La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo

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Intrecci mediterranei.
La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo

di Massimo Lollini

Cosa in comune quest’isola di culto, questo giardino, i suoi astanti, cosa l’ affabile algerino, tu coi cristiani di Bosnia, Sarajevo, i mercenari d’ogni Africa, i trafficanti d’armamenti, i boia d’ogni scarica e veleno, i Mafiosi del potere? Nel bronzo, si, e la crepa, il varco in ogni sacro testo, ogni decalogo, codice latino o d’altra lingua, dentro te, ognuno in questo tempo feroce e allucinato. (Lo spasimo di Palermo 41-42) Il mare, l’infinito e la guerra Concludendo un’importante riflessione sull’eredita mediterranea nella cultura europealo storico Georges Duby osservava un ventennio fa che “da circa un secolo il Mediterraneo offre a chi lo scruta, agli avamposti della speranza, un volto di violenza” (Duby 282). In realta questo volto violento richiama alla memoria storica la “parte piu tenebrosa” dell’eredita del classicismo greco-romano presente fin nelle origini della civilta mediterranea. Nella ricostruzione dei momenti fondamentali di questa civilta lo stesso Fernand Braudel ha sottolineato il carattere decisivo dei “conflitti tra civilta” da quelli brevi (Maratona, Lepanto) a quelli lunghi, come le tre guerre puniche o le crociate. Secondo Braudel questi conflitti mettono bene in evidenza “quali urti sordi, violenti e reiterati si scambino quegli animali possenti che sono le civilta”; e come le civilta siano “intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra che le divora quasi per meta” (Braudel, “La Storia” 110-11). Tuttavia le civilta non sono solo questo odio fabbricato e nutrito per l’altro. Esse rappresentano anche l'”eredita dell’intelligenza” l’accumulo dei beni culturali, sacrificio. Questi due elementi, quello “distruttivo” e quello “costruttivo,” appaiono strettamente intrecciati e appare quanto mai arduo e problematico il tentativo di separarli quasi fossero realta distinte ed autonome, come talora sembra proporre lo storico Braudel. La ricerca sul ruolo del Mediterraneo nella formazione dell’immaginario letterario europeo deve cogliere questo aspetto, se non vuole assecondare la marea montante di parole che puntano a derealizzare l’esistente e a costruire un mondo puramente ideologico che finisce per cancellare ogni consapevolezza della realta in cui si vive. Il saggio prende avvio da una riflessione sul nesso che si stabilisce nella cultura greca da una parte trail mare e l’orientamento verso l’infinito, e dall’altra trail mare e la guerra. Le due nozioni, quella di una ricerca intellettuale infinita e quella della guerra come esito inevitabile dell’attraversamento del mare, trovano un modello esemplare nella figura dell’Ulisse omerico, che i greci hanno lasciato in eredita alle letterature europee dall’antichita fino ai nostri giorni. L’esperienza della guerra di Troia ha segnato Ulisse in maniera profonda, rendendolo capace di un senso di pietas per il dolore proprio e altrui inconcepibile nel contesto dell’Iliade che rimane il “poema della forza” come ha scritto Simone Weil. L’episodio di Odisseo nella reggia feacia che piange sentendo il canto di Demodoco (da lui stesso richiesto) dove si racconta l’inganno del cavallo di Troia, e senza dubbio rivelativo di un profondo mutamento dell’eroe nel passaggio dal primo al secondo poema omerico (Odissea, libro VIII). Ma e la catabasi raccontata nel canto XI che rende manifesto in maniera inequivocabile il cambiamento rispetto al codice dell’eroismo al centro dell’Iliade. L’episodio piu potente rimane l’incontro con l’anima di Achille che preferirebbe essere un servo di una padrone povero piuttosto che essere morto. Emerge qui con forza la novita piu profonda dell’Odissea, il riconoscimento del dolore della propria morte e la scoperta della privazione dell’identita che essa comporta. La discesa di Odisseo nell’Ade rimane centrale nell’economia del racconto omerico cosi come si articola nei due poemi. Odisseo desidera ardentemente incontrare non solo Tiresia per conoscere il proprio destino, ma anche le anime di molti defunti per interrogarle sulle modalith e il senso della morte. In essi Odisseo trova una sapienza che e estranea ai vivi, la consapevolezza profonda del dolore che pervade la vitae il limite invalicabile rappresentato dalla morte. Altri momenti significativi del viaggio di Odisseo nell’Ade sono l’incontro con l’anima del compagno Elpenore e quello con la madre piangente. L’anima di Elpenore e la prima che si fa incontro ad Odisseo e lo implora di seppellire e compiangere il suo corpo rimasto in casa di Circe senza sepoltura. La dimensione del compianto e del lamento funebre per la morte dell’altro e al centro anche dell’incontro con l’ombra della madre. Il figlio vivo si trova qui unito alia madre morta nel comune desiderio di dare espressione al proprio dolore e al proprio pianto. Il viaggio nell’Ade e il lamento funebre sono importanti per Odisseo e la cultura greca e mediterranea almeno nella stessa misura del viaggio in mare. (4) Il viaggio in mare rappresenta cio che si teme piu profondamente, l’esposizione al pericolo infinito e incondizionato, la paura di una morte negli abissi marini senza sepoltura umana. Il viaggio nell’Ade e la sepoltura rappresentano la riconciliazione con gli esseri umani e divini, il conforto rappresentato dal lamento funebre che aiuta a vivere e a dare un senso sia pure straziante alla morte. Ma anche se tu tornassi se le distanze si accorciassero e la guida fiammeggiasse nel tuo sembiante tragico o nel tuo terrore intimo, sempre per me tu saresti la storia della partenza per sempre tu saresti in una terra senza promessa in una terra senza ritorno. Anche se tu tornassi, Ulisse. (Adonis Poesie) Questi versi, letti insieme a quelli di un’altra poesia di Adonis, L’erranza, bastano da soli a far comprendere come la condizione dell’esilio e dell’erranza siano una condizione irreversibile nella cultura mediterranea moderna sia nel mondo cristiano che in quello arabo. I versi di Adonis sono veramente significativi, soprattutto se letti insieme alle sue dichiarazioni di poetica (5): L’erranza, l’erranza L’erranza ci salva e guida i nostri passi L’erranza e chiarezza E il resto e solamente maschera L’erranza ci lega a tutto quello che e altro Ai nostri sogni imprime il volo dei mari E l’erranza e attesa. (Adonis Poesie) Nel verso “L’erranza ci lega a tutto quello che e altro” e contenuto il senso profondo della condizione dell’Odisseo moderno cosi come si manifesta nella tradizione mediterranea araba e cristiana, con molti punti in contatto con analoghe concezioni ebraiche che pure non si riferiscono al mito di Ulisse ma a quello di Abramo. Si tratta di una condizione di continuo esilio che rifiuta ogni certezza in nome di un apprezzamento intrinseco di tutto cio che e altro. Pur comprendendola Dante condanna la ricerca intellettuale di Ulisse dal momento che non e illuminata dalla luce divina. Per questo il viaggio di Ulisse rimane un “folle volo” che mantiene comunque qualcosa in comune con qualunque aspirazione alla conoscenza autentica e creativa, come sapeva bene Dante e come sanno gli scrittori moderni e contemporanei che sono venuti dopo di lui. Vincenzo Consolo dedica un capitolo de L’olivo e l’olivastro (1994) alla riscrittura del viaggio di Odisseo che viene presentato come metafora dell’esperienza del viaggio dello scrittore siciliano attraverso la sua isola e, piu in generale, come figura dell’uomo moderno e dello sradicamento esistenziale e storico provocato dalla civilta tecnologica da lui creata. Dopo la risoluzione del conflitto Ulisse si trova di nuovo immerso nella vastita del mare. Il suo viaggio questa volta procede in verticale e si presenta come “una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo” (19). Il viaggio di Odisseo nasce dall’orrore della guerra e dal senso di colpa per le morti e le distruzioni, e il viaggio di un sopravissuto. (9) E un viaggio dal mare verso la terra, da Oriente ad Occidente, “dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura” (124) un viaggio al termine del quale non c’e la patria agognata, ma la condizione perenne dell’esilio. L’Itaca che trova l’Ulisse moderno non esiste pit perche e sottoposta ad una continua distruzione, del tutto simile a quella che esperimenta durante la guerra. Per questo, scrive Consolo, Ulisse comprende che Itaca coincide con Troia ed e costretto a ripartire, condannato ad una condizione di erranza. Nessun viaggio penitenziale o liberatorio appare possibile allo scrittore siciliano. Itaca la citta del mito non esiste pit; le citth della memoria e della letteratura appaiono sempre piu lontane. Siamo Iontani dal modello rappresentato da Conversazione in Sicilia di Vittorini che pure ha ispirato gli ultimi due romanzi di Consolo. Il romanzo di Vittorini poteva ancora contare sulla “conversazione” come mezzo per una rigenerazione spirituale e morale. Il ritorno di Silvestro in Sicilia serve proprio a questo e si nutre di un potente linguaggio lirico e simbolico che aiuta il protagonista a ritornare ormai deciso e maturo nella Milano del lavoro, dell’industria e della lotta politica per la costruzione di una nuova Itaca. La critica della cultura per Consolo non si nutre piu di alcuna utopia, mentre la posizione privilegiata della coscienza che valuta e giudica l’ordine delle cose appare sempre piu pervasa da domande inquietanti. Il paesaggio che ci descrive Consolo ha perduto la dimensione lirica e simbolica assumendo una sostanza allegorica in cui non si intravede una via di riscatto. E un paesaggio di rovine quello a cui approda l’Odisseo moderno. Un paesaggio in cui l’immagine di Itaca appare sbiadita al punto da scomparire. L’unica alternativa per lui sembra essere quella, gia indicata da Dante, del naufragio definitivo come conseguenza del “folle volo” di Ulisse. Si tratta di un’immagine drammatica, che Primo Levi ha fatto sua a conclusione del capitolo “Il canto di Ulisse” che non a caso ha un ruolo centrale in Se questo e un uomo. Per Consolo, come per Primo Levi (e Italo Calvino), la posizione etica delia scrittura consiste sempre piu in questa volonta di testimonianza che pone questioni fondamentali sul destino della civilta europea, e si esprime in domande radicali che coinvolgono il gesto stesso della scrittura, intesa come strumento fondamentale della cultura, della tecnologia e del sapere occidentale. Occorre allora chiedersi se la nozione di “esilio” su cui Consolo stesso ha insistito, sia la piu adeguata e dar conto dello spessore della sua ricerca intellettuale. Ritorneremo su questa importante questione nell’ultima parte del saggio. Le domande dello scriba menzogna l’intelligibile, la forma, o verita ulteriore? (Nottetempo 164) E questa la situazione in cui si muove anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998), Gioacchino Martinez, scrittore in crisi che si trova sempre piu perplesso e sgomento di fronte al gesto della scrittura: Aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso. (53) Questi ragionamenti sulla scrittura, piuttosto che ridursi a puro gesto autoriflessivo e solipsistico, rappresentano la linfa profonda che collega la riflessione di Consolo nella trilogia romanzesca rappresentata dal Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo. Come accade in Primo Levi, Italo Calvino e nei maggiori scrittori del Novecento, Consolo inserisce nell’orizzonte della scrittura letteraria la presenza di un soggetto filosofico che riflette sulla propria attivita, nel tentativo di comprenderne l’orizzonte e il senso. Accade cosi chela domanda sulla possibilita del racconto e della scrittura e la parallela aspirazione a dare una testimonianza vera dei processi storici possono trovare espressione non tanto nella dissoluzione della forma e della soggettivith, ma nel “vuoto della forma” e nella decisione in base alia quale il soggetto filosofico trova nella contingenza della propria vita il proprio modo di abitare la verith (Lollini). Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturi dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava tornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava in moil ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (I: 226; mia l’enfasi) In maniera significativa la stessa metafora ritorna alia fine, nell’ultima pagina del libro in cui si spiega perche il viaggio di ritorno non e stato ne poteva essere un viaggio liberatorio: … non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. E un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’ angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade o si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone e l’angoscia si fa piu intensa e piu precisa. Tutto e ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o l’inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. (I: 395; mia l’enfasi) Alla fine del lungo e avventuroso cammino che, come buona parte della narrativa di viaggio ha come modello appunto l’Odissea di Omero, Levi deve constatare di non essere riuscito ad allontanarsi dal Campo e che anche nella sua Itaca la memoria del Lager ritorna ossessiva e implacabile: Testimonianza e alterita Non riconosci la terra da cui eri partito. Chi sia, domandano, il reduce avvolto nella nebbia, nascosto dietro la vizza maschera del viso, privo di doni, di bottino. (Lo spasimo di Palermo 101) Le vicende storiche piu recenti, dalla guerra nella ex-Jugoslavia agli attuali conflitti in Afghanistan e Iraq, non fanno che confermare le tendenze remote della storia Europea nell’era della globalizzazione. L’attraversamento del mare finisce per dar luogo anche oggi al conflitto armato e alla fondazione di un ordine mondiale fondato sulla forza e sul mancato riconoscimento dei valori positivi insiti nella diversith culturale. E significativo che l’operazione bellica che ha portato all’ulteriore distruzione dell’Afghanistan gia stremato dalla poverta e dalla guerra pluridecennale sia stata chiamata “Giustizia infinita.” In quell’ aggettivo e da riconoscere un orientamento antico della civilta occidentale nata sulle sponde del mare greco. Ancora una volta il mare non appare un luogo di incontro e di comunicazione, ma di conflitto e di conquista che oggi assumono dimensioni planetarie. L’era attuale e stata preparata dalle rivoluzioni scientifiche e spaziali del diciassettesimo secolo. Sul piano scientifico, come ha scritto Koire si e passati dal mondo cosmico e chiuso della scienza antica aristotelica e tomistico-medievale all’universo infinito della scienza moderna, introdotta dal canocchiale di Galileo. La metafora geometrica e spaziale serve a introdurre la grande rivoluzione della concezione della spazio di cui ha parlato Carl Schmitt che vede in questo secolo e nelle scoperte geografiche che lo hanno preparato l’affermarsi di una dimensione “oceanica” della storia universale, con un’enorme dilatazione dello spazio, fattosi infinito e “vuoto.” Schmitt parla del passaggio dal nomos della terra fondato sulla condizione continentale europea e caratterizzato dal carattere locale dei conflitti al nomos del mare, in cui predomina l’infinito, dell’incondizionato, il movimento e la volonta di potenza, la guerra totale e lo spirito della tecnica senza piu limiti. Il mare di cui parla Schmitt non e piu il Mediterraneo, ma l’Oceano che e il vero protagonista della rivoluzione spaziale moderna e serve per comprendere la dimensione mediterranea in un orizzonte piu vasto e attuale. Schmitt vedeva nella condizione insulare dell’Inghilterra (e a suo modo degli Staff Uniti) il simbolo di questa rivoluzione spaziale alle origini della modernita (Schmitt). Sono fenomeni ancora in corso che si manifestano nei conflitti sempre piu numerosi e incontrollati. Consolo-Odisseo moderno continua i suoi viaggi nel Mediterraneo per portare testimonianza di questi processi violenti in toni che a tratti si fanno apocalittici e profetici. In questa prospettiva si collocano gli scritti giornalistici usciti negli ultimi anni sul Corriere della sera o l’Espresso. Tra questi ultimi spiccano “Viaggio a Sarajevo” e “Viaggio in Israele/Palestina del PIE.” Nel primo testo Consolo racconta di un viaggio fatto con altri scrittori italiani per testimoniare la guerra sanguinosa della ex Jugoslavia. (12) Ritroviamo qui il paesaggio di rovine e distruzione che hanno colpito soprattutto Sarajevo, una citta un tempo civile e fiorente nella tolleranza religiosa ed etnica. La testimonianza di Consolo insiste sulle atrocita commesse da uomini ormai privi di ragione e ridotti a natura, tanto che l’immagine di Sarajevo devastata dalla violenza umana a suoi occhi assomiglia alle immagini di Assisi colpita da un terribile terremoto nei giorni in cui egli si trovava a Sarajevo. n questo ambito di scritti tra testimonianza e profezia occorre ricordare anche il “Memoriale di Basilio Archita” (Consolo, Le pietre di Pantalica 183-91), un breve racconto-saggio dove lo scrittore testimonia di un’altra tragedia che insanguina il Mediterraneo nei nostri giorni. Si tratta del racconto della morte violenta di un gruppo di africani che imbarcatisi clandestinamente su una nave greca sono poi gettati in mare e divorati dai pescecani. La tragedia dei clandestini che muoiono nel tentativo disperato di attraversare il mare per sfuggire ad un destino di fame e poverta non aveva ancora assunto le dimensioni attuali quando Consolo scrive questo testo. Le sue parole assumono qui un ruolo veramente profetico nel mostrare il livello di degenerazione raggiunto dalla civilta greca e mediterranea. I versi del poeta greco Kavafis recitati dal vicecomandante della nave greca non fanno che confermare la decadenza di una cultura priva di un senso di responsabilita o di una visione etica e civile della convivenza umana. Si tratta di una cultura ormai incapace di riconoscere se stessa. La voce narrante del racconto, e quella di Basilio Archita un giovane sfruttato a bordo della nave greca che pure esprime un elementare senso di solidarieta con le vittime. Tuttavia egli non e affatto consapevole dell’origine greca del suo nome e trova un senso di identita unicamente nell’abbigliamento offerto dal consumismo di massa. In questa situazione per tanti aspetti distruttiva risulta veramente preoccupante il venir meno di un vigile senso critico nella cultura contemporaneo come si vede nell’accettazione sempre piu passiva dei fenomeni distruttivi in corso, e nel consenso diffuso che hanno incontrato in occidente le parole d’ordine di guerra dopo gli eventi del terribile il settembre 2001. Minoranze sempre piu esigue si oppongono con la forza della ragione a questo stato di cose dove la violenza del terrorismo e quella degli stati belligeranti non sembra aver piu limiti. Questa situazione ci aiuta oggi a capire il senso profondo delle opere di scrittori come Levi e Consolo che hanno denunciato il carattere pervasivo della maledizione tecnologica e del contagio della violenza distruttiva che domina la storia dell’Occidente. Proprio in questa testimonianza consiste l’attualith e la forza del loro messaggio non tanto nell’adesione al pensiero dell’erranza e dell’esilio che pure e presente nei loro scritti. NOTE (1) Della Weil the considera la guerra come “il principale motore della vita sociale” (Quaderni 1: 189), si veda il fondamentale saggio “L’Iliade poema della forza” (Weil 10-41). Cfr. anche la raccolta di saggi Sulla guerra. Hannah Arendt indica l’esistenza di un rapporto strutturale tra polemos e polis. Sostiene the la violenza e la guerra di per se non sono politiche ma fondano tuttavia la politica. Si veda la raccolta di saggi Arendt tradotia in italiano con il titolo Politica e menzogna (Milano: SugarCo, 1985). Su tutta la questione si veda Esposito. (2) Su questo aspetto si veda Boitani che intende Ulisse come “figura” o umbra nel senso di Auerbach. (3) Su questo punio, si veda Gentiloni. Put criticando l’impostazione schematica di Levinas Gentiloni sottolinea le differenze tra Ulisse e Abramo e indica nel cerchio la metafora della cultura greca e nella freccia quella della cultura ebraica, la logica contro il suo superamento (121). (4) Ernesto de Martino ha mostrato l’esistenza di una modalita mediterranea del lamento funebre a partite da uno studio sul pianio rituale delle donne lucane. Cfr. De Martino. La prima edizione del saggio e del 1958. (5) Adonis sostiene the la modernita non e specifica di un paese o di un popolo. Il suo aspetto universale consiste nello sviluppo scientifico che non si puo evitare. Adonis sostiene una visione creativa della modernita e conclude: .” .. the questions ‘What is knowledge?’, ‘What is truth?’, ‘What is poetry?’ remain open, … knowledge is never complete and truth is a continuing search” (Adonis, An Introduction to Arab Poetics 101). Cacciari, Massimo. Geo-Filosofia dell’Europa. Milano: Adelphi, 1994. Consolo, Vincenzo. Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori, 1988. –. Nottetempo, casa per casa. Milano: Mondadori, 1992. –. L’olivo e l’olivastro. Torino: Einaudi, 1994. –. Lo spasimo di Palermo. Milano: Mondadori, 1998. –. Di qua dal faro. Milano: Mondadori, 1999. –. 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Odisseo”.

Italica. FindArticles.com. 21 Feb, 2012.

Un mite guerriero

Un mite guerriero

Nel mucchio disordinato di carte che in maniera alquanto azzardata chiamo ‘il mio archivio’, c’è una cartelletta gialla su cui sta scritto: Vincenzo Consolo.

In questa cartelletta ho raccolto, per anni e con una diligenza che non appartiene al mio carattere, quei suoi interventi che ogni tanto compaiono su quotidiani o riviste e che parlano di sud e di scrittura, di storia e di utopia sociale, di potere, di connivenze, di linguaggio e di responsabilità… Parole fatte di “pietra dura”, perché Vincenzo Consolo è un guerriero (mite, e pur tuttavia guerriero), oltre che un incantatore.

Un incanto che nasce, almeno per me, non soltanto dalla sua ricerca formale, cioè dalle meraviglie stilistiche delle sue opere, dal suo linguaggio e dalla sua espressività, ma anche dalla forza del suo pensiero. Che è pensiero ‘etico’.

Lo scrittore, ha detto una volta Consolo e lo ha ribadito in diverse occasioni, “quando si rivolge a una società ha il dovere dell’etica, perché altrimenti diventa asociale, immorale. E lo diventa perché non scrive in difesa dell’uomo ma contro l’uomo”. E’ da questa concezione etica della letteratura che gli deriva l’idea di una “supremazia della scrittura nei confronti della storia”, di una scrittura intesa come “compenso e costruzione armoniosa contro il disordine della storia”, che pure è il territorio privilegiato, il ‘luogo’ centrale delle sue narrazioni: la sua, si potrebbe dire, ‘ossessione’ tematica.

Non a caso, credo, lo stesso Consolo ha voluto dare più volte (e cito per tutte una lunga intervista comparsa nel 2000 sul bimestrale ‘Tuttestorie’) una scansione temporale a questa sua ricerca storico-politica, e lo ha fatto dividendo il suo percorso letterario in tre grandi tappe, in questo modo ordinando storicamente anche la sua personale storia di scrittore.

La prima tappa muove da una lettura della radicale trasformazione dell’Italia al momento dell’unità, quando alla fine trova compimento l’idea risorgimentale dello Stato unitario. Ed è segnata, questa tappa, dalla composizione di un testo magico e complesso come ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’. La seconda, con ‘Nottetempo casa per casa’, racconta invece quella disgregazione sociale che prelude all’avvento del fascismo e la terza, con ‘Lo Spasimo di Palermo’, entra nell’oggi per confrontarsi con la speranza fallita di un cambiamento sociale e culturale prima ancora che politico. L’unica speranza che resta, dice Consolo, è appunto la speranza nella scrittura, nella sua capacità di mettere ordine nelle coscienze e di portare armonia, cioè fiducia, là dove c’è soltanto caos e quindi impossibilità di comunicare. Ma questa capacità ‘armonica’ della scrittura non è affatto scontata.

In una conversazione con Silvio Perrella, pubblicata sulla rivista Mesogea, Consolo si domanda (o meglio torna a domandarsi) perché gli scrittori che hanno vissuto il fascismo e la guerra, in particolare Moravia, Calvino e Sciascia, abbiano poi optato per un codice razionalistico di scrittura e una concezione illuministica del mondo. Perché, si risponde, “la loro era, appunto, una scrittura di speranza. Speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare.” E invece questa società non è ancora nata e la scrittura di tipo comunicativo, cioè “fiduciosa nel sociale”, non ha ragione di essere. In questo contesto, in questo fallimento della storia, si può ‘scrivere sperando’ solo se si abbandona il codice razionalistico e si opta per un codice di tipo espressivo,  se si lascia la Francia, in sintesi, e si va verso la Spagna. Verso la “dolce follia, simbolica e metaforica” di don Quijote.

La scrittura espressiva, dunque. Le narrazioni. Non il romanzo. “Ho cercato di non scrivere mai romanzi”, afferma Consolo argomentando, spiegando puntigliosamente la sua insofferenza per questa forma letteraria ottocentesca, di “intrattenimento puro”. La narrazione offre invece a chi scrive una maggiore libertà, un respiro più ampio. E’ un genere letterario con una doppia anima, per così dire, perché precede il romanzo ed è quindi preborghese pur essendo, nello stesso tempo, postmoderno.

In questa sua dichiarazione di poetica, a me sembra che Consolo si riveli straordinariamente vicino a certe correnti originali e innovative della letteratura mondiale, a quelle voci che vengono da paesi dove scrivere non è mai stato un ‘atto neutro’, perché la lingua stessa – lingua importata, lingua nemica – grondava sangue e aveva bisogno di essere reinventata e ricreata per poter diventare strumento di autorappresentazione e di speranza. Il suo mistilinguismo, ad esempio, mi ricorda molto da vicino l’operazione culturale tentata dalla scrittrice algerina Assja Djebar, che soltanto dopo aver studiato a fondo l’arabo, dopo un’immersione totale nella lingua madre, riconquista un francese arricchito dai suoni, dalle cadenze e dalle voci di quel mondo colonizzato e strappato a se stesso che è il suo mondo, e così, con questa ricchezza, può tornare a scrivere, dopo un lungo silenzio di anni.

Nel vuoto chiacchiericcio della società letteraria italiana, fa un effetto davvero straniante questa ricerca ostinata di un ‘senso’ oltre che di una ‘forma’, questo desiderio di ‘speranza’, sempre frustrato ma sempre attuale e mai dismesso, che diventa messaggio letterario.

In un intervento sull’Unità del 1994 Vincenzo Consolo scriveva: “oggi il Sud è l’azzeramento, è il deserto da cui si sta cominciando a ripartire”. Ripartire: che, nel contesto di quell’articolo, non stava a indicare solo il movimento negativo dell’andar via, la necessità dell’abbandono che genera un’incurabile nostalgia.

E qui voglio aprire un inciso. Perché su questa nostalgia, che è il malessere profondo e sensibile di ogni uomo e di ogni donna che ha conosciuto l’emigrazione, Consolo ha scritto alcune righe che non posso non riportare per esteso, perché il loro sapore è esattamente il sapore di quel tipo di nostalgia.

“Io”, scrive Consolo nel penultimo racconto delle “Pietre di pantalica”, “io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”

Il movimento delle parole ha qui la cadenza precisa del sentimento, lo insegue e lo incarna con un’immediatezza morbida e sgomenta. Ma nostalgia, qui, non è semplicemente ‘sofferenza del ritorno’, è qualcosa di più vasto. E’ sofferenza di un desiderio costretto in un limite – il limite umano, che soltanto il movimento delle parole, forse, può spostare un poco più in là.

E allora, tornando all’articolo del 1994, quel ‘ripartire’ a me sembra che non avesse solo un’accezione negativa, non descrivesse soltanto una realtà di fuga dal ‘deserto’ della Sicilia, ma, sottotraccia, indicasse anche un’altra possibilità: quella di ripensare, di tornare a pensare e a dire il Sud, “questo eterno e sempre vivo scandalo”, cominciando di nuovo a raccontarne la storia e a prendersene cura nelle narrazioni come nella politica. Anche se “i tempi della letteratura sono lunghi, lungo il processo di sedimentazione della memoria e della formazione della lingua”.

Sono passati molti anni da quel 1994. La “sintassi del mondo” da allora si è sfasciata molte e molte volte e, per dirla con Consolo, “non sappiamo se si potrà mai ricomporre”.

Così, in questo nostro paese “ormai telestupefatto”, io ho bisogno – sì, bisogno è il termine giusto – delle parole di “pietra dura” di Vincenzo Consolo. Mi sono necessarie quanto le sue narrazioni, che fanno vibrare la mia anima divisa di ‘siciliana in esilio’.

Ed è per questo bisogno che, come ho detto all’inizio, per anni ho ritagliato, raccolto, messo da parte articoli e interventi: i giornali e le riviste, si sa, sono cose fragili, beni effimeri, tendono a sparire ancor più rapidamente dei libri.

Insomma, ho voluto mettere in salvo le sue parole.

E poi l’ho incontrato, Vincenzo Consolo.

E nell’uomo, nel suo modo di parlare, schivo e preciso, nella maniera diretta ed essenziale con cui offre agli amici consolazione, affetto e soprattutto ascolto (anche a me, un giorno che non dimenticherò, mentre stavo andando a trovare mia madre, che giaceva immobile e immemore nel suo letto), ecco, nel modo di essere e di presentarsi di quest’uomo ho riconosciuto la “pasta dura” e luminosa di quelle parole raccolte per anni. Una concordanza fra ‘l’essere’ e il ‘dire’ piuttosto rara.

Mi intimidisce, Vincenzo Consolo. Eppure lo sento ancor più che amico, familiare. Forse per quel suo viso che mi ricorda le sculture di Giuseppe Mazzullo, sculture ricavate dalle pietre del torrente che attraversa il mio paese (un pietroso paese che non per caso si chiama Graniti). Sculture di pietra. Forti. Dolorose e miti. E Vincenzo Consolo, con le sue indignazioni, le sue passioni politiche, la sua scrittura impetuosa e ritmica, questo è ai miei occhi: un mite guerriero.

Maria Rosa Cutrufelli
dal Manifesto  Gen 22, 2012

Gualberto Alvino La lingua di Vincenzo Consolo* Nuova edizione riveduta e corretta

Esattamente tre lustri or sono pubblicai prima su «Italianistica»,1 poi in una raccolta di studî di materia siciliana,2 una ricognizione linguistico-stilistica ad ampio raggio dell’opera consoliana maggiore giovandomi, quanto al lessico, dei repertorî allora disponibili. La successiva uscita degli ultimi volumi del Grande Dizionario della Lingua Italiana3 e del Vocabolario Siciliano, 4 le infinite risorse offerte in séguito dalla rete e l’avanzamento degli studî, all’epoca poco più che germinali, mi consentono oggi, oltreché di emendare refusi e imprecisioni, di perfezionare alcune proposte interpretative fondandole su solide basi scientifiche. Ringrazio Alfredo Stussi dei preziosi consigli e Salvatore C. Trovato per la sua cordiale e competente disponibilità. A Ghino Ghinassi e Giovanni Nencioni, che vollero generosamente e affettuosamente assistermi durante la prima stesura del lavoro, un pensiero commosso e riconoscente di qua dalla soglia. Roma, 15 gennaio 2012 * * * verticalizzarlo [il romanzo], caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da “felici pochi”. VINCENZO CONSOLO 1. Meraviglia che la critica più avvertita sia sempre stata perfettamente unanime nell’assegnare alla prosa narrativa di Vincenzo Consolo un luogo mediano tra le turbinosità espressive delle scritture macaroniche e il lucido razionalismo nutrito di passione storico-politica avente in Leonardo Sciascia l’interprete egregio. In verità, se l’oltranza dei procedimenti e la speciosità dell’ammasso verbale non possono non richiamare alla tradizione composita che dall’eclettismo comico-caricaturale del Dossi, attraverso gl’impasti di Giovanni Faldella, mena direttamente all’officina gaddiana,5 * Da G. Alvino, La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, pref. di Pietro Trifone, in corso di stampa per l’Editore Loffredo di Napoli nella collana «Studi di italianistica», diretta da Claudio Giovanardi. 1 «Italianistica», XXVI, 2, 1997, pp. 321-33. 2 G. Alvino, Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino, introd. di Rosalba Galvagno, «Quaderni Pizzutiani IV-V», Roma-Palermo, Fondazione Pizzuto, 1998, pp. 61-101. 3 Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, poi diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002. 4 Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto, a cura di Giovanni Tropea (il V vol. a cura di Salvatore C. Trovato), 5 voll., Catania-Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani-Opera del Vocabolario siciliano, 1977-2002. 5 Operando le debite distinzioni, come avvisa Cesare Segre: «Consolo va certo avvicinato […] a un altro grande romanziere plurivoco e pasticheur, al massimo anzi del nostro Novecento, Gadda. Essi hanno in comune la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico. Tuttavia […] c’è una differenza sostanziale: la plurivocità di Gadda ha sempre una carica polemica. Gadda irride ai rappresentanti della società di cui parla citando o deformando i suoi ideologemi […]. Consolo realizza soprattutto un , 5 nulla parrebbe confermare la reale consistenza della seconda ipostasi, salvo l’insistita, a tratti viscerale accentuazione tematica di alcuni passaggi nelle opere più lodate e le numerose dichiarazioni programmatiche dello stesso autore (circa le quali dovrà quantomeno invocarsi il più ampio beneficio di inventario): E fare lo scrittore allora, per quelli della mia generazione, significava una cosa sola: indagare e testimoniare la realtà, fare lo scrittore sociale. […] Io credo nel significato non solo letterario ma storico, morale, politico di questa ricerca. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Un tratto indubbiamente significativo, che tuttavia, alla luce d’una ricognizione esauriente, non tarda a confessare la propria indole strumentale, quando non esattamente pleonastica. Il molto celebrato engagement del Nostro meriterebbe, infatti, finalmente studio. Alcuni specimini della sua modestia sociologica: E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. […] Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta (SIM 96-97) Ma che siamo noi, che siamo? […] Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura (Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1990, pp. 73-74) Lingua della cultura come mezzo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; fugacità e insensatezza del vivere subalterno; esecrazione del privilegio sociale; glorificazione degli umili e degli oppressi, catafratti nella santità della loro negletta tribolazione: articolare l’esegesi sopra un così dimesso regesto di tòpoi equivale a snaturare la cifra autentica, e finora esclusiva, dell’arte consoliana, tutta inscritta nel radicale, sdegnoso rifiuto d’una convenzione linguistica giudicata insieme sintomo e causa dell’attuale decadenza morale, civile e culturale. Se, poi, a tal rifiuto corrisponda un sempre risorgente rigoglio inventivo anziché una innocua iterazione di forme e stilemi è questione vitale e centralissima che sarebbe urgente dirimere. Fin dalla prima comparsa7 la portata dell’operazione fu d’altronde sùbito patente: rara perizia nell’amministrazione della cosa linguistica; ripudio dei modelli narrativi convenzionali – segnatamente del genere romanzo –, con la conseguente attivazione d’uno sperimentalismo convulso, non immune da tentazioni eversive; esuberanza dell’elemento retorico con annessa eterogeneità degli ingredienti cromatici; intrepida accostamento vivacissimo, materico di materiali fonici, lessicali, sintattici […]. Si colgono spesso movenze ironiche o parodiche, ma sono equamente indirizzate al mondo ritratto» (La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86, alle pp. 85-86). 6 V. Consolo, «Leggere», II, 1988, pp. 8-15. 7 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963, poi Torino, Einaudi, 1977, edizione cui si fa riferimento con la sigla FA. Questo l’elenco delle altre opere narrative maggiori qui sottoposte ad esame, con le relative abbreviazioni: Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. (SIM); Retablo, Milano, Mondadori, 1992 (R); Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1994 (NCC); L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994 (OO).  mescolanza di codici; esaltazione del livello fonosimbolico, esibito come pura virtualità, crudo istituto, citazione culturale; preponderanza dell’interesse formale congiunta al più sfrenato edonismo pluristilistico. Un’olla podrida ribollente di tensioni difformi, talora esorbitanti da una schietta urgenza poetica, su cui incombe costantemente il pericolo del feticismo lessicale, del funambolismo sintattico e, se si potesse dire, della glottolatria. Di questo converrà qui discutere (in prospettiva diacronica – se s’indulge all’inevitabile ricorsività delle notazioni analitiche –, così da ripercorrere passo passo un itinerario discontinuo e talora eclatantemente contraddittorio), tenendo fermo che scrittori come Consolo – pur tutt’altro che inappuntabili, come vedremo, da ogni rispetto – costituiscono una risorsa preziosa e vitale per la prosa letteraria italiana, oggi più che mai in profondissima crisi. 2. Nell’intento di levare a dignità storica e letteraria l’oralità mutevolissima e transeunte d’un popolo, il siciliano, in odore di mitico emblema tradizionale (l’impianto apparentemente naturalistico tradisce un ruolo in fatto sovrastrutturale), la compagine linguistica di FA – conformemente alle estetiche della verisimiglianza espressiva in voga negli anni Sessanta – è orientata in direzione decisamente demotica anzitutto sul piano dello stile. Oltre alla sistematica, seppur tenuemente indicativa, predilezione di parere e pigliare contro sembrare e prendere, colpisce la disseminazione capillare d’un indiretto libero debordante nel monologo interiore, finalizzato non solo a una mimesi del parlato di forte suggestione, ma alla disgregazione della voce narrante in una coralità impersonale e acremente lirica: S’era inventato l’arte delle lame: rubava chiodi di mulo ai maniscalchi e il resto lo faceva la rotaia col treno che passava; brillavano al sole che parevano d’argento, con cinque lire pretendi pure il manico? allatta qua, gioia di mamma (54) E poi: quella scritta andava in alto, sopra la corona, o ai piedi dell’altare? Tra loro, se la sbrigassero tra loro, Squillace Costa il sorvegliante Seminara, io l’altarino lo vedrò bell’e conciato: dimoro, dimoro qua, alla marina (113) Diffusissime le tematizzazioni, sia nel discorso diretto che in quello autoriale, intese a riprodurre la corposa immediatezza del milieu sociale rappresentato: «Mùstica i temi li faceva buoni» 16, «Aveva due valige e la leggera gliela portavo io» 27, «tutto lo spirito se l’era messo nella tasca dietro» 41. (Si noti che ai nostri fini il rapporto fra stratificazione delle voci e resa verbale è del tutto ininfluente, non solo in quanto «l’orchestra che il narratore dirige è composta di una sola voce infinite volte rifratta: la sua»,8 ma soprattutto perché in Consolo l’incursione del diegetico nel dialogico e il conseguente assoggettamento linguistico del personaggio da parte del narratore sono legge). Di egual segno le duplicazioni di moto rasente luogo, di matrice dialettale9 8 Cesare Segre, Polifonia e punto di vista nella comunicazione letteraria, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 5. 9 Nell’accezione proposta da Bruno Migliorini, Lingua d’oggi e di ieri, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1973,  («Sbucarono dalla testa del faro le barche riva riva» 61, «e, muro muro, me n’andai fuori» 130) o adibite a mansioni elative, non solo a livello avverbiale e aggettivale ma perfino di verbo e sostantivo, con esiti cromatici notevoli: «Soffrigge presto presto la cipolla» 89, «E si mise teso teso, quasi sull’attenti» 14, «Con la funzione che dura dura, sempre fermi» 5, «Solo una tralignò, a que’ morti morti dove si trova» 110 (sic. a ddi morti morti unni si ṭṛova). Non meno rilevante l’articolato complesso delle opzioni sintattiche. Spicca su tutte l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo («C’era bisogno che s’angustiava tanto?» 19, «c’era sempre quella palma nana nana che pareva si seccava» 27), ancorché non manchino casi in avverso, a testimoniare la stridente compresenza di livelli incompatibili (nel secondo esempio ulteriormente marcata dall’omissione del che completivo, estranea al registro popolare): «Si mise a raschiare e a tossire, poveretto, che pareva avesse i gatti dentro il petto» 10, «Filippo non volle lo aiutassi» 28. Se caratteristico del siciliano è il perfetto con valore di passato prossimo («Non sei cangiato. Quando tornasti?» 44, «[…] queste cose si tengono in panza, capisti?» 45), panmeridionale è l’uso di come a ‘come’ («pareva un caruso come a noi» 27) e la sostituzione di da con di nelle espressioni del tipo «vestito di maggiore» 81. Ampiamente profusa la ridondanza pronominale («A Tano Squillace gli morì il papà» 21, «Seminara pareva gli era morto a lui» 21) e l’uso del ci attualizzante, talora con agglutinazioni grafiche proprie della scrittura popolare («gli alza la maglia e che cià per la vita?» 94), nonché l’impiego affettivo-intensivo del pronome: «mi do la licenza magistrale e me ne vado» 38, «mi leggevo un manifesto» 117. Tra i provvedimenti topologici la collocazione postnominale del possessivo («scancellò Sara e ci mise la firma sua» 21) e il più fragrante dei sicilianismi: l’ubicazione clausolare del verbo: «lo stesso odore avete, tutta la casa lo stesso odore ha» 19-20, «tutti cristiani siamo, tutti uniti dobbiamo stare» 57, «La prima volta era?» 63. In àmbito morfosintattico si evidenziano una serie di locuzioni d’area siciliana, quali a cangio ‘invece’ («la poteva accontentare a cangio di smaniare ogni sera» 65), a uso ‘come’ e a uso che ‘come se’ con l’indicativo: «combinata a uso signorina» 92, «inginocchiato, a uso che pregavo» 11. Largamente rappresentati alcuni popolarismi di natura morfologica. Oltre al ci dativo polivalente («O guardaci la roba che ci portarono i mericani a tua sorella!» 15), forme comico-analogiche di coniugazione («protestava che da solo la puoteva» 28, «Se qualche signore vuol toccare […], s’accomodisca» 50) e un tratto tipico dell’oralità siciliana: la preposizione articolata scissa: «Cercai Filì […] a la marina» 130-31. Assai più variegato il bottino fonetico: dall’elisione caricaturale della lingua aulica («culo grosso com’un avvocato» 74, «lo scruta con ansia mentr’egli odora» 89) all’aferesi vocalica – con oscillazioni nell’uso dell’apostrofo – e sillabica nel dimostrativo («na cavallina in caldo» 18, «– Qua, alla bocca dell’anima, ciò sempre ’na vampa» 99, «non capivano ste cose» 15) alla preferenza accordata a forme tipo que’, de’ ecc., in posizione non solo avantonica: «que’ stronzi» 26, «que’ bastardi» 47, «la p. 314. 9  connivenza de’ pezzi da novanta» 71, «[…] se’ tutto bagnato» 137. Ma la tastiera di Consolo è inesauribile: non una nota, non una sfumatura tonale tace all’appello. Ed ecco, all’opposto versante del preziosismo e della suggestione letteraria, l’imponente investimento della convenzione metrica: un connotato originalissimo che riscontreremo in tutte le opere successive.10 Il primato spetta all’endecasillabo, isolato o in gruppi, ma non è raro imbattersi in catene variamente misurate, sempre al governo d’una intenzionalità calcolatissima e sapiente: sia attraverso inversioni funzionali («[…] il baffo me lo taglio, e le basette» 32, «Accanto le sedeva suo nipote» 47) sia mediante apocopi sillabiche o forme sintetiche desuete della preposizione articolata: «All’istituto i preti han già le cotte» 90, «Il padre di Merì ha la dentiera, / le scarpe troppo lunghe pel suo piede, / la donna con i serpi e la coccarda / all’occhiello della giacca / che gli cade sotto il culo» 71.11 Come s’è visto, il secondo campione è nettamente scandito in una sequenza di tre endecasillabi e due ottonarî, anche col sussidio della punteggiatura ritmica. Esempî del genere sono regolarmente distribuiti: sfinita per il pianto e per le grida: / pareva il pavimento l’inghiottiva, / molle com’era^e abbandonata / senza respiro, senza movimento (64) gambe invischiate lente a trascinarsi, / schiene ricurve sotto il cielo basso, / la mano gonfia con le dita aperte; / il gallo sul pollaio / che grida per il nibbio / e il cane che risponde petulante. / Il cane e un altro cane e tutti i cani (69) si portano nel sole a scatarrarsi, / a togliersi l’inverno dalle ossa, / disegnano il terreno col bastone, / spaventano l’uccello e la lucertola. / Le donne sui balconi, alle finestre (73) Lo scampanio entrò dalla finestra, / era la chiesa vecchia e la Matrice, / lontane quelle sorde all’istituto, / fiaccate dalle schegge. / Il mezzogiorno a festa / dura quanto di notte / l’allarme per il fuoco / o per le barche a mare (100) Le mine son le nespole mature / ed i baccelli gonfi delle fave [si noti come l’apocope sillabica nel primo “verso” e la dentale eufonica nel secondo obbediscano a precise necessità mensurali] (115) Il tessuto fonico si presenta oltremodo ricco e composito. Rime e quasi-rime («Ci vuole poco ormai per la sera, il sole se ne calò a Puntalena e l’aria da grigia comincia a farsi nera» 93, «si sbottonò il cappotto ed era nudo SOTTO»12 133, «e allora si scosse, s’accorse» 65), assillabazioni, giochi allitterativi e parallelismi ingegnosi («buio fitto, fino al paese a filo» 31, «coi piatti i timpani i triangoli i tamburi, le trombe a tutto fiato» 78, «– Mia madre mi morì, – mi disse piano» 114, «una luna e l’altre allato due stelle» 134) appesantiscono la scrittura fin quasi a vanificare la tensione narrativa in un’adorazione estenuata del significante. Ma è in campo sintattico che letterarietà e preziosismo vengono perseguiti col più massiccio spiegamento di forze. Le enumerazioni asindetiche con eliminazione della punteggiatura («L’avanzata i cannoni i guastatori i lanciafiamme; la ritirata la steppa il 10 I primi a rilevarlo, in un prezioso studio mirato a SIM, furono Alessandro e Mughetto Finzi, Strutture metriche nella prosa di Vincenzo Consolo, «Linguistica e letteratura», III, 2, 1978, pp. 121-35. 11 Scansione nostra, come nei successivi lacerti. 12 Maiuscolo nel testo. 10 OBLIO II, 5 freddo la fame» 12, «Getsemani la cena le cadute la croce lo spasimo il tabuto» 90-91); il costrutto impersonale preceduto dal pronome di 4ª persona («e noi tutti s’andava al catechismo» 48); la costruzione assoluta del complemento di qualità: «guardava oltre, gli occhi alti e fissi» 29, «Gesù, cuore infiammato su tunica bianca» 55. Due gli aspetti morfologici eminenti: la riduzione dell’imperfetto di 3a persona («e il Costa ch’avea portato il braccio avanti» 6, «la bussìca che gli crescea davanti» 87) e la preposizione articolata sintetica: «mormorava pei trasferimenti» 27, «se ne partiva pel bosco a far carbone» 37-38. Tra i fatti fonetici, se s’ignora l’unico caso di prostesi («per isbaglio» 108), impiegatissima l’apocope vocalica facoltativa, sempre rigorosamente preconsonantica («mi mandò al salone a far le saponate, poi il sarto, ad infilar le aguglie e levar l’imbastiture» 34-35, «per me l’avevan fatto» 74), e l’osservanza d’un tratto toscoletterario quale la regola del dittongo mobile: «moveva le dita tra i ceci» 29, «e il mulo non moveva un piede» 97. È però nel reparto lessicale che l’espressivismo cruento ed estremistico di Consolo si libera nella più ampia e fastosa gamma d’articolazioni: recupero di parole antiche o disusate,13 neologismi d’autore, e soprattutto adattamenti di vocaboli dialettali, in netta prevalenza siciliani.14 3. «Come sono raffigurati i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio? V’è una inarrestabile discesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni […] all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcàra Li Fusi […]; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcàra […] e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli […]. Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi […] le scritte compendiarie dei prigionieri […]. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale».15 Siamo, è evidente, agli antipodi della prova esordiale: una lingua in costume d’epoca stratificata di multiformi varianti stilistiche ma ruotante sul cardine della soggezione fonoprosodica e d’un cultismo latineggiante lussuosamente drappeggiato. Si legga un dialogo come il seguente, frazionato in limpide unità melodico-semantiche da coro greco: — È aceto, malicarni, aceto! — Aceto? — Aceto? — Miracolo! 13 Accanire, p. 124 rigo 1; chiocco 9726; fragoso 1054 ; lontanarsi 589 ; sgravo 5618; spantarsi 1154 ; sprovare 3418, ecc. 14 Cfr., infra, Coniazioni originali e Dialettalismi. 15 Cesare Segre, La costruzione a chiocciola, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 81.  Il romito è santo! — Ha stracangiato l’acqua nell’aceto! — Frate Nunzio beato! — Sulla trazzèra ebbe la visione. — E urlò di piacere e meraviglia. — E perse i sentimenti. — E il controllo di sfintere. (62) o si soppesi l’esibita maestria di certe manipolazioni soprasegmentali («dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e banchina» 27, «una greca creta cotta di fattura liparitana» 95) e la segnalata subordinazione dei contenuti-significati al conglomerato formale risalterà perentoria, come lo stesso Segre dové rilevare (pur con la titubanza dovuta al fondamentale apprezzamento d’un valore inconcutibile) nelle conclusioni del saggio citato, là dove si afferma che «è difficile respingere l’impressione di un certo manierismo o barocchismo nei risultati formali. Questo manierismo (o barocchismo) è probabilmente inteso a far esplodere il linguaggio medio, spingendolo contemporaneamente verso i livelli più alti e quelli più bassi dello spazio linguistico. Ciò non toglie che il fascino della pagina di Consolo stia proprio (o anche) nella sua ardua giunzione con i principi enunciati».16 Assoluzione con riserva che non si esiterebbe un istante a controfirmare se solo fosse dato sottrarsi alla oggettiva constatazione che «C’è sempre un di più d’indugio, un edonismo fonico-lessicologico in questa, come in ogni scrittura così densa».17 Densa e opulenta fino al parossismo. A partire dalla strabordante congerie delle manovre topologiche, prevalentemente fomentate da una vocazione musicale altrettanto esteriore quanto incontenibile. Sia la dislocazione degli epiteti («urlanti parimenti e agitati» 27) e l’inversione del soggetto («Sembrava, quella, una tovaglia stramba» 45, «S’abbracciarono i due amici sulla scala» 71); l’iperbato – talora violentato fino alla sinchisi – e il collocamento del verbo in clausola («E gli occhi aveva piccoli e puntuti» 5, «– Chi è, in nome di Dio? – di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde nelle celle» 8, «niente da invidiare aveva» 83, «castello a carcere adoprato che il principe Galvano visitare mi fece» 114); la posposizione latineggiante del possessivo («covava un amore suo» 3, «il padre suo tornato d’oltretomba» 114) e il legato aggettivo etnico/relazionale-sostantivo («sveva discendenza» 99, «solare luce» 119) o la tmesi servile-infinito e ausiliare-participio («E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi» 96); sia, infine, l’enclisi pronominale, con risultati parodistici in tutto gratuiti nella loro inaudita amplificazione: «scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi» 4, «e giù per funi calaronla» 82, «e il territorio popolossi» 116, «faceala, a mio giudizio, ingrandire» 116. L’ordito sintattico è tendenzialmente scabro, nervoso, fratto in blocchi asindetici nominali o in membri paratattici modulati da filze d’infiniti con funzione vivacizzante: Luccichìo, al vacillare de’ moccoli, dei manici di rame del tabuto, piedi a zampe di grifo, impugnatore d’oro a raggera sul manto di velluto nero di sette spade nel cuore di Maria, spalancati occhi d’argento, occhio fisso, 16 Ivi, p. 86. 17 Ivi, p. 85. 12  occhi, cuori fiammanti, canne a salire e scendere d’ottone sopra l’organo. Oltre i lumi, nell’ombra del soffitto e delle mura, precipitare di teschi digrignanti, voli di tibie in croce, guizzare di scheletri da sotto lastre, sorgere da arche, avelli, scivolare da loculi, angeli in diagonale con ali di membrana che soffiano le trombe (65) Frequentissime le enumerazioni caotiche, in cui l’eliminazione della punteggiatura – o il suo esasperato impiego – produce esiti poco meno che ossessivi: dritti soprusi abusi angherie e perangherie … (testatico sopra ogni animale da soma che carico di cereali arriva a Cefalù, dritto del macello cioè sopra ogni bove porco e altro animale che si macella, decima sulla calce, decima sopra tutte le terre cotte, decima sulle produzioni ortilizie e sulle trecce d’agli, decima sulla manifatturazione e immissione delle scope, grana sopra legno e carbone, duodecima sopra vini mostali, dritto di dogane di mare e di terra cioè d’ancoraggio falangaggio e plateatico, decima sopra il pesce cioè sarde acciughe e pesce squamale, dritto di terragiolo (15) Anche presente la sillessi tosco-letteraria e del tipo «Ce n’è tanti» (61) e consistente nel costrutto impersonale introdotto dal pronome di 4ª persona: «La cosa più sensata che noi si possa fare» 98. Ma due i maggiori fatti sintattici conferenti all’impaginazione testuale una togata patina classicheggiante: il participio presente con valore verbale («alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate» 6, «verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento» 6) e la costruzione assoluta del complemento di qualità: «Schiuma l’eremita, voce raggelata nella gola, sudore e tremito tremendo nelle ossa» 61. A livello morfosintattico, oltre al violento arcaismo rappresentato dal gerundio retto da in («ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio» 5), l’articolo determinativo in forma debole dinanzi a z e a s complicata, sovente d’intenzione prosodica: «proteggevano il zappatore» 15 (novenario), «ne’ sfilacciati albagi» 105 (settenario), «col passo ferragliante dei speroni» 111 (endecasillabo). Più ampio e variegato il ventaglio degli accorgimenti morfologici. Dalla rinunzia, metricamente mirata, alla labiodentale sonora nella 3a persona dell’imperfetto («festeggiare soleano nei quartieri» 80, «Ma giugnea fraditanto una carretta» 109) al condizionale siciliano in -rìa («Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri» 105, «sennò sarìa stato eretico per paganità» 116); dalla preposizione articolata desuetamente scissa («a le vicende loro» 6, «pronti a vergar su le carte» 100) e sintetica («Dieci salme le scassai pel vigneto» 17, in cui, si noti, la forma analitica romperebbe la misura versale) alle varianti analogiche o arcaiche di coniugazione («uno vivuto sempre sulla terra» 5, «noi, che que’ valori abbiamo già conquisi» 97). Foltissimo il fascio delle variazioni fonetiche. Elisioni a facile effetto sonoro: «sicuro […] ch’occhi indiscreti non scoprissero la sua debolezza» 70; apocopi d’ogni tipo: «Torrazzi […] ch’estollon i lor merli» 4, «l’umìl saluto» 86, «passion di casta» 97, «diè ordine» 78; dittonghi discendenti ridotti: «E son peggio de’ corvi e de’ sciacalli» 98 (endecasillabo di 3a e 6a ), «Alle grida s’affacciò da’ cunicoli» 77 (endecasillabo sdrucciolo). Tratto grafico-fonico peculiare delle scritture macaroniche, qui spinto a conseguenze 13 OBLIO II, 5 estreme, l’indiscriminata solerzia nell’apposizione dei segnaccenti18 (càpperi 31, bàsola 33, làstime 42, trazzèra 87, codardìa 88, viòlo 92, ecc.), manifestamente adibita a distrarre l’attenzione dalla sfera semantica per concentrarla sull’architettura formale. Alla maggiore complessità del quadro linguistico non può non corrispondere un più acceso dinamismo lessicale. Mentre s’affinano, moltiplicandosi, le modalità delle procedure onomaturgiche (non più d’esclusiva natura compositivo-dialettale, bensì, coerentemente con la materia trattata, arcaico-letteraria) e s’intensifica il ricorso al tesoro dialettale, lo scenario ottocentesco determina un cospicuo arricchimento del vocabolario arcaico.19 4. Pubblicato dopo un decennio di silenzio rotto solo dall’ispido pastiche favolisticoteatrale Lunaria20 (del quale condivide ambientazione siculo-settecentesca e inappagato oltranzismo barocco), il terzo romanzo di Consolo si colloca all’àpice d’una sperimentazione votata al globale assorbimento della materia e alla pietrificazione dell’impulso narrativo in formula rigidamente preconfezionata. Assoluta mancanza di selettività; abbattimento del confine tra prosa e poesia con l’ineluttabile, perniciosa perequazione di suono e senso; ostentazione di convenzioni e istituti espressionistici squadernati allo stato puro in un cerimoniale orgiastico sostanzialmente inoffensivo: tali i limiti più inquietanti d’una scrittura che, quale quella di R, aspira innanzitutto a significare sé stessa, offrendosi come spettacoloso intrattenimento: Rosalia. Rosa e Lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione (9-10) È l’incipit, ma si dica pure l’ouverture di questa sinfonia governata da una vis compositiva eminentemente ritmica, affatto scevra da preoccupazioni comunicative, soggiogata dal demone della tecnica e della libera associazione sonora, «con 18 Con oscillazioni e discordanze notevoli: un dato che il Nostro condivide in toto col suo conterraneo e per certi versi omologo Stefano D’Arrigo. 19 Aere 8615; ascoso 8721; binoculo 11118; dappoiché 1014 ; jiumenta 10433; mercatante 2812; poscia 11112; prope 10826; ricolta 10019; ricoverto 11837; tòrre 6324; tuttavolta 10525; unisonanza 177 , ecc. 20 Torino, Einaudi, 1985, su cui Segre ha steso pagine superbe, agevolando l’accesso all’intero universo espressivo consoliano: «La prima [conclusione] è che la scelta delle componenti linguistiche non è fatta corrispondere rigidamente al tipo e livello dei personaggi; la seconda è che la differenza tra prosa e poesia non corrisponde all’opposizione diegetico/dialogico. La prima conclusione significa che Consolo, pur differenziando in linea di massima la lingua dei personaggi, lascia che entro questa, nei momenti della concitazione o dell’emozione o della partecipazione, traspaia la propria, con tutta la gamma dei suoi registri. Il sicilianismo o il termine letterario o latino non fungono da “ideologemi”, ma rientrano nel complesso delle funzioni evocative organizzato dallo scrittore. La seconda conclusione conferma l’osmosi caratteristica di Consolo tra prosa e poesia, con predominio di quest’ultima» (Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 100). profusione vocabolaristica da vecchia scuola accademica».21 Un nome, nulla più che un flatus vocis sezionato nei suoi componenti – Rosa/Lia – s’incarica d’imprimere il movimento iniziale alla sfarzosa, caotica malia melica polifilesca riboccante d’anafore, corrispondenze, marinismi, retoriche agudezas, liturgie mensurali, virulente ibridazioni. Caoticità litanica non ridotta d’un ette dall’ordinamento alfabetico del nome (Lia), del verbo seminventato liato da esso tratto22 e della filza d’apposizioni inizianti per l- come Lia (liana libame licore lilio lima limaccia lingua lioparda lippo liquame: unica eccezione letale, retto in compenso da un altro tipo d’ordine: il chiasmo licore affatturato | letale pozione). Sta in fatto che l’effetto più abbagliante resta quello d’un’arida compulsazione vocabolaristica. Che sarebbe, s’intende, non solo lecito, ma godibilissimo in un autore che non s’impuntasse, come il Nostro, a professar fedi di natura storica e sociopolitica ponendole alle basi del proprio lavoro. Ma torniamo al ritmo. Un compendio del dirompente genio metrico di Consolo: E gli occhi tenea bassi per vergogna (12) La visïon di quegli ordegni bruti (26) fuga notturna in circolo e infinita (28) e qua e là son poggi di riposo (31) privato vale a dire del cervello (42) Ma Mele dico ei doversi dire (68) I’ mi trovai disteso, e non so come, / fra le dune di sabbia sulla riva, / con gente intorno a me che parlottava (104) Si veda come, nel primo caso, la misura sia garantita dall’iperbato e dall’imperfetto arcaico; nel secondo da una caricata apocope vocalica compensata dalla dieresi; nel terzo dalla dislocazione degli epiteti; nel quarto, oltreché dall’apocope, da un enfatizzato polisindeto di profumo ariostesco; nel quinto da un’aspra inversione; nel sesto da un latinismo sintattico (accusativo + infinito) arricchito da insistite allitterazioni23 e dal poliptoto giocato sulle due voci del verbo dire. Il settimo brano, marcato da un arguto avvio stilnovistico,24 valga ad esemplificare la disseminazione nel testo di veri e proprî microcomponimenti poetici non di rado variamente assonanzati (ma qui il secondo e il terzo endecasillabo sono apparentati persino da una quasi-rima: riVA / parlottaVA). Emerge, fin da questa rapida rassegna, l’oceanico profluvio degli ingredienti mescolati 21 Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 381. 22 Cfr., infra, Dialettalismi. 23 Il libro ne è letteralmente infarcito: «carriole, carretti carichi di sacchi» 15; «Fra merda e fango e fumi di fritture» 15; «un gran gracchiar di nacchere, rimbombi di timballi» 42; «mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male» 68, ecc. 24 Non mancano citazioni poetiche: «in sul calar del sole» 34, «E sedendo e mirando» 73, quest’ultima presente anche in SIM 98 insieme al manzoniano «scendea per uno di quei vicoli» 107.  e messi a macerare nel capientissimo (e inimitabile) calderone gaddiano. Un tessuto stilistico irto d’incisi richiami rinvii sincopature miranti a riprodurre la libertà costruttiva della sintassi classica: Una più alta onda, a un certo punto, sferzando fortemente la fiancata, fece rotolare ancora, e trasbordare, tranciando salmi, inabissar nell’acqua, salvandoci sicuramente da naufragio, la mia statua (125) o a bruciare nel più parossistico manierismo formale e nell’invasata possessione litanica nevrastenia e risentimento: Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffico, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, quindi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favognana, Scopello e Bonagìa, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolìzia, sommacco, pelli, solfo, tufi marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, flanella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca (127) col solo esito di raschiare la massa verbale devitalizzandone la polpa in un trionfale quanto edulcorato inno alla musica. A comprovare il sostanziale eleatismo, sotto mentite spoglie eraclitee, del mondo linguistico consoliano, la sconcertante iterazione dei procedimenti: i medesimi, salvo numeratissime eccezioni, già prodigalmente investiti nei romanzi precedenti (pur tanto dissimili, si badi, sia per ambientazione storica sia quanto all’organizzazione del materiale inventivo) e che ritroveremo rotondamente identici nelle opere posteriori. Valga uno schematicissimo excursus. In àmbito sintattico: costruzione assoluta del complemento di qualità («Ansava come mantice d’organo […], grave il respiro fora dalle labbra» 68) e participio presente con valore verbale: «sommessamente mormorante paternostri» 141. Dal rispetto topologico: inversioni («Amenissima, polita e levigata corre la strada» 31, «E più beato ancor si fece e deliziato» 54); tmesi d’ausiliare e participio nonché di fattitivo e infinito («quello loro l’avea Isidoro miracolosamente trasformato» 95, «sparir li faceva in una sacca» 44); ubicazione clausolare del verbo alla latina («sorge dal mare e tutt’il cielo indora» 23, «altr’òmini, che in ozio parevano» 35); dislocazione degli epiteti («a netti cuori e ardenti vi scaldate» 23, «una catena d’alti colli e scabri» 25, «vostro divoto amico e ammirante» 26, «grecanica fattura nobilissima» 38); posposizione del possessivo («nel breve peregrinare mio per il mondo» 134, «che la bellezza tua stava nascosta» 150); enclisi pronominale («E sfigurossi poscia in viso» 55, «lasciavansi crescere la chioma» 59, «lacerossi gli abiti» 143); chiasmi: «siamo fermi, fermi sprofondiamo» 110. In area morfosintattica: infinito sostantivato e gerundio preposizionali («in latteggiar purissimo de’ marmi […], in rosseggiar d’antemurali» 24, «certo, in leggendolo […] vi donerà gran tedio» 136) e articolo in forma debole davanti a z, non di rado a scopi ritmici: «nella ripresa del zufolo e del sistro» 55. Nella morfologia: preposizione articolata sintetica («l’inferno pel rimorso del peccato» 13, «sacconi di bombarde pei legni che vi salpano» 25) e scissa («ne la luce di giugno» 25, «follia dolce de l’ingegnoso hidalgo» 49); coniugazioni arcaiche: «Io mi chiedei allor» 49, «giùnsimo al punto più alto» 52, «vìdimo che si svolgea […] una processione» 140); accumuli preposizionali («con la sua spina velenosa in su nel core» 9, «e disparì in dentro d’una porta» 36); eliminazione prosodicamente funzionale – nell’imperfetto di 1a , 3a e 6a persona – della labiodentale sonora: «venia ad investirmi sulla faccia» 18, «facea sinistramente cigolare» 26, «la sospingeano da una vasca all’altra» 120. Sempre amplissimo, in territorio fonetico, lo spettro delle fattispecie citabili. Dittonghi discendenti ridotti nei monosillabi («preso da’ Turchi, da’ corsari» 17, «que’ bagni celebrati dagli antichi» 55); preferenza per le forme monottongate (ova 12, òmini 15, scotersi 138, foco 149, core 151, ecc.); elisioni con se, da, su e coi plurali («mi chiese s’ero pratico di strade» 16, «mi preservi e salvi d’ogni dolore» 29, «stava immobile s’uno sgabello» 120, «col linguaggio ascoso dell’allusioni» 132); apocopi vocaliche e sillabiche («nell’umile mestier del facchinaggio» 27, «nell’aer lieve dell’ora antelucana» 53, «m’abbracciaro e baciaro a uno a uno» 37); aferesi d’ogni tipo: state ‘estate’ 56, Stambùl 74, sendo 95, straneo 122, ecc. Quanto al registro demotico, da segnalare i numerosi intarsî dialogici pluridialettali (nei quali eccelle la collocazione siciliana del verbo in clausola); l’impiego di tenere per ‘avere’; l’aferesi vocalica dell’articolo indeterminativo («E ’na volta eran l’ova, ’n’altra la cassatella, ’n’altra la cedrata» 12) e sillabica nel dimostrativo: «’sto cavalèr foresto, ’sto galantomo, ’sta perla di cristiano» 59. Pur dominato dall’interesse arcaico,25 il settore lessicale si presenta naturalmente rigogliosissimo tanto in sede onomaturgica che dialettale.26 5. «Eppure, romanzo storico Nottetempo, casa per casa senza dubbio è. […] Lo è per la fitta trama di allusioni che, come è nella tradizione più pura del romanzo storico, rimandano al presente. Lo è per l’acume con cui lo scrittore ha scelto, anche qui secondo il modello più prezioso del genere, un avvenimento particolarmente inedito e intrigante nel mare degli eventi possibili».27 Questo, press’a poco, il tenore degli interventi critici sull’opera consoliana fin dall’epoca dell’entrata in arte: un approccio sostanzialmente contenutistico che oltre a non rendere competente giustizia alla complessità del dettato, ne suggerisce una lettura parzialissima e fallace, proprio in quanto bloccata all’aspetto meno strutturante dell’atto creativo: la stratificazione dell’elemento concettuale. Si legga un qualsiasi avvio di capitolo: Gravava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio, il silenzio al meriggio dove piombano sui picchi, le 25 Un catalogo puramente indicativo: alma 920; amistà 10613; antichitate 5120; architettore 2724; bontate 13611; civiltate 5720; dua 282 ; frale 4527; imperocché 2811; littra 4020; marmore 1192 ; mercatore 988 ; nullitate 2611; pintore 5316; sustanza 2819, ecc. 26 «Non c’è motivazione tematica che tenga di fronte a tanta esibizione di sapienza lessicografica» (Vittorio Coletti, op. cit., p. 381). 27 Antonio Franchini, Introduzione a NCC, pp. V-VI.  mura della Rocca corvi, gazze, brulicano sui canali, i limi delle gébbie nugoli d’insetti, la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze (13) o si prelevi a caso una delle tante caotiche enumerazioni che stipano il “romanzo”: Pensò a Monreale, a San Martino delle Scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno róso, all’imperio ascoso dei sorci delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar delle pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai ritoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. (31-32) e si dica se una così torrenziale, rapinosa ossessione lirica possa ragionevolmente legittimare l’evocazione d’una categoria quale quella di narrazione storica (dove non solo l’epiteto, ma perfino il sostantivo dovrebbe indurre la più disarmante perplessità) o il ricorso al tòpos – non si saprebbe se vieto o semplicemente inadeguato – dell’allusorio rimando al contemporaneo mercé investigazione di compagini d’epoca. Non che, beninteso, passione teoretica e tensione morale siano estranee a un’operazione che, come NCC, si coagula tematicamente intorno alla furia irrazionalistica originata dall’avvento del fascismo e sue conseguenze. Certo si è che, ancora una volta, la scrittura par muovere non da giudizio, riflessione o progetto, ma da un tripudio calligrafico supercilioso e innaturale che solo la fermentazione erosiva e autoironica d’un Gadda o d’un Pizzuto, qui fatalmente assente, riuscirebbe a riscattare. Vi è un limite varcato il quale il vortice plurilinguistico e registruale, se non fortemente necessitato, si cristallizza in grammatica, smarrendo ragione e valore. Se infatti in SIM, e più in R, l’elaborazione d’un linguaggio sfarzoso e prestigiosissimo traeva motivo e alimento dall’esigenza mimetica suggerita dall’ambientazione rispettivamente otto- e settecentesca, si stenta a credere che in NCC essa sia semanticamente funzionalizzata, e soprattutto poeticamente restituita. Non si dice della sempre invasiva laboriosità fonoprosodica con forti connotati di autoriflessività (numerose le scansioni versali – le più strutturate in endecasillabi e settenarî –, incalcolabili le serie allitterative e le corrispondenze dei tipi più svariati),28 né degli stratagemmi topologici sovente radicalizzati oltre i limiti del leggibile;29 ma di forzature incongrue quali gl’imperfetti arcaici di 3a e 6a persona («il giovine ch’avea chiesto la sua mano» 46, «già l’avean punita» 87); la preposizione articolata arcaicamente sintetica («sale pel cielo il turbine di lucciole» 5, «ritiro pei padroni alla 28 Qualche esempio: «col traffico di merci, passeggeri / speravan d’accansare qualche cosa» 44; «Partiva in compagnia di tre paesani, / ch’erano accanto con i lor parenti» 45; «del balenar di lini, / trascorrere di lumi» 18; «allo scuro regno róso, all’imperio ascoso» 32; «la condizione al presente della gente» 109; «uose pelose di vacca becco porco» 121; «Batte con la pala mazza alza polverazzo» 156; «oltre l’intrico dei vichi » 166. 29 Inversione del soggetto, posposizione latineggiante del possessivo, dislocazione degli epiteti, enclisi pronominale. Ma soprattutto sinchisi: «Finsero, facendo galoppar scrosciando il cavallino giù per la discesa, d’esser partiti» 20; «dalle polle celesti della Rocca cascando, per inferi canali, per alvei di granito trascorrendo, sotto piani strade bagli case chiese conventi gorgogliando» 104, ecc. ricolta dell’uva» 17) o vezzosamente scissa («danzando su la musica segreta d’ascosi pifferi» 16, «– O casa mia, – gemeva – casa de la dolora, patimento, casa de l’innocenza» 37); i voraci accumuli preposizionali («mesceva svelta ai clienti, quattro o cinque fedeli in su quell’ora» 13); le apocopi sillabiche e vocaliche frequentemente indotte da pervicacia metrico-ritmica: «con il fior l’amore, la passion tremenda» 26 (coppia di senarî), «tirandogli le dita dolcemente, gli fe’ capire di tornare giù» 76 (endecasillabi), «Fu quello l’inizio d’una industria, d’un commercio che gli diè guadagno» 131 (decasillabi). Il comparto lessicale gronda di neoformazioni ardite, dialettalismi, e soprattutto arcaismi brutali, spesso incastrati a forza in contesti prossimi al rigetto.30 6. Salmodiante poème en prose in bilico tra inchiesta antropologica e impetuosa esecrazione della civiltà contemporanea rappresentata al culmine del suo decadimento, OO segna un punto di svolta cruciale nella poetica del prosatore siciliano. Già variamente debilitato nei lavori precedenti, il genere romanzo subisce qui una recisa sconfessione31 a pro d’una corrente elegiaca seducente e poderosa (benché non priva delle escandescenze enfatiche e degli eccessi oratorî resi inevitabili dall’impianto moralistico-sentenzioso), che da un lato dissolve la diegesi in illuminazioni schierate sull’asse unificante dell’invettiva e dell’evocazione nostalgica, dall’altro reprime ogni pulsione sperimentale e ambizione alla differenza. Infiammata da una sincera quanto estrema disperazione politica, la scrittura si svincola dalle strette del virtuosismo ludico che rischiava d’ingolfare, se non impietrire, un modo di formare innegabilmente potente e costruttivo; tuttavia (questo il nodo che l’ultimo Consolo sembra deciso a sciogliere definitivamente), l’ipoteca del manierismo e della faticosità inventiva, seppure in via d’esaurimento, non cessa di gravare su una configurazione espressiva riluttante ad armonizzarsi fuori dalle coordinate formali. Declina ma non s’estingue del tutto il vitalismo fonoprosodico,32 sempre meno assistito da ordigni topologici e machiavellismi dell’ordine retorico, mentre all’esondante concertazione di toni e voci sottentra un flusso monolingue liricizz volute sintattiche amplissime, cantilenanti, quasi ipnotiche nel loro incatenarsi ato da oordinativo: e c Va dentro il frastuono, la ressa, l’anidride, il piombo, lo stridore, le trombe, gli insulti, la teppaglia che caracolla, s’accosta, frantuma il vetro, preme alla tempia la canna agghiacciante, scippa, strappa anelli collane, scappa ridendo nella faccia di ceffo fanciullo, scavalca, s’impenna, zigzaga fra spazi invisibili, vola rombando, dispare. Va lungo la nera scogliera, il cobalto del mare, la palma che s’alza dai muri, la buganvillea, l’agave ch sboccia tra i massi, va sopra l’asfalto in cui sfociano tutti gli asfalti che ripidi scendono dalle falde in cemento del monte, da Cìbali Barriera Canalicchio Novalucello, oltrepassa Ognina, la chiesa, il porto d’Ulisse, coperti 30 Abissitade 6418; covrire 616; màrmore 619 ; murifabbro 16713; omai 267 ; spiro 1481 ; vocare 2723, ecc. 31 Sull’argomento ha riflessioni istruttive Giuliano Gramigna, «Il Giorno», 7 luglio 1976. 32 «scioglie il lamento, il pianto. / Solo può dire intanto» 9; «la statua della Madonna, / alta sopra la colonna» 10; «Fuggono quindi da quella violenza, / da quella^incivile convivenza» 18; «ignara del segno, del presagio, / ignara d’ogni evento, / è ferma a quell’oltraggio» 32; «innocente e sapiente, / la sirena silente» 33; «chiusa fra il mare e la sciara, / assoggettata a una natura avara» 47; «Acitrezza. La Trezza. ’A Trizza, la treccia, l’intreccio» 48, ecc. 19 OBLIO II, 5 da cavalcavie rondò svincoli raccordi motel palazzi – urlano ai margini venditori di pesci, di molluschi di nafta , oltrepassa la rupe e il castello di lava a picco sul mare, giunge al luogo dello stupro (46-47) nte lente i à nte e di parola : spia clamante d’un llarme non ancora completamente scongiurato. * * * CONIAZIONI ORIGINALI o, per un totale sizione occupano un ruolo più che consistente. Si a dalle mere giustapposizioni e grafie sintetiche: ni in brache» e, NCC 14623: «vorticare degli occhi, delle penneluce, dei colori iridati delle ali». ‘Piuma ecchiapregna, FA 3 : «la corriera, la v.». ‘(A forma di) vecchia gravida’ gli incroci più o meno trasparentemente congegnati: monia per fare, infilando o incastronando con l’oro e – All’intensità del nucleo tematico ispiratore («Un viaggio del ritorno in Sicilia, Itaca perduta che diventa metafora dell’Italia»)33 si deve invece l’ancor nutrito continge di arcaismi e poeticismi nell’ordine delle parole, per la prima volta necessitati da cogenti istanze sentimentali. Inversione del soggetto («Stese la regina il drappo rosso» 9, «Va lo smarrito marinaio» 50); iperbato («Il tono scarno e grave, ermetico e do vorrebbe avere d’Ungaretti» 84, «All’angelo ripensò del suo Riposo» 88); legato sostantivo-possessivo-aggettivo («nel corpo suo sereno» 86); dislocazione degli epitet («secco paese povero e obliato» 78, «solitaria villa decaduta» 107); chiasmi: «la citt s’allontana, s’allontana l’isola» 10, «il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato» 31. Cala vertiginosamente, sin quasi ad annullarsi, l’attenzione rivolta al livello fonetico.34 Sintomatica, quanto al lessico, la contrazione dell’attività onomaturgica non disgiunta da un’altrettanto drastica rarefazione del quoziente dialettale, mentre permane inge il sempre più innaturale ricorso a varianti arcaich 35 a Lo scrutinio ha rilevato 57 neologismi presumibilmente attribuibili all’estro consolian di 67 occorrenze così distribuite: 12 in FA, 14 in SIM, 30 in R, 8 in NCC e 3 in OO. Gli accenti, qui e nella sezione dedicata ai Dialettalismi, sono quelli apposti dall’Autore. Una prima classificazione tipologica consente di rilevare l’estrema elementarità delle procedure onomaturgiche, tra cui l’univerbazione e la compo v capochino, SIM 8630: «uomini capochi chivalà, NCC 1626 : «urla comandi c.» gastrosegato, SIM 11327: «la stimma del tuo g., la tacca per la fuga della bile». Gastro (non come primo elemento di composti, ma direttamente dal gr. gastḗr-trós ‘stomaco’) + part. pass. di segare pennaluc lucente’ 7 v a agrimogno, FA 734 : «nespole agrimogne». Agro + asprigno sul modello di acri gargarella, FA 994 : «il rumore dello sguazzo, la g.». Garganella + gargarozzo incastronare, R 1321 : «sciortinavano gli acini o cocci 33 Quarta di copertina. 34 Si registra qualche rarissima apocope vocalica, esclusivamente in posizione preconsonantica: «Seguivan le bambine» 24; «ulular di cani, strider d’uccelli» 115; «all’apparir delle persone» 148. 35 Màcula 8627; murifabbro 692 ; murmure 5017; ordegno 13015; scerpato 8513; umidore 11029; vanella 8822, ecc. 20 OBLIO II, 5 con l’argento, paternostri». Incastonare + incastrare liconario, SIM 1052 : «frate l.». Licantropo + lupunariu o lupunaru (sic.) di egual significato riballo, R 388 : «anfore oriballi». Oro + ariballo ‘vaso greco arcaico’ lle combinazioni di verbo e sostantivo: parginchiostro, FA 10523: «– […] lo s. non è di quella razza». ‘Scrittorucolo’, ‘imbrattacarte’ uanto alla formazione delle parole, mentre ricorrono due soli casi di verbi deaggettivali: fervorare, R 97 : «l’aere sfervora». Dal raro sfervorato ‘che ha perso il fervore’ i registra un folto gruppo di denominali, deverbali – la più parte a suffisso zero – e parasintetici: Lipari il segretario con l’a. di suo padre». Deverbale a suff. zero IM 676 : «s. d’occhi verso l’alto». Deverbale da stralunare ‘strabuzzare’ + suff. -ìo di ramischie». Deverbale a suff. zero dall’arc. tramischiare omboneggiando». Denominale da trombone ‘antica arma da oco a canna corta dalla bocca svasata’ logico tradizionalmente più roduttivo nell’italiano letterario: quello delle forme pre- e suffissali: ontrofascista, FA 1531: «– […] fetente, ch’era c.». Sul modello di controrivoluzionario battuto, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute». Da battuto ‘percorso’. ‘Inesplorato’ ntinuativo: tralunìo, cit. opranatura, R 652 : «non d’elementi di natura ma di s.». Sul modello di soprannaturale ltrapassato, R 114 : «statue di cittate ultrapassate» o a spargeveleno, FA 1303 : «– Porco, vipera schifosa, s.!». ‘Seminatore di zizzania’ s Q sciortinare, R 13129 (cfr. incastronare). Dal sic. sciurtiatu ‘assortito’ s s affoco, FA 5513: «faccia d’a.». Deverbale a suff. zero dal sic. affucari ‘uccidere togliendo il respiro’ attizzo, FA 1532: «– […] lo mandò a dal sic. attizzari ‘istigare’, ‘aizzare’ frastuonare, R 5113: «il chiasso che frastuona». Denominale da frastuono ingozzo, FA 10310: «i. di zuccheri e di grassi». Deverbale a suff. zero da ingozzare spiego, SIM 9316: «ali e coda a s. di ventaglio». Deverbale a suff. zero da spiegare ‘distendere’ stralunìo, S continuità tramischio, R 4120: «pietre mischie e t ‘frammischiare’, intensivo di mischio tromboneggiare, R 1053 : «verso il ciel tr fu Ma non è certo un caso che il primato numerico spetti al comparto neo p contro-: c in- negativo: im -ìo intensivo-co s sopra-: s ultra- (= tra-): u -ame collettivo: asciuttame, R 1277 : «a., vino, cenere di soda». ‘Pesce essiccato’ uddano, FA 547 : «– […] punto debole del popolo s.». Da sud. ‘Meridionale’ ista a gia’ avagliante, R 11824: «bravi travaglianti». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’ enisolare, R 13111: «città p.». Variante di peninsulare tefanaro, NCC 15716: «la giara stefanara […] suona a ogni tocco». ‘Di S. Stefano di Camastra’ asato, R 6811: «un n. fischio». Lo stesso che nasale torture, angeliche muffoliche cuffiesche». Da cuffia del silenzio ‘antico trumento di tortura’ uffolico, SIM 1610 (cfr. cuffiesco). Dal reg. muffole ‘manette’ Isaac Newton ettorino, R 13214: «degli orecchi, del canale p.». Lo stesso che pettorale isfattivo, R 7813: «dolcemente d.». Da disfatto secondo il rapporto di distrutto a distruttivo nicola, R 10919: «anatre, fenicole, calandre». Da fenice o fenic(ottero) , dalle i per tenerezza’. ‘Sdolcinato’, ‘lezioso’ ermoso, SIM 613 : «occhio tondo v.». Da verme era non tollera nel suo seno il r.» . Da stroppio ‘storpio’ midume, SIM 7536: «un tondo nero d’u.» -ano d’appartenenza: s -ante di mestiere e condizione: chitarrante, OO 332 : «avanza […] in mezzo ai chitarranti». Lo stesso che chitarr paonante, R 4311: «spavaldo e p.». Dal sic. paùni ‘p vone’. ‘Che si pavoneg tr -are di relazione: p -aro d’appartenenza: s -ato (=-ale): n -esco derivativo: cuffiesco, SIM 1610: « s -ico d’appartenenza: m -ino alterativo e derivativo: newtoncino, R 14527: «promettente, il n.». Dal cognome del fisico inglese p -ivo di capacità, disposizione: d -olo alterativo: fe -oso di caratterizzazione e abbondanza: gilepposo, FA 10223: «vino g.». Dal sic. ggilippusu. Lo stesso che giulebboso ‘dolciastro’ sdillinchioso, R 1524 : «signore sdillinchiose»; NCC 4927: «– Vai, vai dalle troie di marmo sdillinchiose». Dal sic. sdillinchiari ‘commuovers v -ume collettivo-spregiativo: ribaldume, SIM 11114: «L’Italia Una e Lib sbirrume, NCC 16927: «– […] tutto lo s.» stroppiume, OO 8627: «s., màcule, lordure» u  Se la compagine prevalentemente mimetica del parlato popolare non può non limitare il ricorso alle ngue classiche e moderne: , OO 3323: «la curòtrofa, la madre possente». Dal gr. kourotróphos ‘che nutre, alleva figli, a cui ERI, 1991, pp. 51-52) arfumo, NCC 2516: «il p. suadente». Adatt. del fr. parfum ‘profumo’ onché l’utilizzo di basi arcaiche: a stelle di j.»; R 1359 : «con buchè di rose e di j. in mano». Dall’ant. ginia e pifània di Palermo». Dall’ant. (e dial.) pifanìa ‘epifania’, on accentazione greca (epipháneia) per nui»; NCC 2512: «La pomelia s.». Comp. dell’ant. sur ‘sopra’ e tutto rattutto’ amischio, cit. ltre ai itati affoco, attizzo, gilepposo, liconario, nascare, sciortinare, sdillinchioso e travagliante: o che trafficavano alla macina al rchio alla lumera al fosso». Dal cal. scudillari ‘rompere la schiena’ onclude la rassegna un drappello di neologismi consistenti in minime variazioni morfologiche: ’intestardo a scrivere»; SIM 7614: «– […] m’intestardo a dimorare qua». 1275 : «in magna q.». O da quantità sul modello di cittate e sim. o direttamente dal lat. pallido o s. in cui si presentava questa pietra». Da squallido (ad evitare irginio, R 2420: occhio tondo v.». ‘Virgineo’

DIALETTALISMI
lie , e li curòtrofo giovani’ eurialo, SIM 1033: «Siracusa bianca, euriala e petrosa». Così l’Autore: «Eu, rao, als: luogo d si vede bene il mare» (V. Consolo, La Sicilia passeggiata, Torino, Nuova lecana, R 389 : «coppe pissidi lecane». Dal gr. lēkánē ‘vassoio’, ‘catino’ p n jasmino, SIM 11910: «le spalle iàsemin o iasmin ‘gelsomino’ pifànio, R 2420: «la visione prima, vir c surtutto, R 401 : «– […] s. (fr. surtout). ‘Sop tr il contingente delle invenzioni lessicali riconducibili al dialetto è proporzionalmente notevole. O c scudilliere, NCC 10416: «gli scudillieri bisunti e incappucciati di sacc to C ammenciare, R 2616: «ricordo […] che in un istante s’ammencia». Lo stesso che ammencire intestardarsi, FA 10519: «m Lo stesso che intestardirsi quantitate, R quantitatem realitate, R 497 : «dalla finzione del teatro nella r. della vita». Cfr. quantitate squallo, R 1324 : «nel rosso omoteleuto con «pallido») v Prescindendo dalle voci contenute negli inserti dialogici interamente dialettali, il glossario accog 184 lemmi per un totale di 254 frequenze (54 in FA, 78 in SIM, 48 in R, 59 in NCC, 15 in OO) precisamente: 1 calabresismo e 183 sicilianismi, di cui 59 non sottoposti ad alcuna modifica (segnalati dalla dicitura «sic.») e 124 («dal sic.») foneticamente italianizzati secondo criterî glottotecnici non sempre coerenti e persuasivi, gravando sul dettato l’ipoteca d’un impetuoso 23 OBLIO II, 5 estremismo barocco. Cui saranno da attribuire sia le oscillazioni nel regime dei segnaccenti (càs cascia, cianciàna / cianciana, gèbbia / gébbia / gebbia, nutrìco / nutrico, sipàla / sipala, traz trazzera, viòlo / violo) sia, soprattutto, le flagranti discordanze procedurali in materia di adattamento: si noterà, ad esempio, come l’assimilazione progressiva tipica delle parlate centromeridionali sia sottoposta a normalizzazione in blundo (sic. bblunnu) e smandare (sic. smannari), ma non in abbanniare, banneggiare (rispettivamente dal sic. bbannïari e abbannïari, di identico significato), ciònnolo (sic. ciùnnuli); e come il suffisso meridionale intensivo-continuati -ïari sia regolarmente vòlto in -eggiare nel caso di banneggiare, ma resti pressoché invariato in cia / zèra / vo bbanniare, fanghiare, lampiare, ecc., a testimoniare la vocazione mimetica della lingua consoliana. ri, speravan d’a. qualche cosa». Dal sic. estare’, ‘mollare’. ratu ‘stantio’. ‘Putrefatto’. a. e la buffetta»; armuarro, NCC 12025: «letto comò a.». Dal sic. armuaru o ato’. u ‘lontano’. va ferma per lungo tempo provvisa’. co’. occiola’. nelle, bagli e piani»; OO 13412: «i bagli, le torri merlate». Dal sic. bagghiu somino, b. e viola»; NCC 1267 : «rose bàlichi giaggioli». nneggiava un uomo con la carrettella». Dal sic. bbannïari ‘gettare il aresco’, detto di pecora o montone. ‘abbeveratoio’. za visiera’. a abbanniare, SIM 11412: «il banditore abbanniò». Dal sic. abbannïari ‘gettare il bando’. accalarsi, FA 1326 : «– Chi sta in faccia al mare, prima o poi si deve a., anche col pesce più meschino»; NCC 1429: «La regina col re solo s’accala». Dal sic. accalàrisi ‘piegarsi’. accansare, NCC 447 : «col traffico di merci, passegge accanzari ‘acquistare’, ‘ottenere’, ‘mettere da parte’. acceppare, FA 5316: «Il sorvegliante glien’acceppò una». Dal sic. accippari ‘ass accianza, R 1517: «quell’a. d’oro»; NCC 7423: «una mala a.». Sic. ‘Occasione’. addimorato, SIM 10630: «morti addimorati». Dal sic. addimu anciova, SIM 2723: «sàuri sgombri anciove». Sic. ‘Acciuga’. angarioso, OO 9121: «la soldataglia prepotente e angariosa». Dal sic. angariusu ‘soverchiatore’. armuaro, FA 568 : «l’ armuarru ‘armadio’. arraggiato, SIM 10620: «corvi […] arraggiati in cielo a volteggiare». Dal sic. arraggiatu ‘arrabbi arrasso, FA 1101 : «– […] a. di qua»; R 988 : «a. dalla Milano attiva». Dal sic. arrass arrere, R 6419: «– […] l’ereditò dal padre suo, e così a.». Dal sic. arreri ‘indietro’. attassare, FA 3633: «Il muro era gelato, mi attassava»; NCC 6021: «resta come attassata». Dal sic. attassari ‘gelare’ ‘far agghiacciare il sangue’. attasso, NCC 428 : «nell’a. del cuore». Dal cal. attassu ‘forte paura im babbalèo, SIM 946 : «b., mammolino». Dal sic. bbabbalèu ‘scioc babbaluci, SIM 2913: «asparagi finocchi b.». Sic. ‘Chi babbìa, FA 378 : «pazzia, se non b.». Sic. ‘Stupidità’. baccaglio, NCC 1426: «frasi a parabola, a b.». Dal sic. bbaccagghiu ‘gergo furbesco’. baglio, SIM 3231: «va ‘cortile di una casa’. bajettone, R 12714: «saja di Bologna, b. d’Inghilterra». Dal sic. baiettuni ‘panno da lutto’. bàlico, SIM 6017: «leandro e b.»; R 94 : «gel Dal sic. bbàlicu (o bbarcu) ‘violacciocca’. banneggiare, FA 1147 : «ba bando’ (cfr. abbanniare). barbarisco, R 12712: «lana barbarisca». Dal sic. bbarbariscu ‘barb baviolo, FA 472 : «b. di merletto». Dal sic. bbaviuòlu ‘bavaglino’. beveratura, NCC 10621: «Oltre la b. di porta di Terra». Dal sic. bbiviratura birritta, SIM 894 : «la b. calcata». Sic. ‘Copricapo di stoffa sen blundo, SIM 7036: «testa blunda». Dal sic. bblunnu ‘biondo’. brogna, FA 3315: «suonavano le brogne a tutto fiato»; R 1421 : «suonò la b.». Sic. ‘Buccina’. buatta, FA 5429: «concerto di buatte e di gavette». Sic. ‘Scatola di latta per conserve alimentari’. buffetta, FA 4134: «preparava la b.»; SIM 1315: «appoggiò le braccia sopra la b.»; R 6326: «sopra ’na b. dispose del formaggio»; NCC 1313: «i litri e le gazzose alle buffette». Sic. ‘Tavola da pranzo’, lia) ‘la carne del tonno vicina all’addome o alla lisca centrale, di colore scuro …] e ordinò agli altri di farsi di lato». Dal sic. botti barilotti»; NCC 1047 : «i cafìsi di vergine». Dal sic. cafìsu etteratura, traduzione. 9). sic. a cangiu ‘in luogo di’. 282 : «l’altri dua di fora, uno a cavallo come c.». Dal sic. capurrètina ‘guida’, ino’. ‘Panno cremisi’. acellaio’. ti, a scossoni della c.». Sic. dio a muro’. re’. io di tessere che invadeva il c. dentro la fortezza del suo Duomo». Sic. (e ‘tavolo rustico da cucina’. burnìa, SIM 318: «unguentarî alberelli scatole burnìe». Sic. ‘Vaso di terracotta’. buzzonaglia, SIM 316 : «– […] ficazza, lattume e b.». Dal sic. bbuzzunagghia (bbuzzinagghja, bbusunagghja, bbusunàg e qualità poco pregiata’. cacocciola, FA 4414: «fece uno che pareva c. [ cacòcciula ‘carciofo’; qui ‘capobanda’ (fig.). cafìso, SIM 10532: «coffe cafìsi ‘misura da olio’, ‘brocchetta’. calacàusi, SIM 385 : «– […] un imbecille o c.». Sic. ‘Calabrache’. calasìa, SIM 948 : «– […] presciutto tesoro c.». Sic. ‘Bellezza’. «Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola calasìa che nei vocabolari siciliani non esiste. Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello. Calasìa significa bellezza, come si dice nella mia zona che è greco-bizantina» (V. Consolo, intervista con Sergio Buonadonna, «Repubblica», 12 giugno 2011). Il dialettologo era S. C. Trovato, che così nota: «Si tratta sicuramente di una parola del lessico familiare dello scrittore, che non ha riscontri lessicografici nel siciliano, né, in quanto non improbabile grecismo (> kalós + suff., probabilmente sul modello di gherousía), nelle parlate della vicina Calabria» (Italiano regionale, l Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Enna, Euno Edizioni, 2011, p. 31 càlia, NCC 12717: «andando per la c., per i gelati». Sic. ‘Ceci abbrustoliti’. cangio (a), FA 2215: «– […] la maestra a c. dell’avvocato». Dal caniglia, SIM 5912: «cenere e c.». Dal sic. canigghia ‘crusca’. caporedina, R ‘mulattiere’. carbàno, SIM 421 : «– Carbàni e montanari!». Dal sic. carbànu ‘zotico’. carcarazza, SIM 1073 : «corvi e carcarazze». Sic. ‘Gazza’, ‘cornacchia’. carmiscìna, R 12712: «raso di Firenze, c., orbàci». Dal sic. carmuscinu ‘chermis carnezziere, SIM 2910: «lo c., il pescivendolo». Dal sic. carnizzèri ‘m carruggio, OO 7214: «carruggi, cortili». Dal sic. carruggiu ‘vicolo’. càscia, SIM 10530: «ossa càscie crozze»; cascia, R 1014: «piansi a singul ‘Cassa da morto’ nel primo caso, ‘petto’ (‘cassa toracica’) nel secondo. casèna, R 6415: «– Qua, per intanto, nella mia c.». Sic. ‘Piccolo arma cassariota, R 1023: «magàra, cassariota». Sic. ‘Donna di malaffa catanonno, NCC 4228: «Saliba la catanonna». Sic. ‘Bisnonno’. catarratto, R 1205 : «vino d’inzòlia e c.». Dal sic. catarrattu ‘uva da mosto’. cato, FA 325: «correvo col c. alla fontana»; SIM 11012: «cati e lemmi»; R 321 : «nel concavo del c.»; NCC 383 : «l’immenso d panmerid.). ‘Secchio’. catoio, FA 6823: «la fila di catoi e magazzeni»; SIM 1064 : «pozzo, sarcofago o c.»; NCC 519: «spenti 25 OBLIO II, 5 catoi melanconici»; OO 918: «dammusi, catoi murati». Dal sic. catuju o catoju ‘stanza sotterranea o grottesco, logorò le lettere». 127: «si mutavano in carbone, c.». Dal sic. cinisa . ciràulu ‘imbroglione’. r di : «col suono sordo delle lor cianciàne»; NCC 1711: «tintinnar di a pesca’. ‘rana’. arùni ‘tazzone’. ie sotterranee, ai dammusi ell’impasto. Fanghìa principiando a caso». Dal racotta’. fardali ‘grembiale’. Dal sic. fezzaru a e ssa ad asciugare in ambiente arieggiato» (http://www.divinocibo.it/cibo/301/ficazza-dito!»; NCC 12918: «– Che culo, ’sto g., ’sto CC »; gèbbia, OO 2421: «Tra sènie e gèbbie». Sic. ‘Cisterna per conservare terrena’, ‘stambugio’. catùso, SIM 11811: «pioggia di secoli che, cadendo a perpendicolo da c. Dal sic. catùsu ‘grondaia’, ‘canaletta per lo sfogo delle acque piovane’. cenisa, R 7229: «il crine sciolto o di c. sparso»; OO 4 ‘carbonella’ (cfr. il nap. cenisa ‘cenere’). ‘Cenere’. ceraolo, R 1024: «quella ceraola, quella vecchia bagascia». Dal sic chianca, NCC 10722: «forni, chianche, saloni». Sic. ‘Macelleria’. cianciana, FA 982 : «parte con un balzo tra lo scroscio di cianciane»; SIM 8621: «allegro tintinna ciancianelle»; cianciàna, R 168 ciancianelle». Sic. ‘Sonaglio’. cianciòlo, SIM 7913: «stendevano il c. sulla ghiaia». Dal sic. cianciuòlu ‘rete d ciarana, FA 11432: «i granchi e le ciarane». Dal sic. ciranna o cirana cicarone, SIM 11918: «scifi e cicaroni». Dal sic. cic cinìsa, SIM 10532: «c., bragia e tizzi». Cfr. cenisa. cinisia, FA 13133: «la brace accesa sotto la c.». Cfr. cenisa. ciònnolo, FA 13130: «– Ciònnoli e muletti». Dal sic. ciùnnuli ‘ornamenti’. cisca, R 6325: «le cische con il latte». Dal sic. çisca ‘secchia da mungere’. criato, SIM 826: «il c. era appena giunto». Dal sic. criatu ‘domestico’, ‘inserviente’. crozza, FA 11514: «la c. bianca e gli ossi in croce»; SIM 10531: cfr. càscia. Sic. ‘Teschio’. dammuso, FA 732 : «La conca s’appende nel d.»; NCC 321 : «alle galler murati»; OO 918: cfr. catoio. Dal sic. dammùsu ‘stanza a pianterreno’. fanghiare, NCC 1568 : «È il momento dell’acqua e d sic. fanghïari ‘vangare’. ‘Mescolare con una pala’. fangotto, NCC 15523: «Dal fango nasce ogni f.». Dal sic. fangottu ‘piatto di ter fanniente (don), NCC 1676 : «– sti don f.». Dal sic. don fannenti ‘fannullone’. fardale, FA 9226: «le mani […] nascoste nel f.». Dal sic. fezza, SIM 10633: «fezze, sughi, chiazze». Sic. ‘Feccia’. fezzaro, NCC 1049 : «l’olio d’inferno che prendevano i fezzari pel sapone». ‘raccoglitore di feccia d’olio per farne sapone o combustibile da lampada’. ficazza, SIM 315 : cfr. buzzonaglia. Sic. «Insaccato di carne di tonno tritata, salata e fortemente pepata’ (S. C. Trovato, Lessico settoriale, regionale e traduzione. A proposito del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, Atti del Convegno su L’Italia dei dialetti, a cura di Gianna Marcato, Sappada\Plodn, 27 giugno-1 luglio 2007, Padova, Unipress, 2008, pp. 403-411). «La ficazza viene preparata con la parte del tonno che, dopo la sfilettatura, resta attaccata alla lisca. Separata con cura, l carne del tonno viene poi macinata e condita con sale e pepe, ed insaccata nel budello, proprio com un classico salame di carne. Dopo una pressatura che dura circa tre settimane, la ficazza di tonno viene me tonno/). frascarolo, NCC 1576 : «Giunge il f. dai boschi». Dal sic. frascarolu ‘chi raccoglie legna’. garruso, SIM 9412: «– Garrusello e figlio di g. allettera fascista!». Dal sic. garrùsu ‘pederasta’, ‘mascalzone’. gebbia, FA 2819: «Andammo fino alla g.»; R 8819: «la grande g. ove natavano pesci»; gébbia, N 134 : «i limi delle gébbie 26  l’acqua d’irrigazione’. gerbo, SIM 9314: «fiori gialli del ficodindia g.». Dal sic. gerbu ‘acerbo’, ‘non maturo’. 127: «le giummare dello Zingaro, gli eucalipti». Sic. ‘Foglia di cerfreglione’, ‘palma tipatico’. «la g. tonda smozzicata»; NCC 604: «guastelle di pane». Dal sic. guastedda uscolò per tutto il corpo». Dal sic. ammusculari o mmusculari Peppe, ostia, mi pare che qua l’i. ci pigliammo!». Dal sic. mprusatura a Piluchera con cui s’era intrezzato fortemente». ‘tribolare’. rtara». Dal sic. lemmu ‘catino’, ‘secchio’, ‘vaso di are’, ‘allegare’, ‘passare dallo stato di o, a il l.». Dal sic. lupunariu ‘licantropo’. cotta smaltata’. . ana ‘dolce di «mascarata di fuoco e di oro». Dal sic. mascaratu ‘persona vestita in maschera tasi corre impazzita»; R 1229: «la m. poi in quel budello». Dal gilecco, NCC 5818: «il g. di fustagno». Dal sic. ggileccu ‘panciotto’. giummara, R 10116: «il seccume di spighe e di giummare»; NCC 722 : «verde di ficodindia g. euforbia»; OO 4 nana’, ‘agave’. grevio, R 4111: «il prete g., untuoso». Dal sic. greviu ‘grave’, ‘pesante’, ‘an guaiana, SIM 9215: «cogliere la g. della fava». Dal sic. vaiana ‘baccello’. guastella, SIM 2826: ‘specie di focaccia’. guglielma, FA 1431: «tirò fuori il pettinino e si rifece la g.». Sic. ‘Ciuffo’. immuscolarsi, NCC 776 : «s’imm ‘aggrovigliarsi’, ‘attorcigliarsi’. improsatura, FA 4019: «– Don ‘bidone’, ‘inganno’, ‘raggiro’. intinagliare, R 13129: «perciavano, intinagliavano». Dal sic. ntinagghiari ‘attanagliare’. intrezzarsi, NCC 13513: «Petro fumava nel letto dell Dal sic. ntrizzari ‘intrecciare’, ‘legare strettamente’. jisso, SIM 11836: «le pareti […] levigate a malta, j.». Dal sic. jissu ‘gesso’. lampiare, FA 7927: «lampiò un orologio d’oro». Dal sic. lampïari ‘lampeggiare’, ‘scintillare’. làstima, SIM 4234: «– Scrive in particolare delle làstime e delle sofferenze». Sic. ‘Lamento’. lastimare, SIM 884 : «– Animo, Sirna, finimmo il l.!». Dal sic. lastimari ‘lamentarsi’, lattume, SIM 316 : cfr. buzzonaglia. Dal sic. lattumi ‘ghiandola seminale del tonno’. lemmo, FA 639 : «i piatti dentro il l.»; SIM 932: «piatti lemmi e mafaràte»; R 778 : «– […] un l. pieno d’acqua»; NCC 15524: «mafàra l. bòmbolo qua terracotta smaltata a forma di tronco di cono’. liare, R 913: «Lia che m’ha liato la vita». Dal sic. lïari ‘matur fiore a quello di frutto’; ma anche denominale da (Rosa)lia. lippo, R 919: «l. dell’alma mia»; OO 9222: «grommi, lippi». Dal sic. lippu ‘sporcizia’, ‘untume’. luponario, FA 6413: «irruppe nella stanza come un l.»; R 1915: «balzai all’impiedi come un ossess un l.»; NCC 71 : «Di là della tonnara muoveva or mafàra, NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Tappo’. mafaràta, SIM 932: cfr. lemmo. Sic. ‘Grande piatto concavo di terra magàra, R 1023: cfr. cassarioto. Sic. ‘Megera’, ‘donna immorale’. malannata, FA 3227: «scampati a sette malannate». Sic. ‘Anno di carestia, di cattivo raccolto’. male catubbo, NCC 1011: «– […] ti salvi dal male mio c.». Dal sic. mali catubbu ‘mal caduco’. marranzano, SIM 8621: «basso mormorar di marranzani». Dal sic. marranzanu ‘scacciapensieri’ martorana (pasta), R 1012: «pasta m. fatta carne». Dal sic. pasta (o frutta) martur mandorla in forma di frutta varia, confezionato specialmente nel mese d’ottobre’. mascarato, FA 907 : con colori vistosi’. mascata, FA 112 : «pacche e mascate». Sic. ‘Schiaffo’. massacanaglia, FA 432: «La m. dei bas 27  sic. mazzacanàgghia ‘orda’, ‘branco’. matre, FA 798 : «patre e m.»; R 1421: «e la matrazza a dire». Dal sic. maṭṛi ‘madre’. Mammella’. llo mozzo’. e dei nipoti’. pet ; nutrico, NCC 8723: «come un n. che non si oglitori correvano col p.»; NCC 10316: «mettere nel p. le giarraffe». Sic. (e era’. al sic. pasturìa ‘pane di Pasqua con uova sode’. perciato dalle stelle»; OO 8821: «La Mastra Rua era perciata da CC 1414: «la vera p., da sempre di casa in casa a fare crocchie». Sic. ‘Parrucchiera a ] una saccoccia di rena asciutta dalla p.»; SIM 795 : «E s’udivano i rumori sulla a a la p.»; SIM 1311: «fermarsi a la p.»; NCC 1364 : «davanti alla p.». Dal sic. FA 731 : «Primavera prescialora che non lascia di dire è cominciata». Dal sic. prescialòru che’. ola brocca’. 1722: «– […] marmi policromi, a mischio, r. e tramischio». Dal sic. rrabbiscu fiore a r. sopra l’albero». Dal sic. a rringu ‘a occhio’. ‘Senza l’aiuto ddi rrizza menna, FA 531: «gonfiano le menne». Sic. (e panmerid.). ‘ mèusa, R 1511: «mèuse, arrosti di stigliole». Sic. ‘Milza’. mozzone, SIM 10736: «quartarella o m.». Dal sic. muzzuni ‘brocca di terracotta dal co nipotanza, SIM 728 : «figlioli e nipotanze». Dal sic. niputanza ‘l’insiem nascare, SIM 9321: «nascando in aria». Dal sic. naschïari ‘annusare’. nucàtolo, SIM 197 : «biscotti […], nucàtoli». Dal sic. nucàtulu ‘dolce natalizio’. nutrìco, SIM 831: «– […] attaccato al to come un n.?» stacca dal latte nella poppa». Dal sic. nuṭṛìcu ‘lattante’. ortilizio, SIM 1526: «produzioni ortilizie». Dal sic. ortilìzziu o ortalìzziu ‘coltura ortiva’. panaro, FA 13630: «i c panmerid.). ‘Paniere’. panzéra, FA 9434: «una larga cintura di cuoio come una p.». Sic. (e panmerid.). ‘Panc paràngolo, SIM 7913: «dipanavano il p.». Dal sic. paràngulu ‘attrezzo per la pesca’. paranzo, R 12417: «il carraio ci procurò un p.». Dal sic. paranzu ‘tipo di imbarcazione’. pastorìa, FA 1063 : «un mostacciolo, poi na p.». D patre, FA 798 : cfr. matre. Dal sic. paṭṛi ‘padre’. perciare, SIM 8011: «l’orecchino di metallo che gli perciava il lobo»; R 13129: «polivano, perciavano»; NCC 13922: «il cielo rocchi». Dal sic. pirciari ‘forare’. piluchera, N domicilio’. pirrera, NCC 1564 : «Va nella p., nei cunicoli». Sic. ‘Cava’, ‘pietraia’. plaia, FA 2934: «– [… p.». Sic. ‘Spiaggia’. portiniere, FA 10719: «suora portiniera». Dal sic. purtinèri ‘portiere’, ‘guardiano’. potìa, FA 1335 : «la bevut putìa ‘osteria’. prescialoro, ‘frettoloso’. puranco, R 2921: «p. la famiglia di Fauno […] si è pietrificata». Dal sic. puranchi ‘an quartara, SIM 10736: cfr. mozzone; NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Picc ràbato, OO 1294 : «di mercati, di ràbati». Dal sic. ràbbatu ‘sobborgo’. rabisco, SIM ‘arabesco’. ràiso, SIM 1034: «Palermo rossa, ràisa, palmosa». Dal sic. rràisi ‘capo, chi comanda, dirige o guida’. ringo (a), FA 7512: «si compra il di strumenti di misura appositi’. rizza, SIM 3234: «riparare rizzelle e nasse». Sic. ‘Rete da pesca’. rizzo, FA 727: «fanno la pelle rizza»; SIM 3627: «Nel porto fatto r. per il vento». Dal sic. pe ‘pelle d’oca’ nel primo caso; ‘increspato’ nel secondo (in riferimento all’acqua del porto). 28 ròtola, R 693 : «rompendo la cagliata con la r.»; NCC 7111: «tra cazza r. fiscelle». Dal sic. rròtula cagliata durante la 0510: «e tiravano innanti a santioni». : «Nell tro l’altro». Sic. (e panmerid.). ‘Piccone’, cutulari . S.»; OO 2421: cfr. gèbbia. 2 e sipale». Sic. e’, solitudine’. av . tabbùtu ‘cassa un barbecue’. ‘bastone con all’estremità inferiore un dischetto di legno, usato per frantumare la lavorazione del formaggio’. 29 rua, R 133 : «passeggiare nella r.». Sic. rua ‘vicolo nel paese, rione, vicinato’. santiare, SIM 8726: «sputi, lazzi, turco s.». Dal sic. santïari ‘bestemmiare’. santione, FA 348 : «Ma era un’abitudine, come i santioni»; SIM 1 Dal sic. santiuni ‘bestemmia’. 35 sardisco, SIM 66 : «ragli di s.». Dal sic. sardiscu ‘asino sardo’. 9 scapozzatore, OO 138 : «scapozzatori di gamberi». Dal sic. scapuzzaturi ‘chi leva la testa ai pesci’. scattìo, FA 12429 o s. del caldo delle due». Dal sic. scattìu ‘l’ora più assolata’. scecco, SIM 10433: «scecchi in groppa»; R 1319: «– […] carico come uno s. di Pantelleria». Dal sic. sceccu ‘asino’. sciamarra, SIM 854 : «dava forte con la sua s., un colpo die ‘vanga’. 17 sciarmère, R 53 : «sciarmèri e questuanti». Sic. ‘Mago’. sciume, R 472 : «sciumi trasparenti». Dal sic. çiumi ‘fiume’. scognito, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute»; NCC 15514: «Altra gente scognita». Dal sic. scògnitu ‘sconosciuto’. scotolare, NCC 571 : «un colpo secco di mortaro che scotolò la terra». Dal sic. (e panmerid.) s ‘scuotere’. scrèpia, R 13717: «roselline della s.»; NCC 1205 : «la s. e la menta». Sic. ‘Fior di cera (pianta rampicante delle Asclepiadacee)’. sènia, SIM 8528: «cigolar di secchia della s.»; NCC 3825: «Terra. Pietra Sic. ‘Specie di noria’. sgrigna, FA 56 0 : «tirava sgrigne soffocate». Sic. ‘Ghigno’, ‘ringhio’. sipàla, SIM 9314: «faceva capolino una s.»; sipala, NCC 4624: «il muro la torre l ‘Siepe’. smandare, FA 617: «smandò quei due a casa». Dal sic. smannari ‘allontanare’. smorfiarsi, FA 10421: «Smorfiandosi tutta sulle scarpe alte». Dal sic. smurfïàrisi ‘fare smorfi ‘gongolare’, ‘fare lo smorfioso’. 24 solità, SIM 67 : «– S. e privazioni gli hanno fottuto la ragione». Dal sic. sulità ‘ 1 sosizza, R 95 : «sosizze, fellata, soppressata». Sic. ‘Salsiccia’. 7 spanto, FA 98 : «non c’era s. poi che s’affacciava». Dal sic. spantu ‘spavento’. 27 spetittato, SIM 43 : «s., non ha voglia di niente». Dal sic. spitittàtu ‘inappetente’. sticchio, SIM 5910: «per paura di s. romito e santo». Dal sic. stìcchiu ‘vulva’. stracangiare, FA 222 : «tutto stracangiato»; SIM 6219: «– Ha stracangiato l’acqua nell’aceto!»; NCC 7822: «si ritrov a stracangiato». Dal sic. ṣṭṛacangiari (ṣṭṛacanciari) ‘trasformare’. tabuto, FA 2127: «Tano era vicino al t.»; SIM 6434: «un t. di tavole bianche». Dal sic da morto’. 31 tallarida, SIM 64 : «volo di tallaride tra colonne». Dal sic. taddarìta ‘pipistrello’. 4 tangeloso, NCC 135 : «tempo t. dell’infanzia». Dal sic. tangilùsu ‘fragile’, ‘delicato’. 17 tannura, NCC 106 : «sventagliava nel buco della t.». Sic. ‘Fornello simile a taratuffolo, NCC 603 : «funghi taratuffoli». Dal sic. taratùffulu ‘tartufo’. 29  30 rida. 857 : «pane t. e acqua»; NCC 7117: «un pane duro e un pezzo di t.». Dal sic. tumazzu , NCC 16417: «discese alla t.»; OO 514 : tre’. 13: «il v. che saliva serpeggiando»; OO in cima agli spuntoni del recinto dello z.». Dal sic. zàccanu ‘luogo dove si a palma nana’. zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’. tarderita, NCC 474 : «volo avvolgente delle tarderite». Variante di talla timpa, SIM 9213: «deviavano ogni tanto s’una t.». Sic. ‘Erta scoscesa’. tinchitè (a), R 15113: «cibarie sopraffine a t.». Sic. ‘A profusione’, ‘senza limite’. tomazzo, SIM ‘formaggio’. travagliare, FA 1292 : «– […] se ne vanno a t.». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’. trazzèra, SIM 6231: «– Sulla t. ebbe la visione»; trazzera «vanno per viottole, trazzere». Sic. ‘Sentiero campes trìscia, R 10914: «poseidonie e trìscie». Sic. ‘Alga’. truscia, SIM 877 : «raccolse la t.». Sic. ‘Fagotto’, ‘pacco con la colazione’. tuma, R 6327: «una forma di t. o fresco pecorino». Sic. ‘Cacio fresco non salato’. vèrtola, NCC 5821: «mise nelle vèrtole […] i caciocavalli». Sic. (e panmerid.). ‘Bisaccia’. viòlo, SIM 878 : «a precipizio giù per il v.»; violo, NCC 10 9216: «Scese la brigata per il v.». Dal sic. viòlu ‘viottolo’. vròccolo, NCC 1197 : «cardi vròccoli finocchi». Dal sic. vruòcculu ‘broccolo’, ‘cavolfiore’. zàccano, NCC 5718: « ricoverano le bestie’. zafarano, R 956 : «odor di z.». Dal sic. zafaranu ‘zafferano’. zammara, FA 5934: «buttarsi dietro un piede di z.». Dal sic. zzammàra ‘foglia dell zammù, SIM 1313: «una spruzzatina di z.»; NCC 1319: «acqua e z.». Sic. ‘Anice’
zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’.
Oblio Roma 15 gennaio 2012

«Noi siàn le triste penne isbigotite».


*
«Noi siàn le triste penne isbigotite».
Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo.

di Claudia Minerva

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»

Con l’eccezione di pochissimi interpreti, in linea di massima la critica ricorre ad una approssimazione per definire Lo Spasimo di Palermo (1998) di Vincenzo Consolo: perlopiù schivando il termine ‘romanzo’ (e Consolo ormai dichiarava il genere invilito e impraticabile), chiama questo oggetto letterario per nome (lo Spasimo) oppure nelle varianti di ‘opera’, ‘libro’, ‘testo; e lo dice ‘vicino alla poesia’, o ‘vicino ai silenzi della poesia’, agli ‘approdi della lirica’, avvalendosi di simili locuzioni, tutte versatili e debitamente laconiche, e apertissime alle inferenze del lettore. Espressioni insomma vagamente oracolari, concise e scontornanti insieme: che additano ad uno scarto rispetto ai libri precedenti dell’autore, e forse accennano (ma assai in aenigmate) a uno scavalcamento dei dominî specifici di prosa e poesia e allo squilibrio netto della narrazione in direzione di quest’ultima; ma perifrasi che pure – e anche quando non siano diventate formule abusate (come accade), o maniera collaudata per sbrigarsi da un’impasse, non soltanto classificatoria – pure sembrano aggirarsi, tra allarmate e reticenti, intorno a un nucleo di non detto.
Perché certo è reale la dilagata ‘verticalità’ della scrittura consoliana, la sua innegabilmente cresciuta e fortissima contiguità alla lirica; ma dacché poi sempre poetica è stata la pagina dello scrittore siciliano – cadenzata, assonanzata, rimata; e gremita di echi letterari, colta, rara, di lingua incantata – a voler marcare le differenze rispetto al passato bisognerà mettere da parte la retorica e puntare piuttosto al rasciugamento della lingua e all’accentuarsi della contrazione testuale (della ritrazione autoriale); e dunque al modo ampiamente scorciato ed ellittico, allo ‘spasimo’, che è del periodo e del racconto.

Il mutamento, tuttavia, era annunciato. A guardare indietro, gli indizi stavano nell’acuirsi di un disagio peculiare in Consolo: se vogliamo in una sorta di insicurezza, una perenne quasi scontentezza delle strade già percorse, spesso anche ritentate, ma poi dismesse, accantonate; e in una crescente palpabile desolazione, nella fatica strana della penna. Le avvisaglie erano nei lunghi intervalli tra i libri tutto sommato pochi di questo autore che disperatamente e attardatamente ancora, nel pianeta ignorante e immorale, nel mercimonio globale, si ostinava a voltare le spalle al mercato e a voler fare Letteratura, a voler essere artista e scrittore ‘impegnato’, ‘civile’: un affabulatore, un incantatore, epperò al tempo stesso l’intellettuale utile ad arginare, curare, denunciare: magari a prevenire e a impedire il dolore del mondo, come insegnava una bellissima utopia di Vittorini. Le tracce si leggono nel succedersi dei testi: distanti uno dall’altro non solo cronologicamente, ma veramente poi ognuno a suo modo, nella lingua e nello stile: ogni volta a riprovare la forza della scrittura per piccoli aggiustamenti o inversioni di rotta o a furia di rimaneggiamenti; e con esiti più o meno felici, opachi o splendidi, ma forse, al fondo, con sempre meno entusiasmo. E stanno, le tracce, in una oscillazione tra due poli, nell’opzione combattuta – d’un tratto nettamente divaricata e poi stranamente mischiata, impazzita o violentemente turbata – tra ‘scrivere’ e ‘narrare’, tra certe punte aride, cronachistiche, e un progressivo spostarsi o arroccarsi nella zona della ‘espressione’. E vogliamo dire che il mutamento è andato al passo con l’approfondirsi di una riflessione (o di uno scoramento) che ha una radice antica, se è vero, come sembra a noi, che è dallo squieto interrogarsi del Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), dall’assillo della ‘scrittura-impostura’ (ornamento, fiore bizantino, e comunque voce di secondo grado sempre: sempre finzione), se da quel tarlo discende il «rimorso» dello Spasimo. Un «rimorso» che Consolo ha affrontato per gradi, da Catarsi (1989) e Nottetempo casa per casa (1992); e poi ha scandito in due tempi, nell’Olivo e l’olivastro (1994) e qui, nel testo ultimo. Ci ha messo due libri per dircelo o per dirlo a se stesso, e lo ha fatto senza più volute e riccioli e sontuosità barocche, togliendosi la cifra così sua e spettacolare di fasto e di vertigine, elidendo la bellezza. E non perché lo Spasimo non sia bello, al contrario. Ma se nessuno dei testi di Consolo è facile, più degli altri è difficile questo: che porta il nome di un quadro della Passione, di una chiesa votata alla rovina, di un affanno che tortura, di «uno scatto di tendini e nervi» per «allucinato dolore»[1], e che come un dolore è difficile; come la dichiarazione di una colpa, come la confessione di un fallimento, è faticoso.
E davanti a questa scrittura quasi impossibile da realizzare e da sopportare – tutta a risalti e rilievi di pena, terremotata nella sintassi, smagrita nella lingua e nelle immagini, e tenace nella volontà di tormentare se stessa – chiudere la vicenda e frettolosamente siglarla con l’apparentamento spesso meccanicamente ripetuto con la lirica e i suoi «ardui approdi» o i suoi «silenzi», è quasi un non voler guardare, pare il tentativo di aggirare e di scansare il silenzio verso cui davvero Consolo si è mosso (e quanti ‘addii’ ci sono in questo libro?). La storia poi è sempre uguale. Sembra, come davanti al Tramonto della luna di Leopardi, di trovarsi di fronte a un eguale imbarazzo della critica, al non voler prendere atto – allora come adesso – di una messa in liquidazione.

Quando troppo sbrigativamente si afferma che la pagina di Consolo s’è fatta più vicina ai silenzi della poesia, l’impressione è che più sotto ci sia una questione semplicissima ma essenziale di cui si tace, quella di una scrittura che non vuole più incantare. Dov’è infatti la lingua che gremiva ed affollava Lunaria (1985), la «parola suavissima», la «notte di Palermo» («Nutta, nuce, melània / […] deh dura perdura, […] non porgere il tuo cuore / alla lama crudele dell’Aurora»; LUN, 13-14)? Che fine ha fatto la Luna?
Era «lucore», «faro nittinno», «fiore albicolante», la Luna: e cadeva, certo, nel sogno di un malinconico Viceré, come in un sogno famoso di Leopardi (Frammento XXXVII); e veramente pioveva giù dal cielo, lentamente in garze si sfaldava, spariva, moriva, lasciava in alto solo vacuo nero, vuoto. Ma poi dopo, in una Contrada senza nome, in un luogo che aveva conservato le parole antiche, la memoria, magicamente si ricomponeva, bianchissima risorgeva; e favolosamente rifaceva il sipario della quiete, l’inganno del cuore, la malìa, il «sogno che lenisce e che consola», la Poesia.
Per i poeti è un indicatore importante la Luna. Che pure nello Spasimo compare, però fugacemente, e per tre volte. La prima, in una rammemorazione, un idillio accennato e appena bruttato del tempo dell’infanzia. Lei piena ed aprilina splende, e la luce e la sua bellezza spande sopra il mare, il paese, i pesci che vengono a galla affatturati; e sopra un corpo massacrato, un morto ammazzato (SP, 15)[2]:

Era luna lucente in quell’aprile, gravida, incombente, notte di soste per anciove e sarde, di barche  sui parati, di lampare spente, e conche d’ombra ai platani, alle palme. Urlavano donne in cerchio sulla piazza, alzavano le braccia. Era al centro il corpo steso e morto del Muto che pittava sulle prore sirene draghi occhi apotropaici. Il sangue cagliava e s’anneriva torno alla testa disgranata e pesta, al torso, al ventre.

È soltanto un momento, forse istintivamente canonico (ricorda un modo montaliano, o intimamente leopardiano : «E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / Candida luna, sorgi […]»): una rapida incarnazione dell’indifferenza – e però c’è quasi una malignità sottesa in quel suo incombere di «gravida», che ce la mostra sovrastante, alta, e minacciosa di cascarci addosso, tutta peso.
Più inquietante è la seconda messa in scena lunare, con il protagonista dello Spasimo che si aggira tra i barboni di Milano, ma il luogo potrebbe essere una qualsiasi metropoli con la sua risacca di rifiuti e di degrado, col suo moderno paesaggio di rovine (SP, 70-71):

Stanno nel tempo loro, nell’immota notte […]. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue che in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro […]. La luna imbianca groppe, balze, il gioco delle mante. Da dove giungono questi pellegrini, quale giorno li vide camminare, eludere dogane, quale raggio scoprì crepe, frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, i segni bassi della differenza? Sono gli stanziali dei margini, le sentinelle della voragine […], il segno dello squilibrio ingiusto, del cieco brulichio, dell’ottusa prepotenza. La terrosa schiera, il canto o il silenzio delle rotte senza approdo.

Non ha sempre questa tonalità cupa lo Spasimo, questo colore impastato e vischioso, agglutinato nell’allucinazione: il brano è il rimaneggiamento di un testo composto per un catalogo d’arte, nel 1995[3]; e la tecnica del riuso (che sia recupero, tessitura, accostamento, incollaggio o inserimento spinto delle pagine già scritte, delle proprie vecchie, sparse e disparate cose) è una prassi di Consolo, pericolosamente frequente. Però torniamo alla Luna: Lei che
in un altro tempo era «virgilia», guida e «malofora celeste»; che lieve e greve, malinconica atra o candente, faceva germogliare le parole, leniva la pena, accendeva e affollava il teatro delle meraviglie. E invece adesso sta in un rigo ed è nome senza aggettivi: «imbianca groppe» – non schiene; «balze» – si dice di un rilievo topografico, una roccia, una collina, un cumulo di terra; «il gioco delle mante» di una statuaria desolante. È una cosa, questa luna: un trasudamento o un faro freddo; e pare un sudario, una mano spessa di calcina sopra una umanità cascante imbozzolata in stracci, tra teriomorfa e minerale.
La terza luna (SP, 98-9) sarà di nuovo un simbolo, e la ritroveremo più avanti; ma solamente in parte è quella antica. Perché alla fine è Lei (l’incanto, il sogno, la scrittura) il rimorso di Consolo.

Per fare chiarezza sugli elementi di novità dello Spasimo, proviamo a mettere a confronto due momenti della scrittura dell’autore, gli estremi temporali di una ‘controstoria’ d’Italia costituita da testi autonomi e scandita per epoche di crisi – segnatamente il nodo dell’Unificazione nel Sorriso dell’ignoto marinaio, gli anni dell’avvento del fascismo in Nottetempo casa per casa, e con Lo Spasimo di Palermo quelli dal dopoguerra fino ai giorni nostri, ai giudici ammazzati con le bombe. Specificando che la presenza decrescente di aulicismi e arcaicismi dipende dalla collocazione cronologica delle vicende narrate (dall’età del Risorgimento all’epoca attuale), e sottolineando che i nostri prelievi saranno necessariamente indicativi e non esaustivi, guardiamo dunque al Sorriso, che non è il primo libro dell’autore siciliano ma il testo in cui si palesa la sua cifra stilistica gremita e riconoscibilissima; e quindi allo Spasimo, che della trilogia sta a conclusione. Ne vengon fuori due lingue qualitativamente differenti (una vorticosa, l’altra indurita e come rastremata) e l’esistenza di due diversi tipi o gradi di complessità:

Parlai nel preambolo di sopra d’una memoria mia sopra i fatti, d’una narrazione che più e più volte in tutti questi giorni mi studiai redigere, sottraendo l’ore al sonno, al riposo, e sempre m’è caduta la penna dalla mano, per l’incapacità scopertami a trovare l’avvio, il timbro e il tono, e le parole e la disposizione d’esse per poter trattare quegli avvenimenti, e l’imbarazzo e la vergogna poi che dentro mi crescean a concepire un ordine, una forma, i confini d’un tempo e d’uno spazio, a contenere quell’esplosione, quella fulminea tromba, quel vortice tremendo; e le radici, ancora, le ragioni, il murmure profondo, lontanissimo da cui discendea? (SIM, 125)

Sùbito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole, quelle vaghissime di forma e di colore della classe Univalvi Turbinati e specie Orecchiuto o Bùccina o Galeriforme, Flauto o Corno, Umbilicato o Scaragol, Nicchio, d’una di quelle in somma vulgo Brogna, Tritone perciato d’in sull’apice, che i pescatori suonano per allettare i pesci o richiamarsi nel vasto della notte mare, per cui antique alcuni eran detti Conchiliari o Conchiti, onde Plauto: Salvete fures maritimi Conchitae, atque Namiotae, famelica hominum natio, quid agitis? E Virgilio … Ma che dico? Di echi parlavamo. (SIM, 142- 43)

Il primo prelievo è un campione di mìmesi linguistica accusata con posposizione del possessivo, soppressione di preposizione, elisione di articoli e preposizioni, enclisi, imperfetto debole in –ea, troncamento, e terna anaforica battuta sul deittico (quel /quella); il secondo è un esempio di fascinazione, una piccola cavata elencatoria nel ‘barocco’ di Consolo: un periodo che si slarga e si gonfia, che lievita e si espande; e che parrebbe poter continuare a crescere su se stesso divagando ad libitum, o svolgendosi in volute, a spirale, per tortili virate. Che sia assedio o amore di vertigine (o entrambe le cose), si direbbe che la frase sogna: per incidentali, relative, similitudini e apposizioni.
Questo invece è Consolo adesso, questo è lo Spasimo (SP, 25):

Nella libera vita, elusione di regole e castighi, nel crollo d’abitudini e costumi, rimescolio di stati, cadute di ritegni, privo d’imposizioni e di paure, della voce, dello sguardo che ordina e minaccia, solo con Aurelia, Chino visse, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio, il tempo suo più avventuroso.

Nel libro lo scrittore impiega pressoché esclusivamente il punto e la virgola[4]: una interpunzione che spesso, o come qui, obbliga alla rilettura, dacché per comprendere il testo occorre trovarne il ritmo e la cadenza. Che non sono affatto intuitivi, ma sono questi:

Nella libera vita, [elusione di regole e castighi,] nel crollo d’abitudini e costumi, [rimescolio di stati, cadute di ritegni,] privo d’imposizioni e di paure, [della voce, dello sguardo che ordina e minaccia,] solo con Aurelia, Chino visse[, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio,] il tempo suo più avventuroso.

Solo rileggendo, insomma, riusciamo ad impostare la voce, ad abbassare la curva intonativa accordandola al senso dell’apposizione, del non altrimenti segnalato inciso, della parentetica. E si guardi alla costruzione peculiare del brano riportato sotto (SP, 24), al disorientante paritetico allinearsi dei membri di una sintassi tra accidentata e scomposta; e al rallentamento musicale prodotto da punteggiatura e ripetizioni – e qui veramente, con una impostazione grafica diversa, semplicemente andando a capo ad ogni virgola, diremmo che si tratta di una poesia:

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

È una sorta di procedimento (sklovskiano) della ‘forma oscura’: vale ad aumentare la durata della percezione di un oggetto (uno scritto, una musica, una tela), quindi ad accrescerne la permanenza e l’impressione nella memoria rendendone impegnativa la decrittazione, impervia la comprensione. E può essere che Consolo ci stia sfidando con la difficoltà del testo, che voglia costringerci a restare su ogni pagina e a rileggerla finché non la teniamo a mente (nella memoria, appunto): finché sappiamo recitarla sentendoci dentro le pause, gli scatti, la curva della sua voce (della sua pena). Ma pure è forte il sospetto che Consolo dal lettore abbia già preso le distanze, e stia parlando con se stesso. E che la linea faticosa e ‘spezzata’ della scrittura sia un esteso correlativo oggettivo, o come la traccia di un cardiogramma, la mimesi di uno spasimo che si torce nella penna e spezza la voce, e che in tutto il libro sgrana e frantuma la fabula e il discorso. Perché questo non è il passo disteso di un narratore, non c’è mai quell’agio; e lo annunciava, in    esergo del testo, il Prometeo eschileo :
«Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» – che significa: ogni cosa mi fa male, parlare o tacere; lo si voglia riferire alla persona dell’autore o al protagonista del libro, Gioacchino Martinez.
Torniamo però al nostro confronto. Si potrebbe pensare, e in un certo senso è così, che prevalentemente semantica sia la difficoltà del Sorriso, nel quale, sebbene la narrazione non si svolga piana come in un romanzo tradizionale, resta maggiore la disponibilità al racconto; e che sintattica sia invece quella dello Spasimo, in cui la forma narrativa si contrae accentuando la tendenza a slogare un periodo solitamente paratattico che avanza come a gomiti, veramente si allarga a spigoli, slontanando soggetto verbo e oggetto (normalmente invertendo in iperbato l’ordo naturalis) a mezzo di colate appositive. Ma si tratterebbe appunto di una verità parziale, poiché la complessità sintattica è anche un fatto, per quanto non il prevalente, del Sorriso (SIM, 143-144):

Prendemmo a camminare in giro declinando. Sul pavimento a ciottoli impetrato ricoverti da scivoloso musco e da licheni, tra le pareti e la volta del cunicolo levigate a malta, jisso, a tratti come spalmate di madreperla pesta, pasta di vetro, vernice d’India o lacca, lustre come porcellane della Cina, porpora in sulle labbra, sfumante in dentro verso il rosa e il latte, a tratti gonfie e scalcinate per penetrazioni d’acqua, che dalla volta gocciola a cannolicchi càlcichi, deturpate da muffe brune e verdi, fiori di salnitro e capelvenere a cascate dalle crepe: luogo di delizie origine, rifugio di frescura pel principe e la corte lungo i tre giorni infocati di scirocco, come le cascatelle della Zisa, i laghi e i ruscelli a Maredolce, i giardini intricati di bergamotti e palme, le spalle a stelle di jasmino, trombette di datura e ricci d’iracò, le cube e le cubale dei califfi musulmani, o come le fantasie contorte d’acque sonanti e di verzure, di pietre e di conchiglie dell’architetto Ligorio Pirro pel Cardinale D’Este.
Tutto questo, addio […].

Introdotta da un periodo breve, fiorisce gigantesca su un imprendibile complemento di luogo la frase nominale che fra chiasmi, allitterazioni e paronomasìe procede in corsa, balza in avanti a cascata gonfiandosi di immagini, aprendo ovunque rivoli, spandendo i suoi tentacoli, ingoiando le cose e generandone poi altre, e inarrestabilmente gremendosi, affollandosi. Ma è un procedere, una estroversione: tagliata in barocco, certo; e al fondo e in superficie è ansia: attorcigliata, srotolata o esplosa, è sempre la solita danza su baratri e sbalanchi, una frenesia di copertura, la maschera sul vuoto: infine una modalità del tragico: un movimento disperato e affannoso, si sa, e incantatorio anche: sforzato e lanciato all’infinito come se questo dire-toccare-accumulare fosse prendere e fermare le infinite cose, o salvarle e salvarsi; però resta un movimento verso fuori. Non è quello introvertito dello Spasimo: del periodo che si sfonda o si incava, che si avvolge e rifà all’indietro la sua spira; e non ingoia  le cose, gli oggetti, il mondo, ma se stesso. Si ponga attenzione a questa ipotassi (SP, 52 – la messa in evidenza è nostra), alla parentetica che si dilata tra il soggetto (alla fine della frase)  e il suo complemento (all’inizio della proposizione):

Ma anche per lui, per il padre, che pure della sciagura voleva parlare al figlio, dire finalmente, spiegare, e ora che partiva, ritornava laggiù, nella sua isola, ora che dal figlio di più s’allontanava, da quel fuggiasco costretto nell’esilio, la presenza di Daniela era opportuna

Il prelievo, poco illuminante a livello contenutistico, è esemplare dell’andamento macroscopico del racconto.

Lo Spasimo è la storia di un viaggio dalla Sicilia alla Sicilia, via Parigi e Milano. Consolo narra in terza persona, perlomeno prevalentemente; ma sembra che parli di sé. Gioacchino Martinez è uno scrittore invecchiato che non scrive più perché alla propria scrittura non crede. È un padre che si accusa di non aver saputo salvare il figlio dal disastro di una ideologia manipolata, degenerata poi nella violenza degli ‘anni di piombo’; e a Parigi, nell’ennesimo viaggio verso quel figlio con cui non sa parlare e che poco gli parla, da una fotografia sulla parete di un albergo, inizia a ricordare: l’infanzia sull’isola, lo sbarco degli americani nel ’43, il rifugio suo di bambino: il «marabutto», il posto per starsene lontano, col mondo tutto fuori, a immaginare; e il padre lì viene ammazzato dai tedeschi, e forse per colpa di Gioacchino. E ricorda, Martinez, l’amore per la sposa luminosa e fragile, Lucia; la casa di Palermo con lei e il figlio: l’oasi di una vita chiusa tra gli affetti e la scrittura, nel riparo di quelle mura, difesa dal bellissimo giardino; e poi le piante scerpate e avvelenate, la mafia che con le bombe si prende quella terra per lucrare sul cemento e i condominî; e quindi la fuga dalla Sicilia, il viaggio verso Milano pensata umana e civile ma in breve divenuta un altro luogo di terrore e spari, e poi, craxiana, fatta teatro di ogni mercimonio,  della volgarità più oscena. E dopo, l’impazzire e il morire di Lucia, il figlio accusato di terrorismo che si rifugia in Francia, i tanti viaggi tra Parigi e Milano; e prosegue la storia fino al ritorno di Gioacchino a una Palermo incancrenita, dove lo scrittore muore, salta per aria nell’attentato a un giudice che assomiglia a Borsellino. Questa, per amplissime linee, la vicenda del libro.
Ma non sappiamo dire, con la straordinaria sicurezza che pure è di qualche interprete, che ‘equivocheremmo’ qualora sovrapponessimo le voci e le figure, se insomma scambiassimo l’afasia di Martinez per una possibile (o temibile) afasia di Consolo[5]. Perché in realtà ci pare che sia proprio di Consolo il rifiuto o l’impossibilità di scrivere del tragico protagonista dello Spasimo – una impossibilità che, per questa critica lontana dal dubbio, varrebbe a registrare «un dato antropologico e sociale» nella generalissima questione (almeno così capiamo noi) del senso della funzione intellettuale oggi.
Certo non intendiamo appiattire lo Spasimo alla dimensione esistenziale dell’autore: la separazione tra l’io che vive e l’io che scrive c’è sempre, innegabilmente; e la finzione, l’invenzione, è la condizione di qualunque narrazione, anche autobiografica. Ma pure se non sapessimo nulla di Consolo, anche se non riconoscessimo opaca in queste pagine un’esperienza sua reale, comunque, davanti all’opera che mette in scena uno scrittore che dichiara l’impasse, e con fatica e con durezza ogni volta torna sul proprio fallimento, che le proprie parole sente false e della propria scrittura recita il mea culpa – non potremmo non pensare che chiunque sia l’autore, in qualche modo stia parlando di sé, del suo rapporto con la Letteratura. E a maggior ragione nello Spasimo, che di tutti i testi di Consolo è veramente il più ‘sovrascritto’ dacché qui la «metrica della memoria» – lo sfondarsi della pagina e il precipitare suo in verticale per il sovrappiù di senso di cui la caricano le voci della Letteratura (e sono tante: Omero, Dante, Cervantes, Tasso, Manzoni, Leopardi, Verga, T.S. Eliot, Vittorini, Montale) – è anche e principalmente memoria fortissima di sé, dei propri libri, di una storia letteraria personale e vera che costantemente richiama se stessa e si mostra per lacerti, accenni, rinvii: da Un giorno come gli altri Le pietre di Pantalica Catarsi all’Olivo e l’olivastro.
Neppure sappiamo dire con certezza se lo Spasimo debba chiamarsi romanzo, antiromanzo, o narrazione poematica; e potremmo aiutarci specificando che è insieme tragedia, confessione, racconto del viaggio, o dell’esperienza, oppure un’espiazione, e un addio. Ma la questione dei nomi poi non muta la sostanza dell’oggetto: di questa che è (e rimane) una prosa, con le sue fortissime vibrazioni o fibrillazioni liriche; e che narra una storia, per quanto  destrutturandola – con tristezza o con violenza, con qualche esibita trasandatezza, forse con una strana sprezzatura. Lasciamo quindi la definizione esatta dello Spasimo ai catalogatori esperti, ai teorici della letteratura; e in fondo anche ‘romanzo’ può andar bene poiché il genere, elasticissimo, è per natura aperto a tutti gli attraversamenti, a ibridazioni e contaminazioni[6]; e l’avversione al romanzo, ormai più volte espressa da Consolo, è una polemica nei confronti del suo attuale scadimento, una provocazione e una dichiarazione di non-omologazione al mercato cultural-editoriale che di tale ‘etichetta’ costantemente abusa, amalgamando strame e opere di Letteratura[7]. Ma indipendentemente dalle nostre incertezze classificatorie, e pure dal fatto che Consolo, dopo lo Spasimo, abbia realmente scritto  oppure no (e a quasi due anni dalla sua scomparsa, ancora non vien fuori L’amor sacro, il «romanzo storico-metaforico» (sic) che egli stesso annunciò finito)[8] comunque non crediamo di sbagliare affermando che lo Spasimo di Palermo ha il modo di una parola ultima. E che è difficile per chi lo legge perché è difficile per chi, disperatamente, lo ha scritto.

La disperazione, insieme alla diminuzione di sé, è un tratto distintivo di Consolo: racconta una pena reale, crescente, e ossessivamente presente nell’ultima sua produzione – si guardi, prima che al massacro pervicacemente operato da Gioacchino Martinez nei confronti di se stesso e della propria scrittura, all’odio di sé che già nel 1989 si sbozzava nei toni gridati enfatici dell’Empedocle di Catarsi (lo scienziato-poeta impazzito per la falsità che sente dentro le parole – anche le proprie – e il cui «odio verso il mondo è pari all’odio per se stesso, pari al suo dolore, al suo rimorso»; Cat, 58), o allo svilimento a «infimo Casella», a
«eroe patetico» che è nell’Olivo e l’olivastro (OO, 107). Dentro c’è la coscienza della «cavea vuota», il senso di parlare «arditamente» – e a Consolo dové parere ‘teatralmente’ – al niente; forse il timore di perdersi nell’alessandrinismo, nella tentazione dell’ornato o nel vaniloquio della parola bella; e anche quello di scadere nella querimonia, nell’infinito lamento del vecchio che si sente escluso, estromesso. E con tutto il valore estetico morale e civile di cui sempre ha considerato depositaria e custode la Letteratura, Consolo deve aver fatto fatica a non smarrire il senso del proprio lavoro, la spinta del proprio scrivere, del suo ostinarsi ad additare dei valori al nostro tempo di ignoranze, di coscienze assordite ed avvilite, ottuse. Probabilmente nello Spasimo è il peso del disinganno che spezza e sgrana il racconto, che blocca il farsi del romanzo, della storia levigata e ‘tonda’; pure se indubbiamente esiste (e sarebbe fuorviante escluderlo), insieme al bisogno (ancora) di dire una parola ‘utile’ al mondo, il desiderio di misurarsi (ancora), di sperimentare la via diversa, il taglio che magari incida la corazza dell’indifferenza mentre attinge un risultato alto, una compiutezza di stile. Meno cesellata e preziosa è la lingua dello Spasimo (come già quella delle Pietre, dell’Olivo) rispetto alla voltura ricchissima, alla esuberanza vertiginosa e tortile cui ci aveva abituato la penna dell’autore siciliano; ma liricamente tesa, musicale per assonanze e rime interne, resta una partitura ritmica; e si presenta più facile all’approccio lessicale, porta i segni di una nuova asciuttezza, quasi la tendenza a una semplificazione che in qualche modo va a bilanciare il tratto singolare, internamente terremotato della struttura. Ma la questione è complessa, se la distanza dalla voce antica è aumentata progressivamente, disegnando e chiarendo un movimento, più che di distacco, di rigetto.

Mancano allo Spasimo le pezze d’appoggio del Sorriso, i documenti veri o contraffatti del romanzo di stirpe manzoniana misto di storia e d’invenzione; gli manca l’ironia, anche amara; e la quinta di teatro, la metafora di un tempo altro. Non ci sono i fatti del 1860 o gli anni Venti di Nottetempo per dire ‘in figura’ le cose di oggi, perché siamo nell’oggi, e la Storia non si esplicita per nomi e date, ma sta inscritta nella scena metropolitana o nell’iconografia stringata di una terra rovinata e guasta; e si aggruma ad ogni passo del racconto, lo incide di veloci apparizioni e di rumori (il traffico, gli spari, certi improvvisi boati) orientando e dirigendo la vicenda. E indubbiamente la narrazione mai facile di Consolo qui si fa più sussultoria dacché sfronda e scolla pesantemente la trama fino a darcela esplosa, confondendoci. Spesso, in un unico capitolo, passato prossimo e remoto (Milano e la Sicilia), il presente degli eventi (all’inizio Parigi, Palermo poi) e quello perenne di incubo e dolore stanno insieme: per paragrafi staccati, sì: epperò uno via l’altro e per continui salti, sempre in assenza di segnalazioni o di appigli che dicano chiari i tempi e i luoghi; e anche qui, per capire, siamo costretti a tornare indietro, a rifare la lettura. Pare sconnessa l’architettura, franata[9]. Che sia ormai insofferenza dell’invecchiato autore, sfida orgogliosa a un uditorio assente, fretta o voglia di finire, l’opera somiglia a un disegno impazzito: e costantemente pasticcia la sua struttura, la svisa, la fa sghemba: quasi a voler mostrare che la mano non sa (o non vuole) più reggere i fili di una compiuta fabula, che sta cedendo – ed è vero – alla stanchezza. Ma a guardar bene, il disegno di Consolo è tutt’altro che confuso: lo Spasimo è un congegno ben pensato, tagliato e montato per frammenti, tra analessi e prolessi, flashback e anticipazioni; e mentre gradualmente rivela la sua tramatura di ‘simboli’ (sono figure equivalenti il giudice, il padre, lo scrittore; e tutti i luoghi del rifugio – o della viltà – sono la scrittura) mentre che pare disperdersi o costruirsi quasi casualmente, si serra a cerchio intorno alla vicenda che si snoda nel presente: un’azione che si interrompe già alla seconda pagina del primo degli undici brevi capitoli del libro; che torna a svolgersi, si chiarisce e (provvisoriamente) si conclude tra il terzo e il quarto, che ancora si blocca in una rammemorazione e riprende poi a scorrere dal nono capitolo fino alla conclusione del testo. È insomma il racconto di un viaggio di ritorno che comincia in medias res, ritrova il suo principio per tornare poi al passo col presente, secondo uno schema antico, omerico. E veramente Consolo ha riscritto un’Odissea, dal tempo dell’Olivo e l’olivastro: però nei modi sgangherati e tragici e con le afonie di un cantore moderno.

Iperbati, anafore, assonanze e rime interne sono frequenti nello Spasimo; consueta è la cadenza degli endecasillabi e pure di senari, settenari, ottonari e novenari mascherati e fitti nel tessuto della prosa: ma è un dato acquisito che ritmi e procedimenti topici della poesia da sempre contraddistinguano la pagina di Consolo. Lirica è la pagina iniziale, quasi una protasi, amara e splendida; lirico e commovente l’addio alla donna morta; e veramente mirabile (un gioiello da antologia) l’addio a Milano (SP, 93-4) così lucido e fermo e dolente (e quanta vita, quanta fede letteraria, quante cose ci sono in questo addio fatto di luoghi di persone di scrittori di poeti) ma che poi cambia il tono suo pacato, si gela e si strozza in   una maledizione, in uno sputo – ma potremmo continuare a lungo. E sporgenze, affacci e approssimazioni ai modi della lirica stanno nelle aggettivazioni, parche e però puntute, folgorate, tutte rapprese; e nelle inserzioni citazionali di versi, nelle incongruenze sintattiche violente, in certa fortissima icasticità di dettato; e nei cataloghi dei nomi che adesso non sbocciano fastosi ed opulenti e non si affoltano in vorticosa danza a coprire il vuoto, ilaro-tragici e infebbrati di vertigine, ma in quello cascano o colano gravi, disanimati e nudi. Resta colta e non omologata la lingua di Consolo, però si è incrudita: non gronda più umori densi o olii soavissimi, non si espande per volute, non ricama i suoi vecchi e splendidi arabeschi, ma vuole incidere e pesare, come una pietra: a tratti si fa rasposa per asciuttezza e sempre ha in gola una dissonanza aspra, una caduta, uno stridore, la disarmonia che spezza l’illusione la malìa il lenimento del canto (la tentazione dell’incanto). Per distillazione e smagrimento, per erosione si è rappresa in una bellissima economia verbale che coniuga torsioni incongruenze e lapidarietà sintattiche allo sfondamento in profondità e in espansione, all’appiombo verticale della parola poetica. Ma veramente quel che più rileva e fa la differenza, rispetto al passato, di questa lingua sfrondata, è l’ispessirsi delle sue zone di silenzio: tanti sono gli spazi bianchi che si aprono fra i capoversi o fra i paragrafi staccati; e le virgole, anche ravvicinatissime, che spezzano il fluire del racconto, isolano segmenti quasi versicolari: sono pause che si leggono come se ci fosse un salto d’aria in mezzo, come gli ‘a capo’ della poesia. E questo ispessimento deriva dal ricorrere di un procedimento che appunto porta in sé il silenzio perché implica un margine di non detto, di non spiegato: l’ellissi, che è il vuoto su cui rallentiamo, ci fermiamo; che siamo chiamati a interpretare, o di cui dobbiamo prendere atto.

Elide i nessi Consolo, spesso la consequenzialità narrativa; avanza per associazioni sue, per saltum, e sembra (voler) perdere il filo, o volerlo ingarbugliare a noi. Agisce ellitticamente quando ci confonde sovrapponendo le maschere, le personae in cui si scorpora e parla la voce narrante (io, tu, egli: nello Spasimo è lo stesso); o quando proditoriamente ci spiazza nel giro di una frase o di un capoverso con una posposizione che è un repentino cambio del soggetto (SP, 26):

Ricominciò a poco a poco a frequentare l’intrico dei vicoli dietro la sua casa, il quartiere tra la chiesa e la piazza di fondachi e di antri, casupole col mulo nella stalla, carretti ad aste all’aria, gabbie d’animali, buffette di scarpari, forge fumose, fermenti grassi, fioriture d’untumi, afrori da porte e lucernari, lippi e limaglie tra i ciottoli, ai bordi dello scolo. Sulla soglia, mischiavano le donne vasellina e zolfo per la rogna. Si negava a quel meandro in ogni tempo, come posto dentro una caverna, sotto perenne nuvola di cenere dell’Etna o sabbia del deserto, il sole che nelle cadenze, nel giro naturale temperava questa fascia del mondo, governava i giorni, le stagioni.

Ellittico è il discorso in cui tutte le parole funzionano come una stenografia e hanno dentro un’eco, allargano e sfondano la pagina col peso; ellissi è l’accostamento straniante dei frammenti, oppure l’omissione del verbo, o il comparire suo con impressionante ritardo (è la prassi con cui Consolo sistematicamente ci disorienta) come nel fraseggio apparentemente nominale in chiusura di questa pagina che riportiamo intera ad esemplificare in sequenza quanto appena detto (SP, 42-3):

Oblio di tempo e luogo in quella sosta di ristoro, estraniamento, ritaglio d’un mondo prossimo e lontano, e Abdelkrim mostrò il tramonto, il vuoto intorno, significò la chiusura del giardino, delle porte.
«A demain, monsieur, à demain» il sorriso sul viso nobile, caprigno.
Ancora spinto dal caso, nel cieco vagolare, nelle luci e nelle ombre della sera.
Portavano i passi verso il luogo dov’era la ragione del viaggio, del suo persistere nel mondo, verso quell’uomo esplicito e sfuggente, quel figlio che si negava a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento.
Furtivo avanti la libreria a spiare nella sala fumosa e affollata, lui con altri al tavolo, sorridente e ironico, accanto al profetico scrittore riccioluto.

“Piangevi per le nuvole, pei tuoni, ti stringevi a me forte, le nule le nule – lamentavi –, t’ostinavi a contare le stelle, a scovare le cicale, dicevi del veliero sopra il Monte, dei fuochi sopra l’onde, e lei che ridendo più in dentro ti spingeva nelle fole.”

Dentro frotte, masse, che non credea non credea che tante, notturne e inebetite, per viali passaggi impasses, angoli scuri, insegne lampeggianti, video e ordigni sessuali, negre maestose e vecchie consumate, club, guardiani ch’afferrano pel braccio, spacciatori, giovani piegati e barcollanti, uno stordimento, un fiume trascinava, in fondo, fino alla foce calma, alla penombra sotto un arco, ombre immobili e scorrenti.

Il periodo in apertura della citazione mostra due maniere allineate: quella nominale («Oblio di tempo → lontano») e quella predicativa («e Abdelkrim → delle porte»); elidono i verbi
«A demain → caprigno» (e ci lampeggia dentro Saba), «Ancora spinto → della sera», «Furtivo avanti→ riccioluto»; e sono modi scorciati e rappresi, intervallati dall’ordito più tradizionale di «Portavano → chiarimento» (con le anaforiche riprese melodrammatiche e l’euritmia retorica della terna sinonimica in chiusa) e dal frammento di sapore pascoliano
«Piangevi → fole».
In questo contesto, l’eliotiano-dantesco «Dentro frotte, masse → scorrenti», ci sembra immediatamente anch’esso privo di predicato; ma è un’impressione indotta dalla sintassi che procede centripeta tra slogature e agglutinazioni, per membri sbrancati. Il periodo infatti ha
«fiume» per soggetto, «trascinava» per verbo, «ombre» come oggetto e tre complementi di luogo: «dentro», «per» e «fino»; il primo («dentro») complicato dalla citazione che dovrebbe contenere e riportare il commento del protagonista Gioacchino, di cui il libro narra in terza persona; e che però innesta un ulteriore effetto di sbandamento per l’ambiguo sovrapporsi di soggetto narrato e voce narrante, e forse per l’improvviso baluginare o il chiarirsi della identità delle personae grammaticali, di egli-Martinez e di io-Autore-Consolo, dacché l’imperfetto debole credea indubbiamente vale per entrambe le persone, terza e prima; ma appunto la memoria dantesca ed eliotiana (e sono presenze capitali nello Spasimo) generano o rivelano la ‘confusione’; e istintivamente leggiamo come se a parlare fosse la prima («e dietro le venìa sì lunga tratta |di gente, ch’i’ non averei creduto |che morte tanta n’avesse disfatta»; If, III, 54-57; «A crowd flowed over London bridge, so many, /I had not thought death had undone so many»; WL, 61-63; la sottolineatura è nostra).
Ad ogni modo, reputare omesso il predicato è un errore che Consolo ci spinge a compiere. O meglio, lo commettiamo perché lo Spasimo ha una orchestrazione sinfonica, una sua musica: l’autore prende un tema, cambia strada, lo lascia, e poi a distanza, magari dopo molti altri toni e altri motivi, ci ritorna, lo riprende, lo continua. A rigore infatti, nel caso appena esaminato, Consolo sta continuando un ‘tema’ precedente, e ad essere più precisi avremmo dovuto parlare della elisione di un avverbio o di un periodo (o di una serie di periodi) che stanno due pagine prima di quella citata: «Via fino al Quais des Célestins […]. Via da quella zattera di pietra […], dentro borghi, strade, piazzette di dimenticanza, bistrots e librerie, volumi aperti su pagine istoriate, inchiostri multicolori, scrittura ondosa e sibillina. Quindi davanti al muro bianco, alla cupola smagliante, al minareto della moschea» (SP, 40); ma potremmo anche fare come se fosse sottinteso il «girovagò» dell’inizio del capitolo (è lontanissimo, a pagina 33); oppure, veramente, ‘andava’: perché il continuo e affannoso   movimento, il desolato e interminabile peregrinare è un motivo che ritorna (ma ce ne sono altri: la colpa, il rimorso, il rifugio, l’addio), una nota dolorosa che lo Spasimo (questo libro che racconta un viaggio) perde e poi riprende. E ‘andava’ sarà il predicato saltato più avanti, in un diverso tempo e luogo della vicenda, a Milano anziché a Parigi; ma il modo ellittico – la ripresa del tema che compare a distanza, come fosse un refrain, in pagine differenti – è analogo a quello indicato in precedenza:

«Andava nell’ora antelucana per la città ignota, per vie, larghi senza nome, per scale, passaggi pedonali, nel neutro lampare dei semafori. Gli egri ippocastani attorno al monumento marcivano le bacche […]» (SP, 69).

E dopo altri coagulati motivi, altri rappresi pensieri (la fiumana del progresso, il Gran Ballo Excelsior, Verga che torna in Sicilia, gli scontri degli anni ’70 a Milano) ‘andare’ torna in anafora (SP, 70) in un altro capoverso:

«Andava in quel crepuscolo, fra lo sbarramento di portoni, di serrande, nel giallo dei fanali, nel vuoto, nell’arresto mattutino. Guardie infilavano i biglietti[…]»;

E più giù, dopo la descrizione della città desolata, la comparsa in scena di Manzoni[10], l’apocalissi dei barboni (questa pagina, che in parte abbiamo citato, staccata dal racconto, separata e chiusa tra due spazi bianchi) lontano insomma, ma ancora eliso, sottinteso, c’è il predicato, ‘andava’:

«Dentro il fitto intrico della cerchia e la curva larga in cui nei muri, negli accessi, erano ancora i segni del Naviglio» (SP, 71).

E muovendoci anche noi per salti, arriviamo all’avvio del testo, che è prologo o protasi o una specie di ‘a se stesso’, o un ‘a parte’: leggiamo l’incipit della scrittura «poematica» dolorosa e franta, l’inizio del viaggio (SP, 9):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, andiamo.

Ma più indietro – ché questo libro è un perenne ritornare di Consolo su di sé, sul suo mestiere, i suoi libri, la sua funzione di scrittore – c’è l’andare, il fermarsi, lo scendere, l’entrare, il correre del reduce «patetico» e «smarrito», del viaggiatore disperato di una Sicilia perduta:  c’è l’odissea spezzata e fallimentare dell’Olivo; e Consolo doveva tornare su qualcosa che lì, con quel cammino, aveva incominciato a dire.

La parola «rimorso» sta all’inizio e alla fine dell’Olivo e l’olivastro; poi compare (ed è un indicatore di rotta) nell’avvio dello Spasimo; e in realtà sono numerose e tutte rilevanti le occorrenze del termine in queste due variazioni tragiche sul tema della colpa e sul viaggio di matrice omerica, sull’impossibile ritorno a un’Itaca scomparsa.
Si chiama così L’Olivo e l’olivastro perché fra quegli arbusti, nell’intrico fitto e armonico di selvatico e coltivato, ripara Ulisse quando scampa al suo lungo naufragare e tocca un mondo solido, o comunque più solido del mare: Scherìa incantata, la terra dei Feaci. Al personaggio del mito Consolo dedica un intero capitolo (il secondo del libro) rendendo esplicito il parallelismo tra due viaggi che si svolgono nel testo, entrambi di ritorno, epperò segnati  da esiti differenti. Perché se Odisseo alla fine del suo travaglioso peregrinare raggiunge Itaca, il protagonista dell’Olivo approda invece a un’isola mutata, devastata: una Sicilia sconciata cementificata incancrenita dannata, ormai dominio dei Proci, del selvatico soltanto, della barbarie. E certamente narra di sé, Consolo: a descrivere il disastro è un personaggio senza nome di cui parla in terza persona ma che in tutto gli somiglia. Prescindendo tuttavia in questa sede dal moltiplicarsi dei ‘giochi a nascondere’ (e qui gli specchi dell’autore sono tanti), ci interessa il carattere espiatorio del cammino dei due erranti: l’antico eroe greco e il moderno protagonista dell’Olivo accomunati dal «rimorso» (otto sono le occorrenze del lemma, solo a contarle da pagina 9 a pagina 28 del testo) e dunque dall’aver commesso una colpa. E però quale?
Ulisse è l’ideatore degli inganni, l’inventore dell’idolo di legno che nasconde nel ventre la morte feroce, le braccia armate che distruggono Troia; e lui che ha coltivato métis techné  per un fine letale (questa è la lettura di Consolo) è il più colpevole degli Achei ma pure l’unico a salvarsi. Non è il guerriero più forte, o il più degno, il più valoroso; e lo sa. Perciò è il più carico di rimorsi: quelli che dovrà affrontare (per una sorta di contrappasso) materializzati in mostri (Ciclopi, Lestrìgoni, Sirene, la «rovina immortale» di Scilla e di Cariddi); e prima ancora, quelli che deve propriamente confessare nella reggia di Antinoo: perché nello
«strazio» del racconto è l’ammenda per cui l’eroe è assolto (OO, 45); e questa specifica ‘catarsi’ è necessaria (dire, narrare, confessare la colpa) acché il ritorno in patria possa compiersi. Ulisse dunque piange e narra: «narra fluente la sua odissea […] diventa […] l’aedo e  il poema […] il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore d’ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo errore, delitto, rimorso» (OO, 19); e ne vien fuori una strana mistione di vero e falso, confusamente l’impressione che dentro il racconto si insinui e stia acquattata una simulazione, una menzogna di fatto imprescindibile; ma la questione (metaletteraria) della possibile «impostura» della scrittura (che è un assillo tipicamente consoliano) pare solamente accennata qui, nell’Olivo, e si svilupperà poi, dolorosamente, nello Spasimo.
Quanto all’autore che nell’Olivo dice di sé in terza persona – che in apertura del testo dichiara l’impossibilità a narrare («Ora non può più narrare») e tuttavia, in furia o in pianto, pure dietro una maschera, racconta – anch’egli porta una colpa: «con un bagaglio di rimorsi e pene » (OO, 9) lasciò l’Isola bellissima e terribile (lei che tra calcinacci e tufi, corsa dai randagi e abitata dai corvi, è già terra votata all’abbandono, pare fatta di polvere); e se ne andò via, lontano (lontano anche da quella ingombrante imbattibile Natura: rigogliosa o riarsa o minacciosa di lave e terremoti e sempre troppo imparentata con qualche Assoluto: sempre comunicante con l’inutilità del fare, con un impietramento, con l’oblio); via verso la Storia, il cambiamento, una vita di impegno, di lavoro; epperò adesso, dopo tanti anni, lo schiaccia un peso più gravoso e sono «rimorsi», ancora: ma «un infinito tempo» di quelli e di «orrori, fughe, follie, vergogne» (OO, 16). Sembra insomma accusarsi, Consolo: lui che dalla Sicilia partì per andare a vivere, per scrivere a Milano. Si accusa di essere fuggito – ma non crediamo che intenda semplicemente dall’Isola; piuttosto, ci sembra, di non aver fatto quanto andava fatto, o comunque non abbastanza per evitare la frana di una civiltà, di una cultura (ma poi che cosa può in concreto sulla vita, sulla Storia, per la manutenzione del mondo, la penna di uno scrittore, la parola della Letteratura?). E nello smarrimento e nella indignazione, per tagli, in un lunghissimo e angoloso plahn tra cronaca e poesia, veramente nell’Olivo Consolo corre l’Isola intera in un frenetico andare senza soste, con l’urgenza di dirla tutta e dirne lo scempio, quasi che nominare il male lo potesse veramente fermare, o come fosse a salvamento: di lei (Isola e cultura e Storia e mondo) e di sé, di un impegno civile, del lavoro di chi scrive. Però, dall’ira che a volte con fatica monta, e forse ripete le sue parole quasi uguali (pare infatti di stare come fermi, per quanto sempre ci si muova, in questo inferno), da un affanno che è nel dire e maledire, dal lamento continuato, dalla sintassi narrativa che si spezza e ti inciampa (e ti stanca anche, con qualche pesante monotonia) senti che si è incrinata, che è diventata disperata quella superstizione volontaria (o era la fede letteraria) antica.
Certo ha degli slarghi narrativi l’Olivo: a tratti prende la forma e il ritmo del racconto breve e incastona le vicende di nativi, reduci o pellegrini di Sicilia – e tutti come toccati dall’Isola, ammalati (ci sono Verga e Caravaggio, Maupassant, Zummo, von Platen, fra questi  ulissidi incupiti o pazzi o moribondi); e pure Consolo continua una sua intenerita o storta e tragica Odissea. Ma il libro è principalmente la cronaca del viaggio dentro una ‘terra guasta’, tutt’altro che vittoriniana: offesa da ignoranza cemento liquami speculazioni e mafie, e chiamata – con l’attuale degrado e con la bellezza violentemente deturpata – a far da emblema di una devastazione in atto, del macroscopico processo che ovunque azzera e imbarbarisce le coscienze cancellando insieme Storia, memoria, umanità e cultura. Più avanti ci fermeremo sui luoghi di questo nervoso periplo siciliano che da Gibellina parte e lì ritorna così chiudendo il suo percorso irregolare e zigzagante: e tante sono le tappe, accomunate dallo stesso orrore, e generalmente articolate sullo schema del confronto, della visione sincronica di un abominevole presente e di un passato splendido e svanito. Però a Segesta, in cima al teatro, lontano dal rumore, dallo spettacolo della reliquia violata e offerta alle mandrie dei turisti distratti, lontano dalla scena in cui si compie simbolicamente una diuturna e commercialissima dissacrazione – a Segesta il viandante dell’Olivo si ferma e sogna; e come sempre accade a questo tristissimo innamorato dell’antico (o potremmo dire del lontano, del perduto) «prova sollievo nella fuga, nel rapimento» (OO, 127). Ma un’altra volta – la terza e ultima sta alla fine del libro – Consolo qui dentro dice ‘io’ (per quanto provi ancora a confonderci indossando un’altra maschera, di un altro ulisside).
Leopardiana al fondo, ma più cupa che in Retablo, è la contemplazione dell’architettura del tempio che si spalanca al cielo «come porta verso l’infinito o come pausa, sosta d’un momento, quale la vita dell’uomo nel processo del tempo inesorabile ed eterno» (OO, 128). E la voce che dice ‘io’ mentre che si smarrisce a guardare il tempio, la notte, le stelle, questa che adesso parla in prima persona (e forse sta ripetendo una cosa che era già dentro le Pietre di Pantalica), sta esprimendo un desiderio di fine, di morte (OO, 128):

[…] all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo […] nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti […]. Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.

Lo stesso che torna nella pagina finale dell’Olivo, quando tra i ruderi, nel teatro allestito sul colle della scomparsa Gibellina antica, si recita un episodio della guerra romano-giudaica,  un moderno adattamento della tragedia di Masada narrata da Giuseppe Flavio. Consolo è di nuovo dietro uno schermo, ma in qualche modo crediamo di riconoscerlo nel tono e nei gesti di questi assediati che scelgono di togliersi la vita (OO, 148-9):

Avanza dal fondo Eleazar, il comandante della fortezza, in mezzo ai soldati.

– Da gran tempo avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del dio… In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna…Siamo stati i primi a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo sia una grazia concessa dal dio questa di poter morire con onore e in libertà…Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù…

Narra una voce.

– Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli, sollevavano sulle braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono ad effetto il loro disegno.

Tirano poi a sorte chi di loro avrebbe ucciso i compagni.
E così l’ultimo, anche per l’orrore, il rimorso, rivolge il ferro contro se stesso.
I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette, corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio coi fari.
Trovano corpi, fiamme, silenzio.

Lo «strazio» del racconto non è dunque servito al viaggiatore dell’Olivo per ritrovare la sua Itaca – mutata è l’isola: non si torna a un mondo che ha smesso di esistere. E l’ultimo soldato di Masada, che uccide i compagni per risparmiare loro il peggio che sicuramente verrà, può solo morire, si uccide. E può essere che il «rimorso» sia in questa resa, in questo abbassare le armi e rivolgerle contro se stesso, nel dovere alle fine ammettere che non c’è speranza o letteratura che tenga.

Guardiamo adesso le occorrenze del termine «rimorso» all’interno dello Spasimo di Palermo. Superato l’esergo eschileo, il testo si apre con una pagina in corsivo che è insieme fuori e dentro il racconto, e in certo modo è la sua chiave. Il nostro lemma è nel paragrafo iniziale (che abbiamo già citato), e tuttavia il proemio vogliamo leggerlo intero. Il tema è ancora quello del viaggio e della colpa, e il ‘tu’ dell’allocuzione non è il lettore (SP, 9-10):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del tuo lungo viaggio, andiamo.
Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale.
S’è placata la tempesta, nella grotta, sulla giara sepolta s’aggruma la falda della spuma. Speri che il cerchio – stimme, macule, lèuci ferventi – quieto si richiuda. Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere. Il segreto che sta nelle radici, nel tronco di quell’albero non sai a chi svelarlo, è vuota la tua casa, il richiamo si perde per le stanze. Avanzi in corridoi di ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza:

In the beginning is my end

Ma pure in questa cala urlano sirene, aggallano carcami, approdano navigli clandestini, l’alba apre il volo a uccelli di passaggio. A coppie vanno gendarmi e artificieri, a schiere anime disciolte, a volte si confondono voci volti vie porte d’ingresso e di sortita.
Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadite, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento.

Le marche letterarie forti, l’attacco, slogato in Consolo epperò riconoscibilissimo della Love song of J. Alfred Prufrock («Let us go then, you and I […]») e la memoria aggettivale dantesca (è Virgilio chi «per lungo silenzio parea fioco»; Inf., I, 63) operano già per accumulo, orientandoci contemporaneamente in due direzioni apparentemente divergenti ma contigue e sovrapponibili: un moderno girovagare metropolitano in assenza di senso, e un antico viaggio penitenziale; in entrambi i casi (considerata anche l’epigrafe ‘infernale’ di PrufrockInf., XXVII, 61-66) un viaggio nella desolazione, o comunque nel dolore; e a compierlo (almeno così sembra) due viaggiatori tristi ancora sfocati: un ‘tu’ con l’ansia tormentosa di arrivare – ha con sé i doni inconsistenti di ospiti che pare lo abbiano deriso e un viatico che non serve (è la provvista del pellegrino, o la benedizione che si dà ai morenti?): è un ‘tu’ che non ha niente e porta un peso, un carico di «rimorsi» che non gli è riuscito di chiudere da nessuna parte, dentro nessun bagaglio (gli fanno una bufera intorno, devono essergli esondati addosso, perché non ci sono gabbie o sbarre che tengano l’acqua, o che fermino il vento); e poi c’è un ‘io’ di voce «fioca», dice parole che non si sentono nell’aria strepitosa, piena di rumori: e non è nessun Virgilio (sbagliavamo): è un relatore insufficiente, uno che riporta, però a strappi e a brani – forse con poco talento («[…] mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono […].»; SP, 88) – il lungo andare dell’altro.
Qualcuno insomma stanco o forse vecchio (canonicamente «tarda veleggia» la sua imbarcazione) viaggia per qualche placato mare, metaforico o reale (nella «corrente scialba» sembra purgatoriale), naviga verso un «porto fermo», una quiete; e viene da pensare a quella definitiva, alla morte (indipendentemente dai ricordi letterari, che ci sono, cominciando da Petrarca e Foscolo) perché la metafora è semplice: il cerchio che il ‘tu’ spera si richiuda, che non ha ancora concluso il proprio giro e che contiene, come in un crogiuolo, quello che lo ha composto: piaghe e macchie, ma pure luci abbaglianti bianche e ribollenti, può essere la vita; e può essere che il viaggio sia della memoria, che il porto fuori da ogni scorrere, fuori dal mutamento, sia quello che è stato, il passato, i fantasmi – che a riguardarli rivelano una storia «sempre uguale», come fissata in una ripetizione. Pare finita l’erranza, e prende terra questa barca in un riparo, la grotta in cui affiora una «giara sepolta», lambita dalla schiuma – un relitto appropriato alla scena marina, o magari una memoria infantile, un pezzo di storia privata di questo reduce, che è inutile affannarsi a interpretare. Anche se rileva notare che il lemma «sepolta», nello Spasimo, torna due volte soltanto, e sempre associato ad una colpa («colpe sepolte e obliate», SP, 47; «colpa sepolta», SP, 98).
E diventa criptico il discorso rivolto al ‘tu’ dal suo cronista, si fa ellittico: «Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere». Manca infatti il soggetto della proposizione ipotetica: il «relatore manco» non dice cosa possa giungere «dal mare» (evidentemente, lui e questo ‘tu’ silenzioso condividono un codice, si capiscono benissimo), anche se per il lettore l’appiglio alla comprensione sta probabilmente nella figura precedente, nella metafora del cerchio che si chiude. Ma c’è un’indicazione, una traccia letteraria palese che aiuta a sciogliere la contrazione della scrittura mentre che ispessisce e complica la fisionomia del viaggiatore triste. Il «segreto che sta nelle radici» è quanto fonda  e tiene la casa di Odisseo: il «letto ben fatto» (Od, XXIII, 189) che non si può spostare e  che Ulisse scolpì solido nel tronco di un ulivo centenario («C’era un tronco ricche fronde, d’olivo, dentro il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come una colonna: / intorno a questo murai la stanza […]»; Od, XXIII, 190-192) – la radice è la casa: ciò che uno è, che ha costruito e che trasmette: la vita la storia gli affetti l’esperienza la cultura. Ed è la marca omerica a gettare luce all’indietro sul presagio, la profezia ambigua di Tiresia a Ulisse: la morte (perché era lei il soggetto saltato della proposizione) ti verrà εξ άλός (questo il «dubbio filologico»): «dal mare» oppure da fuori del mare, «lontano» da quello; anche se poi, per questo nostro navigante, solo dal mare la morte può arrivare dacché veramente per lui non c’è terra: l’Odissea è (come nell’Olivo) rovesciata, l’approdo è apparente, imperfetto è il ritorno e la casa è vuota: non c’è nessuno con cui parlare («il richiamo si perde tra le stanze»), nessuno a cui tramandare un «segreto» che non serve.
Forse sulla maceria, nel vuoto, in questa nicchia di niente, ora che non c’è più da andar per mare, affrontare la tempesta, ancora cercare; forse ora che non c’è neanche la rabbia inquieta della giovinezza, ora, nella vecchiezza, in questo porto abborracciato, si può provare a rifare la storia (nella memoria) a cercarne il senso o la crepa: ora che da dove si era partiti si è tornati, per finire. «In my beginning is my end», nel mio principio è la mia fine – e la citazione dai Four quartets di Eliot qui non significa nessuna trascendenza, non allude a nessuna rinascita: sta solo nella pars destruens, come un’epigrafe; ci sta rappresa un’incombenza: un’imminenza (la conclusione è prossima, è vicinissima) e una necessità (l’impossibilità di una conclusione diversa da quella che stava scritta nel principio, o anche il dovere di ripensare a partire da quel principio).
Però la cala del rifugio non ripara dalla pena e non isola dal mondo: a urlare qui non sono  le sirene del mito, ma, più prosaicamente, quelle di ambulanze e polizie; e le carcasse che nell’acqua «aggallano» potranno anche essere metaforicamente i punti morti, gli errori, le colpe che mordono il ‘tu’ che si è messo a ricordare, ma assomigliano alle carogne reali del Mediterraneo odierno, le navi a quelle degli attuali contrabbandi e degli sbarchi clandestini. E la ronda di «gendarmi e artificieri», il presidio della zona minacciosa e minacciata dagli ordigni, camminata da «schiere» di «anime disciolte» (significa vaganti? sbrancate? che si disfano? liquefatte?) svelano il quadro presagito dall’inizio (schiere di anime dannate si ammucchiano in attesa di Caronte [Inf, III, 120]; a «schiera larga e piena» [Inf, V, 41] vanno «di qua, di là, di giù, di su», come le mena la bufera) e mostrano la terra desolata dell’approdo,  la ‘città irreale’ che in questo libro farà spesso da sfondo (Parigi, Milano, Palermo è lo stesso: «A crowd flowed over London Bridge, so many […] »; «[…] ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]»); e forse il rischio ora è l’allucinazione, la confusione – o il non voler vedere, l’astrazione.
Ma anche se l’inferno batte vicinissimo, pure se la casa è vuota, sparita, anche se non c’è  più nessuno ad ascoltare, «riparti»: fruga nella polvere, scava nella sabbia la «pista» che il deserto ha ricoperto (mantieni la memoria) – così dice il cronista di «voce fioca» al reduce sperduto, al cercatore di mappe e di reliquie che dovrà essere assistito dagli angeli strani dell’isolamento e dell’esclusione («l’eremita, l’esule, il recluso») e avrà per guida solo una «fiamma di lucerna» e il «suono della sera»: questo ‘tu’ che nella solitudine, dentro il silenzio, forse nel breve cono di luce di una lampada, somiglia a uno scrittore nel suo studio (l’attitudine è quella, l’immagine è topica);  e immediatamente abbiamo pensato a Montale,  a lui che con la sardana fuori scatenata, chiuso dentro il guscio, la sfera luminosa del suo pensiero, componeva un diverso (ugualmente amaro, ma quanto più fiero) Piccolo testamento («Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero […]. Solo quest’iride posso/ lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta […].»); e ci siamo ricordati di Fortini, che mentre fuori la stessa follia imperversa, la stessa tempesta, in una stanza, al proprio tavolo, traduce le parole di un poeta, si obbliga a farle parlare ancora, a non lasciarle morire:
«Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / […]. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi» (Traducendo Brecht). Non siamo lontani da Consolo: pure se tutto è perduto, scrivi; anche se è dolore, racconta: questo l’invito al viaggio che dà avvio al libro («Allora tu [ed io [andiamo»), l’esortazione rivolta al ‘tu’ che forse è semplicemente un doppio dell’ ‘io’, forse è uno scrittore, forse è il protagonista dello Spasimo, forse è Consolo che parla a se stesso. A un ‘tu’ dolente e smarrito che cerca assoluzione («[…] t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento»). E deve raccontare una colpa, come Ulisse nell’Olivo – deve scrivere questa storia. Che inizia subito dopo, ma disorientandoci (SP, 11):

E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati – le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto.

L’afflato lirico, il modo scorciato (e il viaggio, la solitudine, gli addii) sono ancora quelli del proemio e difatti sembra che il testo si stia sviluppando esattamente di lì: un’impressione che non dura, perché già al secondo rigo ci accorgiamo di non capire ‘chi’ stia parlando e  ‘di chi’ stia parlando. Non c’è più insomma né l’‘io’ né il ‘tu’, bensì qualcuno (un autore)   che dice di una terza persona: il soggetto sottinteso (egli) che cammina solo e silenzioso  con «le braccia lungo i fianchi» (ha le mani vuote, abbandonate, non ha niente) e che scambia per un-altro-a-fianco-a-sé la sua stessa «ombra prolissa» (che si stampa grande o lunga  su una strada o contro un muro di questo paesaggio che non si connota e pare quasi uno spazio metafisico; ma possiamo anche pensarla sovrabbondante quest’ombra, e quindi cascante, stanca). È Gioacchino Martinez il soggetto narrato in terza persona, e certo assomiglia agli attori del proemio: è vecchio, è solo, è uno scrittore smarrito; anche lui tornerà (per finire) alla sua terra (al suo principio), in Sicilia, e non ritroverà la sua isola; e anche lui, che porta un carico di «rimorsi», cerca «remissione» (SP, 12).

Un’altra occorrenza del termine «rimorso» abbiamo incontrato esaminando la sintassi dello Spasimo. Siamo intorno al ’43, dopo lo sbarco americano in Sicilia, quando Martinez  ha circa dieci anni. Il padre (con cui il bambino ha un rapporto conflittuale) aiuta un disertore, lo porta in un rifugio; ma i tedeschi li scovano e li uccidono. A rivelare il nascondiglio probabilmente è lo spaventato Gioacchino (SP, 24):

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

La colpa di cui Martinez sente il peso è quella di aver determinato, «cosciente o meno», la morte del padre (di averla anche in certi momenti, per rabbia, desiderata); ma a noi interessa questa specie di ‘sintomatologia dell’arresto’: l’immobilità, la paralisi, l’«estraniamento» che stanno insieme al «rimorso» e nello Spasimo gli si accompagnano sempre; e dacché il libro tesse una rete sotterranea di simboli, forse non è senza importanza che il posto in cui viene ammazzato il padre di Chino (il posto che da questo momento rappresenta e significa il «rimorso») sia proprio quello in cui il bambino realizza il suo isolamento volontario, la sua fuga dal reale. Ma dobbiamo essere più chiari.

C’è un luogo che si ripete nello Spasimo, un luogo che ogni volta si rifà e torna magari con un nome diverso, ma in fondo è sempre lo stesso, quello in cui Gioacchino si nasconde e sogna. È il suo rifugio segreto, il «marabutto» (viene dagli arabi la parola antica: indicava la dimora dell’eremita, la sua tomba): uno stanzone vuoto – lo strame a terra, la volta a cupola, una parete con le figurine saracene: un ricovero di capre mezzo sepolto dal terriccio, celato dalle frasche. Qui corre e si ripara Chino, ombroso, senza madre; qui si intana in odio  al padre o a tutto il mondo, deciso a stare sempre lontano, solo; e nella finta caverna, nella solitudine, dentro la mezza luce la pena si quieta, vengono le figure; e inizia ogni racconto,  il cinema, l’incanto (SP, 20):

Corse al marabutto, al rifugio incognito, segreto, ov’era deciso a rimanere sempre, solo, fuori da tutti, il mondo, sempre fino alla morte, avrebbe visto il padre, sì, avuto scorno, rimorso infine, pentimento.
S’accucciò in un lato, contro il muro, riguardò ogni cosa, le figure sul fondo celestino, le tortore fra i rami, i veli trasparenti della donna, i seni tondi, la sciarpa svolazzante intorno al corpo, e il cielo cavo della cuba. Ora la lama non piombava netta traverso la fessura, ma s’effondeva in chiaria lieve, lambiva le pareti, i lippi secchi e freschi, i fiori di salnitro, i gechi squamosi e palpitanti.
Gli si fecero appresso ad una ad una, e insieme circonfuse, tutte le donne, la giovane maestra che leggeva a scuola il suo componimento, Urelia col suo caldo e l’ansia acuta d’aglio, la siracusana bella e pregna di confetto, Lucia dorata e crespa, e la madre bianca più del letto, smunta, straziata, che lenta se n’andava.

Tanti nomi per dire una tendenza alla separatezza che è peculiare di Martinez: questa «tana» (SP, 18), lo «stanzino» in cui si chiude da bambino (SP, 21), il «capanno» che si inventa da ragazzo tra le radici pendule di un ficus: la sfera di «separazione, occultamento, letture fantasie proponimenti, nel meriggio pieno, nel silenzio», la cortina che lo cela e lo protegge mentre spia e vede le cose fuori, da sé distanti (SP, 47); e poi l’oasi «degli innesti e delle chimere sorprendenti» (si badi: in tutta la produzione consoliana il ‘luogo degli innesti’ ha sempre valenza metaletteraria): il giardino della casa di Palermo con le infinite piante e i fiori esorbitanti chiamato a fare da barriera intorno alla «quiete fragile» di Gioacchino ormai adulto (SP, 75), al suo sogno di una «vita sequestrata» (SP, 78) difesa dalla violenza e dall’orrore del presente, conclusa tra gli affetti e la scrittura; e ancora, in certo modo, l’Isola stessa, la Sicilia in cui, anziano, sente il bisogno di tornare per «chiudersi, occultarsi, finire nell’oblio» l’avventura della vita (SP, 53). E una separatezza, seppure differente, è il «silenzio» del vecchio: il rifiuto di scrivere detto in questo lamento come a spigoli d’affanno, con una sorta di precipitosa stanchezza nel modo cumulativo, negli incisi che di primo acchito non si distinguono, nella punteggiatura ‘difficile’ dell’avvio (SP, 37):

S’era chiuso nel silenzio, nel dominio della notizia, invasione del resoconto, scomparsa di memoria, nell’assenza o sordità dell’uditorio, vana era ormai ogni storia, finzione e rimando del suo senso diceva e si diceva. Ma sapeva che suo era il panico, l’arresto, sua l’impotenza, l’afasia, il disastro era nella sua vita.

Vanità dunque è raccontare ancora, ostinatamente parlare quando nessuno ascolta; vanità continuare a fare il ‘letterato’ in mezzo a «chiasso» e «scadimento» (Sp, 37), la «voce fioca» contro l’urlo potente delle mode, dei giornali, delle televisioni, del mercato culturale coi  suoi mille imbonitori – per la Letteratura non c’è posto; ma resta che a produrre l’afasia è l’«impotenza» propria, la scrittura insufficiente, che non è servita a niente.
E un’ultima variante. Sempre nella vecchiezza, un giorno, a Parigi, scampando a un’aggressione, Martinez di nuovo si nasconde: trova riparo «in una cantina fatiscente, davanti a un film osceno»; ed è solo una contingenza, da quel luogo uscirà immediatamente, però pronunciando un ‘atto di dolore’ o una sorta di anatema, inorridito, più che dalla scena squallida, da se stesso: «Viltà di sempre, fuga dal reale, menzogna e adattamento. Via dalla caverna del rifugio, fuori per la porta d’emergenza […]» (SP, 43). Forse insomma nella
«caverna del rifugio» si annida il ‘vizio’, la viltà, la colpa che sta al fondo.

«Rimorso» ed estraneazione appaiono di nuovo affiancati, e cominciano a chiarire un legame stretto, nel colloquio tra lo scrittore e Mauro, da tempo rifugiato in Francia; il figlio nei cui confronti Martinez sente di aver fallito come padre, e che lo giudica con una punta di sufficienza, forse di disprezzo. La prima battuta è di Gioacchino (SP, 53-54):

« […] Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore.»
«Ne hanno combinate i letterati!» ironizzò Mauro.
C’era stata ancora intenzione nella frase? Sospettava o aveva conoscenza? Rapida si presentò, unita come sempre al suo rimorso, emblema fisso d’ogni astrazione, latitanza, la sagoma bianca del fantastico bibliotecario, del cieco poeta bonaerense ch’era andato quella volta ad ascoltare nell’affollato anfiteatro.
«Che c’è, s’è risentito lo scrittore?» fece il figlio.
«Sai bene che non sono più scrittore, se mai lo sono stato. Ma perché ti rivolgi sempre a me in modo impersonale? Mai per quel che sono, tuo padre.»
«Padre si trova solo nei romanzi, nelle tragedie […]. Ma che discorsi, che discorsi… siamo tornati indietro di un po’ d’anni, tu giovane, io adolescente…» e rise Mauro.
«È il mio vizio, lo sai, la mia paralisi.»

Viene punto nel vivo il «letterato»; e il suo trasalire ha a che fare con le pratiche della trasfigurazione artistica, della compensazione estetica, col tarlo di una ‘finzione’ che intimamente lo rode; ma probabilmente c’entra anche il «tornare indietro», lo stare sempre fermo sui  suoi assilli; e c’entra che il figlio non lo chiami ‘padre’, gli neghi quel nome, la funzione di chi indica la strada, educa, guida, addita una direzione. Il «vizio», la «paralisi» che Martinez confessa è poi la scrittura, questo luogo suo di arresto (la sua compensazione, il suo rifugio); e sta direttamente in rapporto con un «rimorso» di cui Borges è l’«emblema»: la «sa goma bianca» (quasi una apparizione, uno spettro) in cui si incarnano del pari «astrazione» e «latitanza». Borges che incantava con gli scacchi, gli specchi, le immense biblioteche impossibili e sperdenti, i labirinti, i libri magici, i giochi della mente: con l’infinito proliferare della Letteratura da se stessa, l’autofecondazione inarrestabile (mostruosa) che partorisce favole, trame, sogni, enigmi irrisolvibili, in una condizione di totale autosufficienza – di allontanamento dal mondo, di separatezza. E non a caso Borges più avanti ritornerà associato a  una «illusione rovinosa» (SP, 80): quella di Mauro perduto dietro l’esaltazione politica negli anni della contestazione studentesca, ma più in profondità la propria, quella di lui, Martinez: «inerte, murato» e ugualmente perduto nell’inseguimento di un miraggio, dietro a un «folle azzardo letterario» (SP, 126). E nel continuato ‘esame di coscienza dello scrittore’ che è lo Spasimo, durissimo e costante (ossessivo) è l’autoaccusarsi del protagonista. Si guardi a questo stranito e quasi-teatrale dialogo ancora tra il padre e il figlio. Le parentesi valgono a riportare il non detto, il non espresso nel colloquio; ma forse siamo di fronte a una specie di Secretum. Inizia Mauro (SP, 35):

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»
«La vecchiaia… […] anticipa poi l’ulteriore smagrimento, e assoluto.»
«Di chi queste allegrie?»
«Mie, solo mie.»
«Fai progressi. Ancora un poco e sei alla poesia.»
(Sempre uguale la tua ironia, costante il tuo rifiuto d’ogni incrinatura, cedimento) (Il tuo lamento, il tuo bisogno di aggrapparti)
(Ti sei nutrito d’astrazioni, dottrine generali, ed ostinato credi che ancora possano salvare)
(Le parole con cui ti mascheri e nascondi sono solo una pazzia recitata, un teatro dell’inganno)

Si può dedurre che Martinez rimproveri al figlio l’eccessiva durezza e una pervicace astrazione ideologica (ma il testo è volutamente ambiguo: «nutrito d’astrazioni», in fondo, è pure lo scrittore con la sua chimera, la sua ‘missione letteraria’); e che a sua volta Mauro ferocemente e silenziosamente irrida il padre, il costante suo «lamento», il tono da tragedia, il patetico ostinarsi a interpretare un ruolo intellettuale mancato o inconsistente, l’insufficienza ad agire sulla storia, i destini, il presente; che disprezzi le parole dietro le quali il vecchio ha mentito e si è nascosto (e dopotutto ancora e sempre è evaso, si è consolato, dal reale si è allontanato: fuori del mondo ha sognato come nella tana antica, nel marabutto). E certo potrebbe essere così: ma dimenticheremmo che molta parte del dialogo (tutto il sottinteso) si svolge in interiore homine, e che probabilmente è solo Martinez a riempire i vuoti della conversazione coi suoi implacati assilli, con l’orrore che ha di sé. Tanto più che nello Spasimo, ad ogni occasione, questo scrittore che non può e non vuole più scrivere, di sé fa strazio: non salva niente. Impietosamente liquida la propria opera: poco talentuosa, perduta «nel ri stagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (SP, 88); e tutti i suoi libri (che poi, richiamati dal testo, sono veramente i libri di Consolo) definisce «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri resti della sua illusione, del suo fallimento» (SP, 66).
Ha «ripugnanza» della propria scrittura Martinez (SP, 66): di un piacere estetico atteggiato a impegno intellettuale e che invece era latitanza, astrazione, mascherata viltà. E non ha salvato nessuno: la moglie dalla paura, il figlio dalla violenza, il presente dal disastro.

«Rimorsi» assalgono Gioacchino che ancora pensa al figlio, al «candido ribelle» col quale non ha mai saputo parlare e che non è stato in grado di sorreggere, di aiutare, di avvisare  dei rischi di una ideologia che poi tutti i più puri ha tradito; pensa a Mauro che scampando il carcere è fuggito dal paese e «da ogni padre imbelle, ipocrita e impotente» (SP, 89) – si è allontanato da lui, Martinez (SP, 81):

S’affrettarono i giudici a dichiarare «il padre no, non c’entra». E invece sì. Come ogni padre, ogni complice allora di quel potere, di quello stato, ogni responsabile della ribellione, dei misfatti di quei giovani.

È un nodo importante dello Spasimo questa tragica e inabile figura paterna: è un’immagine speculare dello scrittore che ha fallito il suo compito, il suo dovere di guida. Poi fallirà anche l’altro che lo stesso dovere incarna, il giudice – all’inizio del libro, Judex, il personaggio di un film muto, è l’eroe del bambino Chino: un portatore di giustizia, un riparatore di torti; e nella conclusione dello Spasimo un magistrato in carne ed ossa che ne ricorda un altro da vicino, che come Borsellino muore in un attentato (e insieme a lui Gioacchino) e soccombe non per sua incapacità o viltà, ma perché lo uccide la mafia, perché è più forte il mondo.
Come scrittore, come padre e come giudice ‘insufficiente’, Martinez si accolla la responsabilità e porta il peso della rovina che non ha fermato – l’attuale degrado, l’involuzione culturale, la perdita di valori, la bestialità e la volgarità imperanti; e lo sbando di una generazione «incenerita», sì, «da un potere criminale», ma smarrita e perduta perché «figlia di padri illusi» anch’essi naufragati (SP, 39): quelli che dopo la guerra «avrebbero dovuto ricostruire […] formare una nuova società, una civile, giusta convivenza» (SP; 126).
Alla fine prende la penna, Gioacchino, e scrive al figlio (SP, 126-128):

Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.
Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che ha sempre improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra tenacemente rovinava, nell’innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.

In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri, e ho compiuto come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.
[…] rimaneva in me il bisogno della rivolta […] nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta […] il mio parricidio, di compierlo con logico progetto […] per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale.
Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.
Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza d’un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente, di chiarire.

La lettera poi si interromperà, forse la confessione non è intera; ma il «rimorso» di Martinez lo conosciamo ormai: la coscienza di non aver salvato niente, di non aver fatto abbastanza col proprio mestiere letterario (ed era già la colpa dell’Olivo) che si accompagna a un acre giudizio di sé, alla condanna feroce della propria scrittura tutta ridotta a menzogna, autoinganno, fuga dal reale, sonorità e cascame.

E siamo arrivati all’ultima occorrenza del «rimorso» e finalmente alla terza e ultima luna di Consolo, con Gioacchino che ritorna in Sicilia:

Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Disvio, mora, sottrazione, anestesia, tormento della sorte […]. Vita ferita […]. Spoglia sospesa alla fronda lenta, all’inganno, al miraggio letterario.
Ma ogni viaggio, sapeva, era tempesta, tremito, perdita, dolore, incanto e oblio, degrado, colpa sepolta, rimorso, assillo senza posa.
Era la notte placida, le stelle, l’immacolata luna, la primavera dei risvegli, l’alba della promessa, l’amore che invade, trasfigura […].
Era il miracolo dell’arte, la consolazione della ginestra, il fraterno affetto, la mano porta al naufrago, l’idea fresca, collettiva di volgere la storia, lenire l’esistenza.

È vero che lo Spasimo somiglia alla poesia: lo attesta anche la struttura grafica di questa pagina (SP, 98-9) in cui l’a capo è quello di una composizione in versi liberi, non di un romanzo o di un racconto. Bisogna intendere: «ogni viaggio […] era tempesta […] era la notte placida […] era il miracolo dell’arte […]»; e il «viaggio» del testo, dello scrittore e padre fallito Gioacchino Martinez e della sua vita «sospesa […] all’inganno, al miraggio letterario», è  la scrittura: la fabbrica delle consolazioni, l’incanto artificiale, il sogno indotto della «immacolata luna». Lei che è astrazione e latitanza, rifugio, oblio colpevole e «rimorso, assillo senza posa», Lei questo spasimo.

Sull’inutilità e il danno della letteratura, sui consuntivi amarissimi, disperatamente in negativo, in tanti hanno già fatto storia: Verga fingeva di scrivere, chiuso nel silenzio offeso degli ultimi anni a Catania; e prima di lui Foscolo scomponeva e ricomponeva nevroticamente le Grazie senza poterle mai finire; Manzoni disprezzava e negava il suo romanzo – «tiritera» lo chiama, «cantafavola»[11], menzogna; l’elegantissimo Leopardi gettava al macero tutte le illusioni col Tristano, e nel Tramonto della luna faceva precipitare l’astro bianco, a morte metteva la sua Regina antica, la seppelliva: e con lei la propria voce, il desiderio, il canto,  il cuore. C’entra naturalmente l’esperienza, la maturità (che «senz’altra forza  atterra»), c’entra anche la vecchiezza in Consolo, la perdita fisiologica dell’entusiasmo. Ma la scrittura dello Spasimo, o diciamo meglio, la questione dello spasimo di questa scrittura faticosa e contratta, e difficile per dolore, non può andar disgiunta da un particolare malessere che si produce in chi si ostini, oggi, a fare Letteratura alta e civile – cose, oggi, entrambe azzardate e anacronistiche.
Può essere che in assenza di un uditorio reale, a furia di parlare per o con se stesso, il poeta moderno finisca col dimenticare o col prendere per favola l’urgenza stessa e il valore del  suo dire; che addirittura finisca col credere di aver recitato (di aver mentito) per vanità e gusto di esibizione, per il piacere solitario della forma splendida e sonante. E può essere che il disincanto che sta in ogni vecchiezza, assieme alla indisponibilità totale e vera della contemporaneità, abbiano spinto Consolo ad una severità eccessiva, e come a travedere: ad accusarsi, intendiamo dire, di colpe che forse aveva anche rasentato, ma che non gli appartenevano. Perché non era finta la sua disperazione, e neppure erano finti l’impegno, l’arte, l’indignazione; eppure questo autore non ha avuto nessuna pietà per la sua opera, per il suo mestiere: «lasche prosodie», ha detto delle sue cose, lo ripetiamo, «rifugio», «vizio dell’assenza», «vanità», «colpa», «malattia».
Lasciamo stare quanto potesse essere necessario a Consolo un rasciugamento, o quanto la ‘autocorrezione’, lo scarnimento dello Spasimo lo abbiano preservato dal rischio di farsi eco di sé, della lamentazione estenuata o di una barocca e vorace esmesuranza. La parabola di questa scrittura, il suo ridursi a una nuova e scabra essenzialità rinunciando all’alone favoloso, alla meraviglia e anche all’orpello, è un approdo che comunque sorprende, pure se viene dalla stanchezza; ed è una evoluzione, uno scatto, un movimento anomalo e vitale all’interno dell’ambito generalmente conservativo della prosa. Un modo diverso, che già faceva le prove nelle Pietre e nell’Olivo, assai lontano dai lenimenti classici e barocchi, dai sogni della luna, dai fasti tutti d’oro e neri al fondo di Retablo, del Sorriso; ed è la forma più dura e acuminata di una tragedia da sempre percepita ma che adesso alza i toni; e nella sua bellissima nudità è la voce più dolente dell’autore, e la più sincera.
Però resta l’impressione che Consolo abbia attinto la sua nuova maniera come punendosi, tagliandosi la vena che era sua di vertigine e cascame, di febbrile incessante e  violentissimo rigoglio; e che della lingua propria abbia finito col provare fastidio, quasi il rimorso di una cosa falsa; e per questo abbia preso a resecarla, fino al rischio di cancellarla. Come con l’intento di adeguarla al silenzio furioso che si è sentito intorno.

Claudia Minerva

Note:

[1] E. SICILIANO, Lo Spasimo di Palermo, «La Repubblica», 11 novembre 1998; poi in L’isola. Scritti sulla letteratura siciliana, Manni, Lecce 2003.

[2] Tutte le citazioni da Consolo recano tra parentesi la sigla e il numero arabo che individuano il luogo da cui la citazione è tratta. Queste le sigle (tra parentesi quadre indico la prima edizione; fuori della parentesi quadra  è data l’edizione di riferimento):
SIM    Il sorriso dell’ignoto marinaio  [1976],  Mondadori,  Milano 2002.
LUN  Lunaria  [1985],  Mondadori,  Milano 2003.
PP       Le pietre di Pantalica  [1988],  Mondadori,  Milano 1990.
OO     L’olivo e l’olivastro  [1994],  Mondadori, Milano 1999. SP             Lo Spasimo di Palermo [1998],  Mondadori, Milano 2000.
Altre citazioni sono da OMERO, Odissea (trad. R Calzecchi Onesti), Einaudi, Torino 1963; DANTE ALIGHIERI,
Inferno; T.S. ELIOT,  The Waste Land. Le sigle adoperate sono rispettivamente OdInfWL.

[3] Sulle molte versioni del testo I barboni, scritto da Consolo per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin, cfr. D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italiá», 13, 2008, pp. 161-184. Riassumendo: Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo, «Il Messaggero», 3 marzo 1996; poi, Barboni e Natura morte, in Sgubin, Opere 1988-1997, Marsilio, Venezia 1997; poi, in Ottavio Sgubin, edizioni Mario Jerone, ottobre 1999; poi, Barboni, segno dei nostri fallimenti, «L’Unità», 29 Ottobre 2003; infine I barboni di Ottavio Sgubin, in Ottavio Sgubin pittore, aprile 2003.

[4] Sono del tutto assenti nello Spasimo i due punti e il punto e virgola; raro è l’impiego del punto interrogativo, dell’esclamativo e dei puntini di sospensione fuori delle (poche) battute di dialogo; sporadico (ricorre una decina di volte) l’uso del trattino.

[5] Cfr. M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in (a cura di) E. PAPA, Per Vincenzo Consolo, Manni, Lecce 2004, pp. 59-67. Diversamente, ci sembra, all’indomani della scomparsa di Consolo e sull’aver presentito, nello Spasimo, un «congedo» dell’autore, cfr. ancora M. ONOFRI, Vincenzo Consolo, scrittore antagonista in lotta con il potere, «La Nuova Sardegna», 24 gennaio 2012.

[6] Cfr. G. FERRONI, Il mondo salvato da uno scriba, in «Corriere della Sera», 30 novembre 1998. Di ‘romanzo’ parla Ferroni (di una «dizione essenziale» dello Spasimo) e insieme di pagine «volte verso una liricità lacerante», di una «prosa poetica» che addensa su di sé la fatica dell’esistenza, della storia, della cultura, dell’alterarsi del mondo»: una spinta a narrare continuamente controllata dal «rifiuto dell’illusione del narrare», contigua alla fluida disponibilità al racconto tipica di certa disinvoltura postmoderna. In questo libro che «sgomenta», tuttavia, il critico legge tuttavia un segno di speranza nella «ostinata narrazione poetica», nel dialogo con la grande Letteratura, nell’ostinarsi delle parole, nel loro insistere e resistere a cercare giustizia e verità, come mostrerebbe la preghiera muta con cui il libro si chiude: «O gran manu di Diu, ca tantu pisi, / cala, manu di Diu, fatti palisi!». Cfr anche L. CANALI, Che schiaffo, la furia civile di Consolo, «l’Unità», 7 ottobre 1998. Lo Spasimo è forse «il più bello» dei libri di Consolo, dice lo studioso; è «il più duro e compatto»; ed è «un violento schiaffo» a tanta odierna «letteratura di basso consumo». È testo «impervio», «orgoglioso», «difficile»; simile (dice Canali) a una alternanza di deverbia e cantica, come nella tragedia e nella commedia antiche; ed è pieno di una poesia amarissima, «consapevole della inesorabile sconfitta, non solo personale, ma collettiva, delle istituzioni, dello Stato, dei pochi giusti destinati a soccombere alla violenza criminale o alle tresche segrete dei potenti. E questa attitudine è un altro schiaffo dato a chiunque, nel ‘mondo delle lettere’ non creda più nell’impegno civile e anzi talvolta lo beffeggi. È dunque una singolarità, questo ‘romanzo’ di Consolo: ad un massimo di tensione stilistica, semantica, lessicale, culturale, che potrebbe sfociare in un parnassianesimo fatto di essoterismo estetizzante, corrisponde invece un massimo di denuncia sociale sia pure consapevole della probabile inutilità del proprio sacrificio. Mai, come in questo libro, la furia, questa sì dissacrante, di Consolo, e il romanticismo idealistico della sua ispirazione, si erano tanto avvicinati alla lezione dei ‘classici’».

[7] Riportiamo la bella intervista rilasciata da Consolo ad A. Properi nel 1992 (V. CONSOLO, Il suddetto e i parrucconi, «L’Indice», 5, 1992). Sul mondo della letteratura di oggi e i suoi meccanismi editoriali così si esprime lo scrittore siciliano: Diciamo letteratura, ma dobbiamo intendere narrativa, romanzo o racconto. Ché, la poesia, imperturbata e ignorata, procede sempre più nella sua sacra lontananza, nel suo infernale Eliso o nel suo celeste Olimpo. Procede, lei figlia della Memoria, verso l’oblio, in questo nostro presente immenso dell’estrema frontiera del profitto. Presente che ha mutato ogni valore in merce, ogni espressione in assoluta, squallida comunicazione. Il romanzo sta morendo o è già morto (no, non è il ritornello avanguardistico) e mai come oggi si sono prodotti tanti romanzi, mai se ne sono consumati così tanti. E ognuno d’essi è imbonito come capo d’opera, come sommo frutto della più autentica letteratura, ognuno è imposto come indispensabile all’esistenza o quanto meno alla permanenza nello stato sociale in cui ci si è posti. Produce così, l’industria, come avviene per ogni altra merce, il romanzo per le masse, tristi e misere imitazioni d’altri tipi di moderne narrazioni, giornalistiche o televisive, e il romanzo di lusso per l’élite, riproposte di vecchie, già sepolte squisitezze letterarie, neorondismi di professori pensionati o neomanierismi di anemici o brufolosi scolaretti. I quali, professori e scolari, frenetici cottimisti, solitari e alienati lavoratori a domicilio, sono obbligati a produrre sempre più affannosamente per essere sempre più presenti nell’affollata e vociferante borsa dei “titoli”, sempre disponibili nel modesto mercatino rionale o nelle grandi fiere internazionali; sono obbligati a calcare pateticamente ribalte, a cavalcare tigri, a urlare, farsi inverecondi finanche nelle finte, recitate ritrosie. Chi in questa sede è invitato a confessarsi dichiara allora che, dotato di una forte inclinazione a delinquere, ha cercato, fin da quando ha mosso i primi passi nel territorio letterario, di violare le leggi oppressive della comunicazione e del mercato. Ha scritto poco e in un modo in cui la comunicazione era ridotta al minimo necessario, spostando proditoriamente la sua scrittura verso l’espressione, la forma incongrua e irritante della poesia, praticando un linguaggio che fa a pugni, stride fortemente con il codice linguistico stabilito dal potere; s’è tenuto sempre igienicamente lontano dalle accademie, dalle consorterie, dalle massonerie, dai gruppi d’ogni sorta, d’avanguardia o retroguardia. Tutti questi delitti hanno fatto sì che i tutori dell’ordine lo punissero, che i gendarmi lo tenessero sotto controllo come elemento antisociale. Così a ogni rara uscita, a ogni nuovo libro del suddetto, i parrucconi, i piazzisti della merce, istericamente si scompongono, cominciano a urlare: “È siciliano, non scrive in italiano, è barocco, è oscuro, è pesante come una cassata, le sue narrazioni non sono filate, fruibili: ma chi crede di essere, ma come si permette?.

[8] Cfr. «Il Piccolo», 11 giugno 2011; «La Repubblica», 30 giugno 2011.

[9] Una stroncatura viene da C. TERNULLO, Vincenzo Consolo, Dalla ‘Ferita’ allo ‘Spasimo’, Prova d’Autore, Catania 1998: parla di «scadimento», il critico; di una «pertinace sentenziosità» dell’autore che insisterebbe a «farsi ‘cattiva coscienza’ dei tempi» senza però possedere l’equilibrio di Sciascia; e di una «chiara disunità» del libro, di un «accostamento forzato e insincero dei segmenti narrativi» (p.66-7), di un rasentare l’horror nella descrizione della vecchiaia (p. 69) – giudizio ingeneroso e quasi intemperante, come si vede; e del resto, ognuno ha il proprio (ricordiamo comunque a Ternullo che le «voci di dannunziana memoria» alle quali si riferisce a p. 42 del suo libretto, sono leopardiane).

[10] SP, 70: «Quel contrapposto di gale e di cenci, di vanità e miseria»; segnalata dalle virgolette basse, è citazione dal capitolo XXVIII dei Promessi sposi, con la carestia a Milano.

[11] È quanto Manzoni scrive a Monti (15 giugno 1827) e a Cioni (10 ottobre 1827); lo leggo in A. LEONE DE CASTRIS, L’impegno del Manzoni, Sansoni, Firenze 1965, p. 246.

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

Lunaria : il mondo visto dalla Luna

Lunaria: il mondo salvato dalla Luna

In una Palermo di fine Settecento, una mattina il Viceré si sveglia madido e tremante: ha sognato che la Luna è caduta dal cielo e, una volta raggiunto il terreno, si è spenta, lasciando nel cielo un buco nero. La giornata del Viceré prosegue nella sala delle udienze dove egli acconsente svogliatamente alle richieste più svariate, tra cui spiccano quelle degli Inquisitori che chiedono la libera circolazione per gli officiali, i ministri e i familiari del Sant’Offizio, armati di qualsivoglia arma. A conclusione dell’udienza i ministri srotolano una mappa sulla quale sono indicati i possedimenti vicereali sul quale il Viceré fa scorrere il suo scettro che inspiegabilmente si impunta su una estrema Contrada senza nome.
A questo punto la scena si apre sulla Contrada senza nome, dove alcuni villani guardano sorpresi la Luna che sta per sorgere e che appare insolitamente grande e colorata, in parte, di rosso scarlatto. Dopo un po’ la Luna ritorna ad essere bianca e luminosa, ma comincia a creparsi e falde di luna cominciano a piovere a terra. Un Caporale ubriaco intima ai villani di raccogliere i cocci di Luna e di metterli in una giara, quindi ordina ad uno di loro, Mondo, di andare dal Viceré per riferire l’accaduto e chiedere istruzioni sul da farsi.
La scena torna quindi a Palazzo Reale, dove è riunita l’Accademia dei Platoni Redivivi per disputare circa la malattia, lo sfaldamento e la conseguente caduta sub specie pluviae della Luna. Tra loro arriva Mondo che racconta l’accaduto, portando con sé una falda di Luna come prova. Posto il coccio in uno scrigno, Mondo viene congedato e ciascuno degli accademici esprime la propria opinione sull’accaduto. Finita la disputa, nell’Accademia deserta dalle ante di un armadio esce il Teatro delle Bizzarríe: geni, fate, folletti, astri, pianeti, allegorie; quindi i personaggi fantastici spariscono a mano a mano, lasciando solo la Luna.
Nell’epilogo si torna nuovamente nella Contrada senza nome, dove uomini e donne vestiti di nero (che poi si dimostreranno essere i villani del paese) seppelliscono i resti della Luna nella fontana e, di lì a poco, assistono alla ricomparsa in cielo della Luna che, però, tra i due corni della falce mostra una macchia nera. Giunge allora il Caporale il quale, deluso di ritrovare la Luna al proprio posto, inveisce contro i villani; viene però interrotto dal sopraggiungere del Viceré, il quale sale una scala a pioli e incastra nella Luna il pezzo mancante, decretando che da allora in poi la Contrada senza nome si chiamerà “Lunaria”.

È questa per sommi capi la vicenda che Vincenzo Consolo racconta nell’opera Lunaria, pubblicata per i tipi di Einaudi nel 1985.
In essa si possono riconoscere gli elementi tipici della fiaba. Il ruolo dell’eroe è assunto dagli abitanti della Contrada senza nome e dal messaggero Mondo. Essi rappresentano simbolicamente coloro che vivono nell’amore nella fratellanza, privi di cultura ma generosi e umili, coloro che sono capaci di vivere la vita con pienezza e con poesia. Sono loro che, mossi da pietà, decidono di seppellire la luna morta, permettendone la resurrezione.

Il ruolo di antagonista è assunto dai rappresentanti del potere: innanzitutto quello religioso attraverso le figure degli Inquisitori, “simboli dichiarati di una concorrenza tra potere monarchico e potere ecclesiastico, ma anche di forze occulte e ricattatorie, che intralciano l’eventuale azione moderatrice dell’amministrazione civile” , e poi quello culturale con gli Accademici dei Platoni Redivivi. Questi ultimi, chiamati a consiglio per risolvere il problema della caduta della Luna, mostrano l’incapacità della cultura fine a se stessa di affrontare e risolvere i problemi della vita e di riconoscere che componente essenziale del mondo è la poesia. Essi sanno solo elucubrare freddamente, dilungarsi in lunghi discorsi sterili ai limiti dell’assurdo il cui unico fine è mostrare la propria supposta erudizione e non certo quello di essere utili all’umanità.
Anche il Dottor Elia, pur abitando nella Contrada senza nome, si dimostra sprezzante nei confronti dei suoi compaesani in nome della sua presunta superiorità culturale. Egli si rende ridicolo affermando che il rosso scarlatto che compare sulla Luna altro non è che un fiotto scivolato dal Sole rosso al momento del tramonto. A chi gli fa notare che i due astri percorrono traiettorie differenti, egli risponde con sguardi di compatimento, snocciolando un elenco di nomi illustri e meno illustri:

Tacete, pratico! Voi non avete letto – voi non sapete leggere – in libri autorevoli. Voi non conoscete Ippocrate, Galeno, Avicenna, Bellèo, Alàimo, Petronillo…

Il tema dell’intellettuale che non riesce a mettersi al servizio della vita vera, perdendosi invece in inutili speculazioni, richiama da vicino la tematica principale del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, in cui Consolo prendeva proprio in esame il ruolo dell’intellettuale nella società, attribuendogli il dovere, morale e civile, di contribuire attivamente al miglioramento della società.
Emblematico dell’incommensurabilità reciproca tra il mondo dei villani e quello dei dotti potenti è il momento – non privo di una gustosa comicità – in cui Mondo si pone al cospetto degli Accademici:

Tutti gli accademici ora si agitano, si turano le nari, smuovono l’aria con fazzoletti, pergamene, ventaglini. È per l’odore agreste, selvatico, che il villano emana dal suo corpo che disturba e sconcerta quei signori. Il Segretario chiama un valletto, il quale poi spruzza per aria e sul villano con una pompa essenze profumate. Il villano si agita, scalpita, si tura a sua volta le nari, dà segno di disdegno e di sconturbo.

Anche il potere politico, rappresentato dalla figura del Caporale, si pone come antagonista degli abitanti della Contrada senza nome. Questo non vale, però, per il Viceré, che assume invece il ruolo di aiutante.
Egli si presenta come un essere malinconico, lunare, disilluso dalla vita e simbolo consapevole di un potere fittizio; ricorda per certi versi il Principe di Salina del Gattopardo di Tomasi da Lampedusa, anche se la sua prima comparsa in scena, nel momento del suo risveglio, richiama da vicino quella del Giovin Signore del Giorno di Parini: anche il Viceré si sveglia piagnucolando contro il suo valletto, Porfirio, che ha scostato le cortine permettendo alla luce mattutina di inondare la sua camera :

No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente…

In realtà il Viceré è molto diverso dal Giovin Signore e lo dimostra quando viene ad assumere, come si è detto, il ruolo di aiutante; in quel medesimo istante, però, il meccanismo del teatro nel teatro si disvela e il Viceré cessa di essere quello che è, tanto che esce di scena affermando:

Non sono più il Viceré. Io lo ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete recitato una felicità che non avete. Così Porfirio (Porfirio si spoglia della livrea, degli scarpini, del turbante), d’un mondo antico e nuovo, carico di memoria, invaso dall’oblìo […]. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno.

Tra gli eroi e gli antagonisti è la Luna, ‘oggetto del desiderio’ ricco di valenze simboliche, sognata, contemplata, persa, rimpianta e infine riconquistata. Per Consolo la sua caduta “rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo” , poesia che è invece illusione necessaria contro la precarietà della storia e della vita (Scende la luna; e si scolora il mondo, aveva scritto Leopardi ne Il tramonto della Luna). Così lo scrittore ne ha parlato in una intervista:

[…] oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tipo di prosa di una volta. […] Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto.

La vicenda di Lunaria si apre con il Viceré che narra al valletto Porfirio il sogno appena fatto:

Ero in cima alla torre, sulla terrazza dell’Osservatorio dove l’Abate astronomo m’indicava Cerere e altre stelle intorno… Quand’ecco all’improvviso distaccarsi la Luna […]. Allora, guardando il cielo, vedo, dove lei s’era divelta, un’orma, una nicchia, un vano nero che m’attrae e dona nel contempo le vertigini…

Il tema è un esplicito richiamo a L’esequie della luna, opera in prosa dell’amico poeta Lucio Piccolo, il quale a sua volta aveva preso spunto dal frammento dialogato leopardiano Odi, Melisso , noto anche come Il sogno e Lo spavento notturno. In esso Alceta racconta a Melisso un sogno che ha fatto:

ALCETA
Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno
Di questa notte, che mi torna a mente
In riveder la luna. Io me ne stava
Alla finestra che risponde al prato,
Guardando in alto: ed ecco all’improvviso
Distaccasi la luna; e mi parea
Che quanto nel cader s’approssimava,
Tanto crescesse al guardo; infin che venne
A dar di colpo in mezzo al prato; ed era
Grande quanto una secchia, e di scintille
Vomitava una nebbia, che stridea
Sì forte come quando un carbon vivo
Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo
La luna, come ho detto, in mezzo al prato
Si spegneva annerando a poco a poco,
E ne fumavan l’erbe intorno intorno.
Allor mirando in ciel, vidi rimaso
Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia,
Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa,
Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.

MELISSO
E ben hai che temer, che agevol cosa
Fora cader la luna in sul tuo campo.

ALCETA
Chi sa? non veggiam noi spesso di state
Cader le stelle?

MELISSO
Egli ci ha tante stelle,
Che picciol danno è cader l’una o l’altra
Di loro, e mille rimaner. Ma sola
Ha questa luna in ciel, che da nessuno
Cader fu vista mai se non in sogno.

Se Leopardi aveva sostenuto che la caduta della luna non può avvenire che in sogno, il sogno del Viceré si palesa però come premonizione, divinazione onirica; infatti, come si è visto, il giorno seguente la Luna cadrà veramente a terra frantumandosi in mille cocci.
Anche la prosa segue la dimensione del sogno, rivestendo di un alone magico i personaggi e le vicende. Siamo perciò di fronte ad un racconto caratterizzato dalla compresenza di componenti oniriche e magiche, fittamente intrecciate sia a livello contenutistico che di lingua: proprio da ciò scaturisce il fascino poetico in grado di ammaliare il lettore. Si può di conseguenza notare che la propensione al fantastico, che negli altri romanzi è espressa come scatto visionario, acquisisce in questo caso piena autonomia, impregnando di sé tutto il corso della vicenda.

Lunaria è stata definita dalla critica una “favola teatrale”. Questa affermazione è giustificata dalla struttura formale dell’opera, che consta di un Preludio, due Scenari separati da un Intermezzo e un Epilogo. A tal proposito Cesare Segre ha rilevato che nell’opera sono compresenti due forze opposte:

Alla tendenza centrifuga verso il teatro ne corrisponde una centripeta. Si tratta di quelle specie di teatro en abyme, istituito dal manichino del Re […]. Il manichino, richiamo simbolico all’opera dei pupi, sta in scena all’inizio del Primo scenario, e il Viceré, nascondendosi dietro ad esso, lo fa parlare e disquisire su Palermo, le sue malie e i suoi orrori. Un altro teatrino en abyme, magico e segreto, si rivela poi nel Secondo scenario, quando «Si aprono per incanto le ante di un armadio, che altro non è se non il Teatro delle Bizzarrie, e ne vengono fuori fantastici personaggi: monachini geni fate folletti lèmule» […].

La riflessione di Segre richiama alla mente molti precedenti, da Plauto a Goldoni, dall’Amleto di Shakespeare alla trilogia di Luigi Pirandello, nei cui drammi la metateatralità è pretesto per una riflessione sulle finzioni della realtà sensibile. E Lunaria varrà a Consolo il Premio Pirandello.

Nel dipanarsi delle azioni di sapore fiabesco emergono numerosi riferimenti storici, letterari, filosofici; emerge soprattutto un punto di vista malinconico sulla vita, impersonato dal Viceré che, nonostante si chiami Casimiro (nome che contiene le parole “fama” e “comandare”) soffre per il ruolo che riveste, è dedito spesso ad attacchi di malinconia, e a conclusione della vicenda declama:

Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore. Contro i quali costruimmo gli scenari, i teatri finiti e familiari, gli inganni, le illusioni, le barriere dell’angoscia. E il primo scenario fu la Luna, questa mite, visibile sembianza, questa vicina apparenza consolante, questo schermo pietoso, questa sommessa allegoria dell’eterno ritorno. Lei ci salvò e ci diede la parola, Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale […]. Se ora è caduta per il mondo, se il tetro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola. Lunaria da ora in poi si chiamerà questa contrada, Lunaria…

In Lunaria sono presenti reminiscenze letterarie sotto forma di riprese letterali, come quelle di versi leopardiani, talora conservati quasi senza mutamenti, o attraverso riferimenti espliciti, come quello al viaggio di Astolfo nel mondo della Luna, a cui segue un passo del XXXIV canto de L’Orlando Furioso di Ariosto:

Là, dove giunse Astolfo in groppa all’Ippogrifo per cercarvi il senno del folle Paladino, là, come canta il Poeta, è dammuso, catoio, pozzo nero di tutte le carenze, le pazzie, i sonni, gli oblii, gli errori della Terra.

Dall’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro difetto
o per colpa di tempo o di fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Interi brani di poesia e versi “nascosti” compaiono in Lunaria. Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste così a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessità per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita. Aldo Maria Morace afferma che questo è il libro più barocco di Consolo.

Ne scaturisce una scrittura fortemente prosodica, assai ricca di assonanze e di propagginazioni foniche, governata dal richiamarsi di accenti acuti e gravi, posti in andamento ascendente e discendente […].

Esempi significativi di questo stile sono le cantilene che vengono recitate dagli abitanti della Contrada senza nome:

Luna nova, Luna nave,
su nel cielo a navigare.

Melograno e la lumía,
la parola di magía.

Consolo ha affermato di aver voluto, con questo racconto, allontanarsi da un romanzo storico che stava scrivendo, uscire dalla storia. Ma per uno scrittore che attraverso la propria opera vuole trasmettere un messaggio, e questo è il caso di Consolo, uscire dalla storia è impossibile. Infatti la storia è presente anche in questa che solo apparentemente è una favola. E’ storia di inquisitori, di dotti avulsi dal mondo, di poteri imposti e strumentalizzati, simbolo di un’umanità che non si riconosce più in se stessa. In questo senso il passo in cui si dichiara «Così è stato e così sempre sarà: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà, cadono astri, si sfaldano, si spengono, uguale sorte hanno mitologie credenze religioni» è una chiara visione ciclica della storia, per cui tutto ritorna, come infatti farà la luna, ma avendo insegnato, almeno a qualcuno, quando inutile e melanconico sia un mondo senza poesia, senza illusione. Ed infatti una delle cantilene recitate dagli abitanti della Contrada senza nome, parlando della Luna, afferma:

Ma qui, nella remota
Contrada senza nome,
isola in cui dimora
frammento di parola,
qui ritorna ancora
in tutte le sue grazie,
nelle speranze, nel sogno
necessario, nella gioia
luminosa dell’inganno.

Dal punto di vista linguistico Lunaria accosta stili diversi: dal narrativo al dialogico, dal lirico-poetico al linguaggio scientifico o pseudo scientifico degli usato dagli Accademici. Nell’appendice all’opera denominata Notizie, vengono offerti al lettore confronti letterari, spunti di riflessione, riferimenti e riscontri storici; suggerisce echi e connessioni; stimola ricerche e approfondimenti.
Inoltre Lunaria, pur nella sua brevità, si configura come un crogiolo di lingue e dialetti. Sono facilmente riconoscibili l’uso dell’italiano nei suoi diversi registri: da quello accademico-scientifico, a quello visionario, mimetico, letterario, lirico, popolare; l’uso del siciliano, del dialetto gallo-italico, dello spagnolo di Doña Sol e degli inquisitori, del latino nonché di latinismi vari. Il Viceré «ricorre saltuariamente a tutti questi idiomi, compreso il dialetto gallo-romanzo» , ossia il sanfratellano, tanto che a Mondo risponde parlando nella sua stessa lingua. Ma dopo aver posto nella Luna il pezzo mancante, essersi posto dalla parte del popolo e non del potere che invece dovrebbe rappresentare, prima di affermare di non essere più il Viceré ammette significativamente:

Ah Mondo, Mondo, io non capisco più la vostra lingua, non sono più il sovrano poliglotta, il re della storia, il re che sogna…
C.Segre cit. pag. 98

Paola Baratter, Lunaria [di Vincenzo Consolo]: il mondo salvato dalla Luna, in “Microprovincia” (Stresa), n. 48 (2010), pp. 85-93.

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Filosofiana ( relato de Las piedras de Pantalica ) Vincenzo Consolo

FILOSOFIANA (relato de Las piedras de Pantálica) VINCENZO CONSOLO 2ª edición, revisada y ampliada Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor Este libro ha sido editado con la ayuda financiera de la Fundación Caja Murcia, gracias a la gestión cultural del Director de la Sucursal de Caja Murcia de Puerto Lumbreras (años 2009 y 2010). Colaboran asimismo en la presente edición el Instituto Italiano de Cultura de Barcelona y el Centro Giacomo Leopardi de Valencia De la presente edición, introducción, traducción y notas: © Irene Romera Pintor. Todos los derechos reservados. © Vincenzo Consolo. Todos los derechos reservados. En las contraportadas: © de la fotografía de Vincenzo Consolo: Jordi Pla. © de la fotografía de Irene Romera Pintor: Juan Carlos Comas. Queda rigurosamente prohibida, sin la autorización escrita de los titulares del copyright, bajo las sanciones establecidas por la ley, la reproducción total o parcial de esta obra por cualquier método o procedimiento, comprendidos la reprografía y el tratamiento informático. Fundación Updea Publicaciones Barceló 1º, 28004 Madrid www.updea.org Segunda edición, 2011 Depósito legal: M-40467-2011 ISBN: 978-84-615-4082-2 Impreso en España A Vincenzo Consolo, por sus 75 años, en el vigésimo aniversario de las Piedras de Pantálica. (1ª edición 2008) A la ciudad de Lorca, tierra de mi padre, como homenaje a su gente y a su habla. (2ª edición 2011) ÍNDICE Pág Prólogo a la segunda edición ………………………………………………………………….. 9 INTRODUCCIÓN I. Estudio de “Filosofiana” ……………………………………………………………………… 13 I. a.Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” ……………………………… 13 I. b.Los retos de la traducción de “Filosofiana” …………………………………… 19 II. Los regionalismos y su correspondencia ……………………………………………… 23 III. Referencias de citas bibliográficas ……………………………………………………… 27 IV. Recensiones sobre Le pietre di Pantalica …………………………………………….. 31 FILOSOFIANA I. Nota al Texto …………………………………………………………………………………….. 36 II. Nota a la Traducción …………………………………………………………………………. 37 III. “Filosofiana” ……………………………………………………………………………………. 39 IV. Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto …………… 64 APARATO BIBLIOGRÁFICO I. Obra de Vincenzo Consolo ………………………………………………………………… 93 II. Traducciones de la obra de Vincenzo Consolo …………………………………….. 97 III. Premios y Reconocimiento a la obra de Vincenzo Consolo …………………. 103 IV. Trabajos de investigación …………………………………………………………………. 105 V. Encuentros monográficos sobre Vincenzo Consolo ………………………………. 117 VI. Estudios críticos ………………………………………………………………………………. 125 ÍNDICE DE NOMBRES …………………………………………………………………….. 133 9 PRÓLOGO A LA SEGUNDA EDICIÓN Para esta segunda edición de “Filosofiana” no sólo se ha llevado a cabo una labor de revisión y ampliación de la primera, sino que se ha modificado el planteamiento mismo de la propia traducción, con lo que tanto el texto de la traducción, como consiguientemente el glosario de términos y regionalismos que aparecen en la misma, han sufrido una reforma sustancial. En lo referente al glosario de regionalismos y de otros matices relevantes de la traducción, dado que el número de entradas se ha visto incrementado considerablemente en relación con la primera edición, he preferido ofrecerlo por orden alfabético en esta segunda edición con objeto de facilitar y simplificar su manejo. Con ello también se evita la incómoda presencia de asteriscos, que en la primera edición destacaban –dentro del corpus de la traducción– cada uno de los términos comentados, con lo que no sólo se rompía la fluidez de la lectura, sino que también la hacían más dificultosa. Del mismo modo, el aparato bibliográfico ha sufrido una profunda transformación. Para esta segunda edición mi propósito ha sido ofrecer una relación bibliográfica lo más nutrida y completa posible. En este contexto, no puedo dejar de agradecer efusivamente a Cesare Segre la atenta lectura crítica –en Valencia– que otorgó a la primera edición (abril 2008) y el tiempo que me ha dedicado para la elaboración de la presente edición en octubre de 2008 y febrero de 2011, en Milán. He tenido muy presentes sus observaciones tanto en materia bibliográfica como en cuestiones lingüísticas. Por último agradezco muy sinceramente a Vincenzo y Caterina Consolo que me abrieron las puertas de su casa y de su archivo. Le estoy particularmente agradecida a Caterina Consolo por mi estancia en octubre de 2008 y por las sesiones de trabajo en septiembre, octubre y noviembre de 2010, así como febrero y junio de 2011. La consulta con el autor ha sido imprescindible para perfilar matices traductológicos y para elaborar el “Aparato Bibliográfico”. Valencia, septiembre de 2011. INTRODUCCIÓN 13 I. ESTUDIO DE “FILOSOFIANA” I. a. Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” “Filosofiana” es el séptimo de los quince relatos que componen el libro Le pietre di Pantalica (Las piedras de Pantálica), publicado en 1988. Consolo no era ya ciertamente un desconocido en los ambientes literarios italianos y europeos. El éxito de Il sorriso dell’ignoto marinaio, traducido inmediatamente a los principales idiomas, seguido unos años más tarde por Lunaria, en 1985, y por Retablo, en 1987, había creado un público expectante de lectores ávidos de saborear de nuevo una lengua de belleza, de recrearse con las resonancias, a la vez antiquísimas y nuevas, que despertaba en ellos el lenguaje consoliano, de recuperar una historia que creían sepultada y tomar conciencia de la necesidad de reaccionar contra el embrutecimiento material y moral que el mundo actual traía consigo, esa “distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini” (Le pietre…, p. 166). No quedarían defraudados. Una vez más, Consolo vuelve a reavivar lo que Segre llamó acertadamente “su nostalgia del teatro”. Esta profunda sensibilidad de dramaturgo se manifiesta en su libro Le pietre di Pantalica al ofrecer de un lado la escenografía, de otro los personajes y por último la acción. Así, delimita cuidadosamente los contenidos de esta obra estructurándolos en tres grandes apartados intitulados: teatro, personas, acontecimientos. La primera parte (teatro) consta de siete relatos que presentan otros tantos escenarios de 14 los alrededores de Pantálica, antiquísima necrópolis desde los tiempos prehistóricos, situada en el corazón de la Magna Grecia. La naturaleza en este caso brinda al autor una escenografía de singular belleza en su austera grandiosidad. El séptimo y último relato de esta primera parte es precisamente “Filosofiana”. Nada es casual en Consolo. Tampoco el hecho de que esta pequeña joya de concisión cumpla a la perfección la regla de las tres unidades del teatro clásico: se desarrolla en un espacio de 24 horas, desde el alba de un día al alba del día siguiente, en un mismo lugar, los altos de Filosofiana, y con una misma acción, la búsqueda inicial de un tesoro, material para Vito Parlagreco y glorioso para don Gregorio Nànfara, acción única hasta el final del relato en que los dos protagonistas se quedan frente a frente sin haber conseguido el uno el oro, el otro la fama. Y en esa región de Filosofiana, o Sofiana, como se la conoce popularmente en Sicilia, surcada por cerros, montañas, valles y villas, cuyos nombres griegos dulces de repetir se convierten en versos1 , es donde Consolo va a situar a sus dos protagonistas. Pero también aquí, como en dos de sus obras anteriores, Il sorriso dell’ignoto marinaio y Retablo, estructura la coherencia interna de su libro por medio de una tupida red de ecos y reencuentros. Y es que Consolo mantiene a lo largo de su trayectoria literaria un personalísimo y constante sentido de la construcción narrativa. Procede por fragmentos, mezclando vivencias históricas y personales con personajes ficticios y documentos auténticos en sus obras. Así, cada una de ellas configura realmente las páginas de un único libro, recorrido por vibraciones y resonancias que se corresponden entre sí para gozo y disfrute de los iniciados, esos felici pochi que –al igual que los happy few de Stendhal– Consolo quiere como lectores. 1 Refundición de los versos de Salvatore Quasimodo, citados en Le pietre…, p. 123: “… Il cui nome greco / è un verso a ridirlo, dolce”. 15 Con una técnica narrativa casi de cámara cinematográfica2 Consolo presenta un largo primer plano de un hombre solitario, un campesino, con su mula y sus avíos de trabajo, que llega desde el valle al altiplano de Sofiana. Se desconoce todavía su nombre; sólo la voz en off del narrador omnisciente descubre los sueños de este labrador: uno cumplido, el haber logrado un retal de tierra aún lleno de piedras; el otro aún por cumplir, el sueño –que le hace reír de placer– de crear una casa suya llena de belleza, copia en pequeño de la mansión y de los jardines del rico terrateniente para el que había trabajado. Es de señalar la delicadeza de sentimientos de este labriego aún sin nombre. No es un sentimiento de envidia el que lo embarga, sino de admiración por la belleza. Sólo cuando el personaje se dispone a descansar, después de haber trabajado y rastrillado en su árido terreno, se descubre su nombre: Vito Parlagreco. Es entonces cuando el lector reencuentra a un viejo conocido. Vito ya había aparecido en el relato inmediatamente anterior a “Filosofiana”, “Ratumemi”, en el mismo libro Le pietre di Pantalica. Este relato se encuentra dividido en dos partes, separadas por la inclusión de documentos auténticos sobre los latifundios y hábitos de contratación de braceros. En “Ratumemi” Consolo había presentado con pequeñas pinceladas algunos rasgos del carácter de Parlagreco. Por tanto, al descubrir el nombre del labriego, bien entrada la lectura de “Filosofiana”, el lector sabe ya que este labrador es extremadamente delgado y que su aspecto famélico esconde una voracidad poco común. También sabe de la finura espiritual que subyace bajo su aspecto rudo. No es casual, en este sentido, su nombre y apellido, cargados intencionadamente de simbolismo. Vito era el nombre que elegían los primeros cristianos para expresar su esperanza en la vida eterna, al tiempo que Parlagreco 2 En 1992 Pasquale Scimeca llevó a la gran pantalla “Filosofiana” en su película Un sogno perso, film que se articula en torno a tres relatos, siendo el primero éste de Consolo. 16 atestigua la huella de la lengua hablada por sus antepasados, el griego. La cámara de Consolo se acerca enfocando de cerca y pone en primer plano a Vito almorzando. Influido por el silencio impresionante y su cansancio físico, Parlagreco va desgranando su hastío y desconcierto ante el misterio de la existencia humana. Sin embargo, Vito, haciendo honor a su nombre y alimentado desde niño por relatos de hallazgos fabulosos, abriga en su corazón un sueño de vida mejor: encontrar un tesoro de doblones de oro con el que su “vida de pesambres y de miedo” se torne en una de alegría y de sosiego. Y lo encuentra, o cree haberlo encontrado, al descubrir una antiquísima tumba llena de vasijas. En su ingenuidad, está convencido de que sólo necesita de una fórmula mágica para que su hallazgo se convierta en oro. Aquí entra en juego el segundo protagonista, que –éste sí– resulta desconocido para el lector: don Gregorio Nànfara. Su nombre y apellido también han sido cuidadosamente seleccionados por Consolo. Gregorio en griego significa el que está en vela, preparado para cualquier acción, al tiempo que Nànfara es un nombre siciliano que alude a una voz de timbre nasal. Consolo presenta aquí con gruesos trazos un arquetipo del típico charlatán, que se podía encontrar en cualquier pueblo hasta mediados del siglo pasado. En realidad un pobre hombre, aunque simpático, que sobrevive gracias a toda clase de expedientes, explotando la credulidad e ignorancia de las gentes del campo. A pesar de su pobreza y desaliño, es sin embargo respetado y admirado por la sencilla gente del pueblo debido a su supuesto conocimiento del griego y del latín, al prestigio de haber estudiado en la ciudad en un seminario y sobre todo a su ciencia esotérica, casi mágica, como demuestra su capacidad de detectar corrientes subterráneas en un país en donde el agua es un bien escaso. A él acude Vito Parlagreco para que emplee sus conocimientos en materializar el tesoro que prometía aquella tumba. El pícaro Don Gregorio, a cambio, consigue que el labriego le pague por adelantado mil liras por sus servicios. 17 Pero Consolo tiene reservada una última sorpresa. En paralelo al desconcierto que experimenta don Gregorio ante la tumba descubierta, aquí también el drama se torna farsa, burla escatológica. Esta burla cruel, a la que Vito Parlagreco y Gregorio Nànfara son sometidos, quiere ser metáfora –según me confirmó el autor– de la que sufrieron los campesinos sicilianos después de que el partido Blocco del Popolo, tras obtener la victoria en 1946, les hubiese asegurado el reparto de tierras. Tuvieron que presionar para ocuparlas hasta que finalmente, en 1950-1, les repartieron las peores (“questa terra ch’era ’na ciaramitàra, una distesa rossigna in groppa all’altopiano di cocci e di frantumi, pance culi manici di scifi, lemmi, di bombole e di giare”). Estos hechos se relatan en “Ratumemi”. De igual modo, en el relato de “Filosofiana”, Don Gregorio Nànfara fracasa en su encargo de materializar el oro a partir de los restos encontrados en la tumba y se las agencia para encontrar una justificación que lo exime de toda responsabilidad culpabilizando a Vito, que se había encontrado con un misterioso cabrero poco antes de descubrir la tumba. Parlagreco, abrumado por el sentimiento de culpa al no haber reconocido al duende tutelar guardián del tesoro en aquel pastor mudo que le regalara una liebre muerta, se traga junto con el vino el ojo de cristal que don Gregorio había dejado en un vaso. Nànfara lo va a retener en su casa, purgándolo con sal inglesa, hasta que el desgraciado lo restituya. Consolo trenza todo el relato de “Filosofiana” con dos hilos conductores: su ironía de raíz ática y su inmensa ternura. Ternura hacia el pobre Vito Parlagreco, ingenuo y bondadoso, y ternura también hacia el trafulla de don Gregorio, granuja de medio pelo, que acaba creyéndose sus propias argucias. Uno y otro son perdedores. Nànfara, por quedar desposeído de su ilusión de haber encontrado la auténtica tumba de Esquilo, descubrimiento con el que esperaba haber alcanzado la gloria. Y Parlagreco, por ser despojado de mil liras y “secuestrado” hasta que restituya el ojo de cristal de don Gregorio. 18 Así termina, con una carcajada, un relato envuelto en meditaciones poéticas y ensoñaciones de tiempos remotos, en donde no falta un toque de realismo mágico, que se materializa en la figura del cabrero. En el nombre de este muchacho –Tanatu– resuena la voz griega de “thanatos”3 (muerte), esa muerte que planea tan a menudo en los relatos de Consolo acompañando los sueños, la vida. Lo mismo que Segre habla de la “nostalgia del teatro” de Consolo, se podría hablar no ya de su nostalgia, sino de su vivencia de la vida como sueño, muerte y representación, tan anclada en su personalidad por la impronta, quizá inconsciente, del Barroco español en Sicilia4 . Aquel cabrero misterioso que aparece de improviso y desaparece tan veloz como inesperadamente, al igual que la muerte, ¿será en verdad un pastor de carne y hueso o el genio todopoderoso del cual dependía que el fango de las vasijas se convirtiese en oro? Y aquella voz surgida del fondo de las entrañas de la tierra, declamando un verso de Esquilo, ¿sería la de don Gregorio o la del propio poeta griego, que pedía ser 3 Como observó agudamente el profesor Fausto Díaz Padilla [cf. «“Filosofiana” o Cuando las piedras hablan», en La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), ed. de I. Romera Pintor, Valencia, 2008, pp. 39-53 (véase en concreto la p. 40)], en el eco del diminutivo del nombre Gaetano, “Tanatu” –nombre del pastor–, resuena la palabra griega Thanatos que significa “muerte”, que es la sombra que planea en los altos de Filosofiana en este relato. Posteriormente, consultándolo con el propio autor, Consolo me confirmó que, en efecto, ésta había sido su idea para aureolar a este personaje del cabrero, algo misterioso, de un halo telúrico y arcano. 4 Cf. el prefacio a mi traducción de Lunaria, en la edición de 2003 (Madrid, Centro de Lingüística Aplicada Atenea) y Romera Pintor, I.: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, en La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006, pp. 161-176. Cf. asimismo Gianni Turchetta, introducción a Le pietre di Pantalica, “Oscar” Mondadori, Milán, 1990, pp. V-XIII. 19 honrado como hombre y no como dios? La respuesta queda abierta a cada lector. Pero lo que no deja lugar a dudas es la voz de Consolo que se hace paso a través de la de Parlagreco, una voz llena de belleza, que proclama los misterios arcanos y telúricos de una vieja tierra cargada de historia y, por ende, de memoria, para impregnar seres y paisajes de ese halo inconfundible, crisol de las civilizaciones que configuraron el Mare Nostrum y esencia de la esencia de Europa, que es la sicilianidad. I. b. Los retos de la traducción de “Filosofiana” Hasta la fecha sólo existen dos traducciones de Le pietre di Pantalica, obra de Vincenzo Consolo en la que se ubica el relato “Filosofiana”: en 1990 Maurice Darmon la tradujo al francés y en 1996 Anita Pichler lo hizo al alemán. Mi edición de “Filosofiana” de 2008 es, por consiguiente, la primera que ofrece la traducción del relato al español. Este hecho, con ser un privilegio, no deja de conllevar una enorme responsabilidad, tal y como se verá a continuación. A la hora de traducir “Filosofiana” he procurado respetar hasta el extremo la estructura lingüística, sintáctica y estilística del original. Conviene tener en cuenta que el uso del asíndeton, de la anáfora, de la yuxtaposición y de tantos otros recursos que recorren el texto de principio a fin tienen un alto valor estilístico y literario, y confieren al relato un sello de identidad propio del lenguaje de Vincenzo Consolo, que se caracteriza precisamente por su riqueza lingüística, por sus juegos de sonoridades y cadencias, por su léxico… por su belleza, en definitiva. Ha sido éste un tema que he consultado con el propio autor. La importancia de rendir en la traducción este sello de identidad consoliano me ha empujado a tratar el texto con el mayor respeto. No es fortuito el hecho de que, por ejemplo, haya conservado meticulosamente la misma puntuación. Ni son tampoco 20 fortuitas las construcciones sintácticas de la traducción, en las que he tratado de reproducir el mismo orden que en italiano. No cabe duda de que una traducción más libre y menos respetuosa con la lengua de origen habría optado en no pocas ocasiones por soluciones más asépticas y estandarizadas. Siguiendo en esta misma línea, y siempre con la idea de rendir la textura del original, he preferido siempre el vocablo más próximo por su sonoridad al del texto italiano, dentro del abanico de posibilidades que ofrecen las equivalencias al español. Este hecho responde una vez más a una voluntad consciente en el acto de traducir y no a una mera coincidencia lingüística. Así por ejemplo, no es fortuito el hecho de que haya optado por “candela” en lugar de “vela”, por “can” en lugar de “perro” o por “botijo” en vez de “cántaros” para traducir bombole. En definitiva, he elegido las voces más similares fonéticamente a las elegidas por Consolo, conservando las prioridades del regionalismo, así como el valor literario y culto de las mismas, pero privilegiando siempre la oralidad del discurso. No en vano la oralidad es un punto esencial en la escritura consoliana –quizá por aquella “nostalgia del teatro” a la que aludía Segre– y por consiguiente lo es también en su traducción. En definitiva, mi intención al traducir “Filosofiana” ha sido la de reproducir en la medida de lo posible el estilo, la sonoridad y la cadencia, así como las mismas construcciones lingüísticas y sintácticas del relato. Ahora bien, la decisión sin duda más arriesgada en mi trayectoria como traductora ha sido la de hacer corresponder los regionalismos sicilianos con los murcianos. La idea surgió al constatar las similitudes existentes entre las variantes lingüísticas de uno y otro. Este hecho no sorprende si se tiene en cuenta la proximidad geográfica del Levante español e Italia. La palabra que me llamó la atención en primer lugar –por su correspondencia casi exacta con su equivalente murciano– fue la de calipso, forma siciliana para “eucalipto”. La estructura del 21 término “eucalipto” se ha modificado en siciliano por medio de una metábole con aféresis, alteración que se recoge en el habla murciana casi literalmente (“calistro”). Todavía más significativo es el uso de algunos términos que desgraciadamente han caído en desuso tanto en España como en Italia, como “lampo” y “lastra”, pero que se siguen manteniendo vivos en los ambientes rurales de Sicilia y Murcia. Pero aún observé otras similitudes lingüísticas: el mismo rasgo que privilegia en ambas regiones el uso del pretérito simple sobre el compuesto, hecho que también se justifica por la proximidad geográfica del Levante español y Sicilia, así como por la identidad de sus raíces etimológicas, principalmente latinas con influencias árabes y también aragonesas en ambos casos. Sólo daré un ejemplo de la gratificante similitud e idéntica procedencia etimológica entre dos voces: “gebbia” y “aljibe”, que proceden del árabe clásico “gˇibb” y que comparten el mismo valor semántico. Estas equivalencias tan similares y llamativas me llevaron a estudiar la posibilidad de aplicar en todo el texto una correspondencia entre los regionalismos sicilianos y los murcianos. Aunque no fue la única razón porque, además de estas analogías lingüísticas, la narración transcurre en una región (Filosofiana) que me recordaba mucho a una tierra particularmente entrañable y querida para mí, la de Lorca, concretamente el “roalico” de Puerto Lumbreras, cuna de mi familia paterna, donde paso desde niña todos mis veranos y donde por consiguiente puedo vivir “in situ” sus gentes, sus sueños y empaparme de “viva voce” de su habla. Efectivamente, estas dos regiones, la siciliana y la murciana, se asemejan singularmente no sólo en su fisionomía física –altos planos que rodean pequeños valles– sino también en su historia. Ambas comparten civilizaciones sepultadas (fenicios, cartagineses, romanos, árabes…) y esconden en sus entrañas tumbas legendarias de personajes emblemáticos: la de Esquilo en Gela, la de los Escipiones en el Cabezo de la Jara. Ambas también mantuvieron vivas hasta mediados del siglo pasado la tradición de los “trovos”. 22 Fue así cómo finalmente –y tras una gratificante labor de investigación lingüística– me decidí a llevar a cabo la traducción de “Filosofiana” haciendo uso de los regionalismos murcianos. Con todo, en esta segunda edición he hecho un uso extensivo del habla murciana, aplicándola a todo el relato, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto original. Este nuevo planteamiento está más en consonancia con el espíritu y la dinámica global de la narración, así como con el ambiente rural que se describe y con el habla de los personajes. De este modo la presente edición recupera toda la plasticidad lingüística de las variantes regionales de esa lengua que en palabras de Vicente Medina “gana en dulzura y belleza conservando su tierno y delicado sabor local”, en estos momentos de depauperación cultural y lingüística donde los medios de comunicación están imponiendo una lengua estándar desprovista de color y sabor. Convenía, por tanto, recuperar estas voces ya olvidadas (“tanimientras”, “terretremo”, “escullir”, “lampo”, “lastra”, “pesambre”, etc.), imitando en eso a los franceses en la iniciativa seguida con entusiasmo por el gran público y lanzada por Bernard Pivot: “Sauvons un mot chaque jour”. En definitiva, a través del habla murciana, la presente traducción ofrece al lector español las mismas valencias cargadas de sorpresa y el mismo redescubrimiento de su propio idioma que Consolo brinda a su lector italiano. 23 II. LOS REGIONALISMOS Y SU CORRESPONDENCIA Conviene aclarar desde un principio que no existe una lengua murciana como tal. Existe desde luego una variedad de habla murciana o regionalismo murciano que se caracteriza precisamente por mantener rasgos morfo-sintácticos, fonéticos y léxicos del español antiguo, es decir del castellano, así como de otras lenguas con las que entraron en contacto, como el árabe (durante la dominación musulmana tras desmembrarse el reino visigodo), el aragonés (con la llegada de los religiosos aragoneses que predicaron en Murcia tras la Reconquista) y el catalán (la repoblación cristiana en Murcia era en su mayoría catalana). Pero la lengua de Murcia es hoy –y ha sido siempre– el español. En este sentido, resulta altamente significativo el hecho de que un buen número de vocablos que se recogen en los diccionarios de regionalismos murcianos o de hablas murcianas sean palabras españolas que con el tiempo han caído en desuso en casi toda España, pero que –muchas veces alteradas y modificadas– se conservan en Murcia, principalmente en las zonas rurales, así como en buena parte del Levante. Con ello ya queda señalado uno de los rasgos que mejor caracterizan este regionalismo: el de su conservadurismo lingüístico, su arcaísmo léxico, su sabor añejo. Es éste un rasgo que comparte el habla murciana con la siciliana y una de las razones que imprimen al texto de Consolo ese regusto de tiempos pretéritos evocado por el propio léxico, tan rico y sugerente, amalgama de voces actuales y vigentes, y a la vez de resonancias arcaicas, remotas, misteriosas. 24 Con todo, existe un gran número de alteraciones, principalmente fonéticas y morfológicas, propias del habla murciana. Lo que sin duda caracteriza la pronunciación de este regionalismo es la supresión de la “s” final (que viene a pronunciarse como una especie de “h” aspirada) y a menudo también de la “r” en final de palabra. En este contexto, conviene señalar que no he reflejado en la transcripción5 la aspiración de la “s” ni la pérdida de la “r” final con objeto de no perturbar la comprensión del relato, ya que una supresión gráfica sistemática de estas consonantes habría podido resultar desconcertante y provocar ambigüedades que pondrían en peligro la comprensión del texto. Sin embargo, no cabe duda de que ésta es la seña de identidad fonética del habla murciana. En cambio, sí que he reflejado en la traducción la supresión de la “d” intervocálica, tan extendida y tan típica del hablar murciano (“sío” por “sido”, “callaíco” por “calladico”, “comprendío” por “comprendido”, “parao” por “parado”, “múo” por “mudo”, etc.). También transcribo elisiones, como la de la “e” en la preposición “en” seguida de artículo (“n’el” por “en el”), la de “o” en “como”, o la de la “e” en la conjunción “que” y en la preposición “de” (“com’uno d’esos” por “como uno de esos”, “qu’era” por “que era”, etc.). Además de los vocablos que se consideran propiamente regionalismos, la inmensa mayoría del léxico que conforma el habla murciana está constituida por modificaciones o deformaciones de palabras vigentes en todo el territorio nacional. Son muchos los casos de aféresis, en que se suprime alguna letra o prefijo al inicio de la palabra («’tate» en lugar de “estate”), o bien aún en medio o al final de la palabra 5 Salvo en contadas ocasiones, como en «po’» y como en el poemilla, donde he suprimido gráficamente la “s” de “asponticos” y del verbo “es” para mejor transcribir el acento rural de la letrilla: (…) N’er Lanniri siet’aspontico’ / Sabucina e’ jarta d’oro (…). Por las mismas razones, sólo he transcrito la desaparición de la “r” final en contadas ocasiones, como “señó” por “señor”. 25 (“anque” por “aunque”, “custión” por “cuestión”, “señó” en lugar de “señor”). Son frecuentes asimismo la metátesis –en la que se altera el orden de los fonemas (“pedricar” por “predicar”, “naide” por “nadie”)– y otros metaplasmos en los que se alteran fonemas (“umbligo” por “ombligo”, “liopardos” por “leopardos”, “cimiterio” por “cementerio”, “nusotros” por “nosotros”, “semos” por “somos”, “dicir” por “decir, “mesmo” por “mismo”, ”uíste” por “oíste”), o en los que se contraen palabras (“ande” en lugar de “a dónde”). También son habituales las apócopes, que en ocasiones van acompañadas de mutaciones vocálicas («po’» en lugar de “pues”, «pa’» en lugar de “para”, «ca’» por “cada”, «to’» por “todo”, “quié” por “quiere”, “casá” por “casada”, “tiés” por “tienes”), así como todo tipo de añadidos fonéticos: prótesis al inicio de la palabra (“ajuntar”, “abajar”, “asentarse”), epéntesis en el interior (“muncho” por “mucho”, “lenjos” por “lejos”) y paragoges al final de la misma (“asín” por “así”, “sín” por “sí”). Muy típicos del habla murciana son igualmente dos sufijos que provienen del aragonés, “ico” (“puentecico”) y “uco” (“Vituco”), así como el sufijo “ujo-a” (“cosujas”). Finalmente, es muy frecuente también la mutación de la “l” por la “r” en los artículos seguidos de consonante (“er día” por “el día”, “ar cielo” por “al cielo”) y en no pocas palabras (“farta” por “falta”, “argo” por “algo”, “vorver” por “volver”, “curpa” por culpa”, etc.). Similares mutaciones se encuentran en el regionalismo siciliano: sufijo “uzzo” (“Vituzzo”), alteraciones de fonemas y letras (“cimiterio” en lugar de “cimitero”, “liopardo” en lugar de “leopardo”), contracciones y metaplasmos por supresión de fonemas (“vossi” en lugar de “vossignorìa”, «’gnorsì» en lugar de “signorsì”, “sto” en lugar de “questo”), etc. Por todo ello, el resultado de este uso del habla murciana en la traducción permite de un lado reflejar la compleja variedad lingüística del texto original y de otro enriquecer la versión española del relato a través de una variedad de matices, si no idénticos, cuando menos similares a los que el autor ha querido infundir a su obra. 27 III. REFERENCIAS DE CITAS BIBLIOGRÁFICAS 1. Diccionarios de regionalismos: Grosschmid, Pablo y Echegoyen, Christinna (1998): Diccionario de regionalismos, Barcelona, Editorial Juventud. Mortillaro, Vincenzo (1876): Nuovo Dizionario siciliano-italiano, Palermo [rist. anast. Palermo 1871, Vittorietti]. García Soriano, Justo (1980): Vocabulario del dialecto murciano, Murcia [facsímil de la 1ª edición de 1932]. Gómez Ortin, Francisco (1991): Vocabulario del Noroeste murciano, Murcia, Editora Regional. Ruiz Marín, Diego (2007): Vocabulario de las hablas murcianas. El español hablado de Murcia, Murcia, DM librero-editor. Vocabolario siciliano, vol. I (A-E) a cargo de G. Piccitto, CataniaPalermo 1977; vol. II (F-M) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1985; vol. III (N-Q), a cargo de Giovanni Tropea, Catania-Palermo 1990; vol. IV (R-Sgu-) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1997; vol V (Si-Z) a cargo de S. C. Trovato, Catania-Palermo 2002, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani. 28 2. Diccionarios de consulta general: Barcia, Roque (1881-83): Primer diccionario general etimológico de la lengua española, Establecimiento tipográfico de Álvarez hermanos, Madrid. Battaglia, Salvatore, Grande Dizionario della lengua italiana, Turín, UTET, 1961 y ss. Corominas, Joan y Pascual, José Antonio, Diccionario crítico etimológico castellano e hispánico, Madrid, Gredos, 1980 y ss. DRAE = Diccionario de la Real Academia Española de la Lengua, 22ª edición (2001). De Mauro, Tullio (2005): Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia. Lo Zingarelli (2002): Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli. MM = Moliner, María (2007): Diccionario del uso del español, Gredos. Sabatini-Coletti (2003): Il Sabatini-Coletti. Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli-Larousse. 3. Bibliografía general: Alvino, Gualberto (1998): Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino. Introduzione di Rosalba Galvagno. Fondazione Antonio Pizzuto, Quaderni pizzutiani, Palermo. 29 García de Diego, Vicente (1964): Etimologías españolas, Aguilar. Ibarra Lario, Antonia (1996): Materiales para el conocimiento del habla de Lorca y su comarca, Universidad de Murcia, Murcia. Muñoz Garrigós, José (2008): Las hablas murcianas. Trabajos de dialectología. Edit.um, Murcia. Pitré, Giuseppe (2000): Grammatica siciliana. “Biblioteca delle tradizioni popolari”, Brancato Editore. Steiger, Arnold (1932): Contribución a la fonética del hispano árabe y de los arabismos en el ibero-románico y el siciliano, Madrid. 31 IV. RECENSIONES SOBRE LE PIETRE DI PANTALICA AÑO 1988 • Vico Faggi, “Dalla Sicilia con rimpianto”, Il Secolo XIX, 11-10-1988. • Sebastiano Addamo, “L’eterno ritorno di Consolo”, La Sicilia, 13-10-1988. • Francesco Mannoni, “Una Sicilia contadina magica e struggente”, Libertà, 15-10-1988. • Oreste Del Buono, “Sicilia con furore”, Panorama, 16-10-1988, pp. 134-7. • Guido Gerosa, “In magiche pietre scavate il paese dei sogni e della memoria di poeta”, Il Giorno, 16-10-1988. • Raffaeli Crovi, “Echi di Verga e Vittorini nella Sicilia necropoli di Consolo”, Italia oggi, 17-10-1988. • Giuseppe Amoroso, “La memoria che vagabonda dalla nobiltà alla barbarie”, La Gazzetta del Sud, 18-10-1988. • Renato Minore, “Care memorie”, Il Messaggero, 22-10-1988. • Giovanni Giudici, “Pietre di nostalgia”, L’Unità, 26-10-1988. • Maurizio Cucchi, “Consolo racconta una Sicilia ferita a morte”, La Stampa, 29-10-1988. • Natale Tedesco, “Viaggio tra felicità e orrore”, L’Ora, 29-10-1988. • Giovanni Giudici, “Consolazione in Sicilia”, L’Espresso, 30-10-1988. • Silvia Sereni, “Parole, immagini, colori di Sicilia”, Marie Claire, novembre, 1988. • Stefano Giovanardi, “Imbroglio siciliano”, La Repubblica, 02-11- 1988. • Giuseppe Bonura, “Com’è annebbiato il mito di Sicilia”, Avvenire, 05-11-1988. 32 • Natale Tedesco, “Scrivere è sogno e fuggire dalla vita”, Il Mattino, 08-11-1988. • Salvatore Nigro, “Un album siciliano sottratto alla rovina”, La Sicilia, 15-11-1988. • Giovanni Raboni, “Le pietre di Pantalica”, L’Europeo, nº 47, 18-11- 1988. • Ermanno Paccagnini, “Le pietre di Pantalica, frammenti di una civiltà”, Il Sole 24 Ore, 20-11-1988. • Mauro Bersani, “Le pietre perdute”, Corriere del Ticino, 03-12- 1988. • Claudio Marabini, “Un pasticciaccio alla siciliana”, Il resto del Carlino, 10-12-1988. • Eugène Mannoni, “L’ île mysterieuse”, L’Express, 21-12-1988. AÑO 1989 • R. Carbone, “L’ombra delle rovine”, L’Indice, nº 1, enero 1989, pp. 6-7. • Maria Sebregondi, “Le pietre di Pantalica”, Leggere, enero, 1989. • Gianni Turchetta, “Consolo: pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori”, Linea d’ombra, nº 34, enero 1989, pp. 11-12. • Antonio Di Grado, “Amarezza e speranze”, La Sicilia, 6-01-1989. • Carmelo Depetro, “Parlando di Sicilia”, Ragusa sera, 28-01-1989. • Paolo Pogliani, “Le pietre di Pantalica”, Letture, febrero, 1989. • Andrea Zanzotto, “Consolo sospeso tra due Sicilie”, Corriere della Sera, 13-02-1989 (se publica también en Francia “Consolo entre deux Siciles”, Le Monde, 30-11-1990). 33 • Carlo Sgorlon, “Pietre che dicono cos’è la Sicilia”, Gazzettino di Venezia, 15-02-1989. • Romano Luperini, “Coniugando Verga e Gadda”, L’immaginazione, enero-marzo 1989. • Idolina Landolfi, “Sicilia patria perduta”, Il Giornale, 12-03-1989. • Luciano Satta, “Fra queste pietre il sussurro di un canto”, Il Giornale, 23-03-1989. AÑO 1990 • Nicola Di Gerolamo, “Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo”, Arenaria, agosto-septiembre 1990. • Evelyne Pieiller, “Le roman d’un peuple, de son histoire, de ses langues”, La Quinzaine littéraire, 16-10-1990. AÑO 1991 • Jean Baptiste Marongiu, “Blessure sicilienne”, Liberation – Special livres, marzo 1991. • Louis Soler, “Les deux Siciles”, L’Ane, magazine freudien, nº 47, julio-agosto 1991. FILOSOFIANA 36 I. NOTA AL TEXTO 1. El relato de “Filosofiana” aparece recogido dentro del libro Le pietre di Pantalica, publicado por primera vez en octubre de 1988 por la editorial Mondadori de Milán, “Collezione Scrittori italiani e stranieri”. 2. La misma editorial sacará a la luz una nueva edición para la colección “Oscar Scrittori del Novecento”, en septiembre de 1990. En esta colección existen varias reediciones, desde la primera de 1990 hasta la última de 2007. Las diferentes reediciones, de esta colección van acompañadas siempre de una introducción de Gianni Turchetta. Todas ellas conservan el mismo formato. Son exactas entre sí, con la salvedad de las siguientes diferencias: • Cada reedición presenta una imagen diferente en las portadas de los libros. • En la edición más reciente de septiembre de 2007 se ha añadido el apartado “Bibliografía” (pp. XIV-XVIII). 3. Por lo que respecta a esta segunda edición de la traducción al español de “Filosofiana”, al igual que hiciera en la primera, me he basado en el texto original de la edición Princeps (Mondadori, 1988), que es la considerada definitiva por el autor (“Filosofiana”: pp. 75-97). 37 II. NOTA A LA TRADUCCIÓN 1. Las cuestiones lingüísticas y terminológicas relativas a las opciones de traducción para la presente edición en español de “Filosofiana” se analizan a continuación del relato de “Filosofiana”, en el capítulo IV (Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto). La secuencia de los términos comentados en dicho apartado sigue un orden alfabético. En esta segunda edición, por tanto, los vocablos analizados dejan de estar señalados en el corpus de la traducción por medio de un asterisco junto a la palabra o grupo de palabras objeto de comentario, tal y como sucedía en la primera edición. 2. Por su parte, las notas que acompañan el corpus de la traducción están únicamente destinadas al comentario, aclaración o explicación de aquellas referencias literarias y culturales recogidas en el propio texto que puedan ser de utilidad para el lector. 39 FILOSOFIANA Al alba había llegado a Sofiana, a la fanega y media y algún que otro bancal que había mercao empeñando hasta la camisa, tras irse al traste las cooperativas y su esperanza de obtener la concesión d’un roalico de tierra en Ratumemi, Rigiulfo, Gibilemme o n’er mesmo infierno. Una tierra qu’era una cascajera, una llanura rojiza a lomos d’un cerro de tiestos y cascotes, culos panzudos de botellas, asas d’ánforas, lebrillas, botijos y jarrones. Como si en este campo hubiese habido hornos d’alfarería. Abandonados, cerrados y enterrados, dejando sobre el terreno como seña este cimiterio de cinabrio, lo mismo que la masa amarillenta d’escorias y cenizas al reor de las bocas de los pozos de Bubbonìa o de Pazienza eran las señas d’azufrales muertos (reino de cal, de sisca y de acíbara; refugio de sombras y vientos, cucalas, lagartijas, leros; lugar de desolación y de acoramiento). Y encomedias d’estos casquijos, crecían espárragos, cardos, alcaciles silvestres, calistros y robinias. Lió la mula a un tronco y se asentó sobre un murete de arenisca que asomaba to’ tieso, cuasi como seña de linde o cimientos de casa. El cielo aclaraba, las estrellas se apagaban, desaparecían, y la luna, una luna de tres cuartos, perdía su luz, palidecía, volviéndose papel de seda, vitela. Se veía, más allá del valle, más allá del Dessuèri y del Dittàino, más allá del Adrano, Jùdica y Centùripe, sobre un fondo de cielo violeta y luminiscente, la cumbre nevada y la humareda del volcán. 40 Miraba a su tierra, la suya, la escudriñaba. Sopesaba si debía empezar por roturar, plantar barbados y esquejes americanos, resistentes al mal tiempo, a la filoxera; y olivos, almendreros, pistacheros; y árboles de capricho como higueras, acerolos, jinjoleros, serbales, membrillos, granados; y plantas de olor y de belleza, rosas, claveros, jazmines, cidronelas, alrededor de la casita que habría hecho aquí, en lo más alto, la fachada cara al levante, quizá sobre estos mismos gruesos cimientos en los que se asentaba, la terraza, el parral y el pozo en la parte delantera. Se la figuraba en pequeño, pero copia de la gran masía de la Favara, donde había trabajado varios meses bajo las órdenes del amo llamado Saavedra6 , regia mansión, maravilla con cúpulas, terrazas, balconcitos, patios con columnas, suelos con azulejos de Valencia; aljibes, albercas, cenia, paseos con parras encomedio de campos de algodón y cañadú, jardín con plantas y flores de las más variadas, garullos y pavos en libertad por el jardín, y todos los pájaros del arca en las pajareras. Rió, rió de su sueño, se dio dos manotazos en los muslos y se levantó para tomar el legón y el pico. Tajo parejo comenzó por despedrar, librar el terreno de cualquier resto de barro roto. Rastrillaba y formaba aquí y allá en los bordes caballones rojizos, y a poco a poco aparecía, ahí donde no había hierbajos, chicoria o hinojo silvestre, una tierra negra y feraz, tierra de virginidad inmaculada, que jamás había conocido reja de arado, golpe 6 Nombre de la familia propietaria de las fincas y del palacio de la Favara desde el siglo XVI. Apellido de rancio abolengo español, perteneciente también a la nobleza del Reino de las Dos Sicilias. Por sus estrechas relaciones tanto con Murcia como con Sicilia, señalaré a uno de sus más ilustres representantes: el político y literato murciano Diego de Saavedra Fajardo (1584-1648), que fue secretario del Cardenal Gaspar de Borja, primero embajador en Roma y después Virrey de Nápoles residiendo por algún tiempo tanto en Nápoles como en Sicilia. 41 de azadón, jamás había alimentado semilla de haba, cebada o trigo. Y cuando fue justo mediodía, con el sol perpendicular sobre el follaje del bosquecillo de Alzacuda, quiso enderezar el lomo7 pero se quedó derrengao. Se llevó las dos manos a los riñones e hizo fuerza, crujiendo y quejándose, hasta lograr ponerse derecho como un hombre. Imprecó su mala suerte, santos y diablejos, caminando hacia la mula, donde tenía liado el hato de la fiambrera con el empedrao, el vino, el pan y el queso frito que su mujer le había preparao. Se asentó de nuevo sobre el murete, cuadrado y pulido como un poyo delante del molino de Caldai o de la trituradora de la Providencia, extendió el paño de cocina, puso encima los avíos para comer. Y mientras comía miraba toda la faena hecha durante la mañana, la tierra negra libre de herbajo y de tiestos, parecía desnúa, después de inseculorum sécula a la luz der sol y d’estremecerse ante la ligera brisa otoñal. Lo que le turbaba era el silencio. Acompasado por el pisoteo de la mula, los cascabeles de las ovejas lejanas y algún que otro grito de un pájaro de paso. Y la montaña inmensa al fondo, una masa de negro y de blanco, con la humareda que salía de su cumbre expandiéndose por el azul de la bóveda. Cercanas se veían las casas de Caltagirone, de Adrano y de Piazza (contaban que en el Casal, en el vallecico del Nociara, habían descubierto bajo tierra una gran villa, el suelo de cuadradicos minúsculos que formaban frisos con guirnaldas de frutas y flores, escenas de caza con animales salvajes y fieros, leones tigres liopardos; pesca con redes de peces moteados, plata y oro, nenes que jugaban a coscoletas sobre cabras y palomas, luchas de gigantes heridos por flechas, un hombre con tres ojos. Pero la maravilla de la que se platicaba abonico era la 7 Según me hizo observar Segre, al emplear la palabra groppa (“lomo”) Consolo quiso subrayar la animalidad que conlleva el duro trabajo de la tierra (cf. la entrada “enderezar el lomo” en el capítulo siguiente). 42 sala de las zagalicas, tan apañás, en cueros, que bailaban y jugaban graciosas con la pelota, la sombrilla, er tamboril. De seguro la villa d’un rico caprichoso, muncho más rico qu’er rico Saavedra de la villa Pastorana en Favara). “Pero ¿qué semos nusotros, qué semos?” se preguntaba Vito Parlagreco8 , masticando su pan y queso de cabra con pimienta. “Hormiguicas que se matan a faenar n’esta vida breve como er día, un lampo. En fila dalante atrás sin parar n’esta era redonda que se llama mundo, llenos de granos, pajas, trigo, en pro de uno o dos más afortunaos. ¿Y qué? Er tiempo pasa, amontona fango, tierra sobre un gran escombro d’añicos de huesos. Y queda, como seña de la vida qu’ha transcurrío, argún que otro fuste de piedra acanalá, argo escrito en una lastra, arguna escena o figura como las desenterrás n’er valle de Piazza. Un cimiterio queda, de piedra y casquijos encomedio der cual crece, ca’ espuntar de primavera, l’alhelí, l’asfódelo”. Y miró los bancales de cascotes delante de él, las terracotas, algunas patinadas de musgo y otras pintadas de negro, rojo, unas lisas y otras grabadas con figuras mutiladas. “Qué caprichos, qué caprichos se daban los antiguos” se dijo Parlagreco. Y se dijo también que dejase ya de pensar en la vida que fue, que es, como lo hacía siempre en los altos de la faena, n’er silencio y en la soledad, de pensar com’un viejo, com’uno d’esos jubilaos asentaos dende la mañana dasta la tarde de cháchara a la puerta de la Liga. Pa’ irse a luego a luego de la tierra ar cielo, ar sol, a la luna, a las estrellas. Entonces, entonces era preso de vértigo, 8 Sólo aquí, después de tres largas páginas, se descubre el nombre del misterioso labrador. Consolo ya lo había presentado anteriormente en este mismo libro Le pietre di Pantalica. Había aparecido en concreto en las dos partes que componen el relato “Ratumeni”. Con unas cuantas pinceladas Consolo ofrece en “Ratumemi” un retrato tanto físico como psicológico del futuro protagonista de “Filosofiana”. Por lo tanto, su lector, puede ahora proyectar perfectamente su imagen mental y entender mejor sus reacciones (cf. la introducción). 43 le parecía escullir dentro d’un pozo sin fin. Y fue en ese punto, en esa quietud de desierto o eremitorio cuando, desde la lontananza de sus pensamientos, se sintió llamar, volver a llamar: «¡Ohu, ohu!» y le salió al encuentro, desde el fondo de su campo, seguido de ovejas y corderos, un cabrerico alegre, risueño, arremolinando en lo alto su cayado. Cuando estuvo delante, se plantó, poniéndose rojo rojo. Reía, reía, sin estarse quieto un momento, balanceándose de un lado a otro sobre sus piernas arqueadas, los pies envueltos en trapos. Era un zagal d’unos quince años, crecío de cabeza y tórax, con pelusa en la barbilla y sobre los labios, pero que s’había quedao corto d’estatura. Miraba fijamente con los ojos de par en par al labrador. «Eh» le dijo Parlagreco masticando «¿qu’haces? ¿Ande vas?» Mas el cabrero reía y no hablaba. Cortó entonces el labrador una tajada de pan con el cuchillo, colocó encima un trozo de queso y se lo ofreció al zagal. Éste, riendo, retrocedió, denegando con la cabeza. Probó con el vino, tendiéndole la botella. Y de nuevo el no de aquél. Pero ahí quedaba mirándolo fijamente, espiando su cara, sus gestos. Vito entonces fingió no darle importancia, no verlo, continuando distraído su comida, siguiendo con la mirada al rebaño disperso, un can9 blanco de pelo enmarañao que ladraba y corría tras las ovejas que s’alejaban a lo lenjos. Después Vito se encendió un pitillo, miró al muchacho que seguía ahí plantao 9 Góngora se negaba a utilizar el término “perro”, que consideraba un barbarismo –de hecho tiene un origen incierto–, y sólo consentía en emplear la palabra “can”, de procedencia latina. Con todo, el Roque Barcia recoge la etimología de Covarrubias, para quien el vocablo “perro” viene del griego Pyr, “que significa fuego, por ser estos animales de un temperamento seco y fogoso. Otros quieren se dijese á rodendo pede” (cf. Primer Diccionario General Etimológico de la Lengua Española, Roque Barcia, Tomo cuatro, Francisco Seix, editor. Barcelona, 1879). 44 todavía sonriendo, echó las piernas sobre el murete, se dio la vuelta y se dispuso enseguida a reposar, el hato bajo la nuca a guisa de almohada. Tras el humo del pitillo, miraba el cielo terso e inmutable, mudo, vacío, como la tierra sobre la que se encontraba. Y pensó n’er zagal dentro der vacío, quién sabe desde hacía cuántos años en soledad, solo con sus ovejicas, encomedio de las hierbas, en los altos de Filosofiana, expuesto al agua y ar viento, bajo er sol, bajo la luna, bajando a Dessuèri, y más allá a través de los campos de Gela, vagando hasta Morgantina, hasta Licodia Eubea. Vida sola, sola, tanto que se le había olvidao, si arguna vez la tuvo, la palabra. Giró apenas la cabeza para mirar de reojo a ese pastor esquivo, y lo vio acucunaíco n’er suelo, er cayado entre las piernas, el rostro feliz por estar en compañía d’un cristiano. Pensó en sus tres zagalicos allá en Mazzarino, Michele, Maria, Bastiano, que iban a la escuela, jugaban en la calle, hablaban, gritaban, dormían por la noche bajo techo10. Y en estos pensares, aspeao como estaba por la cansera de la mañana, esculló a poco a poco en el sueño. Lo despertaron de golpe los alaridos, los ladridos del can. Se irguió, y vio al muchacho que saltaba, tomaba piedras del suelo y disparaba con su honda contra una bandada de airones que volaba en formación de ángulo, de flecha, como las dos alas desplegadas de un único pájaro grande. Se veía cada cuanto al airón timonel, en el ápice del ángulo, que con el pico y su largo cuello hendía el aire, ceder su puesto a otro que lo alcanzaba desde el extremo del ala. Y 10 Son los mismos sentimientos de ternura compasiva que expresa José María Gabriel y Galán (1870-1901) en su entrañable poesía “Mi vaquerillo”, que para un lector actual no deja de ser encantadoramente afectiva: “(…) / Pero el niño ¡qué solo vivía! / ¡Me daba una lástima / (…) / tan solo pasaba / las noches de junio / (…) / y las húmedas noches de octubre, / (…) / y las noches del turbio febrero, / (…) / con vientos y aguas!… / (…) / Yo tenía un hijito pequeño / (…) / que jamás te dejé si tu madre / sobre ti no tendía sus alas”. 45 así avanzaban, con sincronía y consonancia, emigraban, ahora que se aproximaba la ivernada, hacia lugares cálidos, Linosa, Lampedusa, Gerba, quizá después de un alto en el lago Dessuèri, en el estanque de los Pàlici o Vendìcari. Saltó del murete y corrió hacia el muchacho, lo agarró por los brazos y se los retorció detrás de la espalda, haciéndole caer la honda de las manos. Éste, tomado a traición, pataleaba y se revolvía. Lo arrastró hacia el muro, lo hizo girar sujetándolo con fuerza por las muñecas. «Basta» le gritó «¡basta!». El muchacho lo miró espantao. Después las lágrimas le llenaron los ojos. Vito aflojó su presión. «Ai-ro-n» dijo, señalando al cielo «ai-ro». «¡Pero tú hablas, hablas!» exclamó Vito. El muchacho se enjugó los ojos con el dorso de la mano. «¿Quién eres? ¿Cómo te llamas, eh?» le preguntó. El otro lo miró con ojos muy abiertos. «Uno, Vito» dijo Parlagreco apuntando el índice sobre el pecho. «¿Y tú?». «Ta-na-tu, Ta…» silabeó el muchacho, y se rió, descubriendo unos dientes agudos. «¿Tanu? ¿Tanu?» preguntó Parlagreco. El otro dijo que sí con la cabeza. «Los airones no se matan. ¿Comprendío?» remachó. El muchacho reía, y no decía ni si ni no. «Abora se van lenjos, qu’aquí llega el ivierno… ¿Tú, ande vas?». Pero Tanu no respondió, siguió riéndose. Luego de golpe giró, fue a recoger del suelo su honda, volvió y se la entregó a Parlagreco. «No, no» le dijo Parlagreco «tenla. ¿Qu’hago yo con ella?» Y fue a retomar su azadón. Tanu abrió el zurrón que llevaba en bandolera, puso dentro la honda y sacó un liebro muerto, con la cabeza corgando encostrá de sangre. Se lo llevó a Parlagreco. 46 «No, no, cómelo tú». Pero el muchacho insistía. «¡No!» dijo decidido Vito, y se echó a andar. Entonces Tanu dejó rápidamente el liebro sobre el muro, se llevó dos dedos a la boca, silbó para llamar al can y partió dando saltos y haciendo molinillos con su cayado. Vito lo persiguió, pero el otro corría veloz sobre sus piernas zambas, desapareció pronto, seguido del can y de las ovejas, en el follaje del bosquecillo de Alzacùda. Vito se quedó plantao mirando er punto por donde había desaparecío aquel zagal, la sendica encomedio de los troncos de calistro. Sintió despecho, luego algo parecido a pena, pena por ese zagal que quizá nunca más volvería a ver, lo que semeja a la muerte, como los airones que se ven migrar, esfumarse en la lejanía. Pena aún por él, que retornaba a estar solo, solo con su faena n’er campo de Filosofiana. Miró el liebro muerto sobre el murete, le dio la espalda y tornó decidido al punto donde había interrumpido su faena. De pronto, después de unos pocos golpes de pico, oyó resonar la tierra como si estuviese hueca, hubiese una cueva o una vasija enterrá. Excavó despacico despacico, amontonando tierra hacia los lados, y apareció a poco a poco una lastra alargá como la lápida d’una tumba. Fue preso de ansia, pensares; recuerdos acudían en tropel a su mente, de fábulas, encantamientos, tesoros escondidos por moros o por bandoleros. Le parecía estar soñando. Y este sueño que tenía por la noche con frecuencia, cuando s’echaba en la cama lleno de cansera, era er de cavar con las manos n’er polvo, n’er fango, y encontrar por fin una perola o cuarterola cormá de peluconas11. ¿Pero era sueño o 11 En el texto original marenghi (p. 82). Se trata de las monedas de oro acuñadas por Napoleón con motivo de la victoria de éste sobre los Austro-Húngaros en Marengo (1800). Por extensión cualquier moneda de oro macizo. Para rendir la misma equivalencia a un lector español elegimos la palabra “pelucona”, moneda 47 recuerdo lejano de cuentos, como er der Castillo d’Entella o er de la Gruta der Caballo en Sabucina, d’ese pastorcico que fue a la feria embrujá ande compra naranjas que se vuerven oro? Y recordaba siempre esta letra qu’abora s’había puesto a recitar: Una fuente n’er puentecico N’er Lanniri siet’aspontico Sabucina e’ jarta d’oro Testa de lumbre, Testa d’ oro… Sólo que sueño o fábula poca es la diferencia. ¿No es acaso sueño todo cuanto se cuenta, se inventa o se relata, por medio de la voz, de la escritura o de cualquier otro modo, de una vivencia de ayer, de hoy o de mañana, de una vivencia posible o fantástica? Es siempre sueño la empresa del narrar, un desligarse de la vida real y vivir en otra. Sueño o quizá aún locura, porque es propio de la locura la vida que se desliga y prosigue, como sombra, fantasma, ilusión, al lado de esta otra vida que nosotros llamamos real. ¿O de la muerte? Vito Parlagreco hizo palanca con la cuña del pico y alzó con esfuerzo la pesada lastra. Apareció una fosa, tallá dentro de la toba y bien cuadraíca. Una fosa repleta d’un terrero oscuro, blando como la de los hormigueros. Y del terrero afloraba un cráneo, el color amarillo de la frente, el negro de las órbitas, el marfil de la dentadura, y los huesos, sutiles como alas de pájaros, de las manos. Parecía el esqueleto de un hombre desplomado dentro del fango y que se esfuerza por salirse o de uno que, vuelto a despertar en su tumba después de milenios por la luz roja del sol poniente, hace ademán de incorporarse. de oro acuñada por los reyes Borbones españoles hasta Carlos IV inclusive. Esta moneda tenía en una de sus caras el perfil del rey vigente que ostentaba una peluca. De ahí su apelación popular. 48 Vito no tuvo sobresalto ni miedo, más bien notó la misma alegría como cuando en sueños descubría sus peluconas. Alegría sobre todo porque al reor al reor d’aquel antiguo muerto afloraban ánforas, orzas, platos, luminos, semienterraos también n’er terrero, como si flotasen sobre el agua cenagosa d’un aljibe. Estaba seguro abora d’encontrar en las vasijas de barro un tesoro escondío n’er tiempo de fábulas y d’encantos, y el único temor que sintió fue er de no saber la fórmula mágica, la frase, la palabra arcana que debía decir n’el instante de rozar el oro con los dedos. Temía que de un momento a otro todo pudiese desaparecer como nube errante, cenizas al viento, esfumarse como un sueño al despertar. Rezó entonces en su corazón a su madre a su padre, al niño que se le había muerto al nacer, a amigos y a conocidos. “Oh mis mortichuelos” rezó “difuntos qu’amé y que conocí, ayudarme, cambiarme al fin esta dura vida mía, esta vida de pesambres y de miedo”. «Amén, amén» concluyó en voz alta, la única palabra sacra que sabía y recordaba. A gatas se puso a rascar con los dedos la tierra que apresaba la loza, con un ansia y un deseo, una delicadeza12, iguales a los que sintió cuando había tocado por primera vez las carnes de su mujer. Liberó así la primera orza panzuda y más amplia, la apretó contra el pecho, echó una ojeada al interior: negror. Estaba negro como la noche ahí dentro. Esculló la mano y tocó una materia incrustá, rascó con las uñas y sacó fuera un grumo d’una substancia que parecía carbonilla grasienta. Estuvo seguro, seguro de qu’aquel carbón había sío hasta 12 Consolo ya había destacado esta delicadeza de espíritu de Parlagreco, que contrasta con el rasgo de rudeza casi animal en su duro bregar con la tierra, en el relato “Ratumemi”, que precede a “Filosofiana”. En él presenta a un Vito que, saciado tras haber comido, acepta todo lo que le ofrece su compañero para no herir sus sentimientos: “E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro, faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bomobolo del vino” (cf. Le pietre di Pantalica…, p. 53). 49 ese momento oro fino, monedas resplandecientes a la par der sol, y que por magia malvá, por no saber la fórmula secreta necesaria para consolidar para siempre el oro en su estado, encontraba abora este tanino en su mano, este puñao de mierda der diablo. Miró decepcionado la orza, el ánfora panzuda y barnizada. Nunca había visto nada más hermoso. La frotó con la mano, sopló para quitarle el polvo y aparecieron figuras de color rojo: un hombre desnudo por delante con una manteleta que le caía por detrás, la mano apoyada en una lanza; una mujer con vestido liviano, las alas desplegadas en la espalda, los brazos abiertos, como un ángel que revolotease por delante; otra mujer con yelmo en la cabeza y coraza habla con un zagalico que lleva en la mano un bastoncillo con dos aros; un gato moteado de cola ondulada brinca entre dos portadores de lanzas; en la cara opuesta, un hombre envuelto en un lienzo, una cinta al reor de la cabeza, ofrece a una joven, en túnica transparente hasta los pies, una bonica taza colmada quizá de ambrosía o de malvasía. Eran figuras que Vito no entendía, escenas de hechos oscuros y de misterios, enigmas que nunca en toda su vida resolvería. ¿Y si estuviese ahí, pintao n’aquella orza, er dicho mágico, la llave para romper el encanto13? Pensó entonces, pensó qu’el único que tenía er poder como tó er mundo sabía para romper o echar conjuros, predecir er tiempo, sentir corrientes d’agua soterrás, leer er pasao y la buena ventura era en Mazzarino don Gregorio Nànfara, hombre de ley y sabio, que de mozo había estao n’er seminario, frecuentaba iglesias, conventos y monasterios, sabeor d’historia, poesía, d’astros n’er cielo, de griego y de latín. Decidió pues no tocar na’ más no fuese a echar a perder el 13 Como en el resto de Europa, y sobre todo en ambientes rurales, el imaginario colectivo siciliano cultiva leyendas de tesoros ocultos en las entrañas de la tierra. Todo campesino sueña con encontrarlo bajo su azada, pero hay que conocer la fórmula secreta para que el tesoro se vuelva real y la materia que lo reviste desaparezca, dejando paso a monedas de oro macizo o piedras preciosas. 50 encanto, dejarlo to’ com’estaba y regresarse con don Gregorio. Pero se llevó consigo la orza ya cachifollá, como prueba tangible de qu’este tesoro escondío qu’él había encontrao no era un sueño, una visión. Volvió a colocar raudo y veloz sobre la tumba la pesada lastra, esparció tierra encima para enmascarar su descubrimiento. Al llegar a la mula, su mirada cayó sobre el liebro que Tanu había abandonado en el murete: una nube de moscas le comía los ojos y la herida, una cuadrilla de hormigas le entraba por la boca. «Baaah…» hizo Vito con una mueca sintiendo angustia. Pero a la par no pudo dejar de volver a pensar n’el extraño cabrero, er zagal desaparecío n’er bosque, creatura de mudez, de solitud. Espoleó la mula y bajó corriendo hacia Mazzarino como si cabalgase un gallardo alazán, llegó a las primeras casas de Cicoria cuando ya había descendido la tarde violeta. Fue flechado al Borgo, a la vieja casa de don Gregorio Nànfara. «Chisss, chisss…» le dijo don Gregorio con el dedo sobre los labios después del relato anhelante de Vito Parlagreco. «Por amor de Dios… ¿Platicaste con arguno?». «¡Quia! Osté es er primero con quien platico. Vine de Sofiana to’ p’alante hast’acá». «Bien hecho» dijo don Gregorio. «Si jamás, de arguien que no fuese yo, la nueva traspasase la impura aurícula, se disiparía to’ encantamiento, la esperanza se tornaría desesperanza». Vito lo escuchaba atónito, perdido en pos de aquel lenguaje alado. «Chisss… Quieto parao» le ordenó don Gregorio, y se levantó de la silla detrás de la mesa para encaminarse hacia la ventana. La cerró, y entonces se dirigió a la puerta, se agachó para mirar por la cerradura por si acaso alguien estaba a la escucha. Tranquilizado, encendió la lamparilla llena de cagarrutas de moscas que colgaba en medio del cuarto, volvió a sentarse. A su paso, la habitación parecía sacudida por un terretremo, crujían bajo sus zapatos las losetas sueltas. Era un hombrón corpulento, calvo y con el cráneo reluciente, un ojo 51 bien colocado en su sitio, azul y fogoso, y el otro, de cristal, inmerso dentro del agua del vaso sobre la mesita. «Nos» continuó Nànfara «nos qu’es sólo er que te habla, nos estamos más allá de toda impureza y de toda curpa. Nos que alcanzamos a escudriñar, gracias ar saber, a la sabiduría» y señaló con amplio gesto todos los libros viejos y enmohecidos a sus espaldas «er punto imperscrutable donde la Noche y er Día se conjugan, la estrella Austral con la Polar, er viento Griego con er Garbino14, er Bien con er Mal… Parlagreco, Parlagreco, son cosas difíciles d’entender, d’explicar…» suspiró, «Parlagreco… Tú que de la lengua griega, ay de mí, perdiste la sapiencia… Es la historia, la historia, er tiempo qu’arrolla y trastorna… ¡Parlagreco!» lo interpeló más fuerte. «¡¿Sí?!» respondió al instante Vito levantando la cabeza. «¿No será qu’en Sofiana t’adormilaste, no t’habrás pasao con er tinto de Favara?». «Eh, eh…» dijo Vito con una ligera sonrisa de compasión. «Esto me lo aguardaba, don Gregorio» se agachó, tomó del zurrón que había dejado en el suelo el cántaro pintado y se lo puso delante sobre la mesa. «¿Eh?» dijo «¿Conque sueño, engañifa d’achispao? ¿Eh?». Don Gregorio alargó los brazos y pegó su único ojo sobre aquella maravilla. «¡Qué belleza! ¡Qué belleza!» exclamó con arrobamiento. «Y aún hay dos más igualicas, que yo no he tocao, y platos, orcillas y luminos pequeños». Don Gregorio tuvo una sonrisa taimada, después una risita como el que saborea la dulzura del placer. Tomó la lupa de mango largo, de las que usan los señorones para leer el periódico delante del Círculo, y se puso atentamente a estudiar las figuras dibujadas sobre 14 El “viento Griego” es el viento del Noreste, es decir el de Levante. El “Garbino” es el viento del Suroeste, también llamado viento de África, es decir el de Poniente. 52 la orza. Murmuraba palabras incomprensibles, su ojo azul tras la lupa, agrandado como el que estaba en el agua del vaso. «Don Gregorio…» lo llamó Vito al cabo de un rato. «¿Ah?… Voy, voy…» respondió, sin levantar la cabeza de su estudio. Se puso después a recitar, como si declamase un papel teatral: «Es una crátera magnífica… Un deinos15 pa’ más precisión… Representa una escena funeraria. Este hombre que s’apoya en la lanza mira tristemente a su propia muerte, personificá por la jovencica alada qu’es una Harpía; siguen los parientes, con cintas y ofrendas pa’ la ceremonia; luego Atenea ordena a Hermes que guíe ar muerto abajo n’el Hades… ¡Qué belleza, qué belleza!» concluyó. Y se levantó, se puso a pasear por el cuarto atestado y maloliente que era toda su casa, hablando y gesticulando como un abogado en el tribunal. «¡Ésta es una prueba, otra prueba más, Parlagreco, de que Grecia no existe, no ha existío jamás!… Grecia es un invento de los ingleses y de los alemanes, d’estos protestantes… To’ tuvo lugar aquí, en tierra de Sicilia… ¡Qué Troya ni Micenas, Atenas, Las Termópilas ni Salamina!… ¡Aquí, fue aquí ande to’ ha ocurrío!» golpeaba con el pie las losetas y temblaba el suelo. «Debe acabar este cuento, esta impostura enorme que dura desde hace demasiaos siglos…». Se detuvo, agarró su ojo de cristal del vaso, y rápido se lo plantó dentro de la órbita. Se irguió, miró fijamente con sus dos ojos a Parlagreco. «¡Esquilo!» bramó con todo su vozarrón. «Esquilo está sepultao aquí, en nuestro territorio al reor de Gela…». Se sobresaltó, como si de repente algo lo hubiese golpeado16. 15 Esta cerámica griega también se conoce como dinos. Se trata de una crátera o vasija grande y panzuda que suele estar montada sobre un pie o peana. 16 Plutarco relata que Esquilo, disgustado al haber sido vencido por Sófocles en una competición dramática, abandonó Atenas y se trasladó a Sicilia, donde murió hacia el año 455 a. C. Según una creencia arraigada, Esquilo estaría enterrado en los alrededores de Gela. Don Gregorio de repente, se dio cuenta de que 53 «¡San Liberador!» exclamó. «¡¿Si fuese ésta la tumba, si fuese ésta?!…» Se acercó a Vito. «¡Parlagreco!». «¿Qué?» respondió Vito intimidado, mirándolo de abajo a arriba. «¿Notaste dentro lastras con inscripciones, máscaras trágicas, estatuas menúas de comediantes?». «No, no, mesmamente no…». «¡Ah, veremos, veremos!…». «Don Gregorio…» lo volvió a llamar Vito. «¿Ah?». «¿Pero este, es un tesoro o no lo es?». «¡Lo es, lo es, sín que lo es!». «¿Y a luego qué?». «¡A luego salimos esta noche, a las tres debemos estar en Sofiana! Yyy… ¡Callaíco! ¡Que no se t’escape una palabra, tan siquiera con tu sombra o con el alma de tu padre!». «¡Sín Señó!» juró Vito llevándose la mano al pecho. «Parlagreco…». «¿Qué?». «Mil liras. No t’ofendas…». «¿Enantes?». aquel muerto desconocido bien pudiese ser el dramaturgo griego. Destaquemos otra analogía entre la Comarca de Filosofiana y el campo lorquino. También en el Cabezo de la Jara, que es la colina más alta de Puerto Lumbreras, la tradición quiere que se encuentre la tumba de los Escipiones –Cneo Cornelio y Publio Cornelio Escipión, tío y padre respectivamente de Escipión el Africano, vencedor de Aníbal–. Estos generales romanos detuvieron el avance de los cartaginenses Asdrúbal y Magón por esos entornos, pero sucumbieron en la lucha siendo enterrados en la zona. En algunos mapas antiguos de España hasta bien entrado el siglo XX aparece señalizada la zona de la supuesta sepultura. 54 «Enantes, sín. Es la costumbre. Porque si a luego a luego, Dios nos libre, la desencantadura falla, por accidente o por influjo maligno, sin ser en verdad curpa mía, adiós, si t’he visto no m’acuerdo…». Vito, resignao, se quitó la boina de la cabeza y de dentro del dobladillo interior, enrollaícos, sacó dos billetes y se los entregó, tragando saliva, a don Gregorio. «Vito, Vito, Vituco, por la Virgen de Màzzaro, ¿qué pasa? Dímelo, habla, no me dejes penando…» le imploró su mujer, pegada a la puerta, todavía con el calor de la cama, descalza, el pecho jadeante bajo su camisa de tela, cuando Vito iba a salir. «Chisss, chisss…» le dijo Vito. «Na’, na’ malo, ’tate tranquilica. A luego a luego te platico. A naide, comprendío, a naide debes dicir que salí en mitá de la noche. ¡Ojo!» y Vito le hizo una caricia, desde la nuca hasta el pecho rosado, cerró la puerta a sus espaldas y se encontró en la calle. Don Gregorio esperaba ya delante de su casa, capazo en mano, sombrero en la cabeza y un mugriento guardapolvo gris de gabardina. Vito le ayudó con gran esfuerzo a montar sobre la mula, el hombrón se asentó a mujeretas, el culo sobre el basto y las dos piernas colgando de un lado. «¿Es mansa, es mansa esta bestia?» preguntó aprehensivo don Gregorio. «Como una recién casá, una miel. Osté no esté rígido, déjese acunar como en una cuna». Vito tomó la mula por el cabestro y se pusieron en marcha, camino abajo hacia la calle Minoldo, calle Galizia, dejando atrás las casas del pueblo, carretera arriba hacia Cannavera. Llegaron a Sofiana, al lugar de la tumba, hacia las tres, con una luna casi llena, un blanco lechoso que clareaba todo el campo, y unas pocas estrellas en los márgenes del cielo. 55 Don Gregorio se dejó caer de la mula, bufando se quitó el gabanillo que relucía de grasa, abrió el capazo y empezó a sacar fuera y a disponer sobre el murete de arenisca libros, cirios, una vara, una granada, pez griega y una estola de iglesia de un brillante color escarlata. Vito se puso a rastrillar la tierra que había esparcido sobre la lastra. La limpió a fondo, como un horno antes de colocar los panes, y volvió cerca de don Gregorio. «¿Está preparao, don Gregorio?». «Eh, carma. La priesa en estas cosas es enemiga de cuarquier éxito». Y entonces don Gregorio miró a Vito fijamente a la cara. «Desnúate» le ordenó. «¡¿Eh?!». « Desnúate. En cueros». «¿Osté está de guasa?». «Parlagreco, ¿es hora de guasa? Haz lo que te digo. ¿Es acaso capricho mío? ¡Está escrito aquí, n’estos libros arcanos, n’este der Cinquecento17, n’er Rutilio18, y n’este otro, er Gran Cuadrado Maltés19!». Y diciéndolo don Gregorio agitaba los dos libros ante las narices de Vito. Vito comprendió que no había na’ qu’hacer, agachó la cabeza y se fue tras un árbol. Se desnudó, no sin haber escudriñado el campo 17 El Cinquecento alude aquí a la época de publicación (siglo XVI) del libro de Rutilio Benincasa, Almanaque Perpetuo, del cual don Gregorio cita más adelante unos versos (ver nota siguiente). 18 Rutilio Benincasa (1555-1626?). Filósofo, matemático y astrónomo. Tuvo un gran prestigio y renombre entre los seguidores de las ciencias esotéricas y cabalísticas en toda Italia, pero sobre todo en Sicilia. Su libro Almanaque Perpetuo, publicado en 1593, abarca todos los ámbitos del saber, incluyendo conocimientos botánicos y agrícolas. 19 El Gran Cuadrado Maltés es también una obra de cabalística muy apreciada por los cultivadores del esoterismo y las artes mágicas. 56 por todo el horizonte. Volvió mortificado delante de don Gregorio, sólo con los calzoncillos puestos. Don Gregorio, tanimientras, había endosado la estola roja y encendido los dos cirios colocados rectos sobre el murete. Miró a Vito que se le acercaba con sus calzoncillos largos de tela blanca sobre la piel aún quizá más blanca, menos la cabeza que destacaba negra hasta el cuello. «Parlagreco, ¿Acaso estamos en la playa de Manfria o Falconara? ¿Qué?, ¿te vas a bañar? ¡Los calzoncillos, los calzoncillos!» bramó don Gregorio. Vito, resignado, sufrió esta última afrenta de presentarse desnúo com’un gusano ante otro hombre, anque éste tuviera un solo ojo, anque fuera n’er negror de la noche. Don Gregorio le tendió las dos candelas encendidas. «Ten» le dijo «sujétalas bien a l’artura der pecho». Pero Vito no se decidía a apartar las manos de sus partes nobles. «Aaah…» dijo don Gregorio impacientado. «Vusotros los perullos estáis siempre llenos de remilgos. Mira a los azufraores, van siempre desnúos, quizá incluso ante Su Majestad». Vito se convenció y tomó en mano las dos candelas. «Vamos» dijo don Gregorio «empecemos. Desd’este momento, cuidaíco, no debes decir ni mú, tan siquiera respirar. Haz sólo lo que t’ordeno». Don Gregorio abrió delante de las candelas el primer libro, que era el Almanaque perpetuo20 y, hundida la cabeza en las páginas, se puso a recitar estas sentencias: 20 El Almanaque Perpetuo (ver notas 17 y 18) incluye unas tablas aritméticas perpetuas que supuestamente proporcionan la manera segura de acertar los números ganadores de la ruleta, la lotería, etc. Todavía hoy en día siguen circulando por Internet para beneficio de los adictos a esos juegos. 57 «Orbis nemo sua contentus sorte videtur, Mille tenensque urbes plus cumulare cupit. Cuncta perire vides; sola est virtusque perennis Quae facit aeternos nobilitatque viros. Quid juvant miser heu argentum, et aurum cumulabis Si post tartaneis tu crucieris aquis. Quisquis per mare, vel per terram acquiserit, aurum, Stultus erit, coeli cum male inquit opes» 21. Don Gregorio, con su corpachón imponente, esa voz suya cavernosa, su cabezón calvo, le semejaba a Vito el arcipreste, el obispo de Piazza o de Caltagirone. Vito temblaba de frío o de emoción, y tenía a la vez la frente llena de sudor. «Procedamus, procedamus…» dijo don Gregorio. «Vayamos a la tumba». Volvió a poner raudo en el capazo todos los pertrechos que había traído, se puso a caminar tras Vito, que alumbraba con las dos candelas. Pero el brillo de la luna era más fuerte que el de las dos llamitas, tanto que las sombras de los dos hombres caían justo a sus pies y se movían con ellos. El grito de una lechuza se oyó en aquel momento llegar desde la cima de un árbol cercano. Don Gregorio murmuró alguna palabra que era sin duda un conjuro contra aquel pájaro nocturno de mal agüero. Vito se detuvo delante de la lápida. Entonces don Gregorio, con su manera de obispo tonante, volvió a leer en otro libro: palabras oscuras, nunca oídas antes, y, aún si se llegasen a oír, palabras por su propia naturaleza irrepetibles, por mí que escribo, por ti que lees, por nosotros pobres hombres cargados de culpas, nosotros que nos movemos ciegamente en este mundo, 21 Consolo me pidió que no tradujera estos versos en latín algo macarrónico, para mantener el aura esotérica en torno a D. Gregorio. 58 ignorantes de todo lo sacro, todo lo arcano. Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre. «Pimpinela» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…». Y sin dejar de leer, empezó a trazar con la vara sobre la lastra círculos, triángulos, cuadrados. Después colocó con respeto el grumo ambarino de pez griega. «Dame una candela» dijo a Vito. Con la llama, prendió fuego a la resina, que se inflamó y se derritió dejando sobre el barro cocido una hermosa mancha como una meada. Don Gregorio mojó ahí el pulgar, se acercó a Vito y le hizo la señal de la cruz en la frente, los labios, la barbilla, el corazón, el umbligo… pronunciando a cada vez esta palabra: «Labis, labis, labis, labis, labis…» Vito lo dejó hacer, ahora ya impasible y frío como una estatua. Tomó por último don Gregorio del capazo la granada y se la llevó a Vito. «Parlagreco» le dijo «ésta es la parte más difícil: to’ depende de ti. Tienes que comer esta graná sin dejar caer ar suelo un solo grano». Vito dijo que sí con la cabeza y tragó aire haciendo correr a lo largo del cuello su nuez que era puntiaguda como el esternón de un pájaro. Abrió lo más grande que pudo la boca de su horno, embocó la granada, le hincó los dientazos, masticó y deglutió. Sólo una gota de jugo le resbaló por la barbilla, y fue raudo en recogerla con la lengua antes de que le cayese sobre el pecho22. «¡Bravo! ¡Bravo!» casi gritó don Gregorio que lo observaba atento con la candela en la mano. «¡Extraordinario!». 22 La capacidad de deglución de Vito Parlagreco ya la había señalado anteriormente Consolo en el relato “Ratumemi”, que precede al de “Filosofiana”. Cf. Le pietre di Pantalica…, p. 51: “Vito Parlagreco, ch’era magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di pasta con il sugo (…)”. 59 Vito esbozó una apagada sonrisa de satisfacción, sonrisa que se trocó rápidamente en una mueca de eructo. «¡Levantemos abora esta lápida!» ordenó solemne don Gregorio. Y esta vez Vito no necesitó la palanca del azadón, sino que levantó a pulso la pesada lastra con las manos. Lo primero que les saltó a la vista, aún más blanco por la luna que lo inundaba todo, fue el esqueleto que afloraba del antiguo muerto. Don Gregorio quedó deslumbrado, estupefacto. A poco a poco abajó a la tumba, y solemne, como hablando con el muerto, declamó: «¿Eres tú er trágico sumo que dio palabra ar dolor inexpresable der mundo? ¿Eres tú er divino23 Esquilo?». En el silencio que siguió a la pregunta, se oyó más fuerte la risa burlona del pájaro en lo alto del árbol. Y a luego una voz, como si viniese del cielo o de las profundidades de la tierra: “Légo kat’andra, mè theón, sèbein emé…” 24 Don Gregorio se convirtió en estatua de sal, miró a Vito que permanecía inmóvil en el bordillo con la candela en la mano. «Parlagreco» le dijo con voz trémula «¿tú hablaste en griego?». Vito, fiel a la consigna de no proferir palabra, sacudió la cabeza para decir que no. «¿Pero uíste, uíste un verso griego?». 23 El autor me confirmó que el verso de Esquilo que cita a continuación (cf. la traducción en la nota siguiente) es la contestación al calificativo de “divino” que Don Gregorio aplica al dramaturgo griego. De esta manera Esquilo quiere refutar cualquier connotación divina que sus admiradores le atribuyen para ser única y exclusivamente honrado en su condición humana. 24 “Quiero que como a un hombre, no como a un dios, me honres”. Esquilo, Agamemnón (Nota del Autor). 60 Vito sacudió de nuevo la cabeza. «Ah» dijo cabizbajo don Gregorio «ésta es una noche mesmamente rara, noche de misterios impenetrables… Vamos, Parlagreco, desenterremos esta vajilla». Vito, que esperaba con ansia esta orden, saltó al foso, se puso a cuatro patas y empezó a rascar la tierra con las uñas, como un can que busca trufas25. Liberó la primera vasija y se la llevó a don Gregorio. Nànfara, asentado en el suelo, la apretó entre sus muslos. Jadeaba. También la respiración de Vito, acucunado a su lado, era intensa. El busca tesoros esculló la mano, no sin haber dirigido primero al cielo, a la luna, su mirada tuerta suplicante murmujeando entre dientes sus letanías. Na’. También esa gran vasija resultó estar vacía, llena d’aire, con sólo una masa grumosa y carbonosa n’er fondo. Y con la segunda fue lo mesmo. Los dos hombres se quedaron como embobados. Don Gregorio, sin mirar a Parlagreco, fue después hasta la mula y volvió con una azadilla. Con ella, se puso a revolver el fondo de la tumba, a desenterrar tiestos, platos, lamparillas, que iba amontonando en el bordillo del foso a medida que los sacaba. Embistió a lo último contra los huesos del muerto que, apenas tocados, se deshicieron como si fuesen de azúcar. Sólo el cráneo resistió, con la dentadura de reluciente marfil intacta. Y bajo la cabeza de aquel muerto don Gregorio descubrió el mascarón de un hombre grotesco de pelo ensortijado en la frente, orejas como abanicos, ojos grandes y boca risueña que dejaba colgar la lengua fuera. “¿Pero qué quié decir esto, qué quié decir?” se preguntó don Gregorio. “¿Es una cochina guasa, nos la dan por culo? ¿En lugar 25 Consolo subraya de nuevo el paralelismo entre el labrador y los animales, ya sean bestias de carga (como en la expresión “enderezar el lomo”) o domésticos, como en este ejemplo (un perro de caza). 61 d’Esquilo estaría aquí Aristófanes? ¿La tragedia s’ha trastocao en farsa?” Y, jodío como estaba por el chasco de no haber encontrao una señal, una inscripción qu’indicase n’aquella tumba la presencia d’Esquilo, descubrimiento qu’habría confirmao sus tesis, l’habría dao fama en to’ er mundo, tomó la terracota injuriosa y la estampó estrellándola contra la pared de la tumba. El Parlagreco, cabizbajo, había ido a vestirse. La luna tramontaba, cuasi redonda, burlona como el mascarón, don Gregorio le lanzó una última mirada. “Luna, quasi Lucina, oh Reina gobernaora de las cosas naturales interiores…” repitió para sí. Y después, citando a Trismegisto26: “Detrimentum Lunae est detrimentum totius naturae…”. «Pero es creciente, creciente, ¡cochino demonio!» prorrumpió. Desde oriente ahora, del lado de Piazza y de la gran montaña que humeaba, se expandía un claror color rosa. «Don Gregorio, ¿vamos? Dentro d’una miaja tengo que vorver aquí a la faena…» le dijo Parlagreco. «Vamos, vamos» respondió don Gregorio, haciéndose ayudar para salir de la tumba. «Antes debemos recoger estas cosas… Estas vasijas me las llevo a casa, las quiero estudiar, quiero entender, entender por qué…». «¿Qu’hay qu’entender abora?…». «Po’ hay que, hay que…». Y el Parlagreco, para poner priesa, poner en marcha a ese fulero, recogió vasijas, platos, jícaras, luminos, los echó todos dentro del saco. 26 La identidad y datación de Hermes Trismegisto (cuyo nombre designa al dios mitológico tres veces grande) son inciertas y legendarias. Se le atribuye la autoría del Kybalion y del Corpus Hermeticum, un compendio de ideas filosóficas y religiosas de origen egipcio y griego. En todo caso, Hermes Trismegisto es considerado el primer alquimista, es decir el primero en buscar la piedra filosofal que trasmute la materia en oro. 62 Llegaron a la entrada del pueblo cuando los otros labradores salían, sobre sus mulas, asnos, yeguas. Saludaron, al cruzarse, al Parlagreco, y con respeto también a don Gregorio asentado sobre la mula, con el saco de vasijas apretado contra la barriga. Parecían así, los tres, una Huída a Egipto. Liada la mula a una argolla de la pared, Vito descargó las cosas de Nànfara y subió con él a su casa para ayudarlo. «Asiéntate» le dijo don Gregorio. «Hago café». «Tengo qu’irme. La paya está en peso…». «Dos minutos…». Don Gregorio, se quitó el ojo de cristal y echándolo en el vaso, se puso a trajinar con la cafetera napolitana. Bebieron el café, fumaron, escudriñándose mutuamente pa’ averiguar por dónde iba a salir ca’ cual. Vito temía que le fuese a pedir aún más perras. «¿Tiés hambre, Parlagreco? Yo desde ayer a mediodía no he catao bocao». «¡Ande que yo!». «Tengo magra…». Y al instante puso sobre la mesa pan, queso y una botella de vino de Favara. «Tú quizá pienses» empezó a decir don Gregorio masticando «qu’ha sío curpa mía… Yo estoy en paz, en conciencia, he hecho to’ según las leyes rituales… ¿Qué te crees? Pasé to’ er tiempo, desde que te fuiste, leyendo, consultando libros… Pero argo ha pasao, que ni yo, ni tú, ni tan siquiera los libros han previsto… Es esto lo que m’esfuerzo por entender… Dime: ¿tuviste sueños, señas, viste cosas raras enantes de dar con esta tumba?». «Boh… Sueños, naíca. Señas, cosujas sin importancia… Ayer pasó por Sofiana un cabrerico con las ovejas, un zagal múo… Luego, una bandá d’airones que migraba… Y er cabrerico, Tanu, me dejó como regalo un liebro qu’había matao con su honda». 63 «Ah, ¡cochino demonio!» tonó don Gregorio dando un puñetazo sobre la mesita. «¡¿Y no m’has dicho na’ enantes?!». «Osté no me preguntó na’…». «¿Y hacía farta?… Parlagreco, aquel no era un cabrerico de verdá, un zagal humano, era un visivilo disfrazao, un martinico… Y er liebro, er liebro, ¿qu’hiciste con él?». «Lo dejé allá, sobre er poyete… No me gusta na’. Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza…». «¡Desgraciao! ¡Debías habértelo comío, haberlo comío, anque crúo!». Vito se sintió humillado por esta acusación que lo culpaba del fracaso. Tomó, para animarse, la botella de vino y llenó con furia el vaso. Se lo tragó de golpe. Pero, al beber, ingirió también algo sólido y liso. «Don Gregorio» preguntó, dejando el vaso sobre la mesita «¿qu’había n’er vino?». «¿Qu’había?» y don Gregorio miró en transparencia la botella, miró después el vaso vacío. «¡ Desgraciao!» bramó «¡Mi ojo! ¡T’has tragao mi ojo!». «¡Ah!» dijo Parlagreco escupiendo en el suelo con angustia. Enseguida, con la calor de la cara subiéndole a las cejas: «¡Pero cegato asqueroso!… ¿Pero es que se mete el ojo n’er vaso?». «¿Y ande lo meto, eh? ¿N’er culo me lo meto? Es una custión d’higiene, d’higiene… Claro, que vusotros perullos qué vais a entender…». «Yo me largo». Don Gregorio, de un brinco, alcanzó la puerta de la habitación. «¡Tú no te mueves d’aquí si enantes no me cagas el ojo!» le intimó «Es más, voy enseguía a mercar sal inglesa» y diciendo esto, salió, cerrando la puerta a sus espaldas acerrojándola con todas las llaves. 64 IV. RELACIÓN COMENTADA DE REGIONALISMOS Y OTROS MATICES DEL TEXTO El estudio de los regionalismos y de otros matices relevantes a la hora de traducir “Filosofiana”, tal y como se llevará a cabo en este apartado, se centra en el comentario de aquellos vocablos por los que he optado para la traducción al español. Según queda señalado en la Introducción, en esta segunda edición he hecho extensivo a todo el relato el habla murciana, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto italiano. Con todo, dentro del discurso narrativo he procurado limitarlo a aquellos pasajes en los que –detrás de la voz del narrador– se percibe el pensamiento o la cosmovisión del personaje, y no en los meramente descriptivos o en aquellos otros, mucho más poéticos en los que claramente habla Consolo. Naturalmente los regionalismos y las singularidades del habla murciana se encuentran presentes en los diálogos y, al igual que en la primera edición, en los casos en que aparece un sicilianismo en el texto original. Como ya he anticipado en el prólogo a la presente edición, la secuencia de los términos comentados en el glosario sigue en esta segunda edición un orden alfabético que permitirá localizarlos de manera rápida y efectiva, en lugar de seguir el orden de aparición en el texto traducido, tal y como sucedía en la primera edición. Tampoco quedan señalados los términos comentados en el corpus de la traducción mediante asteriscos, pues se hace innecesario gracias a la nueva ordenación alfabética. 65 Por último, las equivalencias al italiano de los términos comentados en el presente glosario corresponden únicamente a las de su primera aparición en el relato de “Filosofiana”. Conviene tener presente, sin embargo, que a menudo estos mismos términos vuelven a aparecer en otros contextos a lo largo de la narración. a luego a luego: poi (Le pietre…, p. 79) La locución adverbial “a luego a luego” ha caído en desuso en España hasta el punto de que el diccionario de uso de María Moliner (2007) la omite, a pesar de que el DRAE (2001) la sigue recogiendo. En la región murciana y más concretamente en el campo lorquino sigue siendo una expresión habitual y de uso corriente. Me ha parecido oportuno emplearla aquí, durante la intervención de Parlagreco, porque sin ser regionalismo (como tampoco lo es poi) rinde el valor arcaico propio del habla rural. En otro pasaje posterior del relato, esta misma locución permitirá reflejar en su propia estructura formal la repetición presente en el original: Dappoi, dappoi (Le pietre…, p. 89). a mujeretas: a modo femminino (Le pietre…, p. 89) Aún cuando este regionalismo murciano se utilice en singular con el sentido de “hombre afeminado”, la locución plural “a mujeretas” empleada para hacer alusión a la forma de montar (a caballo, mula, etc.) significa simplemente montar sentado en amazona, con las dos piernas de un lado. a poco a poco: a mano a mano (Le pietre…, p. 76) Expresión murciana con prótesis de la “a” inicial en lugar de “poco a poco”, que rinde la estructura de la locución a mano a mano. abora: ora (Le pietre…, p. 81) Regionalismo propio del habla murciana, que alterna con las variantes “aboa”, y “agora”, equivalentes todas de “ahora”. 66 acucunaíco: accovacciato (Le pietre…, p. 79) Regionalismo propio del habla murciana, de uso corriente. Significa “acurrucado”, “encogido”, “arrinconado”. achispao: imbriaco (Le pietre…, p. 86) Esta voz (“achisparse”) es un regionalismo popular con el sentido de “excederse con la bebida, emborracharse”, valor que se corresponde con el término siciliano imbriaco. al reor de las: torno alle (Le pietre…, p. 75) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “alrededor de”. alcaciles silvestres: carciofi di ventura (Le pietre…, p. 75) El vocablo “alcacil” es una forma popular para designar la alcachofa, aunque no se circunscribe únicamente a la región murciana, ya que también se emplea en otras regiones. aljibes: gèbbie (Le pietre…, p. 76) A pesar de que no se trata de un regionalismo propiamente dicho puesto que este término se utiliza en toda España con distintos matices, en Murcia la valencia semántica de este vocablo se corresponde exactamente con la gèbbia siciliana. Ambos comparten la misma etimología. En Sicilia, el término “gèbbie” deriva del árabe clásico “gˇibb”, al tiempo que en Murcia la palabra “aljibe” proviene del árabe hispánico “algˇibb”. ¿Ande vas?: Dove vai? (Le pietre…, p. 79) Modificación fonética mediante contracción, propia del habla murciana. Equivale a “a dónde (vas)”. angustia: con smorfia di sconcerto (Le pietre…, p. 85) Regionalismo semántico del habla murciana, que limita el término a 67 una sola de las múltiples acepciones recogidas por el DRAE: (“náuseas” o “ganas de vomitar”), con idéntica valencia a la del vocablo siciliano scuncirtatu (estar con náuseas). De ahí que “tener o sentir angustia” en el sentido de “tener náuseas” se pueda considerar un regionalismo semántico del habla murciana. Bien es verdad que en italiano la palabra italiana sconcerto significa “estar confuso o desconcertado”, y que también en el resto de España la palabra “angustia” se utiliza extensivamente en su primera acepción de “congoja” o “ansiedad”. Con todo el uso de sconcerto en la narración de Consolo se corresponde con la acepción semántica del vocablo siciliano, por lo que la forma murciana utilizada en la traducción es la que mejor rinde esta valencia regional. Aparecerá de nuevo al final del relato: sputando a terra sconcertato (Le Pietre…, p. 97), traducido como “escupiendo en el suelo con angustia”. anque: sia pure (Le pietre…, p. 90) Modificación fonética por supresión de una vocal, propia del habla murciana (“anque” por “aunque”). apañás: bellissime (Le pietre…, p. 77) El término lumbrerense “apañada” (aquí con la supresión de la “d” intervocálica para rendir mejor la fonética regional) alude sobre todo al aspecto físico y viene a ser sinónimo de “guapo” o “de buen ver”. argo: qualcosa (Le pietre…, p. 96) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. (se) asentó: sedé (Le pietre…, p. 75) La forma “asentarse” proviene de la modificación mediante prótesis de la “a” del término “sentarse”. Se trata de un uso propio del campo murciano. Aunque en realidad, el término existe como tal. De hecho viene recogido en el DRAE. Con todo, ya no se emplea con esta acepción 68 de “sentarse”, como no sea en el habla regional. Idéntica forma aparecerá más adelante en el texto original, asséttati (Le pietre…, p. 95), ajustándose perfectamente al vocablo “asentarse”. Esta voz, habiendo caído también en desuso en italiano, permanece en vigor como regionalismo. arguien: alcuno (Le pietre…, p. 85) Mutación de la “l” por “r” (“arguien” por “alguien”), propia del habla murciana. argún: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argún” por “algún”), propia del habla murciana. Lo mismo sucederá con la forma femenina: “arguna” por “alguna”. argo: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. artura: altezza (Le pietre…, p. 90) Mutación de la “l” por “r” (“artura” por “altura”), propia del habla murciana. aspeao: stanco (Le pietre…, p. 80) Regionalismo propio del habla murciana, que significa “cansado”, “agotado”, con la pérdida intervocálica de la “d”. avíos: cose per mangiare (Le pietre…, p. 77) El término “avíos” se utiliza en el campo para aludir a la “provisión que se lleva al hato para alimentarse”. En otros contextos puede significar un conjunto de utensilios o herramientas, así como de otra clase de enseres. No me ha parecido oportuno en este caso optar en español por una traducción literal (“las cosas para comer”) porque rompe el carácter rural del discurso. 69 ayudarme, cambiarme: aiutatemi, cangiate (Le pietre…, p. 83) El uso del infinitivo en lugar del imperativo es propio del habla regional y se emplea de forma habitual en el campo murciano. bancal: tumulo di terra (Le pietre…, p. 75) Esta medida, la del tumulo, corresponde aproximadamente a la de un bancal en la zona murciana. boca de su horno: bocca del suo forno (Le pietre…, p. 92) En los ámbitos populares el “horno” se utiliza como expresión burlona para calificar las bocas grandes (“tienes la boca como un horno”). botijos: bombole (Le pietre…, p. 75) En Sicilia el término bombola indica más que una bombona, un recipiente de barro para mantener el agua fresca. Corresponde por tanto a nuestros botijos y cántaros. ca’ espuntar: a ogni rispuntar (Le pietre…, p. 78) Alteración fonética propia del habla rural murciana en la que el término “cada” se reduce por apócope. Equivale a “cada despuntar”. caballones: montarozzi (Le pietre…, p. 76) Regionalismo utilizado en todo el campo murciano y, en particular, en el de Lorca. Designa los montículos de tierra o de otros materiales que se acumulan entre surco y surco o también en los lindes de los terrenos y bancales. cabrerico: garzoncello (Le pietre…, p. 78) En español existe la palabra “garzón” pero con el significado de “joven mancebo”, ayudante de Guardia de Corps. Otra de sus acepciones es la de “joven sodomita”. Ninguna de ellas, por supuesto, se asemeja al sentido de garzone, a pesar de que se trata obviamente 70 del mismo vocablo. Por esta razón no he podido utilizar “garzón” en la traducción. Con todo, para rendir el matiz aportado por la forma siciliana garzoncello he recurrido una vez más al sufijo “ico”, propio del habla murciana. cachifollá: fallita (Le pietre…, p. 84) No se trata de un regionalismo propiamente dicho. De hecho, el término “cachifollar” aparece recogido en el DRAE. Ha caído en desuso pero sigue vigente en el habla de la región lorquina. Aquí “cachifollá” significa “estropeada”. calistros: calipso (Le pietre…, p. 75) Regionalismo de Lorca y Puerto Lumbreras. Tanto en Sicilia como en la región murciana, la deformación de la palabra culta “eucalipto” se produjo de la misma manera mediante aféresis del diptongo “eu” y alteración de consonantes. (la) calor de la cara subiéndole a las cejas: facendosi paonazzo (Le pietre…, p. 97) En el campo murciano la palabra murciana “calor” se utiliza mayoritariamente en femenino. Toda esta perífrasis no es un regionalismo propiamente dicho, pero sí una expresión con un grafismo típicamente popular para indicar el enrojecimiento de la cara producido por una cólera o indignación súbita muy violenta. El poeta y escritor de Cuevas de Almanzor, José María Martínez Álvarez de Sotomayor, recurre frecuentemente a ella. cansera: fatica (Le pietre…, p. 80) Preciosa palabra anticuada pero que volvió a tomar un nuevo vigor a raíz del poema “Cansera” –escrito en regionalismo murciano– del poeta murciano Vicente Medina (1866-1937), siendo actualmente la que se utiliza corrientemente en todo el campo de Murcia para 71 indicar a la vez el cansancio físico y el moral. Adopta en otras regiones españolas distintos significados (en Andalucía, por ejemplo, “tener una cansera” es el eufemismo para “estar tuberculoso”). cañadú: cannamèle (Le pietre…, p. 76) El término “caña de azúcar” es el empleado mayoritariamente en España con preferencia a los de “cañaduz” y “cañamiel” siendo sinónimos entre sí (DRAE y MM). Sin embargo, tanto en el campo murciano como en el de la zona de Levante, los labriegos utilizan la voz “cañadú” con apócope del fonema “z” final convirtiéndolo así en un regionalismo, que corresponde a cannamèle, si bien no alude exclusivamente a la caña de azúcar. En la zona de Águilas este término se utiliza para referirse a una clase de naranjas especialmente dulces. También existe el vocablo “palodú”, que designa cualquier planta de sustancias dulces, como el regaliz o el orozuz, y que en algunos ámbitos rurales se confunde con la caña de azúcar. Por su parte, el regionalismo “cañadú”, al ser menos usual, consigue evocar en un lector de otras regiones de España las mismas valencias que la palabra “cannamèle” en italiano. carma: calma (Le pietre…, p. 89) Mutación consonántica de la “l” por la “r” (“carma” por “calma”), propia del habla murciana. cascajera: ciaramitàra (Le pietre…, p. 75) Regionalismo ampliamente utilizado en todo el campo murciano que significa un terreno en donde se echa toda clase de desperdicios y, sobre todo, tiestos y trozos rotos de barro. casquijos: ciaramìte (Le pietre…, p. 75) El regionalismo murciano “casquijos” indica toda clase de guijarros y pedazos, principalmente piedras pequeñas y restos de vasijas de barro. 72 cenia: sènia (Le pietre…, p. 76) El término sènia ya no es propiamente un sicilianismo porque se ha incorporado al vocabulario italiano (cf. Mortillaro). Tampoco “cenia” es un regionalismo propiamente dicho, si bien se utiliza sobre todo en Valencia y en algunas zonas del Levante en lugar de “noria”. Tanto “cenia” como sènia son en todo caso menos usuales que “noria” y su correspondiente italiano noria, al tiempo que comparten idéntico sabor añejo. cimiterio: cimiterio (Le pietre…, p. 75) Se trata de la alteración fonética de la palabra “cementerio”, propia de los ambientes rurales de la región murciana. También la palabra cimiterio del original presenta una ligera modificación regional. corgando: pendula (Le pietre…, p. 81) Mutación de la “l” por “r” (“corgando” por “colgando”), propia del habla murciana. cormá: ricolma (Le pietre…, p. 82) Mutación de la “l” por “r” (“cormá” por “colmada”), propia del habla murciana. En este caso, también se ha contraído la terminación en “-ada”. creatura de mudez, de solitud: creatura mùtola, solinga (Le pietre…, p. 85) En español los adjetivos “mudo” y “solitario” no rinden el valor literario, lleno de resonancias arcaicas, que encierran las voces italianas mùtola y solinga. Por esta razón he preferido recurrir a los sustantivos “mudez” y “solitud”, anticuados y también literarios, para conservar el sabor añejo que ha querido transmitir Consolo, sin traicionar por ello el sentido del original. De igual modo y por idénticas razones, he optado por la forma “creatura”, que ha perdido cierta vigencia en el español de hoy en favor de “criatura”. 73 cuarterola: quartàra (Le pietre…, p. 82) Palabra en desuso pero que se corresponde exactamente con la voz siciliana quartàra. Se trata de la cuarta parte de un barril u otro recipiente. cucalas: ciàule (Le pietre…, p. 75) En Murcia, sobre todo en el campo de Lorca, se utiliza el término “cucala” para toda especie de pájaros negros, desde los cuervos hasta las cornejas. curpa: colpa (Le pietre…, p. 86) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. chicoria: cicorie (Le pietre…, p. 76) Término que alterna con el de “achicoria” en español. Al igual que cicorie, no se trata de un regionalismo. He optado por la forma “chicoria” por ser la que mejor se corresponde con la italiana y por tratarse además de la variante regional murciana. dalante atrás: avant’arriere (Le pietre…, p. 78) Regionalismo murciano. Equivalente exacto del avant’arriere siciliano, trasunto de los dos adverbios franceses avant y arrière: delante y detrás. dende la mañana dasta la tarde: da mane a sera (Le pietre…, p. 78) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “desde la mañana hasta la tarde”. desencantadura: spegnatura (Le pietre…, p. 88) Se trata de un neologismo consoliano. Para mantener el mismo valor lingüístico y literario de spegnatura he reproducido su creación con otro neologismo. 74 empedrao: macco (Le pietre…, p. 77) Forma popular de la palabra “empedrado”, con pérdida de la “d” intervocálica. Es el típico guiso del campo murciano, hecho a base de habas y de arroz, semejante pues al macco siciliano. enantes: avanti (Le pietre…, p. 88) Forma propia del habla campesina de Murcia, en la que se combina la preposición “en” con la locución “antes de”, probablemente por la elisión de un gerundio (como por ejemplo “en llegando antes de”), y que se usa con el sentido de “antes de”. encomedias de: fra mezzo a (Le pietre…, p. 75) Esta preciosa locución preposicional lorquina, “encomedias de”, significa exactamente “en medio de”. También existe la forma masculina singular “encomedio de” con el mismo valor. Ambas locuciones rinden el sabor del original. enderezar el lomo: rizzare la sua groppa (Le pietre…, p. 76) Tanto el término italiano groppa, como el español “lomo” se utilizan principalmente para aludir a la espalda de los animales. Según me hizo observar pertinentemente Segre, Consolo lo emplea de manera consciente para subrayar la animalidad del duro trabajo en el campo del labrador, por lo que en la presente edición he querido rendir la misma valencia conservando la literalidad del original por medio del término “lomo”. De esta manera también se subraya el contraste con la expresión posterior “ponerse derecho como un hombre”. er día: il giorno (Le pietre…, p. 78) La forma “er” es una deformación fonética propia del campo murciano en la que se ha producido la mutación consonántica de la “l” por la “r”. Se trata de una constante fonética típica del habla rural de esta región y se encuentra presente no sólo en los artículos seguidos de consonante 75 (“er” por “el”, “ar” por “al”), sino también en muchas otras palabras (“argo” por “algo”, “farta” por “falta”, etc.). escullir: scivolare (Le pietre…, p. 78) Regionalismo semántico propio del habla murciana, que significa “resbalar”, “deslizar”, “caer” (aunque viene recogido en el DRAE). Este mismo verbo (“esculló”) se hará corresponder también con infilò (Le pietre…, p. 83), que aparecerá más adelante en el texto. faena: travaglio (Le pietre…, p. 77) El término “faena” no es propiamente un regionalismo, como tampoco lo es en puridad travaglio. Con todo, uno y otro aluden a un trabajo laborioso. Por su parte, la palabra “faena” es la que se usa en toda la zona del Levante para aludir de forma habitual y popular a toda clase de trabajo duro, pero sobre todo al agrícola. fanega y media: mezza salma (Le pietre…, p. 75) La palabra “fanega” es la medida de tierra que se utiliza en todo el Levante. Existen dos clases de fanega: la grande y la pequeña. En el campo murciano se utiliza más la grande, que equivale casi a una hectárea. Para ofrecer la equivalencia que más se aproxima a la medida de tierra del original he traducido mezza salma por “fanega y media”, ya que la salma tiene una medida superior a dos hectáreas. El término español “salma”, tomado del italiano, se sigue utilizando en la zona Mediterránea pero como medida de capacidad equivalente a una tonelada. farta: bisogno (Le pietre…, p. 96) Mutación consonántica en la que se intercambia la “l” por la “r” (“farta” por “falta”), propia del habla murciana. fieros: foresti (Le pietre…, p. 77) En algunas zonas de España el adjetivo “fiero” ha caído algo en desuso con el valor semántico de “feroz”, aunque en la zona lorquina se sigue 76 empleando de forma habitual con esta misma valencia. Se podría considerar por lo mismo un regionalismo. garullos y pavos: ciurri e pavoni (Le pietre…, p. 76) Puesto que no existe un regionalismo específico para nombrar al pavo, he elegido la palabra “garullo”, relativamente poco conocida, para mantener el mismo efecto de sorpresa lingüística en un lector español que Consolo consigue en italiano con la palabra ciurri. hato: trùscia (Le pietre…, p. 77) Término manchego muy utilizado en el campo lorquino. Se trata de una tela gruesa dentro de la cual se lía la comida que se lleva el trabajador para el día. hombrón: omone (Le pietre…, p. 86) He optado por “hombrón” en lugar de “hombretón”, que es sin embargo más usual, por su similitud fonética con el original omone. Pirandello fue el primero en Italia en utilizar literariamente este aumentativo, que a partir de él se divulgaría ampliamente. hormiguicas: formicole (Le pietre…, p. 78) Aunque formicole no sea un diminutivo, se trata de una forma propia del siciliano (en lugar de formiche). En este caso he optado por el diminutivo del término “hormiga”, empleando el sufijo regional de origen aragonés “-ico”, que es habitual en el habla murciana. Con ello, se rinde el mismo empleo del regionalismo que en el original. imperscrutable: imperscrutabile (Le pietre…, p. 86) He conservado el mismo tono culto, algo rebuscado, del término imperscrutabile, optando por el vocablo español “imperscrutable” (en lugar de “inescrutable”), que rinde el carácter literario del vocablo italiano. 77 inseculorum sécula: seculi e seculorum (Le pietre…, p. 77) España, como Italia, sigue manteniendo vivas en la lengua expresiones latinas, ya sean éstas clásicas o eclesiásticas. En los ámbitos rurales dichas expresiones padecen una lógica deformación fonética. ivernada: invernata (Le pietre…, p. 80) Arcaísmo que sigue vigente en el habla murciana. Al igual que sucede con el término “ivierno” (“invierno”), este tipo de regionalismos permanece más fiel a su etimología latina. jinjolero: zìzzole (Le pietre…, p. 76) El autor no eligió esta vez un regionalismo, sino que empleó el clásico término zìzzole (“azufaifos”). En la región murciana se utiliza la palabra “jinjolero” para designar dicho árbol frutal, siendo este vocablo más conocido que su sinónimo “azufaifo”. Aunque en la primera edición, por razones de similitud fonética con el original, había optado por “azufaifo”, para esta segunda edición he preferido emplear el término con mayor sabor regional. jugaban a coscoletas: giocavano in groppa (Le pietre…, p. 77) La expresión habitual murciana que se corresponde con la española estándar “a caballito” es “a coscoletas”. Aún cuando Consolo haya prescindido de un regionalismo siciliano, también en esta ocasión he preferido privilegiar la forma regional. lampo: lampo (Le pietre…, p. 78) Ambos términos, el italiano y el español, comparten idéntica etimología, del bajo latín “lampare” (brillar). La palabra española “lampo” ha caído en desuso en buena parte de España, aunque se sigue utilizando en la región murciana, donde se conserva también en algunas localidades la variante “llampo”. En Puerto Lumbreras el empleo de “lampo” sigue vigente y significa “relámpago”, así como “rapidez” y “fugacidad” en su acepción metafórica. 78 lebrillas: lemmi (Le pietre…, p. 75) En Murcia se emplea la forma femenina “lebrilla” para indicar un cuenco más pequeño que el “lebrillo”. lenjos: lontano (Le pietre…, p. 79) La incorporación de una “n” después de la vocal en muchas palabras es típica del habla murciana. Se trata de una alteración fonética de uso muy extendido en las zonas rurales (“lenjos” por “lejos”, “muncho” por “mucho”, etc.). lero: tarantole (Le pietre…, p. 75) El nombre que se da a la tarántula en Lorca y Puerto Lumbreras es “lero”, término que no se recoge en el DRAE por ser propiamente un regionalismo. liebro: lepre (Le pietre…, p. 81) La forma “liebro” viene recogida en el DRAE y se usa para hacer referencia al macho de la liebre. Con todo, en la zona murciana es el término que los cazadores utilizan habitualmente para referirse en general a las liebres. liopardos: liopardi (Le pietre…, p. 77) Idéntica alteración fonética en las dos zonas, la siciliana y la levantina, con el mismo cambio de vocal. luminos: lumere (Le pietre…, p. 83) Regionalismo murciano que significa “lamparilla de aceite”. martinico: monachino (Le pietre…, p. 96) Tanto el DRAE como el MM dan únicamente a este término la valencia de “duende” o “fantasma”, sin mayor especificación. En cambio, en la región murciana (principalmente en la ciudad de Murcia donde se 79 sigue utilizando corrientemente) se identifica al “martinico” con el duende juguetón que reside principalmente en las casas. Se puede por lo tanto considerar este término (enriquecido con esta acepción) como un regionalismo característico de la zona. El valor semántico de esta palabra se identifica plenamente con la del monachino siciliano. mercao: accattata (Le pietre…, p. 75) En italiano accattare significa “pedir, adquirir con esfuerzo”, al tiempo que en siciliano es simplemente “comprar” (cf. Mortillaro). Sin embargo, Consolo me aclaró que eligió este verbo para indicar que Parlagreco había comprado “con muchos sacrificios” su terreno. Para rendir este regionalismo al habla murciana, he elegido el término “mercar”, que también significa “comprar”. Este vocablo, que ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional, viene recogido en el DRAE y se sigue utilizando en la región murciana. mesmamente: veramente (Le pietre…, p. 88) Regionalismo murciano, muy en uso todavía hoy en día en ámbitos rurales. Se trata de una modificación fonética mediante el cambio vocálico de “mismamente”. Significa “precisamente”, “cabalmente”. mis mortichuelos: morticelli miei (Le pietre…, p. 83) Regionalismo específico de la zona murciana en donde alterna también con la forma “mortisuelo”. Este término se emplea sobre todo para aludir a los niños que mueren al nacer. Por afinidad se extiende afectivamente a los muertos más íntimos. Por razones fonéticas he preferido la forma “mortichuelo” que conserva el fonema “ch”, presente en el regionalismo siciliano. moros o por bandoleros: saracini o da briganti (Le pietre…, p. 82) En puridad, el término saracini corresponde a “sarracenos”, al tiempo que briganti equivale a “bandidos”. Con todo, si bien en Sicilia el 80 término saracini se impuso en el habla popular después de que los tradicionales puppi siciliani y los canta storie divulgaran el Orlando furioso, en el sur de España el vocablo de uso equivalente es “moros”. De igual forma, la forma “bandoleros” corresponde a la designación más extendida para aludir a los “bandidos” no sólo en Andalucía, sino también en las regiones colindantes, como es el caso del campo lorquino. murmujeando: mormorando (Le pietre…, p. 94) Regionalismo semántico murciano que significa “murmurar”. naíca: niente (Le pietre…, p. 96) Se trata de la forma diminutiva de «na’» (contracción de “nada”), profusamente utilizada en la región murciana. nenes: infanti (Le pietre…, p. 77) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo. Ambos términos poseen valencias semánticas similares. El término italiano ha caído en desuso en mayor o menor grado en su primera acepción (la que designa a un niño menor de siete años), siendo precisamente éste el valor que Consolo le otorga en su relato. En español, la palabra “nene” se emplea también para aludir a un niño de corta edad siendo su uso especialmente extendido en la región de Murcia. Osté: Vossia (Le pietre…, p. 85) Regionalismo rústico murciano, que consiste en la modificación fonética de “usted”. paya: moglie (Le pietre…, p. 96) Aún cuando el término “payo-a” se encuentre recogido en el DRAE con el significado de “aldeano”, sin embargo en el campo de Lorca y en general en los ambientes rústicos de la región murciana se emplea 81 como equivalente de “mujer”. En compañía del artículo (“la paya”) este vocablo alude a la esposa del que habla. perola: pignatta (Le pietre…, p. 82) El término “perola” no es un regionalismo propiamente dicho, pero se trata de la palabra que se utiliza comúnmente en la región murciana para designar un recipiente en forma de olla. Observemos que el siciliano pignatta ha dado “piñata” en español con otra connotación. De hecho, la “piñata” se reserva casi exclusivamente para las fiestas infantiles. perras: soldi (Le pietre…, p. 96) Las voces “cuartos” y “perras” (siempre en plural) son familiares o populares, como lo es soldi, y coexisten en toda España. No se trata por tanto de regionalismos, como tampoco soldi es un sicilianismo. Con todo, en algunas regiones se utiliza una de las dos con preferencia a la otra. Dado que en la zona murciana prevalece “perras” y con objeto de dar uniformidad a la traducción he optado por esta última. perullos: villani (Le pietre…, p. 90) En el texto original el término villani aparece alternando con la palabra contadini. Don Gregorio utiliza despectivamente la palabra antigua villani para indicar a Parlagreco que es un ignorante palurdo, incapaz de entender su alto razonamiento. Este matiz está perfectamente encerrado en el regionalismo murciano “perullo”, empleado despectivamente por el murciano de ciudad para burlarse del murciano de campo, de su falta de educación y de su lenguaje popular. No procedía hacer uso de la voz “villano”, porque una de sus valencias semánticas se deriva de la evolución de su significado, que con el tiempo ha llegado a significar “ruin, indigno, indecoroso” (DRAE). El vocablo italiano, en cambio, no presenta esta segunda acepción de descalificación moral que se encuentra en “villano”. 82 pesambres: stenti (Le pietre…, p. 83) En Murcia existe el regionalismo “pesambres”, contracción de “pesadumbre”, que cubre un amplio espectro semántico para expresar precisamente estos sentimientos de dolor, de pena y de penurias que forman el tejido de toda vida humana pero quizá más especialmente la de los labradores. Petrosela: Petrosella (Le pietre…, p. 92) El término petrosella alude al perejil. Procede del griego “petrosélinon” (apio que crece entre las hierbas), compuesto de “pétra” (piedra) y de “sélinon” (apio). La antigua ciudad griega de Sicilia, Selinonte, tomó su nombre de esta palabra. Por razones de estilo y para rendir el valor lingüístico y literario del original he mantenido el mismo vocablo. Po’ hay que: Eh, c´è (Le pietre…, p. 95) La forma «po’» presenta una mutación fonética mediante la reducción del diptongo y la característica pérdida de la “s” final. Significa “pues”. poyo: scaricatore (Le pietre…, p. 77) Aunque la palabra “poyo” no sea un regionalismo murciano propiamente dicho, ha caído en desuso en el resto de España. Con todo, se sigue utilizando habitualmente en la zona de Murcia y es por lo mismo el término que mejor se corresponde con el vocablo siciliano scaricatore. priesa: prescia (Le pietre…, p. 89) Aunque existen en español bellísimos términos que expresan esta misma idea (como “presura” o “premura”), he preferido el vocablo “priesa”, de resonancias arcaicas, en el que se produce una epéntesis de la vocal “e” (en lugar de “prisa”). Esta voz en desuso subsiste todavía en algunos ámbitos rurales y regionales, como en la zona de Puerto Lumbreras. Además, la elección de “priesa” rinde mejor que ninguna la cadencia fonética de la voz regional prescia. 83 protestantes: protestanti (Le pietre…, p. 87) El término “protestante” tenía en España las mismas connotaciones que en Italia. Se empleaba para designar a los ingleses y alemanes, haciendo un uso extensivo del término “protestante” por ser ésta la religión que profesaban mayoritariamente. A nivel popular este valor se siguió conservando hasta hace relativamente poco tiempo. queso de cabra con pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78) Composición del queso tomazzo. queso frito: tomazzo (Le pietre…, p. 77) Comida típica de los labradores en toda la zona del Levante que consiste en queso de cabra frito con tomate y pimienta. Consolo más adelante indica en el relato que el queso de cabra que come Parlagreco lleva pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78). Se puede deducir, por tanto, que se trata de un queso de cabra similar al que come Parlagreco dentro de las muchas variedades del queso de cabra típico del ámbito Mediterráneo. ¡Quia!: Mai (Le pietre…, p. 85) Interjección coloquial y popular muy utilizada en las zonas rurales de Puerto Lumbreras. Viene recogida en el DRAE, aunque ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional. Deriva de “qué ha [de ser]” y viene a significar lo mismo que otra interjección de uso vigente en toda España: “¡Qué va!”. Con todo “quia” tiene un valor aún más enfático por pertenecer al habla rural. Quieto parao: Statti sodo (Le pietre…, p. 85) Locución adverbial empleada en la región murciana y que goza actualmente de gran popularidad en toda España gracias al influjo de un personaje televisivo. Se trata de una expresión con gran poder conminativo, que exhorta a permanecer inmóvil allá donde se esté. 84 roalico de tierra: fazzoletto (Le pietre…, p. 75) Regionalismo murciano, utilizado sobre todo en el campo lorquino, para indicar un trozo pequeño de tierra. El término se corresponde semánticamente con el fazzoletto utilizado por Consolo en el original. ¡San Liberador!: Santo Liberante! (Le pietre…, p. 87) Exclamación popular siciliana utilizada para invocar a un santo imaginario que “libera” y protege de todo mal al que lo invoca. Se trata por consiguiente de un santo “liberador” de males. se platicaba abonico: si contava sottovoce (Le pietre…, p. 77) El verbo “platicar” es un vocablo popular típico de todo el Sur de España, especialmente en las zonas rurales. No sólo tiene el valor semántico de transmitir información sino también de comentar aquello que se está diciendo, acepción que se corresponde con la del verbo contare. Por lo que respecta a sottovoce, existe el regionalismo “abonico”, que significa “en voz baja, despaciosamente, lentamente” y es el que se emplea en el campo lorquino. Literalmente significa “de manera bonita, con voz dulce y suave”. sendica: viòlo (Le pietre…, p. 81) El diminutivo en “-ico” se utiliza profusamente en la región murciana, donde “senda” se emplea en su acepción de camino estrecho en el campo o en la sierra. ¡Sín Señó!: ’Gnorsì! (Le pietre…, p. 88) Esta modificación fonética en la que se añade una “n” final a la partícula de afirmación “sí” es propia del habla rural murciana y se encuentra en otras palabras con la misma terminación en “i”, como “asín” por “así”. Por lo que respecta a “señó”, para rendir la aféresis regional del original (’gnorsì en lugar de signorsì) he optado por la típica fonética murciana 85 en la que se produce la pérdida de la “s” y la “r” en final de palabra. Equivale, pues, a “señor”. sisca: disa (Le pietre…, p. 75) En la región murciana se utiliza la palabra “sisca” (recogida en el DRAE) para aludir a una hierba que nace en las viñas y que sirve para hacer los mantos con que se cubren las barracas. En botánica, el término técnico italiano es ampelodesma, del griego ampelos (viña) y desmos (ligadura). Parece lógico deducir que el italiano disa sea la deformación popular de la palabra culta. Según el Roque Barcia, “ampelodesmo” en español significa “una especie de hierba semejante al esparto con que los sicilianos ataban las vides”. t’adormilaste: t’addormentasti (Le pietre…, p. 86) En la región murciana existe el regionalismo “endormiscarse” con el significado de quedarse involuntariamente dormido debido al cansancio u otro motivo, aunque de uso poco frecuente. Sin embargo, en este caso he preferido “adormilarse” porque rinde mejor la textura fonética del término italiano, que de hecho tampoco es un regionalismo. También transcribo la alteración regional del original en el pronombre “te”. Tajo parejo: Cominciò il suo lavoro (Le pietre…, p. 76) Aun cuando no aparezca ningún término en el texto original que se corresponda con esta locución, tan típicamente lorquina y al mismo tiempo tan propia del habla rural murciana, la idea que se desprende de este pasaje en italiano conviene plenamente con el uso de la expresión “tajo parejo”, empleada precisamente para hacer referencia al trabajo uniforme y metódico, en el que nada queda sin hacer. Esta locución, que tantas veces oí durante la recogida de la almendra en el campo lumbrerense, aporta también el matiz de una perseverancia sistemática en el incansable faenar y en el duro bregar con la tierra. 86 tanimientras: intanto (Le pietre…, p. 90) Precioso regionalismo, empleado con profusión por poetas y escritores murcianos desde Saavedra Fajardo hasta Martínez Álvarez de Sotomayor, que he querido rescatar aquí por su belleza. Significa “entretanto”. ’tate tranquilica: sta’ tranquilla (Le pietre…, p. 89) La forma «’tate» es la alteración por aféresis de “estate” en el campo murciano, que se corresponde perfectamente con sta’. terretremo: tremuoto (Le pietre…, p. 85) Arcaísmo utilizado en la huerta murciana que alterna con “terretiemblo” (por “terremoto”). tesoro escondío: trovatura (Le pietre…, p. 84) Al no existir en español una única palabra que rinda el sentido exacto del vocablo trovatura –regionalismo siciliano que se utiliza sólo cuando se encuentra un tesoro oculto (principalmente monedas de oro)– se hacía necesario traducirlo acompañado de un adjetivo que recogiera esta valencia añadida. tiestos: cocci (Le pietre…, p. 75) En Lorca, el “tiesto” –además de significar “maceta”– alude principalmente a trozos rotos de cualquier vasija de barro, aunque pueden ser de otro material. to’ p’alante hast’acá: diritto fino a qua (Le pietre…, p. 85) Regionalismo del campo de Lorca, en el que se suprimen varias sílabas. Se trata de la contracción de “todo para adelante hasta acá”, con el sentido de seguir un camino “todo recto hasta aquí”. 87 to’ tieso: diritto (Le pietre…, p. 75) Contracción propia del habla rural murciana en la que se suprime la última sílaba. “To’ tieso” equivale a “erguido”. umbligo: bellìco (Le pietre…, p. 92) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo, sino de una alteración popular de los términos “ombligo” y ombelico. Una fuente n’er puentecico /N’er Lanniri siet’aspontico’/ Sabucina e’ jarta d’oro /Testa de lumbre, Testa d’oro…: A lu ponti ci n’è un fonti,/A li Lànniri setti mànniri,/ Sabucina d’oru è china,/Capudarsu, Capu d’oru… (Le pietre…, p. 82) He traducido la cancioncilla que rememora el personaje del relato mediante los siguientes regionalismos: añadiendo algún sufijo en “ico” que me ha permitido hacer la rima; suprimiendo la “s” final de “asponticos” y del verbo “es”, según se pronuncia en la región murciana, así como mediante la elisión de la “e” en la preposición “de” ante vocal. “Asponte” es un regionalismo aragonés que significa “aprisco”, “redil”, utilizado todavía hoy en algunas zonas rurales murcianas. También he empleado la forma contracta y alterada “n’er” por “en el”. Asimismo, he optado por la expresión murciana “jarta de”, deformación regional de la española “harta de”, con el sentido de “llena”, equivalente de la voz siciliana china. Finalmente, he elegido el término “testa” para capu (“cabeza”). Se trata de un vocablo que ha caído en desuso pero que se sigue utilizando en zonas rurales del Levante. Lo mismo sucede con la palabra “lumbre” por “fuego”, igualmente en desuso pero muy vigente en la región murciana a día de hoy. No me ha sido posible conservar las rimas internas que aparecen en el original en los tres primeros versos (ponti-fonti/Lànniri-mànniri/ Sabucina-china), aunque he conseguido darle ese aire rimado al conjunto. La traducción literal de la letrilla viene a ser: “En el puente hay una fuente/En Lànniri siete rediles/ Sabucina está llena de oro /Cabeza de fuego, Cabeza de oro…”. 88 «Uno, Vito»: «Jeu,Vitu» (Le pietre…, p. 80) Regionalismo del campo murciano y andaluz, donde en lugar del pronombre personal “yo” se usa el indefinido “uno”, uso que se corresponde con el regionalismo siciliano jeu. visivilo: scavuzzo (Le pietre…, p. 96) Alteración del fonema “e” por “i”, de la voz “vesivilo” (DRAE: “fantasma, visión” y MM: “fantasma, aparición”). Esta forma alterada se utiliza corrientemente en toda la región murciana, si bien abarca un mayor espectro semántico pues el término sirve para nombrar al duende que habita en un lugar y que de vez en cuando se aparece a los lugareños adoptando distintas formas. En Murcia coexisten las dos formas: “visivilo” y “vesivilo”. El vocablo elegido se corresponde bien con el término siciliano del texto original. (se) vuerven: (si) cangiano (Le pietre…, p. 82) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. zagal: caruso (Le pietre…, p. 78) Según el diccionario Battaglia, el término siciliano caruso alude a un joven empleado en labores agrícolas u otras. Tiene el sentido originario de “cabeza rapada o sin pelo”, porque era así como se debían asear los jóvenes que trabajaban en el campo o en las minas, de ahí que esta palabra se utilice en Sicilia para designar precisamente a estos jóvenes y por extensión a todo muchacho joven. Por su parte, el español posee una amplia gama de voces para cubrir el campo semántico de “muchacho”: zagal, mozo, chaval, rapaz, mancebo, etc. (con sus también variadísimos diminutivos correspondientes). Todas estas voces pueden ser intercambiadas a lo largo y ancho de España y no existe en ninguna zona un regionalismo específico, como es el caso de la palabra caruso en Sicilia. Bien es verdad que algunas regiones 89 españolas utilizan con preferencia un vocablo a otro. Así, por ejemplo, en Galicia se ha generalizado “rapaz”. He optado por “zagal” por ser el término (con su diminutivo “zagalico” y aumentativo “zagalón”) más extendido en la región murciana. También he recurrido a “zagal” en otros pasajes del relato: cuando lo utiliza Vito para referirse a sus hijos, haciendo un uso propio del habla murciana (como en “Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza” que vendría a significar “Tampoco a mi mujer, ni a mis hijos les gusta la caza”), así como, en general, para aludir a muchachos-as muy jóvenes. APARATO BIBLIOGRÁFICO 93 I. OBRA DE VINCENZO CONSOLO27 I. 1. NARRATIVA (Romanzi) • La ferita dell’aprile, Mondadori, Milán, 1963. Reediciones: · “Nuovi Coralli, 181”, Einaudi, Turín, 1977. · “Oscar Oro, 23”, Mondadori, Milán, 1989. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2008, 2010. • Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Turín, 1976. Reediciones: · “Oscar Oro, 9”, Mondadori, Milán, 1987. · Einaudi “Nuovi Coralli,” Turín, 1992. · Einaudi “Scuola”, Turín, 1995. · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1997. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2002. · “Oscar classici moderni, 123”, Mondadori, Milán, 2004. • Lunaria, Einaudi, Turín, 1985. Reediciones: · Mondadori, Milán, 1996. 27 Tan sólo reseño sus libros debido al gran número de artículos publicados en periódicos, revistas, prólogos o introducciones a libros. 94 · “Oscar” Mondadori, Milán, 2003. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Retablo, 1987. La editorial Sellerio publica tres ediciones: · Primera edición: Sellerio, Palermo, colección “La memoria”, 1987. · Segunda edición: Sellerio, Palermo, colección “Il Castello”, 1990. · Tercera edición: Sellerio, Palermo, colección “La rosa dei venti”, 2009. Reediciones: · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1992. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar” Mondadori, Milán, 2009. • Retablo (versione teatrale di Ugo Ronfani), La Cantinella, Catania, 2001. • Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milán, 1988. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1990. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • La Sicilia passeggiata, Eri, Turín, 1991. • Nottetempo, casa per casa, 1992. En 1992 aparecen tres ediciones: · Primera edición: Mondadori, Milán, 1992. · Segunda edición: Edizione CDE spa, Milán, 1992. · Tercera edición: Edizione CDE premi Strega, Milán, 1992. 95 Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 1994. · Collezione “Premio Strega: i cento capolavori”, UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2006/7. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma, 1993. • L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milán, 1994. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1999. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milán, 1998. Reediciones: · Oscar Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Di qua dal faro, Mondadori, Milán, 1999. Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2001. • Amor sacro: en preparación. 96 I. 2. TEATRO (Opere Teatrali) • Catarsi: en Trittico, SanFilippo, Catania, 1989. en Oratorio, Manni, Lecce, 2002. • Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (Atto Unico), Centro di Studi ed iniziative culturali, Palermo, 2009. • L’attesa, Bompiani, Milán, 2010. I. 3. NOVELAS (Racconti) • Neró Metallicó: Il Melangolo, Genova, 1994. Un racconto con 12 finali28, Gremese, Roma, 2009. • Il teatro del sole, racconti di Natale, Interlinea, Novara, 1999. • Isole dolci del Dio29, L’Obliquo, Brescia, 2002. • Siracusa come un incanto, Artestudio, Siracusa, 2003. • Il Corteo di Dioniso30, La Lepre, Roma, 2009. 28 Además de los doce finales diferentes realizados por diversas personas, incluye uno especial diferente del propio Consolo. 29 Incluye quince ilustraciones de Giorgio Bertelli. 30 Se trata de una reciente edición –con ilustraciones de Cecilia Capuana– que reedita Neró Metallicó y Il Teatro del Sole. 97 II. TRADUCCIONES DE LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. LA FERITA DELL’APRILE 1. 1. AL ALEMÁN: • Die Wunde im April (por Bettina Kienlechner y Ulrich Hartmann), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1990. 1. 2. AL ESPAÑOL: • La herida del abril (por Miguel Ángel Cuevas), en preparación para la editorial Barataria. 1. 3. AL FRANCÉS: • La Blessure d’Avril (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 2. IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO 2. 1. AL ALEMÁN: • Das lächeln des unbekannten Matrosen (por Arianna Giachi), Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1984. 2ª y 3ª edición: Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1990 y 1996. 98 2. 2. AL ÁRABE: • (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto), 2009. 2. 3. AL CATALÁN: • El somrís del mariner inconegut (por Alexis Eudald Solà), Ed. Proa, Barcelona, 2006. 2. 4. AL ESPAÑOL: • La sonrisa del ignoto marinero (por Esther Benítez), Alfaguara, Madrid, 1981. • La sonrisa del ignoto marinero (por Giovanni Barone y Mirta Vignatti), Laborde Editor, Rosario (Argentina), 2001. 2. 5. AL FRANCÉS: • Le Sourire du marin inconnu (por Mario Fusco y Michel Sager), prólogo de Leonardo Sciascia, Bernard Grasset, París, 1980 (2ª edición: para la colección “Les Cahiers rouges”, Bernard Grasset, París, 1980). 2. 6. AL INGLÉS: • The Smile of the Unknown Mariner (por Joseph Farrell), Carcanet, Manchester, 1994. 3. LUNARIA 3. 1. AL ESPAÑOL: • Lunaria (por Irene Romera Pintor), Centro de Lingüística Aplicada Atenea, Madrid, 2003. Premio Internacional a la Traducción de Obras literarias y científicas 2004, otorgado por el Ministerio de Asuntos Exteriores Italiano. 99 3. 2. AL FRANCÉS: • Lunaria (por Brigitte Pérol y Christian Paoloni), Le Promeneur, París, 1988. 4. RETABLO 4. 1. AL ALEMÁN: • Retablo (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien / Bozen, 2005. 4. 2. AL ÁRABE: • En preparación (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto). 4. 3. AL CATALÁN: • Retaule (por Assumpta Camps), Edicions de la Magrana, Edicions 62, Barcelona, 1989. 4. 4. AL ESPAÑOL: • Retablo (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik, Barcelona, 1995. 4. 5. AL FRANCÉS: • Le Retable (por Soula Aghion y Brigitte Pérol), Le Promeneur, París, 1988. 4. 6. AL HOLANDÉS: • Retabel. Siciliaanse passies (por Pietha de Voogd), Wereldbibliotheek, Amsterdam, 1992. 4. 7. AL PORTUGUÉS: • Retábulo (por José Colaço Barreiros), Difel, Lisboa, 1990. • Retábulo (por Roberta Barni), Berlendis & Vertecchia Editores, Sao Paulo (Brasil), 2002. 100 5. LE PIETRE DI PANTALICA 5. 1. AL ALEMÁN: • Die Steine von Pantalica (por Anita Pichler), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996. 5. 2. AL ESPAÑOL: • La presente edición y traducción de “Filosofiana”, relato de Las piedras de Pantálica (por Irene Romera Pintor), Fundación Updea, Madrid, 2008 (2ª edición de 2011, revisada y ampliada para la misma editorial). En preparación la traducción del libro completo. 5. 3. AL FRANCÉS: • Les Pierres de Pantalica (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 5. 4. AL GALLEGO: • “Ratumeni” y “Comiso” (As pedras de Pantalica) relato de Las piedras de Pantálica (por Cándido Pazó y Dolores Vilavedra), en Seis narradores italianos, edición de Danilo Manera y Dolores Vilavedra, Edicións Positivas, Santiago de Compostela, 1993. 6. NOTTETEMPO, CASA PER CASA 6. 1. AL ALEMÁN: • Bei Nacht, von Haus zu Haus (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Viena-Bozen, 2003. 6. 2. AL ESPAÑOL: • De noche, casa por casa (por Ana Poljak), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1993. 101 • De noche, casa por casa (por Eloy-José Santos Domínguez), Primera edición en español para América Latina, Editorial Norma, Bogotá, 1996. 6. 3. AL FRANCÉS: • D’une maison l’autre, la nuit durant (por Louis Bonalumi), Gallimard, París, 1994. 6. 4. AL INGLÉS: • Night-Time, House by House (por Daragh O’ Connell), en preparación. 6. 5. AL PORTUGUÉS: • De Noite casa por casa (por José Colaço Barreiros), ed. Teorema, Lisboa, 1996. 7. L’OLIVO E L’OLIVASTRO 7. 1. AL ESPAÑOL: • El olivo y el acebuche (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1997. 7. 2. AL FRANCÉS: • Ruine immortelle (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 1996. 8. LO SPASIMO DI PALERMO 8. 1. AL ALEMÁN: • Palermo. Der Schmerz (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien/Bozen, 2008. 102 8. 2. AL ESPAÑOL: • El pasmo de Palermo (por Pilar González Rodríguez), Debate, Madrid, 2001. 2ª Edición: para la colección “Las mejores novelas de la literatura universal contemporánea” (por Pilar González Rodríguez), prólogo de Constantino Bértolo, Biblioteca El Mundo, Madrid, 2003. 8. 3. AL FRANCÉS: • Le Palmier de Palerme (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2000. 9. DI QUA DAL FARO 9. 1. AL ESPAÑOL: • De este lado del faro (por Miguel Ángel Cuevas), Parténope, 2008. 9. 2. AL FRANCÉS: • De ce côté du phare (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2005. 10. Antología de ensayos y artículos sobre el tema del mundo mediterráneo, escritos todos ellos por Vincenzo Consolo y traducidos al inglés: • Reading and Writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo Consolo, edición de Massimo Lollini & Norma Bouchard, Toronto, University of Toronto Press, 2006. 103 III. PREMIOS Y RECONOCIMIENTO A LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. Premio letterario CITTÀ DI SOVERATO, por La ferita dell’aprile, en 1964. 2. Premio PIRANDELLO, por Lunaria, en 1985. 3. Premio GRINZANE CAVOUR, por Retablo, en 1988. 4. Premio RACALMARE, por Retablo, en 1988. 5. Premio CITTÀ DI PENNE, por Le pietre di Pantalica, en 1989. 6. Premio STREGA, por Nottetempo, casa per casa, en 1992. 7. Premio INTERNAZIONALE UNIONE LATINA, por L’olivo e l’olivastro, en 1994. 8. Premio di Cultura CITTÀ DI MONREALE, por Lo spasimo di Palermo, en 1998. 9. Premio CASATO PRIME DONNE, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 10. Premio BRANCATI-ZAFFERANA, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 11. Premio NINO MARTOGLIO, por Di qua dal faro, en 1999. 12. Premio FERONIA, por Di qua dal faro, en 2000. 13. Premio PALMI, por el conjunto de su obra, en 2007. 14. Premio GIACOMO LEOPARDI, por el conjunto de su obra, en 2008. 104 Además, Vincenzo Consolo ha recibido el Título de Doctor Honoris Causa en dos ocasiones hasta la fecha: 1. por la Universidad “Tor Vergata” de Roma el 18 de febrero de 2003. Lectio Magistralis: “La Metrica della Memoria”. Laudatio de los Profesores Andrea Gareffi y Enrico Guaraldo. 2. por la Universidad de Palermo, el 20 de junio de 2007. Lectio Magistralis: “Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano”. Laudatio del Profesor Natale Tedesco. 105 IV. TRABAJOS DE INVESTIGACIÓN El presente capítulo bibliográfico recoge todos los trabajos de investigación relativos a la figura y la obra de Vincenzo Consolo. El material bibliográfico se ordena en torno a las tesinas (“Tesi di Laurea” y “Mémoire de Maîtrise”) y a las Tesis Doctorales. Los trabajos de investigación se ordenan por sus países de origen. La relación de países sigue un orden determinado por el volumen de trabajos de investigación. Con objeto de ordenar el material bibliográfico dentro de cada país he considerado oportuno presentarlos por universidades, en orden alfabético, y dentro de cada universidad por orden cronológico. De esta manera, atendiendo al volumen de trabajos de investigación, la relación de países seguirá el siguiente orden: Italia, Francia, Alemania, España, Bélgica, Escocia, Inglaterra y Estados Unidos. IV. 1. ITALIA31: Tesi di Laurea Università degli studi di BARI 1999-2000: 31 Toda “Tesi di Laurea” (tesina) y Tesis Doctoral viene reseñada en Italia en el “Atlante Linguistico Italiano”. Para algunas de las tesinas aquí citadas, véase 106 • Dario Pignone: “La letteratura avvilita. Vincenzo Consolo” (dirección de Giuseppe Lasala). Università Alma Mater Studiorum di BOLONIA 2005-2006: • Maria Letizia Fiocchetti: “La Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Fabrizio Frasnedi; codirección de Matteo Ghirardelli). Università degli studi della CALABRIA 1994-1995: • Rosaria Larussa: “Pastiche linguistico e denuncia sociale nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicola Merola). Università degli studi di CATANIA 1989-1990: • Carmela Gandolfo: “Per leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio” (dirección de A. Di Grado). 1991-1992: • Giuseppa Mazzola: “Umori civili e scatto fantastico nella prosa di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicolò Mineo). 1992-1993: • Agata Cardillo: “L’italiano regionale di Sicilia nella Ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). en concreto: “Tesi di Laurea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. Cattedra di Geografia linguistica”, a cargo de I. M. B. Valenti, en «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano», III Serie, Turín, 2001, pp. 223-38. 107 • Federica Spampinato: “L’italiano regionale di Sicilia nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1994-1995: • Giovanni Pastaro: “Il dibattito critico su Vincenzo Consolo” (dirección de Guido Nicastro). • Maria Elena La Rosa: “L’italiano regionale e letterario in Retablo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1995-1996: • Valeria Benanti: “L’italiano regionale di Sicilia in Lunaria di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1997-1998: • Giusi Burgaretta: “Teatro e teatralità nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Sarah Zappulla Muscarà). Contiene varios Apéndices: “Appendice I: intervista a Vincenzo Consolo [Sant’Agata, 10-IX-98 (pp. 155-64)]; Appendice II: viene riportato il testo della rappresentazione di «Fuochi Freddi» (pp. 165-87), tratto da Lunaria e messo in scena nel 1991 a Monreale, nell’elaborazione drammaturgica di Ola Cavagna, dal regista Mauro Avogadro. Alla generosità del regista Mauro Avogadro si deve anche la disponibilità del testo di «Minima Lunaria» (pp. 188-246)”. • Gabriella Maria Concetta Giuliana: “L’italiano regionale nelle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Laura Di Trapani: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo spagnolo (E. Benítez, 1981) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Michele Mangione: “L’italiano regionale della Sicilia e altre lingue in L’olivo e l’olivastro e Nerò metallicò di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 108 1999-2000: • Vanessa Di Salvo: “L’italiano regionale di Sicilia nello Spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Arianna Tiralongo: “L’italiano regionale di Sicilia in Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Lorella Spinello: “Vincenzo Consolo. Una «figura in fuga», nello specchio dei suoi scritti” (dirección de A. Di Grado). Contiene en Apéndice: “Incontro con lo scrittore [Catania, 13-XII-98 (pp. 155- 82); Milano, 22-IV-99 (pp. 183-214)]”. 2000-2001: • Loreto Bongiovanni: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo inglese (J. Farrell, 1994) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 2001-2002: • Alessia Saraceno: “Vincenzo Consolo: un Odisseo tra i mari della scrittura” (dirección de Rosalba Galvagno). • Maria Giuseppina Catalano: “Figure del dolore. Follia e melanconia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosa Maria Monastra). Contiene en Apéndice: “Intervista a Vincenzo Consolo [Agrigento, 30-IX-2001 (pp. I-XXIV)]”. 2003-2004: • Stefania Cipolla: “La traduzione spagnola di Retablo di Vincenzo Consolo. Regionalità linguistica e problemi traduttivi” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Cettina Cornelio: “La regionalità siciliana in Retablo di Vincenzo Consolo nella traduzione francese” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Debora La Rosa: “Problemi di traduzione dell’italiano regionale nella versione francese (M. Fusco e M. Sager) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 109 2004-2005: • Glenda Dollo: “La sfida al labirinto di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). 2007-2008: • Andreina Litrico: “L’ekfrasis della Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). Università degli studi di MESSINA 1998-1999: • Eros Salonia: “Il teatro di Vincenzo Consolo: Catarsi. Il gioco dell’impossibile” (dirección de Giuseppe Rando). Università degli studi di MILANO (Bicocca) 2005-2006: • Lisa Rustico: “Il paesaggio siciliano in Vincenzo Consolo: Retablo” (dirección de Elena Dell’Agnese). Contiene en Apéndice: “Conversazione con Vincenzo Consolo [Milano, 11-V-2006 (pp. 159-68)]”. Università degli studi di PALERMO 2000-2001: • Daniela Giambanco: “La poetica di Vincenzo Consolo tra storia e mito” (dirección de Salvatore Lo Bue). Contiene una entrevista inédita a Vincenzo Consolo. 2003-2004: • Giovanna Tobia: “Memoria e ragione del paesaggio: V. Consolo e A. Castelli” (dirección de D. Perrone). Università degli studi di PAVIA 2004-2005: • Alessandra Morini: “Per Catarsi di Vincenzo Consolo: un esempio di tragico moderno. Ricostruzione filologica e critica. Con un’intervista 110 inedita a Vincenzo Consolo [Milano, 3-3-06 (pp. 182-9)]” (dirección de Clelia Martignoni; codirección de Anna Beltrametti y Federico Francucci). A parte de la entrevista en Apéndice, también reproduce tres conversaciones radiofónicas “tratte dalla trasmissione Damasco di «Radio tre», in cui Consolo si sofferma in particolare su tre grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e sul rapporto con loro (pp. 189-210): 14-12-05: Elio Vittorini (p.190); 15-12-05: Lucio Piccolo (p. 197); 16-12-05: Leonardo Sciascia (p. 203)”. Università degli studi di PISA 1995-1996: • Chiara Savettieri: “Antonello da Messina: un percorso critico” (dirección de Antonino Caleca). Véase sobre todo el capítulo XIII: “Due scrittori siciliani ed Antonello “[cf. en particular: “13. 3. Vincenzo Consolo: il linguaggio come rivolta e come memoria” (pp. 455-77)]. 1996-1997: • Chiara Pellegrini: “La contaminazione linguistica in Vincenzo Consolo. Con un glossario dei primi tre volumi (1963, 1976, 1985)” (dirección de Livio Petrucci). ROMA 1990-1991: • Fabiola Paterniti Martello: “Vincenzo Consolo e l’esperienza della scrittura”, Università di Tor Vergata-Roma II (dirección de Emerico Giachery; codirección de Rino Caputo). 111 1994-1995: • Attilio Scuderi: “Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Bianca Maria Frabotta). 1999-2000: • Paola Casciani: “Vincenzo Consolo: l’utopia e la città”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Stefano Giovanardi; codirección de Giovanna De Angelis). 2001-2002: • Linda Di Mauro: “Le arti visive nella narrativa di Sciascia e Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Antonella Sbrilli; codirección de Manuela Annibali). Università degli studi di SIENA 1993-1994: • Barbara Dragoni: “Vincenzo Consolo” (dirección de Alfio Vecchio). Contiene en Apéndice “Intervista a Vincenzo Consolo (pp. 525-39)”. 2005-2006: • Gabriele Vitello: «Il romanzo del ritorno» in Elio Vittorini e Vincenzo Consolo” (dirección de Daniela Brogi). Università degli studi di TORINO 1989-1990: • Massimo Catti: “Nuclei tematici nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Marco Cerruti). 112 Università degli studi di TRIESTE 1991-1992: • Lorenza Cucchiani: “Anche la mia penna è intinta nello zolfo: la narrativa di Vincenzo Consolo tra razionalità e barocco” (dirección de Elvio Guagnini). Università degli studi di VENEZIA Ca’ Foscari 1998-1999: • Nicoletta Santangelo: “Vincenzo Consolo. Una voce tragica oltre la scena del teatro” (dirección de Ricciarda Ricorda). IV. 2. FRANCIA IV. 2. a. Mémoires de maîtrise Universidad d’AIX-MARSEILLE I 1989-1990: • Patricia Racine: “Immagini del Risorgimento nel romanzo siciliano” (dirección de Rubat du Merac). Contiene un Apéndice en dónde transcribe la conversación telefónica con Vincenzo Consolo (10-VI- 1990: pp. 150-57). Universidad de Stendhal GRENOBLE III 1992-1993: • Demetrio Trunfio: “Alle radici della scrittura: infanzia e lingua materna nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de G. Bosetti). Universidad de NICE SOPHIA ANTIPOLIS 2001-2002: • Eleonora Gellini: “La Sicilia contadina attraverso lo sguardo di Vincenzo Consolo (Le pietre di Pantalica) e di Maria Occhipinti 113 (Una donna di Ragusa e Il Carrubo e altri racconti)” (dirección de Arnaldo Moroldo; codirección de Monica Mocca). PARÍS 1996-1997: • Elisabetta Brucoli: “Vincenzo Consolo e la Sicilia nella sua opera romanzesca”, Universidad de Paris-IV “La Sorbonne” (dirección de J. M. Gardair). 1999-2000: • Anne Parniere: “Sicile et sicilitude dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire de maîtrise d’italien, Langues, Littératures et civilisations étrangères”. 2000-2001: • Anne Parniere: “L’écriture palimpseste: étude de l’oeuvre de Vincenzo Consolo à partir de l’analyse de Retable (1987), de D’une maison l’autre, la nuit durant (1992) et de Ruine immortelle (1994)”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire d’études approfondies. Culture et société en Italie du Moyen Âge au XXème siècle: langue, littérature, et civilisation”. Fecha: 18 de julio de 2001. Universidad de SAINT-DENIS 1989-1990: • Valérie Vita: “ Vincenzo Consolo, écrivain de la memoire” (dirección de Giuditta Isotti-Rosowsky). 114 IV. 2. b. Tesis Doctorales TESIS DOCTORAL de Maryvonne Briand Director de la Tesis: Mariella Colin. Universidad de Caen/ Basse -Normandie Título: “Poétique de l’espace et du temps dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”. Fecha: 19 de junio de 2004. IV. 3. ALEMANIA ERLANGEN-NÜRNBERG 1989-1990: • Christine Dauner: “Vincenzo Consolo: Literatur als Geschichtsschreibung oder als Dokumentation” [Magisterarbeit in der Philosophischen Fakultät II (Sprach- und Literaturwissenschaften) der Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg vorgelegt von Christine Dauner aus Rosenheim; contiene en Apéndice: “Interview mit Vincenzo Consolo (pp. I-XXVII)”]. FRANKFURT AM MAIN 1988-1989: • Agnes Denschlag: “Die Sicilianità Vincenzo Consolo” (dirección de Gerhard Goebel-Schilling); [Abschlussarbeit zuz Erlangung des Magister Artium im Fachbereich Neuere Philologien (Johann Wolfgang Goethe Universität Frankfurt am Main)]. 115 IV. 4. ESPAÑA MADRID TESIS DOCTORAL de Miguel Gabriel Ochoa Santos. Director de la Tesis: Antonio Ubach Medina Universidad Complutense de Madrid. Título: “Historia, memoria y polifonía mítica en De noche, casa por casa de Vincenzo Consolo”. Fecha: 2005. TESIS DOCTORAL de Nicolò Messina. Director de la Tesis: Manuel Gil Esteve. Universidad Complutense de Madrid. Título: “Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Fecha: 4 de julio de 2007. La presente Tesis Doctoral (ISBN: 978-84-669-3196-0) se puede consultar online en: http://eprints.ucm.es/8090/ IV. 5. BÉLGICA AMBERES 1993: • Annemieke Van Orshoven: “La verità del romanzo: Retablo (Vincenzo Consolo)” (dirección de Walter Geerts); [Eindverhandeling ingediend tot het behalen van de graad van Licentiaat in de Letteren en Wijsbegeerte (Universitaire Instelling Antwerpen)]. 116 IV. 6. ESCOCIA STRATHCLYDE TESIS DOCTORAL de Daragh O’Connell. Director de la Tesis: Joseph Farrell. Universidad: University of Strathclyde (Escocia). Título: “The Trinacria Trilogy: Polyphony and Palimpsests in the Narrative of Vincenzo Consolo”. Fecha: 17 de septiembre de 2008. IV. 7. INGLATERRA LONDRES 1995: • Maria Cristina Cataldo: “Vincenzo Consolo: un viaggio nella letteratura e nella storia della Sicilia”, University College of London; [Se trata de una tesina del “Master in Arts” (60pp.)]. IV. 8. ESTADOS UNIDOS NUEVA YORK TESIS DOCTORAL de Vincenzo Pascale. Director de la Tesis: Robert S. Dombroski y Eugenia Paulicelli. Universidad: Graduate Center de la City University de Nueva York. Título: “Lo sguardo e la storia: Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”. Publicada con el mismo título en la editorial Vecchiarelli, Roma, 2006. 117 V. ENCUENTROS MONOGRÁFICOS SOBRE VINCENZO CONSOLO Además de las cada vez más frecuentes ponencias y comunicaciones que se presentan en los distintos congresos sobre la obra de Vincenzo Consolo, caben destacar los siguientes encuentros monográficos, dedicados por entero al autor, y que contaron con su presencia en los mismos: V. 1. Coloquio Internacional: “Vincenzo Consolo, éthique et écriture”, organizado por Dominique Budor y celebrado en París, los días 25 y 26 de octubre de 2002. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: DOMINIQUE BUDOR (ed.), Vincenzo Consolo, éthique et écriture, Presse Sorbonne Nouvelle, París, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: • D. BUDOR, Pourquoi lire Consolo, «notre» classique32. • V. CONSOLO, La metrica della memoria33. 32 Véase también el aparato bibliográfico que adjunta. 33 Traducido en paralelo por Jean-Paul Manganaro: “Pour une métrique de la mémoire”. 118 L’être-dans-l’Histoire: • A. RECUPERO, Sicile 1943-2000: entre la pétrification de l’histoire et l’orageux changement de la société. • G. FERRONI, Une éthique de la parole. Le temps, la mémoire, le retour: • Mª P. DE PAULIS-DALEMBERT, Mémoire individuelle- mémoire de l’histoire: le palimpseste narratif. • D. FERRARIS, La syntaxe narrative de Consolo: pour une orientation du désastre. • C. IMBERTY, Vincenzo Consolo, ou le roman entre mémoire et mémoire historique. • J. P. MANGANARO, Tradition et Traduction: dans l’eau du Détroit. Les modulations du récit: • V. GIANNETTI, L’anghelos et le choeur: récit et narration chez Vincenzo Consolo. • W. GEERTS, Consolo ou les derniers replis de la fiction. • C. SEGRE, Temps et narration dans l’oeuvre de Vincenzo Consolo. Voix et mythes de la Sicile: • R. GALVAGNO, «Male catubbo». Les avatars d’une métamorphose dans le roman Nottetempo, casa per casa. • Mª F. RENARD, Paysage d’amour et de mémoire. • G. DAVICO BONINO, Consolo e il teatro. Enriquece dichas Actas el soporte informático (CD-rom) que se adjunta al final de las mismas. 119 V. 2. Jornadas de estudio: “Giornate di Studio in onore di Vincenzo Consolo”, organizadas por Enzo Papa y celebradas en Siracusa, los días 2 y 3 de mayo de 2003. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: ENZO PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, Manni («Studi, 54»), San Cesario di Lecce, 2004. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Come una lastra memoriale. • P. CARILE, Testimonianza. • Mª R. CUTRUFELLI, Un severo, familiare maestro. • R. GALVAGNO, Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. • M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale. • S. PAUTASSO, Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa. • C. RICCARDI, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo. • G. TRAINA, Rilettura di Retablo. Véase también: “L’appendice bibliografica” (pp. 135-41), al igual que la nota del editor (pp. 142-3). V. 3. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: per i suoi 70 (+1) anni”, organizadas por Miguel Ángel Cuevas y celebradas en Sevilla, los días 15 y 16 de octubre de 2004. No hubo Actas. Algunas comunicaciones fueron publicadas en el número 10 de la Revista “Quaderns d’Italià”, titulado: Leggere Vincenzo Consolo / Llegir Vincenzo Consolo, Barcelona, 2005. 120 Destacan los dos textos de creación de Vincenzo Consolo: “La grande vacanza orientale-occidentale” y “Il miracolo”. Artículos específicos sobre Vincenzo Consolo: • Mª. ATTANASIO, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo. • E. VILELLA, Nostos y laberinto. • P. CAPPONI, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo. • M. A. CUEVAS, Ut pictura: el imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo. • R. ARQUÉS, Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo. • G. ALBERTOCCHI, Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria». • N. MESSINA, Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo. V. 4. Jornadas Internacionales: “Lunaria vent’anni dopo”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 24 y 25 de octubre de 2005. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Lunaria vent’anni dopo, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2006. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Ma la luna, la luna. • M. GIL ESTEVE, Aún Lunaria. • S. C. TROVATO, Il coraggio di una traduzione. A proposito della traduzione spagnola di Lunaria (di Irene Romera Pintor). 121 • A. PANTALEONI, Morte e pianto rituale in Lunaria di Vincenzo Consolo. • P. CARILE, Una testimonianza e una riflessione su Vincenzo Consolo: dalla Sicilia all’Europa. • M. A. CUEVAS, Lunaria antes de Lunaria. • G. ALBERTOCCHI, La luna e dintorni. • N. MESSINA, Lunaria dietro le quinte. • I. ROMERA PINTOR, Claves para una ensoñación lunaria. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Mesa redonda, con la presencia y participación de Vincenzo Consolo, con ocasión de la presentación de la traducción al español de Lunaria (2003), con las intervenciones de Renzo Cremante, Joaquín Espinosa Carbonell, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Irene Romera Pintor y Matilde Rovira. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. V. 5. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de Il sorriso dell’ignoto marinaio”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 23 y 24 de octubre de 2006. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: Proemio: • V. GONZÁLEZ MARTÍN, Sicilianidad e hispanidad en la obra de Vincenzo Consolo. 122 Artículos monográficos sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio: • V. CONSOLO, Antonello da Messina. • R. CREMANTE, La sperimentazione di Vincenzo Consolo fra storia e invenzione. • G. FERRONI, Forme della visione nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • S. C. TROVATO, Regionalità e traduzione. Dalla Sonrisa spagnola a quella argentina. • G. ADAMO, Limina testuali nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • Mª. BAYARRI ROSSELLÓ, El ignoto marinero sonríe ante el árbol de las cuatro naranjas. • J. ESPINOSA CARBONELL, Sasà, Palamara, frate Nunzio y otros secundarios activos (Consideraciones en torno a los personajes secundarios de Il sorriso dell’ignoto marinaio). • N. MESSINA, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Vicissitudini di un progetto. Epílogo: • M. GIL ESTEVE, Dicen que Consolo. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Presentación del libro: Lunaria vent’anni dopo (2006), con las intervenciones de Leonardo Carbone, Fausto Díaz Padilla, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Vicente Navarro de Luján e Irene Romera Pintor. • Presentación del libro: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo (2006), con las intervenciones de Giuliana Adamo, Giulio Ferroni e Irene Romera Pintor. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. 123 V. 6. Jornada Internacional: “Vincenzo Consolo between Sicily and Europe”, organizada por Martin McLaughlin y Daragh O’Connell, celebrada en Oxford el 15 de octubre de 2007 (“University of Oxford in association with and hosted by the Maison Française d’Oxford”). Pendiente de la publicación de las Actas. Señalo la relación de los participantes (por orden de intervención): • D. ZANCANI, Consolo Abroad: Criticism and Translations. • N. MESSINA, Un testo in controluce: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Cronistoria di un’edizione. • R. GLYNN, Consolo: The Intellectual and the 1970s’. • C. O’RAWE, Consolo saggista e la Sicilia testuale. • D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore «palincestuoso». • J. FARRELL, Traducendo Consolo: la questione dello stile. Keynote Lecture Vincenzo Consolo: I muri d’Europa. V. 7. Jornadas Internacionales: “La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años)”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 14 y 15 de abril de 2008. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2008. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano. 124 • F. DÍAZ PADILLA, “Filosofiana” o Cuando las piedras hablan. • G. FERRONI, L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo. • J. FRACCHIOLLA, Storia e storie nell’opera di Vincenzo Consolo. • V. GONZÁLEZ MARTÍN, La Nuova Questione della Lingua en Vincenzo Consolo. • S. C. TROVATO, Vincenzo Consolo o della regionalità linguistica. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Entrevista a Vincenzo Consolo, por Jean Fracchiolla. • “Un sogno perso”, por Pasquale Scimeca. • Presentación del libro: Vincenzo Consolo, éthique et écriture (2007), con las intervenciones de Dominique Budor, Vincenzo Consolo, Renzo Cremante, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Presentación del libro: Filosofiana de Vincenzo Consolo (2008), con las intervenciones de Renzo Cremante, Giulio Ferroni, Manuel Gil Esteve, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. Tuvieron lugar los siguientes encuentros: • Mesa redonda, moderada por J. Inés Rodríguez Gómez, en la que Joaquín Espinosa Carbonell presentó a Pasquale Scimeca. El Director de cine comentó y proyectó “Un sogno perso” (1992), película estructurada en torno a tres relatos literarios. El primero de ellos es “Filosofiana” de Vincenzo Consolo. • Intervención de Ludovica Tortora de Falco, que relató su experiencia como directora y productora de una película documental sobre Vincenzo Consolo: “In viaggio con Vincenzo Consolo” (2008), proyectando parte de la misma. 125 VI. ESTUDIOS CRÍTICOS VI. 1. Obra de consulta imprescindible es el número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista palermitana «Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura», n. 29, VIII, (ed. Guida), dirigida por Antonino Buttitta, 1995/I. Número a cargo de Vincenzo Barbarotta y Gianfranco Marrone. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “29 aprile 1994: cronaca di una giornata”, pp. 4-7. • “Que farai, fra Iacovone?”, pp. 179-181. También se recogen los siguientes artículos: • Ferroni, Giulio: “Bestie trionfanti”, pp. 153-7. • Ferroni, Giulio: “Il calore della protesta”, pp. 173-6. • Marrone, Gianfranco y Montes, Stefano: “Una statua in fuga”, pp. 40-6. • Mazzarella, Salvatore: “Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore”, pp. 47-70. • Onofri, Massimo: “La luce della storia”, pp. 159-163. • Onofri, Massimo: “Uno stesso ceppo”, pp. 177-8. • Segre, Cesare: “Frammenti di luna”, pp. 30-9. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola”, pp. 96-100. • Segre, Cesare: “Una provvisoria catarsi”, pp. 150-1. • Trovato, Salvatore C.: “Forme e funzioni del linguaggio”, pp. 15-29. 126 Enumero por temas los autores de los estudios críticos (al margen de los artículos más extensos citados anteriormente): • La ferita…: Nino Palumbo, Mario Lunetta, Giovanni Raboni, Angelo Guglielmi, Nino Calabrò. • Il sorriso…: Paolo Milano, Enzo Siciliano, Vittorio Spinazzola, Giuliano Gramigna, Alfredo Giuliani, Gian Carlo Ferretti, Antonio Debenedetti, Lorenzo Mondo, Domenico Porzio, Marino Biondi, Jesús Fuentes Ródenas, Leopoldo Alzancot, Peter Hainswort, Hansjörg Graf. • Lunaria: Francesco Durante, Maurizio Cucchi, Giovanni Raboni, Gian Carlo Ferretti, Giuliano Gramigna, Giuseppe Saltini, Paolo Mauri, Antonio Prete, Hector Bianciotti. • Retablo: Fabrizia Ramondino, Severino Cesari, Geno Pampaloni, Lorenzo Mondo, Leonardo Sciascia, Lidia De Federicis, Goffredo Fofi, Luciano Satta, Gian Carlo Ferretti, Raffaelle Crovi, Remo Ceserani, Claude Ambroise. • Le pietre…: Oreste del Buono, Raffaele Crovi, Renato Minore, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici, Stefano Giovanardi, Giuseppe Bonura, Natale Tedesco, Salvatore Nigro, Antonio Di Grado, Gianni Turchetta, Romano Luperini, Andrea Zanzotto, Carlo Sgorlon, Louis Soler. • Nottetempo…: Lorenzo Mondo, Ermanno Paccagnini, Geno Pampaloni, Stefano Giovanardi, Silvio Perrella, Horacio Vázquez Rial, Mercedes Monmany, René de Ceccatty, Monique Bacelli. • Nerò…: Francesco Durante, Giuseppe Amoroso, Salvatore Claudio Sgroi, Renato Minore. • L’olivo…: Lorenzo Mondo, Giuliano Gramigna, Giuseppe Bonura, Stefano Giovanardi, Giuseppe Pederiali. Además de los estudios críticos y reseñas de prensa sobre su obra, dicho número monográfico recoge una entrevista al autor [realizada 127 por Roberto Andò (“Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura” (pp. 8-14)], así como una bibliografía detallada de la obra completa del autor (narrativa, ensayos, artículos, etc.) y de la crítica (pp. 182-5). Enriquecen el volumen los valiosos documentos fotográficos tanto de los paisajes emblemáticos de Sicilia, como de autores y críticos contemporáneos fotografiados junto con Vincenzo Consolo (Bufalino, Buttitta, Levi, Maraini, Montale, Pasolini, Piccolo, Rodari, Sciascia, Sellerio, Segre, Vázquez Montalbán…). VI. 2. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006. Véase la amplia ordenación bibliográfica, pp. 191-212. En esta obra destaca el texto de Vincenzo Consolo: • “La metrica della memoria”, pp. 177-189. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Ferroni, Giulio: “Prefazione”, pp. 7-10. • La Penna, Daniela: “Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo”, pp. 13-49. • Cuevas, Miguel Ángel: “Le tre edizioni de La ferita dell’aprile: le varianti”, pp. 49-69. • Adamo, Giuliana: “Sull’inizio del Sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 71-120. • Messina, Nicolò: “Nello scriptorium di Vincenzo Consolo. Il caso di “Morte Sacrata” (Il sorriso dell’ignoto marinaio, III), pp. 121-160. 128 • Romera Pintor, Irene: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, pp. 161-176. VI. 3. “Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo”. Se trata del número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista de «Microprovincia», n. 48, Nuova serie, Gennaio-Dicembre, 2010, Rosminiane Sodalitas, Stresa, dirigida por Franco Esposito. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “Frammento”, p. 5. • “La metrica della memoria”, pp. 161-8. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Esposito, Franco: “E dopo il ’68, anche nella «provincia di frontiera» tutto fu nausea”, pp. 1-4. • Budor, Dominique: “Perché leggere Consolo, «nostro» classico”34, pp. 6-12. • Turchetta, Gianni: “«Per toccare la vita che ci scorre per davanti»: Retablo e l’arte come nostalgia”, pp. 13-9. • Bárberi Squarotti, Giorgio: “Il fonosimbolismo fascinoso di Consolo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 20-38. • Segre, Cesare: “Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo”, pp. 39-41. • O’ Connell, Daragh: “Il palinsesto della memoria: Consolo fra narrare e scrivere”, pp. 42-66. 34 Traducción del francés de Claudia Azzola. 129 • Messina, Nicolò: “Tra Mandralisca e Crowley. Su alcuni quaderni dell’Archivio Consolo”, pp. 67-7335 y 82-4. • Baratter, Paola: “Lunaria: il mondo salvato dalla Luna”, pp. 85-93. • Mazzocchi, Federico: “Vincenzo Consolo e l’incessante ricerca: tra enumerazione metaforica e metafora dell’enumerazione”, pp. 94- 116. • Cinquegrani, Alessandro: “La volontà di individuazione nella letteratura di Vincenzo Consolo”, pp. 117-126. • Stajano, Corrado: “Vincenzo Consolo e gli amici della lava nera”, pp. 127-132. • Gaccione, Angelo: “Vincenzo Consolo come Verga”, pp. 133-5. • Maffia, Dante: “Vincenzo Consolo, una lingua carica di segni”, pp. 136-9. • Bruni, Pierfranco: “Vincenzo Consolo, lungo le rotte di Odisseo”, pp. 140-5. • Ferretti, Gian Carlo: “Lunaria, una favola teatrale”, pp. 146-736. • Di Stefano, Paolo: “Due incontri con Vincenzo Consolo”, pp. 151-7. VI. 4. Por lo que respecta a libros que recogen una bibliografía crítica detallada sobre la obra de Vincenzo Consolo, me limito a destacar la siguiente monografía: • Traina, G., Vincenzo Consolo, Cadmo («Scritture in corso, 4»), Fiesole (Florencia), 1998. Para una amplia ordenación bibliográfica, cf. pp. 111-122. 35 En las pp. 74-81, viene publicado como “Appendice” una parte de los cuadernos del Archivo Consolo. 36 Original publicación de la entrevista de Gian Carlo Ferretti, en abril de 1985, pues vienen reproducidas por entero las respuestas manuscritas del propio Consolo (pp. 148-50). 130 VI. 5. ARTÍCULOS: • Segre, Cesare: Introducción a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milán, 1987, pp. V-XVIII. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 71-86. • Segre, Cesare: “Teatro e racconto su frammenti di luna”, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 87-102. • Segre, Cesare: “Inserti storiografici e storiografia sotto accusa nel capolavoro di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”, en Tempo di bilanci, Einaudi, Turín, 2005, pp. 129-138. • Trovato, Salvatore, C.: cuatro artículos sobre la lengua de Vincenzo Consolo. Dichos artículos –publicados años atrás– se recogen ahora, revisados y corregidos, por capítulos en el libro: Italiano regionale, letteratura, traduzione. Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Euno Edizioni, Leonforte, 2010. Cap. I: Sulla regionalità letteraria in Italia: Pirandello, D’Arrigo, Consolo, pp. 11-27. Cap. IV: Tra dialetto, dialetti e italiano regionale in Consolo, pp. 89-122. Cap. V: L’elemento regionale in “Filosofiana”, un racconto delle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo, pp. 123-177. Cap. IX: Sulla traduzione della regionalità: Il sorriso dell’ignoto marinaio e Retablo in spagnolo, pp. 301-337. VI. 6. EN PREPARACIÓN: • El libro monográfico sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio de próxima aparición: Cochlías legere: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, approcci critici. Edición de Nicolò Messina y Daragh O’Connell, Cesati, Florencia. ÍNDICE DE NOMBRES 133 ÍNDICE DE NOMBRES A Adamo, Giuliana, 18n, 122, 127 Addamo, Sebastiano, 31 Aghion, Soula, 99 Albertocchi, Giovanni, 120, 121 Alvino, Gualberto, 28 Alzancot, Leopoldo, 126 Ambroise, Claude, 126 Arqués, Rossend, 120 Attanasio, Maria, 120 Atenea (diosa mitológica), 52 Amoroso, Giuseppe, 31, 126 Andò, Roberto, 127 Annibali, Manuela, 111 Aristófanes (comediógrafo griego), 61 Avogadro, Mauro, 107 Azzola, Claudia, 128n B Bacelli, Monique, 126 Baratter, Paola, 129 Barbarotta, Vincenzo, 125 Bárberi Squarotti, Giorgio, 128 Barca, Aníbal (general cartaginés), 53n Barca, Asdrúbal (general cartaginés), 53n Barca, Magón (general cartaginés), 53n 134 Barcia, Roque, 28, 43n, 85 Barone, Giovanni, 98 Barni, Roberta, 99 Battaglia, Salvatore, 28, 88 Bayarri Rosselló, María, 122 Bellonci, Goffredo, 95 Bellonci, Maria, 95 Beltrametti, Anna, 110 Benanti, Valeria, 107 Benincasa, Rutilio (filósofo), 55n Benítez, Esther, 98, 107 Bersani, Mauro, 32 Bertelli, Giorgio, 96n Bértolo, Constantino, 102 Bianciotti, Hector, 126 Biondi, Marino, 126 Bongiovanni, Loreto, 108 Bonalumi, Louis, 101 Bonura, Giuseppe, 31, 126 Borja, Gaspar de (Cardenal), 40n Bosetti, G., 112 Bouchard, Norma, 102 Budor, Dominique, 117, 124, 128 Bufalino, Gesualdo, 28, 127 Burgaretta, Giusi, 107 Buttitta, Antonino, 125 Buttitta, Ignazio, 127 Briand, Maryvonne, 114 Brogi, Daniela, 111 Brucoli, Elisabetta, 113 Brunner, Maria E., 99-101 Bruni, Pierfranco, 129 135 C Calabrò, Nino, 126 Caleca, Antonino, 110 Camps, Assumpta, 99 Capuana, Cecilia, 96n Caputo, Rino, 110 Capponi, Paola, 120 Carbone, Leonardo, 122 Carbone, R., 32 Cardillo, Agata, 106 Carile, Paolo, 119, 121 Carlos IV (rey), 47n Casciani, Paola, 111 Castelli, Antonio, 109 Catalano, Maria Giuseppina, 108 Cataldo, Maria Cristina, 116 Catti, Massimo, 111 Cavagna, Ola, 107 Cerruti, Marco, 111 Cervantes Saavedra, Miguel de, 104, 123 Cesari, Severino, 126 Ceserani, Remo, 126 Cinquegrani, Alessandro, 129 Cipolla, Stefania, 108 Colaço Barreiros, José, 99, 101 Colin, Mariella, 114 Consolo1 , Vincenzo, 2, 3, 5, 7, 9, 13-20, 15n, 18n, 22, 23, 28, 31-33, 41n, 42n, 48n, 57n, 58n, 60n, 64, 67, 72, 74, 76, 77, 79, 80, 83, 84, 93, 96n, 97, 102-125, 127-129, 129n, 130 1 Obra citada por orden cronológico. 136 La ferita dell’aprile (1963), 93, 97, 103, 106, 126, 127 Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), 13, 14, 93, 97, 106-108, 115, 116, 119-123, 126-128, 130 Lunaria (1985), 13, 18n, 93, 98, 99, 103, 107, 120-122, 126, 128, 129 Retablo (1987), 13, 14, 94, 99, 103, 107- 109, 115, 119, 120, 126, 128, 130 Le pietre di Pantalica (1988), 7, 13, 14n, 15, 18n, 19, 31, 32, 36, 42n, 48n, 58n, 65-88, 94, 100, 103, 107, 112, 126, 130 Catarsi (1989), 96, 109 La Sicilia passeggiata (1991), 94 Nottetempo, casa per casa (1992), 94, 100, 103, 108, 118-120, 126 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia (1993), 95 Nerò metallicò (1994), 96, 96n, 107, 126 L’olivo e l’olivastro (1994), 95, 101, 103, 107, 126 Lo spasimo di Palermo (1998), 95, 101, 103, 108 Di qua dal faro (1999), 95, 102, 103 Il teatro del sole (1999), 96, 96n Isole Dolci del Dio (2002), 96 Siracusa come un incanto (2003), 96 Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (2009), 96 Il Corteo di Dioniso (2009), 96 L’attesa (2010), 96 Cornelio, Cettina, 108 Corominas, Joan, 28 Covarrubias, Sebastián de, 43n Cremante, Renzo, 121, 122, 124 Crovi, Raffaele, 31, 126 Cucchi, Maurizio, 31, 126 137 Cucchiani, Lorenza, 112 Cuevas, Miguel Ángel, 97, 102, 119-121, 127 Cutrufelli, Maria Rosa, 119 D D’Arrigo, Stefano, 28, 130 Da Messina, Antonello, 110, 122 Darmon, Maurice, 19, 97, 100 Dauner, Christine, 114 Davico Bonino, Guido, 118 De Angelis, Giovanna, 111 Debenedetti, Antonio, 126 De Federicis, Lidia, 126 Dell’Agnese, Elena, 109 Del Buono, Oreste, 31, 126 De Mauro, Tullio, 28 De Paulis-Dalembert, Maria Pia, 118 De Voogd, Pietha, 99 Díaz Padilla, Fausto, 18n, 122, 124 Di Gerolamo, Nicola, 33 Di Grado, Antonio, 32, 106, 108, 126 Di Mauro, Linda, 111 Di Salvo, Vanessa, 108 Di Stefano, Paolo, 129 Di Trapani, Laura, 107 De Ceccatty, René, 126 Denschlag, Agnes, 114 Depetro, Carmelo, 32 Dollo, Glenda, 109 Dombroski, Robert S., 116 138 Dragoni, Barbara, 111 Du Merac, Rubat, 112 Durante, Francesco, 126 E Echegoyen, Christinna, 27 Escipión, Cneo Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, Africano Maior, 53n Esquilo (dramaturgo griego), 17, 18, 21, 52, 52n, 59, 59n, 61 Espinosa Carbonell, Joaquín, 121, 122, 124 Esposito, Franco, 128 F Faggi, Vico, 31 Farrell, Joseph, 98, 108, 116, 123 Ferraris, Denis, 113, 118 Ferretti, Gian Carlo, 126, 129, 129n Ferroni, Giulio, 18n, 118, 122, 124, 125, 127 Fiocchetti, Maria Letizia, 106 Fofi, Goffredo, 126 Frabotta, Bianca Maria, 111 Francucci, Federico, 110 Frasnedi, Fabrizio, 106 Fracchiolla, Jean, 124 Fuentes Ródenas, Jesús, 126 Fusco, Mario, 98, 108 139 G Gabriel y Galán, José María, 44n Gaccione, Angelo, 129 Galvagno, Rosalba, 28, 108, 109, 118, 119 Gandolfo, Carmela, 106 García de Diego, Vicente, 29 García Soriano, Justo, 27 Gardair, J. M., 113 Gareffi, Andrea, 104 Geerts, Walter, 115, 118 Gellini, Eleonora, 112 Gentile Vitale, Juan Carlos, 99, 101 Gerosa, Guido, 31 Ghirardelli, Matteo, 106 Giachery, Emerico, 110 Giachi, Arianna, 97 Giambanco, Daniela, 109 Giannetti, Valeria, 118 Gil Esteve, Manuel, 115, 120-122, 124 Giuliana, Gabriela Maria Concetta, 107 Giuliani, Alfredo, 126 Giudici, Giovanni, 31, 126 Giovanardi, Stefano, 31, 111, 126 Glynn, Ruth, 123 Goebel-Schilling, Gerhard, 114 Gómez Ortin, Francisco, 27 Góngora y Argote, Luis de, 43n González Fernández, Isabel, 121, 122 González Martín, Vicente, 121, 124 González Rodríguez, Pilar, 102 Graf, Hansjörg, 126 140 Gramigna, Giuliano, 126 Grasset, Bernard, 98 Grosschmid, Pablo, 27 Guagnini, Elvio, 112 Guaraldo, Enrico, 104 Guglielmi, Angelo, 126 H Hainswort, Peter, 126 Hartmann, Ulrich, 97 Hermes (dios mitológico), 52, 61n I Ibarra Lario, Antonia, 29 Imberty, Claude, 118 Isotti-Rosowsky, Giuditta, 113 K Kienlechner, Bettina, 97 L Landolfi, Idolina, 33 La Penna, Daniela, 127 La Rosa, Debora, 108 141 La Rosa, Mª Elena, 107 Larussa, Rosaria, 106 Lasala, Giuseppe, 106 Leopardi, Giacomo, 2, 103 Levi, Primo, 127 Litrico, Andreina, 109 Lo Bue, Salvatore, 109 Lollini, Massimo, 102 Lunetta, Mario, 126 Luperini, Romano, 33, 126 M Maffia, Dante, 129 Manera, Danilo, 100 Manganaro, Jean Paul, 101, 102, 117n, 118 Mangione, Michele, 107 Mannoni, Eugène, 32 Mannoni, Francesco, 31 Marabini, Claudio, 32 Maraini, Dacia, 127 Marongiu, Jean Baptiste, 33 Marrone, Gianfranco, 125 Martignoni, Clelia, 110 Martínez Álvarez de Sotomayor, Jose María, 70, 86 Martoglio, Nino, 103 Mauri, Paolo, 126 Mazzarella, Salvatore, 125 Mazzola, Giuseppa, 106 Mazzocchi, Federico, 129 McLaughlin, Martin, 123 142 Medina, Vicente (poeta murciano), 22, 70 Merola, Nicola, 106 Messina, Nicolò, 115, 120-123, 127, 129, 130 Milano, Paolo, 126 Mineo, Nicolò, 106 Minore, Renato, 31, 126 Mocca, Monica, 113 Monastra, Rosa Maria, 108 Mondo, Lorenzo, 126 Monmany, Mercedes, 126 Montale, Eugenio, 127 Montes, Stefano, 125 Morini, Alessandra, 109 Moroldo, Arnaldo, 113 Mortillaro, Vincenzo, 27, 72, 79 Moliner, María, 28, 65, 71, 78, 88 Muñoz Garrigós, José, 29 N Nànfara, Don Gregorio (personaje de “Filosofiana”), 14, 16-18, 49-63, 52n, 55n, 57n, 59n, 81 Napoleón (emperador), 46n Navarro de Luján, Vicente, 122 Nicastro, Guido, 107 Nigro, Salvatore, 32, 126 O Ochoa Santos, Miguel Gabriel, 115 143 Occhiato, Giuseppe, 130 Occhipinti, Maria, 112 Onofri, Massimo, 119, 125 O’Connell, Daragh, 101, 116, 123, 128, 130 O’Rawe, Catherine, 123 P Paccagnini, Ermanno, 32, 126 Palumbo, Nino, 126 Pampaloni, Geno, 126 Pantaleoni, Angelo, 121 Paoloni, Christian, 99 Papa, Enzo, 119 Parlagreco, Vito2 (personaje de “Filosofiana”), 14-17, 19, 25, 42, 43, 45-63, 48n, 58n, 65, 79, 81, 83, 88, 89 Parlagreco, Bastiano (hijo de Vito), 44 Parlagreco, Maria (hija de Vito), 44 Parlagreco, Michele (hijo de Vito), 44 Parniere, Anne, 113 Pascale, Vincenzo, 116 Pascual, José Antonio, 28 Pasolini, Pier Paolo, 127 Pastaro, Giovanni, 107 Paterniti Martello, Fabiola, 110 Paulicelli, Eugenia, 116 Pautasso, Sergio, 119 Pazó, Cándido, 100 Pederiali, Giuseppe, 126 2 (Vitu, Vituco, Vituzzo) 144 Pellegrini, Chiara, 110 Perrella, Silvio, 126 Pérol, Brigitte, 99 Perrone, D., 109 Petrucci, Livio, 110 Piccolo, Lucio, 110, 127 Piccitto, Giorgio, 27 Pichler, Anita, 19, 100 Pignone, Dario, 106 Pieiller, Evelyne, 33 Pirandello, Luigi, 76, 103, 130 Pitré, Giuseppe, 29 Pivot, Bernard, 22 Pizzuto, Antonio, 28 Plutarco (historiador griego), 52n Pogliani, Paolo, 32 Poljak, Ana, 100 Porzio, Domenico, 126 Prete, Antonio, 126 Q Quasimodo, Salvatore, 14n R Raboni, Giovanni, 32, 126 Racine, Patricia, 112 Ramondino, Fabrizia, 126 Rando, Giuseppe, 109 Renard, Marie-France, 118 145 Rodari, Gianni, 127 Rodríguez Gómez, J. Inés, 124 Romera Pintor, Irene, 2, 3, 18n, 98, 100, 120-124, 128 Recupero, Antonino, 118 Riccardi, Carla, 119 Ricorda, Ricciarda, 112 Ronfani, Ugo, 94 Rovira, Matilde, 121 Ruiz Marín, Diego, 27 Rustico, Lisa, 109 S Saavedra (personaje de “Filosofiana”), 40, 42 Saavedra Fajardo, Diego de, 40n, 86 Sager, Michel, 98, 108 Salonia, Eros, 109 Saltini, Giuseppe, 126 Santangelo, Nicoletta, 112 Santos Domínguez, Eloy-José, 101 Saraceno, Alessia, 108 Satta, Luciano, 33, 126 Savettieri, Chiara, 110 Sbrilli, Antonella, 111 Sciascia, Leonardo, 98, 110, 111, 126, 127 Scimeca, Pasquale, 15n, 124 Scuderi, Attilio, 111 Sebregondi, Maria, 32 Segre, Cesare, 9, 13, 18, 20, 41n, 74, 118, 124, 125, 127, 128, 130 Seix, Francisco (editor), 43n Sellerio, Enzo, 127 Sereni, Silvia, 31 146 Sgorlon, Carlo, 33, 126 Sgroi, Salvatore Claudio, 126 Siciliano, Enzo, 126 Sófocles (trágico griego), 52n Solà, Alexis Eudald, 98 Soler, Louis, 33, 126 Spampinato, Federica, 107 Spinazzola, Vittorio, 126 Spinello, Lorella, 108 Stajano, Corrado, 129 Steiger, Arnold, 29 Stendhal, 14 T Tanu (personaje de “Filosofiana”), 45, 46, 50, 62 Tedesco, Natale, 31, 32, 104, 126 Trismegisto, Hermes (alquimista y filósofo), 61, 61n Tiralongo, Arianna, 108 Tobia, Giovanna, 109 Tortora de Falco, Ludovica, 124 Traina, Giuseppe, 119, 129 Tropea, Giovanni, 27 Trovato, Salvatore C., 27, 106-108, 120, 122, 124, 125, 130 Trunfio, Demetrio, 112 Turchetta, Gianni, 18n, 32, 36, 126, 128 U Ubach Medina, Antonio, 115 147 V Valenti, I. M. B., 106n Van Orshoven, Annemieke, 115 Vázquez Montalbán, Manuel, 127 Vázquez Rial, Horacio, 126 Vecchio, Alfio, 111 Veneziano, Antonio, 104, 123 Verga, Giovanni, 31, 33, 129 Vignatti, Mirta, 98 Vilavedra, Dolores, 100 Vilella, Eduard, 120 Vita, Valérie, 113 Vitello, Gabriele, 111 Vittorini, Elio, 31, 110, 111 W Waly, Naglaa, 98, 99 Z Zancani, Diego, 123 Zanzotto, Andrea, 32, 126 Zappulla Muscarà, Sarah, 107

Language and Power in Vincenzo Consolo’s Sicily.

Language and Power in Vincenzo Consolo’s Sicily.

(Harvard, ACLA, 26-29 March, 2009)

In 1963, Vincenzo Consolo, then a thirty year old Sicilian lawyer and notary trainee, publishes April’s Wound, his first novel. The partly autobiographical story depicts the young first person narrator’s coming of age during his last year spent in a Catholic secondary school in his anonymous home village on the North-Eastern coast of Sicily. April’s Wound is Consolo’s timely contribution to Italian Neorealism in literary fiction. It is as much the first instance of his innovative literary technique of evoking historical and political moments through a stylistic mosaic of different languages and styles. Such a technique will later become his literary trademark. The pivot of April’s Wound, the “wound” the title refers to, is the defeat inflicted to the Christian Democrats and their historic post war leader De Gasperi in the regional ballot held in Sicily April1947. The assassination, one week later, by Salvatore Giuliano’s mafia mob, of children and workers during Labor Day celebrations, may be read as the first sign of how well Sicilian conservatives were going to respect the democratic process. Italy’s and specifically Sicily’s politics and society, however present in Consolo’s writings, are not my main concern, though, in this paper. Instead we will focus on what Consolo stands for today among Italian writersd, that is to say his fixation on language, his preoccupation with different kinds of language, ancient and modern, national and local, authentic and invented, on language as a tool for expressing and exerting power, and also on language as a token of violence, verbal and physical. Consolo’s first novel shares with the Neorealist movement an awareness for working class settings and characters, but more than the other novelists Consolo elaborates on language, both the novel’s and the characters’ language, its symbolism and shape. April’s Wound is but a forerunner, from this perspective, of the author’s 1976 masterpiece, The Smile of the Unknown Mariner, which sets totally new standards for the historical novel as such, not only for Italy. This short but complex fictional tour de force carries the reader to the last stages of Italy’s national unification process, Garibaldi’s landing on Sicilian soil in Marsala, May 1860, and the subsequent liberation, or annexation, as some will pretend, of Sicily. The plot focuses on the revolutionary uprising of shepherds and laborers more or less in the same area where April’s Wound is located, Consolo’s own familiar grounds. The revolt takes place a few days after Garibaldi’s landing and is violently repressed by one of his lieutenants, Bixio. Again, languages take center stage, languages unveiled by different kinds of speakers and writers, listeners and readers, preachers and intellectuals. Language, both as a subject and a tool, joins the two novels, April’s Wound and The Smile of the Unknown Mariner. April’s Wound makes clear how through liturgy and rituals in Latin and daily mass the clergy’s authority over the youngsters is well established. Harsh control is exerted on the use of the national language during recreation where local dialect is banished. In The Smile of the Unknown Mariner a hybrid form of Latin is the hermit’s natural language the moment he betrays the rebels’cause and rapes a dying maiden in church. Dialect and so called “natural” language is good enough to accompany the rebels’ suffering once in prison, while the oppressor’s language establishes supremacy both over the future, through law, and over the past, through historiography.

It becomes clear with respect to Consolo’s novels that a very close relationship can be established with some important issues of cultural theory concerning language, power and violence.  Except for Max Weber’s and Antonio Gramsci’s seminal writings on the subject, April’s Wound, 1963, may be considered a fictional forerunner of Bourdieu, Habermas, Said, some of the French new cultural historians and even Foucault. Let me just quote Weber’s phrase inaugurating the external, sociological, non-saussurian, view of language: “The language, and that means the literature based upon it, is the first and for the time being the only cultural value at all accessible to the masses who ascend toward participation in culture.” (From Max Weber, p.178: Google). The most influential and, on this topic, most explicit thinker, Pierre Bourdieu, did not publish “Ce que parler veut dire”, What it means to speak, until 1982. Its title polemically echoes Austin’s influential findings on the performative property of language as exposed in How to do things with words?, 1955.  Homi Bhabha’s 2006 paper, delivered at a Berlin conference on Violence Through Language, almost literally echoes Consolo’s title: Words and Wounds. The parallel development, both in fiction and in theory, of these crucial theoretical issues asks for a closer look of what April’s Wound reveals about them.

Daily mass in Latin is as much part of the school’s routine as classes and games. More than classes do, celebrations in the chapel establish the institutionalized choreography of  power, the collective confirmation of scholastic hierarchy, symbol for hierarchy tout court and as such. In a certain sense one could say two rituals are simultaneously taking place each time mass is celebrated, a religious one and another with more mundane aspirations. In one trans-substantiation of wine and bread is liturgically performed, in the other the ruling body of clergy, altar boys, singers and pupils, well behaving and not, is structurally substantiated. Social and political tensions between right and left wing families, between former fascist and anti-fascist groups, or, for that matter, between mafiosi clans and regular folks, are supremely regulated within the impressive dramatical framework of solemn religious celebrations. Stage directions – who will sing? What will be sung? who will be the altar boys? Who will do the pedaling for the organ?  – are of course given in Italian, but the language on stage is invariably Latin, supported by the cranky but not less imposing notes of the wind organ. Daily repetition of prayers and songs acoustically and visually underline the well established order of things in the world. The encense burner is rhythmically shaken three times in honor of each of the three major martyr saints of Southern Italy: “look here Alfio, Cirino and Filadelfio, wah ACF, poor ACF” (6). Not one gesture evades the rules of the religious ritual disposing a second layer of authority on top of the scholastic hierarchy, both firmly hold by the rector and his fellow priests. The two layers of authority are indistinctly mixed, transparent to each other. Does not this setting exactly correspond to what Bourdieu refers to, with respect to the authority seized by different sorts of religion, as the “rigorous observance of the code of the uniform liturgy, which governs the sacramental gestures and words”(115)? Is not Consolo’s representation exactly that of the “priest (as) holder of a monopoly in the manipulation of the goods of salvation”(ib.)? Youngsters jokingly create burlesque or nonsensical parodies of prayers, mixing Latin with Italian. However, publicly and in the open, only official versions resound, and punishment and mockery awaits those who do not respect the unwritten rules, those who dare to stumble with the incense burner and spoil the burning coal on the chapel floor. Bourdieu says: “The language of authority never governs without the collaboration of those it governs” (113). Nowhere is this interplay of authority, language policy, complicity of subjects and violence displayed as nicely as in the “accipe” setup. What is “accipe”? During recreation the only language pupils may use for games and conversation is Italian. Every occurrence of the local language, the so called “natural speak”, the Sicilian dialect of the North-East coast, is severely forbidden. And to enforce the language policy a method of punishment is put in place operated by the pupils themselves. One of them is on watch, a token in hand, and as soon as natural forbidden sounds are heard the token is handed over to the offender with the phrase: “accipe”, Latin for “take this”. He is then exposed to public mockery until another language abuse is detected and the accipe-token proceeds to the next step of its regulatory operations, its linguistically cleansing the juvenile crowd. The accipe punishment formally adopts the scheme of a whole series of well known children’s plays based on hiding and discovering tokens passed on between the players. The accipe-scheme actually perverts these plays in transforming the school playground into something much closer to a prison yard. Recreation is turned into discipline and control. Rule enforcement is entrusted to those subjects to whom the rule applies in an uninterrupted cycle of traps and punishments. Other, even more daunting episodes of twentieth century history may come to mind where guilt was charged upon the victims’ shoulders, the joyful context of playing children notwithstanding. Bourdieu refers interestingly to the ancient Greek practice, among the gerontes assembled in the agora, as illustrated in the Iliad, of grabbing the skeptron, the staff entitling the holder of it to speak publicly. Through the gerontes, as symbolized by the skeptron, the institutions themselves speak. They confer authority, both authority to speak and authority tout court. Deceptively innocuous and benign, the accipe scheme is a perversion of the skeptron rule. The accipe is not grabbed by someone to speak, it is imposed on you to silence you, and together with you all those trapped in the cycle. The skeptron has become a whip .Dialect or “natural speak” is what eludes authority, what establishes itself competitively outside the extended concelebration of strictly regulated liturgy, geometrical waving of the incense burner, Latin prayers and songs. That is why dialect is unwelcome. Only if totally inoffensive, completely miniaturized, limited to a handful of speakers and near to extinction, confined to two or three mountain villages, a particular dialect may be tolerated. This is the case of Consolo’s main character in April’s Wound. Carefully the novel elaborates its multilayered language design. Latin is on top as the language of authority and power, exhibited on special occasions, closely linked to the sphere of the Almighty and his heralds. Italian is the newcomer, the liberator-invader, imported on Sicilian soil from Turin by the well organized Salesiani di Don Bosco. Italian is the language of the new political order, reaching finally, after the disorders of WWII, the outskirts of the Nation, Sicily that is to say. Sicilian, language or dialect, depending on criteria, has its own lexicon, grammar and phonetics. It descends from the language spoken at Frederic II’s court and its glorious largely uninterrupted poetic tradition. Sicilian is the enemy the accipe strategy confronts head on. Consolo’s main character adds a fourth linguistic layer. He is what the other Sicilians call a “zanglé”. The etymology ─ “anglais” (English) ─ is confusing. What these very few remaining “zanglé” speak is not English, but a modern version of “anglo-norman”, close to French. Only a few remote mountain villages are left where this language is spoken. Those villagers, like Consolo’s main character and his family, who migrated to the coastal cities of Sicily, only keep a tiny accent the origin of which Italians attribute, grossly, to the North, because of its likeness to French. Where are the “zanglés” positioned in Consolo’s system of languages? They are an object of curiosity, at most of good-tempered mockery. In fact, while noticing the boy’s funny accent and asking him where he comes from, the bishop smiles. They are the exception, accepted while not threatening. No accipe operation here to root out an oddity. Language planning is but one of the support structures of the conservative-catholic wing as depicted in April’s Wound.

Languages, language use and the relationship with power and indeed violence come to the forefront in The Smile of the Unknown Mariner. Whereas the accipe-token is after all just a token, language as a “loaded weapon”, to use Dwight Bolinger’s effective metaphor, does clearly come into focus in Consolo’s 1976 novel. The main event here is a popular uprising against oppressive landlords that took place in the same mountainous area we know from April’s Wound at the time of Garibaldi’s landing, “zanglé” territory in other words. Many landowners are killed, often brutally, before the rebels are captured, brought to trial under the new Italian judiciary and convicted. The Smile of the Unknown Mariner is a new kind of historical novel and its novelty has to do with language. It ignores the homogeneous narrator’s discourse to capture characters and events. Instead a multiplicity of narrative voices can be heard corresponding to the main characters, each provided with his proper language. It is as though a more complete corporeity and materiality, imbedded in the single character’s language use, or through the language representing him, highlights their actions, gestures or events. Elite or popular language, emotionally excited or intellectually controlled language, dialects or formal speech, are mobilized as integral parts of the narrative apparatus. Two are, linguistically, the most elaborate chapters. In one, The Smile of the Unknown Mariner’s third chapter, Nunzio the hermit, outcast and serial rapist, discovers the preparations for the armed popular revolt, goes to town and alarms the well to do landowners and local gentry that trouble is coming. Father Nunzio is evil incarnate. He kills and then sexually abuses the dead body of a young maiden,  in an isolated church, aptly called “Calvario”, where he had sought refuge for the night. The whole chapter is written in the manner of stream of consciousness where Latin quotes alternate with Nunzio’s copro-lalic and libidinous language. The sexual violence perpetrated on the only then deceased body is reported in a anti-psalm-like poetic language where Latin, Sicilian dialect and italian are mixed. The hermit-chapter, entitled “Sacred Dead”, illustrates how biblical and indeed sacred language can be perverted to accompany and almost excuse the most horrendous kind of violence. There would be good reasons to consider the Nunzio chapter as one long articulated allegory for evil as such, presented in every language-related variant available to the author’s linguistic and rhetorical skills. A sign for this can be the fact that Consolo made Nunzio an epileptic, suffering at the end what a now outdated medical terminology once called an attack of Grand Mal, in other words Big Evil.

The second of the two, linguistically, most elaborated chapters is also the novel’s finale. It depicts the rebels in their underground prison, artificial excavation spiraling its way downward. Again and more than ever in Consolo, language is the exclusive means to render the prisoners’ despair and outcry. What we read as written on the walls is of course Consolo’s language, the best reconstruction possible of what their messages would have been. The graffiti are, artificially and artfully, composed in a composite language where elements of Sicilian dialect show up next to words or sentences in the particular anglo-norman variant we know from April’s Wound. No Latin or Italian any more. Not much grammar or formal arrangement structures these twenty-two “scritte”. They mostly tell stories of injustice and revenge, the subsequent imprisonment being the reason why they are where they are. These are tales of a century before the “accipe” remedy was invented. These people were not even allowed to speak, no skeptron at all was handed over to them. The very existence of their “writings” on the wall is a fictional paradox: illiterate as they were, they were never able to write anything. But this definitely is what they would have written. These writings are the closest a narrative voice can get in order to let them speak and be heard, the only way to provide them with a linguistically engineered skeptron as it were. The Smile of the Unknown Mariner’s main character, the marine biologist Mandralisca turned into an intellectual in search of social justice for his fellow men, and Consolo’s alter ego, dedicates a pages long letter in which he rationally denounces the whole body of laws and history books written only by and from the point of view of literate people, the interests of which those laws and history books most naturally and directly serve. Written by and for the privileged few, these laws and history books cannot but serve the privileges of their origins. And so The Smile of the Unknown Mariner becomes the fictional counterpart for not only that part of cultural theory where inextricable relations between language and power are illustrated, but also for a vivid current among social and cultural historians trying to resuscitate what can be called the common man.

Walter  Geerts

Il Mediterraneo tra illusione e realtà.

IL MEDITERRANEO TRA ILLUSIONE E REALTÁ, INTEGRAZIONE

           E CONFLITTO NELLA STORIA E IN LETTERATURA

Letto al convegno “ La Salute Mentale nelle terre di mezzo” organizzato da  Psichiatria Democratica 12-13.3.2009, Caltagirone

In una notte di giugno dell’ 827, una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia un emirato dipendente dal califfato di Bagdad. In Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera , desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli, rette dal Valì: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…);  rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, di razza, di religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, Ibn Hawqal, il geografo Idrisi. E sul periodo musulmano non si può che rimandare alla Storia dei Musulmani di Sicilia, (1) scritta da un grande siciliano  dell’ 800, Michele Amari. Storia scritta, dice  Elio Vittorini, “con la seduzione del cuore” (2). E come non poteva non scrivere con quella “seduzione”, nato e cresciuto nella Palermo che ancora conservava nel suo tempo non poche vestigia, non poche tradizioni, non poca cultura araba ? Tante altre opere ha scritto poi Michele Amari sulla cultura musulmana. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori,

                                                     2

memorialisti, poeti arabi classici.  Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ha avuto eminenti figure come Levi Della Vida, Caetani, Nallino, Schiapparelli, Rizzitano, fino al grande

Francesco Gabrieli, traduttore de Le mille e una notte (3).

Vogliamo ripartire da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara, in cu

sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn al-Furàt, per dire di altri sbarchi, di siciliani  nel Maghreb e di maghrebini, e non solo, in Sicilia.

                                                   °°°°°°

Finisce la terribile e annosa guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, guerra di corsari musulmani e di corsari cristiani, finisce con la conquista di Algeri  nel  1830 da parte dei Francesi. Ma si apre anche da quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo. E comincia, in quella prima metà dell’ 800, l’emigrazione italiana nel Maghreb. É prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli : “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”(4). Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.

A Tunisi si era stabilita da tempo una nutrita colonia italiana di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, ch s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine.

Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia,  nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già

                                                            3

inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti.  Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità

italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade

nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte” .

La fine degli anni Sessanta del 1900 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia,  a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia. A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie i vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione italiana, soprattutto meridionale, aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro Paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la “guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani, che con i loro pescherecci sconfinavano  nelle acque territoriali nord-africane, contrasto con le autorità tunisine e libiche. In questi conflitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi imbarcati sui pescherecci siciliani. Sull’emigrazione maghrebina in Sicilia dal 1968 in poi,  il sociologo di Mazara Antonino Cusumano ha pubblicato un libro dal titolo Il ritorno infelice.(5)

È passato quasi mezzo secolo dall’inizio di questo fenomeno migratorio in Italia. Da allora e fino ad oggi le cronache  ci dicono delle tragedie quotidiane che si consumano nel Canale di Sicilia. Ci dicono di una immane risacca che lascia su scogli e spiagge corpi senza vita. Ci dicono di tanti naufragi. E ci vengono allora  in mente i versi di Morte per acqua di T.S. Eliot :

                  Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,

                  dimenticò il grido dei gabbiani, e il profondo gonfiarsi del mare

                  e il profitto e la perdita.

                                                                                Una corrente sottomarina

spolpò le sue ossa in sussurri. (6)

Le cronache ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco. Accordi ricattatori sono stati stipulati dal governo italiano con il dittatore Gheddafi, ma i mercanti di vite umane continuano sempre a spedire per Lampedusa barche cariche di uomini, donne, bambini, provenienti dal maghreb e dall’Africa subsahariana. I famosi CPT, Centri di

                                                       4

Permanenza Temporanea, a Lampedusa e in altri luoghi non sono che veri e propri lager. Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri

con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentati suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si

rimane esterefatti. Ci ritornano allora le parole  di  Braudel riferite  a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi contrazionari”.(7)

Volendo infine entrare nel tema di questo convegno La salute mentale nelle terre di mezzo, vogliamo qui annotare  che sono soprattutto le donne a soffrire  le violenze, i disagi della vita, del costume, della storia e citiamo qui  degli autori classici che in letteratura hanno rappresentato questo dramma. L’Ofelia dell’Amleto di William Shakespeare innanzi tutto; la suor Maria di Storia di una capinera di Giovanni Verga; la Demente di Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello; Le libere donne di Magliano di Mario Tobino; la donna reclusa in una stanza in Voci di Marrakech di Elias Canetti.

                                                                  (Vincenzo Consolo)

Note:

  • Storia dei Musulmani di Sicilia di Michele Amari – CT Romeo Prampolini 1933
  • I Musulmani in Sicilia di Michele Amari a cura di Elio Vittorini -pag. 6

          Bompiani 1942

     3) Le mille e una notte – Einaudi 1948

     4) Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 – pag. 890 Rizzoli 1967

     5) Il ritorno infelice di Antonino Cusumano –   Sellerio 1976

     6) Poesie di T.S. Eliot -pag. 79 – Ugo Guanda 195

     7) Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand

         Braudel -– vol.I pag. 921-922 – Einaudi 1976

Breve bibliografia sull’emigrazione:

Pantanella di Mohsen Melliti – Edizioni del Lavoro 1992

                                                           5

Le non persone di Alessandro del Lago – Feltrinelli 1999

Clandestino nel Mediterraneo di Fawzi Mellah Editore Asterios Trieste 2001

Mi chiamo Alì…(Identità e integrazione: inchiesta sull’emigrazione in Italia) di

                                                          Massimiliano Melilli – Editori Riuniti 2003                                                    

Migranti (verso una terra chiamata Italia ) di Claudio Camarca – Rizzoli 2003

I fantasmi di Portopalo di Giovanni Maria Bellu – Mondadori 2004

Bilal (Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi)di Fabrizio Gatti

                                                                                                         Rizzoli 2007

A Sud di Lampedusa ( Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti) di Stefano

                                                                                Liberti – Minimum Fax 2008

Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio di Amara Lakhous –

                                                                                             Editore e/o  2006

Milano, 10.3.2009

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Foto di alcuni relatori del convegno
Vincenzo Consolo con l’amico Emilio Lupo – Segretario nazionale di Psichiatria Democratica

  

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].