Il prodigio

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Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale dei limoni, granato di mezzelune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.

Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.

“Il prodigio” Con una Considerazione sulla forma racconto , prefazione
di Ambrogio Borsani.
in copertina: disegno di Manuela Bertoli.


Il prodigio

Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale di limoni, granato di mezze lune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.



  
                                                                  Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.


Edizioni Libreria Dante & Descartes

“Come gioco di specchio, mercurio su una lastra”

L’anarchia dei villani in Serafino Amabile Guastella.

“Corre l’antica Fama per le capitali, l’ingiusta Dea dalle lunghe ali e delle cento bocche ripete che stolidi, folli, incomprensibili sono gli abitatori delle ville, i terragni che rivoltano zolle, spetrano, scansano, terrazzano, in capri con le capre si trasformano, in ape acqua vento con i fiori, dalla terra risorgono sagome di mota e di sudore; che nelle soste, lustrate lingua e braccia, sciolto l’affanno all’acque virginali delle fonti, nelle notti di Luna, nelle cadenze dell’anno, sulle tavole d’un Lunario imaginario, di motti fole diri sapienze – Aprile, Sole in Toro: zappa il frumento tra le file, zappa l’orzo l’avena le lenticchie i ceci le cicerchie, strappa dalle fave la lupa o succiamele – muovono arie canti danze, in note movenze accenti sibillini, stravaganti. E nelle capitali, accademici illustri, dottori rinomati, in oscuri dammusi, catoi affunicati, scaffali scricchiolanti, teche impolverate, ammassano cretosi materiali, la linguaglossa, la memoria, la vita agreste; con lenti spilloni mirre olii, con lessici rinarii codici, studian di catturare cadenze ritmi strutture. Ma l’anima irriducibile, finch’è viva, guizza, sfugge, s’invola, come gioco di specchio, mercurio su una lastra”.

(da LUNARIA di Vincenzo Consolo)

Nel novembre del 1997, l’inglese John Berger rispondeva su Le Monde Diplomatique con una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli del Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà, la globalizzazione dello sfruttamen-to, l’ internazionalizzazione finanziaria e la globalizzazione del crimine e della corruzione, il problema dell’emigrazione, le forme legittimizzate di violenza praticate da regimi illegittimi e, infine, le Zone o sacche di resistenza, tra cui, naturalmente, quelle rappresentata dall’esercito Zapatista di Liberazione. Berger, a proposito di zone o sacche di resistenza, avanzava un esempio storico, un luogo del Mediterraneo dal profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di quest’isola, l’entroterra intorno a Ghilarza, il paese dove è cresciuto Antonio Gramsci.
“Là” scrive Berger “ogni tanca, ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre (…) Queste pietre sono state accumulate e messe insieme in modo che il suolo, benchè secco e povero, potesse essere lavorato (…) Muretti infiniti e senza tempo di pietra secca separano le tanche, fiancheggiano le strade di ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai caduti dopo secoli di usura, suggeriscono l’idea di labirinti in rovina! E aggiunge ancora, Berger, che la Sardegna è un paese megalitico, non nel senso di preistorico, ma nel senso che la sua anima è roccia e sua madre è pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi nell’isola e le domus de janas, le grotticelle per ospitare i morti. Ricorda la diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (- Chiunque venga dal mare è un ladro – dicono), della loro ritrazione nell’interno montuoso e inaccessibile l’essere stati chiamati per questo dagli invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla sua conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e la speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero politico. Ho voluto riportare questo scritto di Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci che illumina il mondo nostro d’oggi, perchè simile alla situazione sarda – situazione fisica, orografica, e umana, storica, sociale – mi sembra il mondo della contea di Modica restituitoci da Serafino Amabile Guastella. Pietroso è a altipiano Ibleo, aspro il tavolato tagliato da profonde cave, duro è il terreno scandito dai muretti a secco che nei secoli i villani hanno costruito, spaccati da calanchi sono spesso gli alti paesi della Contea, in grotte i villani hanno abitato, in grotte hanno seppellito i loro morti. Guastella non è certo Gramsci, non è un filosofo, un politico, è un illuminato uomo di lettere uno studioso di usi e costumi, tradizioni linguaggi, un analista di caratteri, ma, nel dirci dell’interno dei villani della sua contea, della loro “tinturia”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà, furbizia, illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli uomini, della condizione modicana pre e postunitaria, di una estremità sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un “antivangelo” le parità e le storie morali, come dice Sciascia, un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza rimedio, senza mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non c’è, nel mondo di Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli contro cui andarono a cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al Salomone-Marino, in mezzo a cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni: il suo sicilianismo a oltranza lo portò ad aderire al Felibrismo di Fréderic Mistral, il movimento etno-linguistico finito nel fascismo di Pétain. Si legga il racconto dell’incontro a Modica di Di Giovanni con Guastella, della profonda delusione che il poeta di Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire l’impressione che ne ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via senz’altro, mogio, mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella rovina d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista così fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la mitizzazione è madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella, all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più in là siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimi di Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale, in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni di libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo di quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si trova, l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti critici: nel 1837, durante l’imperversare del colera, in cui il padre dello scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di Siracusa assieme all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un tal Giovanni Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di Monterosso dalla plebe. Ribellioni ci sono state, nel ’93/94, durante i Fasci siciliani; nel 1919 e ’20, in cui il partito socialista conquistò i comuni di Vittoria, Comiso, Scicli, Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini, Spaccaforno, e che provocò lo squadrismo fascista degli agrari. Rispunta ancora l’anarchia e ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini, nel ’43/44. Nel Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries alla vera e propria insurrezione armata a Ragusa e a Comiso si proclamò la repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse ; non fasciste dunque e neppure separatiste; e si sa anche che a proclamarle furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da dirigenti locali, a volte essi stessi contadini” scrive Francesco Renda. Della rivolta di Ragusa ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di Ragusa. la profonda anima di pietra dei villani della Contea di Modica, quella indagata e rappresentata da Serafino Amabile Guastella, mandava nel Secondo Dopoguerra i suoi ultimi bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta cultura, illuminista e liberale democratico, con citazioni d’autori, esempi, dava segni del suo modo di vedere e di sentire quel mondo di pietra, del suo giudizio sulla condizione dei villani. “Vivendo a stecchetto dal primo all’ultimo giorno dell’anno, il nostro villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella teoria che la proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il legittimo padrone della terra dovrebbe essere lui, che la coltiva e feconda, non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore degli altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto qui per inciso, quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza ai riforma agraria in Tunisia del 1885, ch’era detta “Diritto di vivificazione del suolo”.
E quindi, più avanti, parlando del concetto e pratica del furto nei villani, scappa, al nostro barone, una parola marxiana, “proletario”. … perocchè è conseguenza logica e immediata dei compensi escogitata dal proletario” scrive. Nel capitolo VI, illustrando ancora la pratica del furto, scrive: “Le idee del furto nel villano non essendo determinate dal concetto legale della proprietà di fatto, ma da quello speculativo della proprietà naturale, che ha per norma il lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in direzione opposta delle prescrizioni dei codici.
Il capitolo X delle Parità attacca così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O’ Connel, la deffinì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la formola, l’hanno però messa in pratica molto tempo prima di O’ Connel, e del padre Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel O’ Connel, detto il Grande Agitatore, capo della rivolta contro gli inglesi e padre dell’indipendenza dell’Irlanda; L’O’ Connel lodato dal filosofo e teologo palermitano padre Gioacchino Ventura. Fin qui l’intellettuale Guastella. Ma occorre soprattutto dire dello scrittore, di quello che si colloca, afferma Sciascia, tra Pitrè e Verga. “Se fossi un romanziere non parlerei certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle, perchè in questo racconto ha una parte secondarissima, ma non essendo uno scrittore !…” scrive Guastella in Padre Leonardo. Credo che qesta frase sia la chiave di lettura di tutta l’opera del barone di Chiaramonte. Uno scrittore, il Guastella, diviso tra la vocazione, la passione del narrare e l’impegno, il dovere quasi, culturale e civile, dell’etnologia; diviso tra la poesia e la scienza, l’espressione e l’informazione, l’obiettività e la partecipazione, la rappresentazione e la didascalia. Ma è già, in quel racconto, un po’ più vicino alla narrazione e un po’ più lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia, là, è come inclusa e sciolta nella narrazione, implicitamente dispiegata, è meno esemplificata e scondita, come al contrario avviene nelle Parità. In quel racconto, l’autore, consapevole dello slittamento verso la narrazione, mette subito in campo nel preambolo una mordace autoironia facendo parlare il protagonista: “Io, fra Leonardo di Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il giorno 7 marzo 1847, (…) senza saper come, nel marzo del 1875 mi trovai risuscitato per opera di un imbratta carta, il quale non ebbe ribrezzo di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e in anno di giubileo (…) E con questa bricconata d’intento (…) il mio persecutore mi ha costretto ad andare per il mondo (…) O Cesù mio benedetto, datemi la forza di perdonarlo !, Il padre Leonardo si muove tra Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come Petruska nel balletto di Stravinskii, altri personaggi: fra Liborio, padre Zaccaria, don Cola, mastro Vincenzo… Ognuno d’essi suscita ancora altri personaggi, illumina luoghi, ambienti, storie, istituzioni, usi, costumi, linguaggi… Attraverso loro conosciamo conventi, chiese, confessori e bizzocche, giudici e sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e dominati, cavalieri grassi e villani dannati in abissi di miseria. Attraverso quel don Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria, costretto a fare un viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce violenza del governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del Carretto. E non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “le architetture magnifiche e il mobilio stomachevole”.
Quando è sciolto, Guastella, da preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando sopra la testa di cavalieri e villani, cappedda e burritta, osserva il cielo, la natura, scrive allora pagine alte di letteratura, di poesia: “Dalle montagne sovrapposte a Roccanormanna scendea una nebbia fittissima, che prima invadeva le colline, poscia il paesello, indi un tratto della montagna, mentre dalla parte opposta, in cielo tra grigio e nerastro correvano nuvole gigantesche a forma di draghi, di navi, di piramidi, di diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle diavolerie il sole ora si nascondeva, ora riapparia come un bimbo pauroso dietro le vesti materne. Finalmente privo di splendore e di raggi, proprio come una lanterna appannata, andò a tuffarsi in mare…” Questo brano, ecco, è speculare a quell’ipogeo profondo, a quell’onfalo d’orrore, a quel cottolengo, cronicario o Spasimo asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della fiera di Palazzolo. Ma torno, per finire, a quel Berger da cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla Ghilarza di Gramsci quale metafora storica delle sacche di resistenza nella globalizzazione economica di oggi

A Ghilarza, appunto, c’è un piccolo Museo Gramsci: fotografie, Libri, lettere; in una teca, due pietre intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si esercitava a sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e correggere la malformazione della colonna vertebrale. Sona un simbolo, quelle due pietre, simbolo che, cancellato in questo contesto sviluppato, affluente e imponente, riappare nei luoghi più pietrosi e disperati del mondo. Nel museo dell’olio di questo paese, di Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico: uno scranno, una poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è fissato alla spalliera con un lucchetto. Su quello scranno poteva sedere soltanto il cavaliere, il proprietario del frantoio, che deteneva la chiave del lucchetto, giammai il villano. Il simbolo mi dice, ci dice questo: da noi, nel mondo sviluppato, la partita è chiusa col lucchetto, la chiave la tiene il gran potere economico che governa il mondo. Ma quel potere, e noi con lui, dovrà fare i conti con le pietre di Ghilarza, con i pesi di Gramsci. Noi, se non vogliamo essere dominati, essere espropriati di memoria, conoscenza, essere relegati nelle grotte degradanti e alienanti della produzione e del consumo delle merci, se vogliamo essere liberi, non possiamo che anarchicamente ribellarci, resistere e difendere il nostro più alto patrimonio: la cultura, la letteratura, la poesia. Claude Ambroise, presentando insieme a Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle opere più significative della cultura siciliana tra il Sette e l’Ottocento, pubblicata dalla Regione Siciliana, ebbe a dire che senza la conoscenza, senza il possesso di quel substrato, di quel patrimonio morale, avremmo rischiato di camminare, di procedere nel vuoto. In quella collana era stato ristampato Le parità e le storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino. Guastella, ecco, lo scrittore che qui oggi onoriamo, è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale.

Vincenzo Consolo – Milano. 2 giugno 2000
letto in un convegno su Serafino Amabile Guastella
Chiaramonte Gulfi il 3 giugno 2000

Intervista inedita a Vincenzo Consolo, a cura di Irene Romera Pintor.

3 

Da quello che ho letto, volevo sapere: quanto per Lei è importante quello che scrive e quanto per Lei è importante come lo scrive?

Non ho mai creduto, non credo ancora, che possa esistere in arte, tanto meno in letteratura, l’instintualità, l’ingenuità o l’innocenza. Quando si sceglie di esprimersi attraverso la scrittura,la pittura o la musica, si sceglie di esprimersi attraverso il mondo espressivo. Bisogna avere consapevolezza di come collocarsi, sapere cosa si vuole rappresentare, cosa si vuole dire, sapere quali sono le proprie scelte di campo per quanto riguarda i contenuti e lo stile.
Per quanto mi riguarda, ho esordito nel ’63, io avevo … nel ’63 … 30 anni. Quindi non ero un fanciullo, ero una persona formata e sapevo cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto dire e come dirlo. Per quanto riguarda la scelta dei contenuti, mi interessava esprimere una realtà storico-sociale. Erano assolutamente lontane da me le istanze di tipo esistenziale o psicologico e meno ancora le istanze di tipo metafisico o spirituali. Come tutti gli scrittori siciliani avevo a che fare con una realtà quanto mai difficile, infelice e parlo di una realtà storico-sociale. Quindi quella realtà volevo esprimere, proprio immettendomi nella tradizione della letteratura siciliana, che ha sempre avuto -almeno questa è la costante da Verga in poi- lo sguardo rivolto all’ esterno, nel senso che da noi non esiste una letteratura di introspezione psicologica. Tutta la letteratura siciliana è con lo sguardo rivolto all’esterno, alla realtà storico-sociale ed è una letteratura di tipo realistico con tutte le sue declinazioni.
Per quanto riguarda la scelta dello stile ora chiarisco. Sono nato come scrittore, dopo la stagione cosiddetta neo-realistica, dopo gli scrittori che avevano vissuto il
 periodo del fascismo e il periodo della guerra. Questi scrittori – parlo di Moravia, Calvino, Sciascia, avevano uno stile di tipo razionalistico, illuministico, di assoluta comunicazione: interessava loro comunicare l’argomento nel modo più chiaro, nel modo più referenziale, con le dovute differenze, naturalmente. Secondo me questi scrittori avevano adottato questo stile diciamo toscano-
allo stile illuministico di matrice francese. Sciascia e Calvino, sono due esempi classici di scrittori di tipo illuministico, razionale.
C’è da fare un discorso sulla lingua francese, sulla sua perfetta geometria. Leopardi fa un paragone fra la lingua italiana e la lingua francese. Ma questo discorso lo possiamo riprendere dopo.
Ecco, dicevo, io sono venuto dopo, e la speranza che questi scrittori avevano nutrito nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, quella speranza, per quelli della mia generazione era caduta, perchè si era stabilito in Italia un potere politico che ripeteva esattamente quello che era crollato. In qualche modo, sì, eravamo in democrazia, però con un sistema di potere che lasciava sempre fuori, ai margini, tutti quelli a cui non erano stati riconosciuti i loro diritti. Parlo delle classi popolari e quindi la mia scelta stilistica non poteva essere nel segno della speranza, ma doveva essere nel segno dell’opposizione, della rottura con il codice centrale linguistico, con l’adozione di un altro codice linguistico che rappresentasse anche le periferie della società. Questa scelta mi è stata facilitata perchè il luogo dove sono nato, la realtà che potevo esprimere, era una realtà dal punto di vista linguistico quanto mai ricca, perché in Sicilia, oltre ai vari monumenti, le varie civiltà, da quella greca in poi o anche prima, hanno lasciato un grande deposito linguistico. Quindi io, piuttosto che avere lo sguardo rivolto verso il centro, l’avevo rivolto verso orizzonti più vicini, verso la realtà in cui mi trovavo a vivere, e ho attinto a questa ricchezza linguistica, a questi depositi linguistici che in Sicilia c’erano, esistevano. Non bisogna però pensare subito al dialetto, io sono uno che non ha mai amato la parola dialetto. La mia scelta era nel senso di rompere il codice linguistico centrale -quindi toscano razionalista- e di immettere in questo codice, e innestare diciamo delle voci, delle forme grammaticali o sintattiche che attingevano al patrimonio linguistico dell’isola.
Di volta in volta ho usato parole che avessero una loro dignità filologica, che venissero da altre lingue, che potevano essere il greco, il latino, l’arabo,lo spagnolo, il francese. E quindi mi sono immesso in quella linea che si chiama la linea sperimentale, che nella storia della letteratura è sempre convissuta insieme alla linea centrale-razionale. Ecco, la linea sperimentale, secondo me, parte da Dante, perchè Dante ha formato la lingua italiana proprio ricomponendo tutti i dialetti che allora si parlavano nell’ Italia medievale. E da Dante poi arriva, dopo il periodo rinascimentale, dove c’era stata la centralità della lingua italiana,con i grandi scrittori italiani che conosciamo, cioè gli autori dei grandi poemi come l’Ariosto e il Tasso , arriva al Seicento,arriva alla rottura di questo codice centrale con la Controriforma e con la frantumazione, della lingua centrale. E la linea sperimentale arriva sino ai giorni nostri, dopi i vari ritorni alla centralità con i movimenti toscani appunto del rondismo del vocianesimo che in Italia si erano diffusi negli anni Trenta, a cavallo fra le due guerre. Nel dopo- guerra c’è stata, di nuovo una frantumazione del codice centrale. Il primo nome che viene in mente è quello di Carlo Emilio Gadda poi di Pasolini. Io mi sono immesso in questa linea sperimentale, con l’impasto linguistico o plurivocità o polifonia, come si suol dire, percorrendo una linea assolutamente speculare a quell’altra linea che è la linea retta, del codice centrale. Questo ho fatto sin dal mio primo libro, proseguendo man mano in questa sperimentazione. Posso aggiungere che i motivi per cui avevo scelto questo stile erano non solo di tipo estetico, erano di tipo etico e di tipo politico.
Ho detto le ragioni, insomma, di questa opposizione a una lingua centrale, alla lingua dominante, la lingua del potere e quindi ho cercato di crearmi una lingua che fosse oppositiva al potere stesso. Pasolini, ha fatto, già nel 1961, un’analisi della lingua italiana, con un saggio che si chiama “Nuove questioni linguistiche”, dove annunziava la nascita di una nuova lingua italiana. Che cosa era avvenuto? Con il cosiddetto miracolo economico, con la trasformazione di questo paese, da paese millenariamente contadino in paese industriale, con le grandi trasformazione rapide e profonde che sono avvenute si era formata una nuova lingua. La ricchezza della lingua italiana (Leopardi dice: “L’infinito che c’è nella lingua italiana”) dovuta appunto agli apporti che venivano dal basso e che provenivano dai vari dialetti che portavano la loro vitalità dentro la lingua toscana, si era interrotta. C’è stata come una frattura e con la nascita della nuova nuova lingua italiana come lingua nazionale, questa lingua si è impoverita, perché ha perso i contatti e l’afflusso che veniva dalle parlate popolari, e quindi si è costituita una lingua, che Pasolini chiama di tipo aziendale-tecnologico. Per cui oggi la lingua italiana è una lingua enormemente impoverita, è una lingua priva ormai di memoria, ed è una lingua, secondo me, anche in via di estinzione, perchè, da una parte, ha perso la ricchezza che aveva prima e dall’altra è invasa da una lingua altra, che è la lingua della tecnologia, che molto spesso è l’americano o l’inglese; è invasa da questo linguaggio di tipo tecnologico ed economico che la impoverisce,la appiattisce sempre di piú. Quindi ho sentito sempre di più il bisogno di insistere nella mia sperimentazione, perché credo che sia proprio questo il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perchè la letteratura è memoria e soprattutto memoria linguistica.
In questa ricerca particolare del linguaggio si nota, nei suoi scritti, una spiccata tendenza alla sperimentazione di qeneri diversi: favola teatrale, romanzo storico, poema narrativo, racconti e riflessioni della Sicilia. C’è una ragione specifica? Lei preferisce un genere in particolare? Qual è il suo progetto letterario?
Credo di avere un progetto, un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo. Ho scritto dopo il mio romanzo di formazione, d’iniziazione,La ferita dell’aprile, un romanzo storico: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo romanzo l’ho concepito proprio per raccontare la storia italiana attraverso varie tappe, attraverso momenti critici della storia. Ho cominciato appunto con il 1860, che è un topos storico per cui siamo passati tutti noi, scrittori siciliani, perchè forse da lì sono partite tutte le questioni e le disillusioni ed i problemi che oggi ci assillano. Romanzo dell’Unità d’Italia, affrontato da tutta la letteratura siciliana, da Verga a Pirandello, a Lampedusa, a De Roberto, sino a Leonardo Sciascia e ad altri. Mi sono cimentato in questo 1860, da una angolazione diversa. De Roberto ha visto l’orrore del potere in mano ai nobili, Lampedusa ha cercato di riparare questa offesa al potere dei nobili scrivendo “Il Gattopardo”, Sciascia ha fatto vedere il trasformismo della classe dirigente italiana e siciliana. Io ho cercato di raccontare il 1860 con gli occhi degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati.
Naturalmente la scelta linguistica è conseguenziale alla alla materia,ed anche alla struttura del libro. Dopo, ho raccontato la nascita del fascismo, visto da un paese della Sicilia che si chiama Cefalù.
Ho raccontato questo periodo storico in un libro che si chiama “Nottetempo, casa per casa”. Sono arrivato quindi ai giorni nostri, cercando di raccontare il presente, con il libro che è uscito adesso e che si chiama “Lo spasimo di Palermo”. Naturalmente sono tutti romanzi storico- metaforici: scrivendo del 1860 ho cercato di scrivere, di raccontare l’Italia degli anni Settanta, cioè la nascita delle speranze di cambiare la società e, quindi, la disillusione, la perdita di questa speranza. Gli anni Settanta sono gli anni in cui le nuove generazioni hanno cercato con molto slancio, di cambiare la società, hanno vissuto la politica in un modo intenso, ma poi tutto è crollato, è diventato terribile, atroce, con il terrorismo. Invece, in Nottetempo, casa per casa, ho cercato di raccontare metaforicamente gli anni Novanta, quando in Italia, per la prima volta,dopo la seconda guerra mondiale, sono entrati nel governo italiano i fascisti, cioè dopo che erano stati allontanati, condannati dalla storia.
Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terrorismo vissuto a Milano e anche con quello che è il male della Sicilia, con le atrocità delle stragi di mafia. Infatti il libro si conclude con la strage di Via d’Amelio e con la morte del giudice Borsellino.
Questo è stato il mio progetto letterario. Poi, naturalmente, accanto a questi libri, ci sono dei libri collaterali, ma tutti convergono su questa idea, cioè, sul potere, sulla corruzione del potere: sia la favola teatrale “Lunaria” o “Retablo”. Ho voluto, in questo viaggio in un fantastico settecento, rappresentare che cosa è il potere che non crede più in se stesso. Un Vicerè che non è il Re e che quindi può mettere in campo i suoi dubbi e la sua crisi, perchè non crede al potere che deve rappresentare. Ho voluto far vedere appunto nel personaggio di un Viceré che cosa è il potere quando cade in crisi, attraverso questa favola teatrale. Non solo il potere ma anche la caduta di una certa cultura, la perdita della memoria nella nostra società, perchè questa nostra società è proprio contrassegnata dalla cancellazione continua della memoria, esercitata dalle forze economiche e politiche: questa cancellazione che è il maggiore misfatto della nostra epoca. Oggi quella che si chiama la rivoluzione tecnologica, ci fa vivere in un eterno presente, dove non abbiamo più memoria del nostro passato e non immaginiamo neanche quale è il nostro futuro. Quindi viviamo in una continua invasione dell’informazione: l’informazione dei messaggi mediatici e viviamo ormai in un neofascismo, il neofascismo dell’informazione dei media. Ecco, io ho questa sensazione di una cultura che sta terminando, che sta finendo proprio in questo nostro contesto dove non è più possibile la letteratura, non è più possibile l’arte, non è più possibile qualsiasi tipo di espressività o di espressione.
Milano, Lunedì 15 febbraio 1999.
Pubblicata successivamente come “VINCENZO CONSOLO. AUTOBIOGRAFIA DELLA LINGUA”. Modificata, ed. Ogni uomo è tutti gli uomini, 2016.

Nebrodi

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Rocche del Crasto Alcara Li Fusi 1998

Ignoti dunque questi monti, i paesi su arroccati, la breve costa frastagliata, ignota questa regione fra le Madonie e i Peloritani, la piana
e la fumante incombenza del vulcano alle sue spalle, non solo agli “stranieri”, ma agli stessi siciliani che dall’interno, dall’occidente o
dall’oriente si muovevano, per le strade borboniche e quindi per la ferrata, per andare in continente.
Era dunque uno iato, un salto questo dei Nebrodi, che lasciava nel segreto la bellezza sua profonda, la profondità della sua storia. Regione
fra le più verdi, fra le più boschive, fra le più ricche d’acqua.
Un’Umbria serena e ombrosa ingemmata nell’isola della sconfinata nudità del latifondo, della nera coltre della lava o della scabra, desolata
dimensione delle zolfare. Una storia, la sua, che s’arrestava all’era bizantina, ai monasteri basiliani, agli alpestri santuari, ai cenobi,
agli eremitaggi, ai poveri villaggi di pastori e carbonai resistenti all’espansione, all’incidenza musulmana, che poi i Normanni scoprirono
e protessero.
Ruggero re e Adelasia madre, per nostalgia forse costei delle montagna sue monferrine, predilessero questi luoghi, dotarono di feudi le
abbazie, risvegliarono nei sudditi identità e attivismo, fecero qui stanziare, dopo la conquista, i lombardi mercenari che formarono colonie,
isole di diverso costume e di ancor più diversa lingua.
Riallacciava così, l’epoca normanna, quella zona a un più antico sfondo storico, a una matrice greca e poi latina, a una vita vale a dire di
parca geometria, di umile misura…
La natura qui, serena e generosa, e la storia, che aveva tenuto fuori le male signorie, il feudalesimo dei baroni rapaci e devastanti, avevano
fatto sì che questi Nebrodi per secoli e secoli, e fino a ieri, mantenessero una loro armonia, una loro appartata ma preziosa civiltà.
Chi è nato e cresciuto ai piedi dei Nebrodi, ha avuto sempre davanti agli occhi la montagna di San Fratello, le vallate dell’Inganno, del
Rosmarino e del Furiano, il colle di San Marco, le rocche dolomitiche di Alcara Li Fusi.
Chi è nato sulla costa, a Sant’Agata ad esempio, ha memoria delle due fiere che lì si svolgevano, in aprile e in novembre.
In quei giorni, la spiaggia si riempiva di mucche, tori, pecore, capre, maiali, asini, muli, cavalli; di mercanti e di sensali, di pastori, contadini,
carbonai, venditori di rami, di ferri, di legni, di ceste, di terrecotte; venivano tutti da San Fratello, Caronia, Cesarò, Tortorici, Longi,
Mirto, Frazzanò, Santo Stefano di Camastra…
Erano quelle fiere la scoperta di un mondo sconosciuto, agricolo e pastorale: un mondo antico, pieno di storia, di cultura; erano la scoperta
dei Nebrodi, vale a dire del proprio passato, della propria identità. La scoperta della matrice d’ogni racconto, d’ogni favola.
Questi Nebrodi così contadini, così pastorali e forestali, che la civiltà industriale ha spopolato, relegato ai margini, tornano oggi, nella
loro interezza d’abbandono, al “celeste raggio”, come dice Leopardi, o al verde raggio: alla speranza, oltre l’asfissia, oltre il panico del
terremoto industriale.
Questi Nebrodi dunque, esiliati dalla storia, consegnati alla natura – la natura più serena e generosa dell’Isola – rappresentano un nuovo
segno, un nuovo cammino verso il futuro che ha nel parco regionale e nel turismo sostenibile la sua svolta determinante.

Vincenzo Consolo

L’Impasse

L’Impasse

In pasto al mondo
il nome, poi la cosa.
Una via tronca, quasi un’impasse.
Agra d’aspetto, sospetta
per battiti, frequenze.
Coeundi et generandi
è la vittoria, il pensare
è rimandato
nel futuro anteriore.

Vincenzo Consolo

Milano 23/VI/1998


E’ un vicolo cieco l’espressione di sé, delle cose, del mondo?

Sembra interrogarsi sulle scarne possibilità dell’espressione, Vincenzo Consolo, in questa poesia asciutta e dura come pietra.

Il mondo consuma i nomi e le cose che i nomi rappresentano, in una continua erosione della realtà e della possibilità di dirla.

La vittoria è preclusa, il pensare congelato e rimandato ad un futuro tutto ancora da immaginare. E’ quasi profetico questo piccolo scritto inedito del grande scrittore santagatese, in cui prevede i margini strettissimi, soffocati e soffocanti, che restano oggi a chi ha qualcosa da dire.

La donna nella letteratura siciliana

La donna nella letteratura siciliana

Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.

Vincenzo Consolo

Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino

Foto Giuseppe Leone

La solita tromba americana.

Prendendo tono e vigore dalla solita tromba americana, d’un risibile dandy da music hall, nel caso, nostrani cavalieri del vento o uragano dell’informazione (l’immagine è di Joyce, che nel settimo episodio dell’Ulisse, dal virtuale titolo di Eolo, ironizza sul vento che spira dall’Evening telegraph, dai giornali, su certe prose d’arte, false come fiori di cera o porcellana, di cui i giornali, per degnificarsi, sentono il bisogno d’adornarsi) hanno sentenziato che la narrativa non rappresenta più la realtà presente, ch’essa è agonizzante, è morta; che i veri scrittori d’oggi, on yes !, sono i giornalisti.

Ha spazzato, spazza l’uragano ogni possibilità di rappresentare “immediatamente” la realtà. Spazza finanche la realtà (non parliamo della verità) spacciando: per realtà quella fata morgana che ci restituisce la pagina stampata o lo schermo opalescente, facendo credere che l’unico vero linguaggio sia il fischio continuo e assordante della comunicazione: ha spazzato l’uragano memoria e poesia. Non siamo più, si sa, ai beati tempi di Balzac, e il blanchotiano spazio letterario è sempre più relegato in un altrove che lo scrittore si danna a ricercare.
Sa intanto, il tapino, io so, che siamo alla fine di una civiltà e di una cultura; che certe narrazioni sono ormai impossibili (Calvino – ricordo al bravo Volponi – aveva dimostrato questo già con Se una notte d’inverno… E il titanico progetto del pasoliniano Petrolio mi è sembrato il tentativo di fronteggiare letterariamente l’infinita estensione dei media); che l’unico racconto praticabile mi sembra quello storico-metaforico (non le consolatorie e consumistiche storie romanzate) ;che un modo per praticale ancora una letteratura non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia: riaccostarlo, per renderlo irriducibile, al linguaggio liturgico dei

poemi.

Vincenzo Consolo
doveva essere pubblica su,
Il Messaggero – 15 gennaio 1993

Lettera a Natalia Ginzburg.

Sant’Agata

Carissima Natalia
ho letto il tuo “ La città e la casa”, che gentilmente mi hai inviato,
ti ringrazio per questa lettura. E’ uno dei rari romanzi, oggi, il tuo .
Veramente contemporaneo. Quell’umanità che dentro vi vive, a Roma o
in America, mi è sembrata che fosse appena uscita, che fosse la
impressione di un disastro e ancora scolpita dai sussulti
sull’onda lunga di quel disastro. Ma a pensarci, è sempre così
la vita, quando la si esprime nel momento in cui essa si svolge.
Solo nel passato, nel ricordo, essa si mitizza, si passa  in una
dimensione univoca e “letteraria” di tragico, di felice e di altro.
Certo. E ho capito anche l’estrema difficoltà di scrivere un
romanzo epistolare a più voci, dove i due piani, informativo ed
espressivo, coincidano è in una sola corda bisogna tessere il
racconto, caratterizzare i personaggi e il volto dei personaggi,
ho più amato naturalmente Lucrezia e Alberico.
Grazie ancora. Ti auguro molti e intelligenti lettori.
Ti auguro anche buone feste natalizie.

Tuo
Vincenzo Consolo

dicembre 1984