riunioni; ci furono i primi scontri, ci fu un convegno in un paesino di zolfatari che si chiama Bronte; ci furono i primi scontri del ‘93, quelli che vanno sotto il nome di “Fasci Siciliani”.

Sarebbe troppo lungo raccontare tutta l’epopea di questo mondo delle miniere di zolfo, ma Verga, di fronte a questa realtà, perché pensava sempre a una Sicilia immobile, si ritrasse da Milano, perché non accettò questa rivoluzione industriale; e si ritrasse anche da questa Sicilia che, da immobile che era, cristallizzata, incominciava a muoversi e a prendere coscienza della storia. E scrisse, proprio nel periodo del suo esilio volontario in questa città di Catania, scrisse un dramma che si chiama Dal tuo al mio, dove si scagliava contro queste forme di scioperi, i primi scioperi che si facevano. Naturalmente assieme a lui c’era il Capuana, che seguiva le stesse vicende di Verga; e c’è un episodio emblematico: proprio dopo l’inchiesta che fecero Franchetti e Sonnino, i due letterati si sentirono come offesi, come se la Sicilia da questa inchesta fosse uscita diffamata. Addirittura Capuana ha scitto un pamphlet contro questa inchiesta, che va sotto il nome La Sicilia e il brigantaggio, dove dice: “Perché questa particolarità di malavita organizzata che va sotto il nome di mafia solo in Sicilia? non avvengono delitti anche, con statistiche alla mano, in altre regioni?” Certo, loro non accettavano che in Sicilia ci fosse questo fenomeno; addirittura poi Capuana dice che la mafia è un atteggiamento culturale del siciliano, una sorta di Tarteniade di tipo spagnolo, una sorta di superfetazione dell’io, e riporta come prova di questa sua concezione quella che era la definizione di mafia data da un etnologo di quel periodo che era Giuseppe Pittrè. Pittrè, anche lui, da quel positivista che era, non ammette che esista questo fenomeno in Sicilia. Verga, anche lui, proprio per questa idea di una Sicilia immobile, di una Sicilia “poetica”, non accetta queste novità dell’isola: non accetta, da una parte, che vi siano degli scontri di tipo storico, degli scontri di tipo sociale; non accetta, d’altra parte, che vi siano questi mali, questi mali, nati proprio in Sicilia, della malavita organizzata, dei delitti, di tutto quanto sappiamo sulla mafia. Tutto questo però non impedisce (e questo è un problema centrale di quello che è la letteratura, di quello che è, diciamo, la rivoluzione in letteratura, di quello che è poi l’idea conservativa che ci può essere dietro una rivoluzione stilistica), il conservatorismo, l’idea immobile che Verga ha della Sicilia non gli impedisce però di essere stato il più grande rivoluzionario linguistico e il più grande rivoluzionario stilistico della letteratura moderna. Qui ci sarebbe da fare veramente un discorso su quello che è il linguaggio, il linguaggio del romanzo, soprattutto, non delle poesie; bisognerebbe partire forse da Leopardi, che dice appunto della lingua italiana, mettendola in paragone con il francese nello Zibaldone (in quel grande mare che è lo Zibaldone), dice, per esempio, che la lingua francese, a partire dall’età di Luigi XIV, tende verso l’unicità, mentre l’italiano non è  una sola lingua ma è un’infinità di lingue, che questa infinità di lingue vengono continuamente nutrite dai dialetti, dalle parlate popolari, e quindi l”italiano” ha in sè l’infinito che il francese ha perso. La ragione di questa perdita di infinito, di questa geometrizzazione (Leopardi parla proprio di “geometrizzazione” della lingua francese), risiede nel fatto che in Francia incomincò a formarsi una società, e quindi si sviluppò quella lingua di una società, una società in un certo senso armonica, mentre in Italia tutto questo non era accaduto, non esisteva una società e quindi in letteratura e nella vita non si era sviluppata quella lingua di comunicazione perché non era prodotta da una società che non c’era. E quindi c’erano le varie sotto-società, le varie comunità, le varie regioni, che parlavano delle lingue diverse, e gli scrittori parlavano in queste infinità di lingue. Leopardi poi porta come esempio massimo di infinito linguistico uno scrittore del ‘600, Daniello Bartoli, il famoso storico della Compagnia di Gesù, che scrive, oltre a questa Storia, anche altri libri dove la lingua si estende in tutte le sue infinite possibilità; Leopardi porta come esempio massimo di ricchezza linguistica questo esempio secentesco. Esempio secentesco che poi Manzoni rifiuta perché, storicisticamente e volontaristicamente,   vuole dare una lingua agli Italiani e quindi, andando a sciacquare i panni in Arno, non fa che parodiare un brano di Daniello Bartoli dove c’è una descrizione di una certa zona della Cina nell’attacco dei Promessi Sposi: “Quel ramo del lago di Como” non è altro che la parodia, proprio con lo stesso schema, della descrizione che fa appunto Daniello Bartoli di una regione della Cina; c’è questo ironico riferimento, ironica parodia del Manzoni, voluta, di Daniello Bartoli. Quindi il rifiuto, diciamo, di quello che è l’infinito e la volontà, da parte del Manzoni, di avere una lingua per una società che lui desiderava si formasse. In Verga c’è questa assoluta sfiducia nella società, ma c’è anche sfiducia nell’esistenza e nella vita.

 Così, malamente, ho tracciato quella che è la vicenda verghiana, però forse ho lasciato sospeso il significato della rottura del cerchio, della condanna verghiana e della rottura del cerchio linguistico verghiano da parte di Pirandello. Pirandello è quello che modernizza il fato, la tragedia antica, fa diventare dramma quella che è la tragedia, dramma moderno, attraverso l’intromissione dell’ironia, dell’umorismo lui lo chiama. Pirandello è quello che si chiede del perché di questa condanna, si chiede perché attraverso l’aberrazione, attraverso la parola, la parola incessante…, ecco, il discorso di Pirandello, che non ha assolutamente preoccupazioni stilistiche; Pirandello parla una lingua di estrema comunicazione, ma questa lingua è una lingua da legulei, una lingua da tribunale, una lingua da aberrazione avvocatizia, e attraverso questo continuo domandarsi, attraverso i vari punti di vista, Pirandello cerca di rompere questo cerchio verghiano e di riportare su una linearità quello che è l’antico fato, di far diventare dramma… Dramma viene da dr£w, “fare”, ecco, quindi, dall’immobilità verghiana si passa a questo movimento, movimento verbale che è la concezione di Pirandello stesso. Senonché il trasferimento dal luogo di Aci Trezza, dalle falde dell’Etna, in un ambiente piccolo-borghese o borghese, qual è quello pirandelliano, fa diventare la faccenda molto più dolorosa. La stanza, il salotto borghese pirandelliano diventa, secondo Giovanni Macchia, appunto la stanza della tortura, dove c’è il vacillare della identità, dove c’è questo motiplicarsi dell’io e tutto quello che sapete. Pirandello è anche lui uno che è andato, ma io credo che abbia mosso i suoi primi passi, proprio sin dall’inizio, che sia uscito fuori dalla Sicilia e credo che non abbia avuto mai nessun ritorno; se ritorno c’è stato, in Pirandello, c’è stato nel momento della morte, quando scrive il mito I giganti della montagna, un dramma non finito dove c’è una sorta di ritorno indietro, ritorno alle origini, quando, proprio la notte prima di morire, dice al figlio che nel terzo atto non scritto di questo mito vede un olivo saraceno. L’olivo saraceno è quell’ulivo da cui lui era partito quando, nell’inizio della sua autobiografia, che non mai concluse, dice: “Caddi come una lucciola per caso in un luogo che si chiama il Caos e dietro ad un olivo saraceno”. E quindi vede, alla conclusione di questo dramma, I giganti della montagna, la presenza di un olivo saraceno, su cui si doveva dispiegare il drappo dove Ilse avrebbe dovuto recitare per i giganti della montagna il dramma del figlio cambiato; poi naturalmente Ilse venne uccisa dai giganti della montagna perché nel mondo, diceva Piradello, non era più possibile la poesia, non era più possibile recitare, dice, una poesia. Ecco, quindi c’è questo ritorno, alla fine di tutto il suo arrovellarsi, di tutto il suo discorso, di tutta la sua dialettica, c’è questo ripiegamento, questo ritorno alle origini attraverso questo simbolo forte che è l’olivo.

Da Verga, dopo questo breve passaggio attraverso Pirandello, vorrei adesso parlare di un altro Odisseo, di un altro emigrato che ritorna, e si tratta di Elio Vittorini. Vittorini era andato via giovane dall’isola, quasi adolescente, era scappato così come Quasimodo, scappato di casa per questo mito del centro, questo mito del Nord, ed era approdato a Gorizia e poi a Milano. Nel ‘41 pubblica questo libro, che è stato un po’ il libro di formazione di tutte le nuove generazioni del secondo dopoguerra, è stato una specie di messaggio criptico, un messaggio ermetico da parte delle generazioni che vivevano sotto il fascismo e che dopo la liberazione avevano di nuovo riacquistato la libertà. L’attacco di Conversazione in Sicilia suonava veramente, nel ‘41, come un rintocco di campana. Quando Vittorini inizia: “Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna ch’io dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.” Il genere umano perduto era naturalmente quello sotto la guerra, sotto la dittatura fascista. Compie Vittorini questo ritono alla terra della madre, non più alla terra delle madri; il titolo Conversazione in Sicilia è mutuato dalle sacre conversazioni di tante pitture italiane; adottando questo titolo Vittorini punta a laicizzare questo topos pittorico, così come aveva fatto Piero della Francesca nel famoso quadro La Flagellazione, che si trova a Urbino. Su questo quadro ha indagato Carlo Ginzburg con quel libro famoso che si chiama Congetture su Piero; c’è, dice appunto Ginzburg, in questo quadro, come un spostamento di piani: in secondo piano c’è la figura del Cristo alla colonna e in primo piano ci sono dei personaggi che conversano, e si capisce che la conversazione di questo personaggi è una conversazione filosofica, una conversazione civile; quindi c’è questo spostamento di piani dal sacro al profano, dal mistico al laico. In Vittorini c’è la volontà di spostare dal piano del mito al piano della storia, al piano della civiltà la conversazione. Il diario di Vittorini  naturalmente è all’insegna dell’altro mito, del mito di Enea. Ci sono tutti i connotati del viaggio di Enea verso l’Italia dopo la distruzione di Troia: c’è il passaggio dello stretto di Messina che è come l’attraversamento dell’Acheronte, c’è l’assunzione del cibo iniziatico, del pane che l’eroe Silvestro, il protagonista mangia su questo traghetto, il pane, il pecorino, e poi mangia le arance, che è come una sorta di cibo, mentre attraversa l’Acheronte, prima di approdare a questa terra degli Inferi, a questa terra delle madri.

E quindi in questa Sicilia livida, infernale incontra questa madre, Concezione. Concezione naturalmente è un nome simbolico, che porta i meloni, questa madre feconda, che non lo trattiene, non è una madre distruttiva che ingoia, ma è una madre attiva, che spinge il figlio verso l’azione e la madre fa da Virgilio, da accompagnatrice, in questa discesa agli inferi, quando Silvestro accompagna la madre che fa le iniezioni in questi tuguri di questa Sicilia povera, in questa Sicilia dell’interno. E quindi poi tutto il racconto, con tutti i simboli. Naturalmente il libro è molto simbolico, perché sotto il fascismo non poteva avere un linguaggio molto comunicativo e molto chiaro, ma forse proprio per questa mancanza di libertà di espressione il libro si carica di poesia, proprio per questi simboli che ci sono e quindi incontra l’arrotino, e naturalmente i simboli del coltello, incontra il […]iere che appende panno rosso davanti alla sua bottega, incontra gli operai che bevono in questa specie di caverna, che cantano dondolandosi. E poi incontra il Gran Lombardo, questo Gran Lombardo che è quello che ha un atteggiamento di rivolta, un atteggiamento anarchico nei confronti della autorità e del potere. E quindi poi arriva sino alla discesa agli inferi, all’Ade, alla dimensione dell’aldilà, quando incontra al cimitero il fratello morto in guerra. Quindi un viaggio di ritorno anche questo di Vittorini-Enea, ed un viaggio anche di risalita verso la fiducia nella storia; il romanzo che seguirà poi la Conversazione in Sicilia sarà Le donne di Messina, che è stato riscritto due volte da Vittorini stesso e che narra della nascita di una società, di una nuova società dopo lo sfacelo della guerra; sulle rovine della guerra nasce questa comunità, dove le donne hanno una parte molto importante. Ritornerà ancora una volta Vittorini in Sicilia in un momento particolare, nel momento della scoperta del petrolio; lui aveva creduto in questa sorta di Lombardia siciliana, in questa sorta di attivismo industriale, sull’esempio, di quegli anni, dell’esperienza olivettiana, dell’industria a misura d’uomo; attraverso la scoperta del petrolio in Sicilia e con l’installazione delle raffinerie da parte di Mattei aveva concepito un romanzo pieno di fiducia nel progresso dell’industria e immaginava, da quell’anima generosa che era Vittorini, che per la Sicilia si sarebbe aperta una nuova pagina di storia. E aveva scritto il romanzo che poi aveva lasciato incompiuto, e che è uscito postumo dopo la sua morte, quel libro che si chiama Le città del mondo, dove c’è tutta una Sicilia in movimento, dove ci sono i contadini a cavallo che convergono verso una valle per una riunione in un’assemblea, ci sono ragazze e ragazzi, padri e figli che vanno fuori e camminano, che non si sa dove vanno, ci sono i camionisti. Quindi c’è tutto un atteggiamento ottimistico nei confronti questa Sicilia in movimento. Ma tutto questo poi, come sappiamo, questa utopia vittoriniana dell’industria a misura d’uomo, ecco, si infrangerà contro gli scogli della storia: sappiamo che cosa hanno rappresentato queste installazioni industriali, queste raffinerie in Sicilia, raffinerie installate poi nei luoghi di antica storia, direi sacri a quella che è la cultura, alla nostra cultura mediterranea. Raffinerie installate alle porte di Siracusa, a Priolo, a Melilli, che tanti disastri hanno portato, raffinerie installate a Milazzo e in altri luoghi.

Contemporaneo a Conversazione in Sicilia nel ‘41 esce un altro libro di un siciliano emigrato e che ritorna, Vitaliano Brancati; il romanzo si chiama Don Giovanni in Sicilia, ed è una storia non in termini mitici e drammatici come quella di Vittorini, ma in termini comici, in termini ironici, diciamo. Questo don Giovanni, che aveva lasciato Catania, era emigrato a Milano, a Milano era diventato un uomo attivo, aveva sposato una milanese, si era scrollato di dosso tutta la pigrizia e l’immobilità dei siciliani che vivono sotto questo vulcano; ritorna in vacanza con la moglie a casa e lì viene assistito dalle sorelle, ritorna nel suo letto da scapolo, questo Giovanni Percoto; chiede, dopo il pranzo, di andare a dormire e, dice Brancati: ”E dopo un minuto di sonno duro come un minuto di morte”, c’è questa forma di regressione di uomo che non ha saputo resistere a quella che è la seduzione delle madri, a quella che uno psicanalista chiama l’esilio dell’anima. Questo psicanalista che si chiama Reale, junghiano, lo dice nell’analisi che fa di un racconto di Lampedusa che è Riviera [?], di un professore […], che, studiando i dialetti ionici, così relegandosi in un golfetto, proprio vicino a quei luoghi dove sono state installate le raffinerie, più in là di punta Izzo, come dice, fra Megara Iblea e Siracusa, appunto lì, in questo luglio infuocato, apocalittico, lui vede la sirena, gli appare una sirena, questo essere divino e bestiale, questa fanciulla di antica sapienza che mangia i pesci crudi, ecc., e rimane prigioniero di questa sua allucinazione, la sua anima rimane per sempre siciliana. Questo è il rischio dei ritorni, è stato diciamo, il rischio e il pericolo che ha corso Verga, se non fosse stato quel grande rivoluzionario stilistico di cui vi dicevo. E’ il rischio di tutti i ritorni, di rimanere prigionieri in questa terra delle madri, di rimanere prigionieri nella regressione linguistica, di rimanere prigionieri dei vagheggiamenti, di rimanere prigionieri nell’età d’infanzia, di rimanere prigionieri degli eventi.

A questo proposito dovrei parlare di un altro Ulisse, che è colui che qui vi parla. Anch’io sono uno, se permettete, che ha lasciato l’isola a una certa stagione della sua vita. Avevo lasciato l’isola quando già avevo fatto la mia scelta linguistica, proprio sulla scia di quella rivoluzione stilistica segnata da Verga. E m’ero immesso proprio sulla linea della sperimentazione verghiana; si usciva in quegli anni, negli anni in cui ho mosso i miei primi passi letterari,si concludeva per la verità la stagione chiamata del Neorealismo; Neorealismo, oggi tanto deprecato, che io credo che sia stato una stagione di scrittori di grande generosità, di persone che attraverso quella scrittura delle cose, con quella scrittura di grande comunicazione, aspiravano alla ricostruzione di una nuova società, di una società da ricostruire sulle macerie della guerra, sulle perdite che si erano avute attraverso venti anni di dittatura, attraverso tutto quello che sappiamo. Forse il simbolo massimo di questo Neorealismo è quel grande scrittore, oggi poco frequentato, che è Carlo Levi. Carlo Levi, per quelli della mia generazione, assieme a Vittorini e a pochi altri era stato la guida con Cristo si è fermato a Eboli, facendoci scoprire, al modo di Verga, una realtà meridionale che non conoscevamo e soprattutto, per me, con il libro Le parole sono pietre: era la cronaca, quasi, d’un viaggio in Sicilia negli anni ‘50, dove si parlava di questa realtà terribile della Sicilia. E gli altri scrittori poi, epigoni di Carlo Levi, come Danilo Dolci e altri. Quindi l’idea mia di letteratura è, in quegli anni, essendomi nutrito poi di letture di tipo meridionalista, oltre a queste di tipo letterario, di tipo politico e sociologico (parlo di scrittori come Carlo Dosso, Gramsci, tantissimi altri)…; insomma, m’ero formato su questa letteratura, oltre che sui grandi autori che ogni adolescente legge e che formano le ossa e il sangue nella sua formazione. Ecco, però il momento in cui mi sono trovato a scrivere questa stagione del Neorealismo finiva; finiva perché la speranza di una nuova società si era perduta con un fatto politico importanto che erano state le elezioni dell’aprile del ‘48, dove un partito che si chiama Democrazia Cristiana aveva preso il potere; Carlo Levi racconta tutto questo in un libro magnifico che si chiama L’orologio, la fine di questa speranza, parla degli anni del secondo dopoguerra a Roma, la ricostituzione dei partiti, le aspirazioni che c’erano state. E quindi nel momento in cui mi sono volto a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto praticare in quella temperie politica una scrittura di comunicazione, una scrittura dove si ipotizzava, o si sperava, l’esistenza di una società che corrispondeva alle nostre aspirazioni e ai nostri ideali; e quindi mi posi senz’altro nella linea dell’opposizione, della sperimentazione linguistica, in quell’infinito linguistico di cui parla Leopardi. Naturalmente non c’era Verga, ma c’erano quelli che si erano mossi su quelle stesse linee, negli anni in cui io cominciavo a scrivere; i grandi nomi sono appunto Carlo Emilio Gadda, attraverso quella sua straordinaria polifonia linguistica, attraverso quel libro che è il simbolo dell’Italia di quegli anni che è il Pasticciaccio brutto di via Merulana dove c’è questa polifonia dei dialetti italici; naturalmente Pasolini, attraverso il suo passaggio dal dialetto di Casarsa al romanesco e attraverso la tecnica della digressione; così come Gadda, anche Pasolini adottò la tecnica della digressione: a partire dal codice linguistico toscano, a mano a mano regrediva verso il dialetto. Io avevo consapevolezza di quello che stavo facendo e incominciai; pubblicai il mio primo libro nel ‘63; nel ‘63 si svolgeva a Palermo un fatto importante nella letteratura italiana, la riunione del Gruppo ‘63, che era un gruppo avanguardistico. Il libro era già compiuto ed era in stampa quando io sono andato a Palermo ad assistere a queste riunioni del Gruppo ‘63, e capii che non avevo niente da spartire con questo avanguardisti; capii la differenza, e in questo senso mi guidò Pasolini, che c’era fra avanguardia e sperimentalismo. L’avanguardia è l’azzeramento di ogni codice linguistico, è, sull’esempio del Futurismo di Marinetti, che aveva dettato il codice dello scrivere, era qualche cosa di assolutamente artificiale. Appunto quelli del Gruppo ‘63 ipotizzarono, secondo quello che aveva dello Angelo Guglielmi, la destrutturazione dei nessi logici e sintattici della scrittura come immagini della destrutturazione, della confusione della nostra società, il che mi sembrava assolutamente inaccettabile, un’idea non praticabile, insomma; era un tipo di scrittura non attraversabile e poi, diciamo, gli avanguardisti del Gruppo ‘63 finirono per essere i migliori conservatori nel campo della scrittura, diventarono degli scrittori quasi tutti di tipo tradizionale, tradizionale nel senso più vieto, nel senso della conservazione letteraria, non della sperimentazione.

 Dicevo che mi posi proprio sul piano della sperimentazione pur adottando, avendo a disposizone un patrimonio linguistico che apparteneva alla mia cultura e che era la ricerca di quello che era il glossario che era stato seppellito in questa mia terra e che tutte le civiltà che erano passate attraverso la Sicilia avevano lasciato. Erano vestigia di una lingua che non appartenevano a un codice linguistico nazionale e che portano al greco, naturalmente al latino, all’arabo, allo spagnolo e io adottai la tecnica dell’innesto, cioè del reperimento di questi reperti linguistici e della loro immissione secondo un’esperienza sonora, oltre che un’esigenza di significato; immetterli in quello che era il discorso, in quello che era la prosa. Ma c’era in me anche una sorta di irrigidimento, di ritrazione da quello che era il linguaggio della prosa e del romanzo, perché il romanzo, come dice uno scrittore sudamericano, Ernesto Sabato, è un ibrido, è uno strano genere letterario dove c’è una parte magica, lui dice, che poi è la parte espressivo-poetica. Ecco invece c’era l’esigenza di spostare, di irrigidirmi sul piano della comunicazione, di essere poco comunicativo, appunto perché non presupponevo, non immaginavo d’altra parte una società con cui comunicare, e c’era uno spostamento verso la zona dell’intimo poetico, del poema narrativo. Questo è stato per me una scoperta e che continuai a praticare poi in altri pochi libri, io ho letto […].

C’è stata in me sempre questa oscillazione, a seconda dei momenti storici, di fiducia in un progetto politico o di sfiducia in questo progetto politico, questo avvicinarmi verso la comunicazione o allontanarmi dalla comunicazione e ritrarmi verso l’espressione e verso il ritmo della poesia. Poco fa vi accennavo della scansione in versi che un professore che si chiama Finzi, proprio qui a Padova, in questa università, aveva fatto del mio libro Il sorriso dell’ignoto marinaio. C’era la scansione in versi, ma c’era anche però un discorso di tipo mimetico-ironico da parte di […]. Era la mimesi di un erudito dell’800, il protagonista del romanzo, barone di Mandralisca, e quindi era una scrittura in negativo, non era una scrittura in positivo.

Ma la rottura linguistica avveniva alla fine del libro quando questa scrittura di tipo ottocentesco si rompeva e apparivano le scritte di quelli che baroni non erano e che erano quei contadini rivoltosi, perché raccontavo proprio di una rivolta popolare del 1860, con l’avvento di Garibaldi. Un romanzo storico, che mi permetteva di approfondire ancora la mia ricerca linguistica e stilistica, e poichè voleva essere metafora, questo 1860, degli anni ‘70,  ‘68-’70, gli anni in cui l’Italia concepì questa utopia politica, questa sorta di rivoluzione culturale, che ha rappresentato il ‘68 in Europa e non solo in Europa… Trasferendomi a Milano, essendo anch’io un emigrato, subii, arrivando a Milano nel ‘68, in questa Milano industriale e in preda a gran movimento operaio e quindi l’attività di scontri politici, subii anch’io una sorta di spaesamento, di afasia, perché mi trovai di fronte un mondo che non conoscevo, che non potevo rappresentare; ho avuto tredici anni di silenzio dal primo libro al secondo. Tredici anni sono veramente un tempo scandaloso per uno scrittore, quando uno scrittore poi non scrive un capolavoro, ed io capolavori non ne ho scritti; insomma credo che non ci sia giustificazione per una pausa così lunga. Però il silenzio, questa pausa così lunga, è dovuta a questa sorta di spaesamento, e capii anch’io che per poter continuare a mantenere la mia integrità di scrittore, per poter continuare a scrivere dovevo tornare in Sicilia, ma non alla terra delle madri, dovevo sprofondare, diciamo, nel sottoterra dell Sicilia, forse in una zona più profonda di quello che è il grembo materno, diciamo, e poi da lì risalire per arrivare al linguaggio paterno, al linguaggio della comunicazione. Quindi il mio destino era di questa oscillazione, di questo sprofondamento nella realtà linguistica, in questo cercare di portare questi reperti, queste scorie che andavo trovando, di riportarle alla superficie, di riportarle sul piano della comunicazione come segno di opposizione, come segno anche di ricerca, diciamo, di un infinito. Luigi Russo dice che appunto attraverso lo scontro linguistico, l’opposizione linguistica, nasce la poesia. E io speravo che nascesse la poesia proprio da questo scontro linguistico. Ecco dicevo appunto che questo oscillare, a seconda dei momenti storici, dalla comunicazione verso l’espressione, e forse il libro mio più comunicativo è stato, pur con le sue fratture, le sue rotture nella struttura stessa del romanzo, che non è un romanzo storico di tipo tradizionale ottocentesco, in tutta la sua rotondità, naturalmente con delle fratture, con delle spezzature, con dei documenti che io chiamo appendice, che fanno da riempitivo, da tessuto connettivo della storia che io voglio raccontare, forse il mio libro più comunicativo è appunto Il sorriso di un ignoto marinaio. Sono venuti altri libri, ma penso che i libri abbiano fra loro un legame, quindi debbano avere una loro necessità. Ecco, non sono dei libri così, dettati dalla volontà di scrivere un libro, devono essere necessitanti. Ecco, da questo libro della speranza, dell’utopia, un po’ come poteva essere la Conversazione in Sicilia di Vittorini, quella è stata la mia conversazione, ecco ho scritto un secondo libro, che è legato a Il sorriso di un ignoto marinaio, che si chiama Nottetempo, casa per casa. L’ho scritto nel ‘92, è stato pubblicato nel ‘92 ed è un romanzo dove voglio raccontare la fine di una utopia politica nel processo di deterioramento di una civiltà, di una società qual è quella italiana. L’ho raccontato naturalmente ancora in modo storico, storico-metaforico, ambientando il romanzo a Cefalù, ancora nello stesso teatro de Il sorriso di un ignoto marinaio, negli anni ‘19-’20. Ho raccontato la nascita del fascismo in Italia attraverso questo piccolo teatro, che era il teatro di Cefalù, che aveva fatto già da sfondo a Il sorriso di un ignoto marinaio. E’ un romanzo pieno di disillusione, amarezza per il crollo di questa utopia politica, per questa società che si è a mano a mano involuta negli anni e che ha portato poi a delle forme fascistiche, il fascismo degli anni ‘19, i cui segni erano nel decadentismo culturale, decadentismo il cui personaggio portante diciamo, in figura di funzione, come diceva Vittorini, era un satanista inglese, di nome Crowley, personaggio storico. Ed era un signore, uno di questi decadenti inglesi di inizio del secolo, che aveva girato tutto il mondo e che poi era approdato in questo piccolo paese di Cefalù, come c’erano state le comunità di decadenti a Capri, o a Taormina; c’era stato questo signore solitario che era approdato a Cefalù e che aveva fondato una sorta di chiesa, di comunità, che lui chiamò al modo di […] l’abbazia di Thélème, dove la legge era: “Fa’ ciò che vuoi”, e aveva concepito, portando al seguito degli spostati, dei personaggi, le attrici di Hollywood, o dei professori di matematica del Sudafrica, e personaggi simili, aveva immaginato di soppiantare il cristianesimo dal mondo e di instaurare il satanismo, al posto del cristianesimo. Comunque erano forme di follia. Il libro è appunto un libro sulla follia, sulla follia esistenziale, rappresentato dalla follia del protagonista, che si chiama Petro Marano, e dalla follia della storia. Il protagonista, che è un piccolo intellettuale, un maestro elementare, si chiama Marano in omaggio ad uno scrittore meridionale, che è Jovine: appunto, il protagonista de Le terre del sacramento si chiama Luca Marano; io l’ho chiamato Petro Marano, ma Marano perché ha anche un altro senso, perché ho pensato che Marano derivasse da marrano. Marrano è quello che è stato forzato ad abbandonare la propria identità e cultura, la propria religione e convertirsi al cristianesimo, nel 1492, perché in Sicilia è avvenuto quello che è avvenuto in Spagna, perché eravamo sotto gli spagnoli, nel ‘92, e quindi c’era questo primo sradicamento e perdita d’identità che era come una memoria atavica in questa famigliola, famigliola di contadini che poi erano diventati piccoli proprietari terrieri e quindi piccoli borghesi e che avevano dovuto lasciare quella che era la loro cultura popolare, per farsi una nuova cultura piccolo borghese, pagando dei prezzi molto alti, pagando con la depressione il  padre,la schizofrenia della sorella che rinuncia all’amore, eccetera, eccetera. Questo giovane intellettuale degli anni ‘20 immagina che, in una società più armonica, il dolore privato si possa distribuire nella società, ma quando si impegna politicamente si accorge che fuori, nella storia, nella società, c’è altrettanta follia che dentro a casa sua, e quindi compie un gesto disperato e deve scappare dalla Sicilia e rifugiarsi in Tunisia. Lì incontra un anarchico che era anche lui un folle, un anarchico individualista che si chiama Paolo Schiehic [?], personaggio storico anche lui. E le ultime parole del libro, prima che il protagonista approdi con la nave a Tunisi, sono queste: “Pensò al suo quaderno, pensò che, ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro, avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.” Ecco la fiducia nella letteratura, perché solo la letteratura può raccontare il dolore dell’uomo. Ecco io credo che non ci sia nessuna storiografia, che non ci sia nessuna politica, che non ci sia nessun documento che possa raccontare il dolore dell’uomo, se non la letteratura. Il dolore, e altri sentimenti alti, come l’amore o altri sentimenti. Questo libro, L’olivo e l’olivastro, che è l’ultimo mio edito è assolutamente legato a Nottetempo, casa per casa, dove racconto la nascita del fascismo, il fascismo che purtroppo è arrivato in questo nostro paese, questo bisogna dirlo e ricordarlo sempre. E questo libro incomincia proprio con le parole: […], diciamo che, raccontato il dolore, ora non è più possibile raccontare quella che è la finzione letteraria, l’inganno del romanzo, bisogna raccontare in altre chiavi, e l’unica chiave che mi è stata data, che ho trovato, è l’archetipo della narrazione, è l’Odissea. Ecco ho immaginato il protagonista  che ritorna, se non da Tunisi, ritorna da Milano. Un io narrante che è approdato a Milano nel ‘68, che ritorna assieme a un lavoratore, a un terremotato, anche lui scappato dalla Sicilia, in occasione del terremoto del Belice. I due si incontrano alla stazione di Milano e poi si perdono. Uno emigra in Svizzera, e l’altro rimane a Milano a fare l’intellettuale.

Ritorna in Sicilia, ritorna nella sua Itaca , ed è un’Itaca che non ritrova più, perché le Itache non esistono più, non esiste più la possibilità di ricucire questo che è il vuoto dovuto alla colpa che Ulisse si porta. Ulisse è il più colpevole degli eroi greci, perché è il più astuto, perché è il più intelligente, anche se spesso è il più valoroso, il più consapevole, il più uomo. Si porta la grande colpa Ulisse perché aveva inventato l’arma sleale, che è  il cavallo di Troia. Ecco io ho immaginato che il cavallo di Troia fosse poi rappresentato in questo mondo onirico, la professoressa Maria Grazia Ciani, dice che il viaggio, il nÒstoj, è proprio un lungo naufragio in cui l’unica terraferma, la sola realtà, il vero sogno è Itaca. Tutto il viaggio di Ulisse, il racconto in prima persona dell’Odissea incomincia nella terra dei Feaci, nella terra di Alcinoo, quando questo ignoto naufrago, che arriva lì ignudo, ecco, è uno sconosciuto, e quando si può muovere, di fronte al canto del divino Demodoco, del cantore cieco, ecco a quel punto, sollecitato da Alcinoo rivela la sua identità. Incomincia la sua grande narrazione, la narrazione dell’Odissea, con la parola “Io”: “Io sono Ulisse, figlio di Laerte, sono nato ad Itaca, ecc.” E poi conclude: “Non conosco altra cosa più dolce per l’uomo se non la propria terra”. Ecco, io credo che nel mondo d’oggi questa Itaca non esiste più. Il racconto di Ulisse, io credo, ho sempre pensato, che l’Odissea, la prima parte, la Telemachia è il romanzo dell’iniziazione, della formazione, della conoscenza, mentre l’Odissea è il romanzo in questa dimensione onirica fantastica, è il romanzo della espiazione della colpa. Ecco tutte le disavventure, le perdite, gli incantesimi, cui Ulisse va incontro, non sono altro che i vari gradi di espiazione di questa grande colpa. Fino ad arrivare al rischio estremo, che è l’attraversamento dello Stretto di Scilla e Cariddi.

Io credo che nel mondo d’oggi questa colpa non è più individuale. Noi abbiamo delle colpe collettive, che sono le colpe della Storia, sono le colpe che sono state preconizzate dai grandi scrittori della fine dell’Ottocento, come Kafka, Musil, tutti quelli che volete, tutti i grandi scrittori, fino allo stesso Pirandello, che oggi queste colpe del nostro subconscio si sono materializzate, sono diventate colpe oggettive, colpe della Storia. Io credo che, dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, non si possono più scrivere dei romanzi di tipo psicologico, non si può più parlare del nostro subconscio, veramente il romanzo ha a che fare con la Storia. Bisogna affrontare questi mostri, bisogna lottare con questi mostri. Però, quello che è il segno della nostra epoca, non c’è più la chiusura dell’avventura omerica, dell’avventura di Ulisse, il ritorno a Itaca e il ricongiungimento con la propria storia, con il proprio potere, con i propri affetti. Oggi viviamo in una linearità infinita, in cui Itaca non esiste più, ed è irraggiungibile.