Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche. Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più. La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.
Edizioni dell’asino, Roma 2016 
Categoria: News
«Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo.
Rosalba Galvagno (a cura di),«Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo
Consolo, introduzione di Antonio Di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino 2015.
«Giravo e giravo, per strade, vicoli, piazze dentro la città nera, nell’intrico dell’ossidiana, nella
spirale d’onice, giravo nella scacchiera di lava e marmo folgorata da una luce incandescente»: così
Vincenzo Consolo descrive il capoluogo etneo in un suo breve e rarissimo scritto, intitolato “I libri
di Catania”, ora pubblicato in appendice a un pregevole volume dal titolo “Diverso è lo scrivere.
Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo”, recentemente edito per la collana “Biblioteca
di Sinestesie” (Avellino 2015) per le cure di Rosalba Galvagno, docente di Letterature Comparate e
di Teoria della Letteratura presso l’Ateneo catanese, e prefato da Antonio Di Grado.
Il libro riunisce gli interventi di una giornata di studi dedicata a Consolo tenutasi nel marzo del
2013 presso il Monastero dei Benedettini, nell’ambito delle iniziative culturali promosse dal
Dipartimento di Scienze Umanistiche: in quell’occasione alcuni tra i più validi studiosi dell’opera
consoliana (Nigro, Cuevas, Galvagno, Trovato, Messina, Stazzone), si sono confrontati intorno al
tema della “scrittura”, declinandolo da prospettive differenti.
Nella sua introduzione Di Grado si sofferma su “Catarsi”, definendolo “un testo di alta e
impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Hölderlin e di Pasolini”, composto per una
produzione del Teatro Stabile di Catania di grande spessore culturale, quel “Trittico” del 1989 (che
tanto successo riscosse), costituito da tre atti scritti dai tre maggiori letterati siciliani allora viventi:
Sciascia, Bufalino e appunto Consolo.
Nel contributo di Salvatore Silvano Nigro è rintracciata, nella prosa di Consolo, una fonte
secentesca, il “Récit du sol” di Bartoli; Cuevas si sofferma sapientemente sui riferimenti ecfrastici
presenti in un libro ancora inedito, “L’ora sospesa”, interpretando il senso delle “strategie di
ambiguazione della scrittura consoliana”, ad esempio nel caso dell’“escamotage dell’ecfrasi
nascosta”. Il saggio di Rosalba Galvagno individua le “figure della verità” presenti in quattro testi
dello scrittore siciliano: due articoli di cronaca degli anni Settanta da cui emerge “l’ambiguità della
verità effettiva, così diversa da quella processuale” e dai romanzi “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e
“Retablo”, con un interessante riferimento all’iconografia dei “Disastri” di Goya.
Salvatore C. Trovato analizza le “Scritte” presenti nel capitolo IX del “Sorriso”, mettendone in
evidenza “i caratteri regionalmente marcati verso il basso” con opportuni rilievi sulla realtà
linguistica sanfratellana; Messina ripercorre il percorso editoriale e di scrittura del libro “La mia
isola è Las Vegas”; Stazzone dimostra come l’opera di Consolo sia attraversata dal tema del
silenzio e dell’afasia, insistendo sulla “volontà di alternare spazialità e temporalità dosando
citazioni letterarie e iconiche” nei romanzi consoliani fin dalla soglia paratestuale dei titoli.
In Appendice vi è anche un sentito saluto e ricordo dell’autore di Cetti Cavallotto unitamente a
un corredo iconografico e fotografico.
I vari saggi che compongono il volume ci mostrano, quindi, come la scrittura consoliana sia
un’immensa tessitura nella quale si mescolano gli elementi più diversi: la corposità della frase, la
trasfigurazione lirica della realtà, l’engagement, l’ecfrasi, la visione della storia e della letteratura
come combinazione e stratificazione “palincestuosa”, amalgama di elementi che producono infinite
sottoscritture e infiniti richiami.
Novella Primo

Conferenza all’ Université de Lorraine ” La scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo “
CONFERENCE DE
Mr. Gianni Turchetta
(Professeur de l’Université de Milan)
“Da un luogo bellissimo e tremendo”.
La scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo
Mardi 8 mars 2016 17h30-19h15
Salle des Actes G04
Campus Lettres
ENTREE LIBRE
PRESENCE OBLIGATOIRE POUR LES ETUDIANTS D’ITALIEN
Infos : laura.toppan@univ-lorraine.fr
Université de Lorraine
Conferenza all’ Université de Strasbourg “Da un luogo bellissimo e tremendo”.
CONFERENCE
Gianni Turchetta
(Université de Milan)
“Da un luogo bellissimo e tremendo”.
La scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo
Mardi 8 mars, à 9h
Auditorium du Collège Doctoral Européen
ENTREE LIBRE
PRESENCE OBLIGATOIRE POUR LES ETUDIANTS D’ITALIEN
Infos : frabetti@unistra.fr
Université de Strasbourg
Un giorno in più di poesia 29 febbraio 2016
da Il sorriso dell’ignoto marinaio
L’occhio cavo dell’asino bianco
Quindi Adelasia, regina d’alabastro,
ferme le trine sullo sbuffo,
impassibile
attese che il convento si sfacesse.
Chi è, in nome di Dio?
–di solitaria badessa centenaria in clausura
domanda che si perde per le celle,
i vani enormi, gli anditi vacanti.-
Vi manda l’arcivescovo?
E fuori era il vuoto.
Vorticare di giorni e soli e acque,
venti a raffiche, a spirali,
muro d’arenaria che si sfalda,
duna che si spiana,
collina, scivolìo di pietra, consumo.
Il cardo emerge , si torce,
offre all’estremo il fiore tremulo, diafano
per l’occhio cavo dell’asino bianco.
Luce che brucia, morde,
divora lati spigoli contorni,
stempera toni macchie, scolora.
Impasta cespi, sbianca le ramaglie,
oltre la piana mobile di scaglie
orizzonti vanifica, rimescola le masse.
Consolo come non lo avete mai letto
Consolo come non lo avete mai letto
Pubblicate una raccolta di poesie dello scrittore premio Strega nel 1992

25 FEB 2016
Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano, «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.
Enna Magazine del 25 febbraio 2015
La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.di Concetto Prestifilippo
Vincenzo Consolo ” Il suo paese “
CONSOLO E IL GIUDICE CIACCIO MONTALTO
Il prossimo 25 gennaio saranno 33 anni dalla morte per mano violenta, mano di mafia, del sostituto procuratore di Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, aveva 41 anni, era il 25 gennaio del 1983. Ammazzato a Valderice, davanti casa sua, al momento del rientro. Ancora per poco sarebbe stato in servizio al Palazzo di Giustizia di Trapani, presto sarebbe andato a Firenze, e quel trasferimento in Toscana faceva paura ai boss. La presenza di Cosa nostra in terra toscana sarebbe stata accertata anni dopo, una presenza di Cosa nostra che a Firenze e dintorni aveva intessuto stretti rapporti con la massoneria, alleanza che nel 1993 potrebbe essere servita a compiere le stragi che colpirono proprio Firenze, e poi Roma e Milano.
Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», si imbatté nei primi anni 80 nella mafia che cominciava a cambiare pelle, quella che oggi chiamiamo «sommersa» e allora si cominciava ad interessare di appalti (1550 banditi e assegnati nel solo biennio 83/85 a Trapani, quasi tutti finiti intercettati da Cosa Nostra). Lo scrittore, e giornalista. Vincenzo Consolo appena scomparso lasciando ancora più orfana la Sicilia, disse un giorno di rimpiangere di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, quando una sera raccolse lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale “L’Ora ” il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto.Consolo ricordò: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse». Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera.
I magistrati di oggi e tra quelli che lavorano tra Trapani e Marsala, come Andrea Tarondo, titolare di molte indagini sulla nuova mafia trapanese, e l’ex procuratore di Sciacca, Dino Petralia, ex Csm, e che negli anni 80 fu collega vicinissimo a Ciaccio Montalto a Trapani, in più occasioni hanno osservato che“qui” non sarà tutto mafia quando corrisponderanno le azioni concrete, gli atti trasparenti, quando si cancellerà l’area grigia, quando la si smetterà di confinare la legalità nel lavoro di magistrati, giudici, investigatori. Lo disse il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto: «Per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». Ciaccio Montalto non è riuscito a sconfiggere la mafia, perchè la mafia glielo ha impedito. «Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un altro suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Ma la strada è in salita e lo sarà fino a quando non si riconoscerà come eroe davvero chi lo merita o chi lo fu e non come avviene di questi tempi, che eroi vengono indicati i mafiosi e i corrotti.
Un ricordo di Vincenzo Consolo
La ferita dell’aprile
Persone, fatti, luoghi sono immaginari. Reale è il libro
che dedico, con pudore, a mio padre.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la
strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere
i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato,
la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla
coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina
che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena.
C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva
Bitto, poiché, così scassata, era un miracolo se portava
gente. Del resto, il miglior tempo lo passai per essa: all’alba,
nella piazza del paese, aspettando i passeggeri – malati
col cuscino del letto e la coperta, sbrigafaccende, proprietari
che avevano a che fare col Registro o col Catasto,
gente che si fermava alla marina o partiva col diretto per
Messina – e poi, alla stazione, dove faceva coincidenza con
l’accelerato delle due e mezza.
Non so come cominciai ad aiutare Bitto, fatto sta che
mi vedo salire la scaletta, camminare sopra il tetto per sistemare
i colli, lanciargli, al segnale, il capo della corda
per legare.
Che posso ricordare di quegli anni di scuola e d’Istituto
se li presi controvoglia al primo giorno, se Bitto mi sfotteva
per i libri e lusingava con la guida, la corriera, la vita
in movimento? Chiedevo anche «biglietto» con a tracolla
la borsetta nera, o correvo col cato alla fontana per levare
dai vetri il vomito delle donne e dei bambini.
«Ma che vai all’Istituto, a sfacchinare?» chiedeva ma’
vedendomi le mani lorde, la giacca con le macchie.
Come le cose belle, finì la vita sopra la corriera dopo
che gli cantarono a zio Peppe di come Bitto m’aveva preso
a picciottello. Mi sistemò in una casa ch’affittava e da
quel giorno entrai nell’Istituto.[…]
Lo spasimo di Palermo
Lo spasimo di Palermo è un nostos, il racconto di un ritorno
[…] Chiuse il libro, prese la penna e scrisse.
Mauro, figlio mio,
sì, è così che sempre ti ho chiamato e continuo a chiamarti:
figlio mio. Ora più che mai, lontani come siamo, ridotti
in due diversi esili, il tuo forzato e il mio volontario in
questa città infernale, in questa casa… smetto per timore
d’irritarti coi lamenti.
Figlio, anche se da molto tempo tu mi neghi come padre.
So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione,
quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra,
che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese,
formare una nuova società, una civile, giusta convivenza.
Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro
temerario azzardo.
Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione
che sempre ha improntato la tua parola, la tua azione. Ragione
che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre
in casa nostra dolorosamente rovinava, nell’innocente tua
madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle
azzardo letterario.
In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri, e ho compiuto
come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.
Il mio primo, privato parricidio non è, al contrario del
tuo, metaforico, ma forse tremendamente vero, reale.
Tu sai dello sfollamento per la guerra a Rassalèmi, del
marabutto, dell’atroce fine di mio padre, della madre di tua
madre, del contadino e del polacco. Non sono mai riuscito
a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare
a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove
era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io
credevo d’odiare in quel momento mio padre, per la sua
autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti
dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli
che cominciano a sentire nel padre l’avversario.
Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata
grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello
scienziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata,
ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con
l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello
che formalmente era il padre.
Sappi che non per rimorso o pena io l’ho sposata, ma
per profondo sentimento, precoce e inestinguibile. Quella
donna, tua madre, era per me la verità del mondo, la
grazia, l’unica mia luce, e sempre viva.
La mia capacità d’amare una creatura come lei è stato
ancora un dono dello zio.
Al di là di questo, rimaneva in me il bisogno della rivolta
in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire
sulla carta – come avviene credo a chi è vocato a scrivere
– il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o
metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo
d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente
comunicativa, di padri o fratelli – confrères –
più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili
del disastro sociale.
Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato
con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.
Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza
d’un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente,
di chiarire.
Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia,
un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo,
straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano
membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla
strada per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio.
Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale
loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da
quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura,
di salda etica e di totale impegno costretti a combat-
tere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo
loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico
del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi,
da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui
hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato,
gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei
più immondi traffici.
Ma ti parlo di fatti noti, diffusi dalle cronache, consegnati
alla più recente storia.
Voglio solo comunicarti le mie impressioni su questa
realtà in cui vivo.
Dopo l’assassinio in maggio del giudice, della moglie
e delle guardie, dopo i tumultuosi funerali, la rabbia, le
urla, il furore della gente, dopo i cortei, le notturne fiaccolate,
i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, in
questo luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento,
di luce incandescente che vanisce il mondo, greve di
profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano. Sembra
di vivere ora in una strana sospensione, in un’attesa.
Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto, che
lavorava già con l’altro ucciso, un uomo che sembra aver
celato la sua natura affabile, sentimentale dietro la corazza
del rigore, dell’asprezza. Lo vedo qualche volta dalla
finestra giungere con la scorta in questa via d’Astorga
per far visita all’anziana madre che abita nel palazzo antistante.
Lo vedo sempre più pallido, teso, l’eterna sigaretta
fra le dita. Mi fa pena, credimi, e ogni altro impegnato in
questa lotta. Sono persone che vogliono ripristinare, contro
quello criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle
sue leggi. Sembrano figli, loro, di un disfatto padre, minato
da misterioso male, che si ostinano a far vivere, restituirgli
autorità e comando.
Quando esce dalla macchina, attraversa la strada, s’infila
nel portone, vedo allora sulle spalle del mio procuratore
aggiunto il mantello nero di Judex, l’eroe del film
spezzato nella mia lontana infanzia, che ho congiunto, finito
di vedere – ricordi? – alla Gaumont.
Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta
qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della
legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in
Inghilterra, nella Francia dello Stato e del Diritto è fiorita
la figura del giustiziere che giudica e sentenzia fuori dalle
leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri, con filiazioni
vaste, fino al Bernède e al Feuillade di Judex e al Natoli
nostro, il cui Beati Paoli è stato il vangelo dei picciotti.
In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie,
questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato
è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, da tenebrosi
e onnipotenti Ferragus o Cagliostri, dove tutti ci
impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a
delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come
un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere.
O da uccidere.
Ancora questa mattina, come ogni domenica, sono andato
ai Ròtoli a portare i gelsomini. C’è un fioraio qui,
all’angolo della strada, che me li vende, mastr’ Erasmo,
che ha un pezzetto di terra a Maredolce. È un vecchietto
originale, simpatico, che parla per proverbi. Oggi, nel darmi
i fiori, ne ha detto uno strano, allarmante per una parola,
marabutto, che mi tornava da dolorosa lontananza…
Lo interruppe lo squillo del telefono. Era Michela che
gridava, piangendo:
«Don Gioacchino, presto, esca di casa, scappi subito,
lontano!»
Riattaccò. Gioacchino restò interdetto, smarrito. Sentì
nella strada deserta, silenziosa, i motori forti, lo sgommare
delle auto blindate.
Guardò giù. Erano il giudice e la scorta. Vide improvvi-
samente chiaro. Capì. Si precipitò fuori, corse per le scale,
varcò il portone, fu sulla strada.
«Signor giudice, giudice…» I poliziotti lo fermarono,
gl’impedirono d’accostarsi. Sembrò loro un vecchio pazzo,
un reclamante.
Il giudice si volse appena, non lo riconobbe. Davanti al
portone, premette il campanello.
E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo
squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle
carni, la morte che galoppa trionfante.
Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il
suo banchetto, coperto di polvere, vetri, calcinacci.
Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi
verso il cielo fosco.
Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono.
Implorò muto
O gran mano di Diu, ca tantu pisi,
cala, manu di Diu, fatti palisi!
pubblicato nel 1998






