Vincenzo Consolo, Grotte e il Premio Racalmare

di Gaspare Agnello | 18 Gennaio 2022

Il 21 Gennaio ricorre il decimo anniversario della morte dello scrittore che fu presidente di diverse edizioni del Premio 

Grotte. Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo, vincitore di una delle prime edizioni del Premio. (Foto Angelo Pitrone)

Il 21 Gennaio 2022 ricorre il decimo anniversario della morte dello scrittore  Vincenzo Consolo che noi, del Premio “Racalmare Leonardo Sciascia”, vogliamo ricordare per essere stato il presidente del premio

Vincenzo Consolo era profondamente legato a Sciascia, anche se erano due personaggi e scrittori diversi, soprattutto nella scrittura in quanto la prosa di Consolo tendeva alla poesia. Assieme a Bufalino hanno creato quella triade che rese grande la letteratura siciliana e italiana di fine Novecento.

Per via di questo legame con Sciascia, Consolo non mancò mai alle cerimonie di consegna de premio fino al punto che alla quinta edizione, quando Sciascia non poté essere a Grotte per la grave malattia che lo aveva colpito,è stato Consolo a premiare, a nome di Sciascia, Manuel Vazquez Montalban.

Nell’ottobre del 1987, dopo la premiazione di Gesualdo Bufalino e di Marta Morazzoni, Consolo pubblica ‘Retablo’.Lo lessi e a margine scrissi: Retablo è arte e poesia, pittura e musica. Disvela uno scrittore vero a me sconosciuto. Nato in Sicilia e trapiantato a Milano ha saputo, in questo libro, ripercorrere una Sicilia da non obliare, le cui radici affondano nelle antiche civiltà di cui è plasmata. La prosa è veramente stupenda e certamente frutto di studio accurato e lungo, come si conviene a uno scrittore che vuole collegarsi alla grande tradizione letteraria siciliana.

In Retablo ho trovato un mondo conosciuto e stupendo, un linguaggio vivo tra il popolo di Sicilia, un filo che ci lega alla Milano di Beccaria e ci conduce al Nuovo Mondo cui tutti auspichiamo.

Come componente della Giuria del premio Racalmare, non so a chi sarà assegnato il premio del 1988. Le situazioni che portano alla assegnazione di un premio sono tante e disparate. Per me il premio Racalmare è virtualmente assegnato a Retablo e ciò per mille ragioni”.

La scelta fu facile e il 23 settembre la Giuria del premio, presieduta da Sciascia, assegnò la quarta edizione del premio a Vincenzo Consolo con la seguente motivazione vergata da Sciascia: “L’opera, a mo’ di giornale di viaggio compilato da un noto pittore del settecento, ci riporta alla Sicilia dell’epoca. L’Autore riesce mirabilmente  a rievocare miti e leggende, in un viaggio che è la rivalutazione di luoghi ricchi di istoria e di ruine nella terra antica degli Dei e delle arti, un viaggio che è un sogno, intessuto da una favola d’amore, in un susseguirsi di figure e immagini di ‘incantata e incantevole fissità, con le sequenze di un Retablo”.

Durante la cerimonia di consegna Consolo ebbe a dire: “E’ la prima volta che mi trovo in una serata così affettuosa, affabile, pregna di verità. Non mi è mai capitato. Conosco Grotte da venti anni. Passavo da Grotte quando venivo a trovare le prime volte Leonardo Sciascia in campagna, alla Noce. Ci passavo velocemente, poi ho imparato a conoscerlo attraverso gli studi, i libri. Anch’io ho scritto sulle zolfare; mi sono occupato della cultura dello zolfo e della sua storia. La presenza dello zolfo ha portato in Sicilia, nell’agrigentino, una sorta di rivoluzione culturale. Qui, al contrario che nel resto della Sicilia, ove la cultura contadina è stagnante, c’era una sorta di presa di coscienza della realtà; una realtà molto dura. E l’uomo ha dovuto risvegliare la forza della volontà e la forza dell’intelligenza. C’erano gli uomini migliori. Hanno imparato, per difendersi, a ragionare. E’ la terra di Pirandello e di Leonardo Sciascia”.

Nel 1989  Consolo  divenne consulente del premio e, nel 1990, mentre si premiava Luisa Adorno con il libro “Arco di luminara” si dimette clamorosamente, dopo l’uccisione del giudice Livatino con la seguente motivazione: “Nel 1964, anno del suo rifiuto del premio Nobel, Jean Paul Sarte dichiarava: ‘finché ci sarà un bambino che muore di fame, non pubblicherò una sola parola’. Alla luce di questa lezione del filosofo, voglio affermare, invitando ad affermare con me, il Sindaco e il Consiglio Comunale di Grotte, il Presidente e i componenti della Giuria del premio letterario Racalmare Leonardo Sciascia: ‘ finchè in Sicilia la mafia continuerà ad uccidere, non possiamo permetterci di celebrare cerimonie letterarie sovvenzionate da pubblico denaro’. Penso che così, in questo momento, possiamo rendere onore al supremo sacrificio del giudice Rosario Livatino, omaggio alla memoria di Leonardo Sciascia, alla sua eredità morale e letteraria. Per Sciascia, si sa, la letteratura non era attività dello spirito separata dalla società, non era puro esercizio di stile, ornamento di una classe o schermo alle inadempienze dei gruppi dirigenti, ma era impegno civile, critica di contesto  politico, opposizione al potere. Quanto detto fin qui valga a chiarire il motivo della mia assenza alla cerimonia di consegna della VI edizione del premio e a dichiarare le mie dimissioni dal ruolo di consulente della giuria….”

Bufalino, che era il Presidente della giuria, rispose picche affermando che la mafia si doveva combattere con la cultura. I due litigarono e non comunicarono più.

Nel 1998 Consolo ritorna ad essere consulente del Premio e nel 1999 ne diviene Presidente con la XII edizione vinta da Fabrizia Remondino. Rimane presidente fino alla XX edizione, celebratasi nel 2007. Durante questa lunga presidenza vincono il premio, oltre alla Remondino, Maria Attanasio, Carmine Abate, Pino Di Silvestro, Maria Rosa Cutrufelli, Giovanna Giordano, Domenico Cacopardo, Amara Lakhous. Vincenzo Rabito, Silvana La Spina.

Su queste premiazioni bisogna fare un discorso a parte che ci farebbe conoscere meglio le tendenze letterarie di Consolo che capì il nuovo che avanzava e l’inserimento, nella cultura italiana, dei nuovi fermenti derivanti dalla immigrazione.

Malgrado tutto web

La mafia per Vincenzo Consolo: uno sciacallo che ci assomiglia

Vincenzo Consolo (a destra) con Leonardo Sciascia nel 1966

Vincenzo Consolo (a destra) con Leonardo Sciascia nel 1966

di Tano Grasso

Vincenzo Consolo, “Cosa Loro. Mafie tra cronaca e riflessione”, Bompiani, pp. 320, euro 18.

Sono dieci anni che Vincenzo Consolo, uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento italiano, non è più tra noi. L’editore Bompiani nel 2017 ha mandato in stampa un libro, curato con intelligenza e competenza da Nicolò Messina, che raccoglie una serie di articoli, saggi, introduzioni pubblicati su riviste e quotidiani dal 1970 al 2010, sessantaquattro pezzi ordinati cronologicamente sulle “mafie tra cronaca e riflessione”.

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Uno scrittore così intimamente legato alla sua Sicilia, con tormento, con affetto, con dolore, con speranza, non poteva non confrontarsi con la questione mafiosa che, purtroppo, in larga parte ha segnato un pezzo di storia dell’isola; e questa ambivalenza trova espressione nell’uso dell’immagine omerica dell’olivo e dell’olivastro, che aveva già dato il titolo ad uno dei suoi libri, per spiegare «il duplice atroce destino della Sicilia» (p. 257).

Consolo è stato poeta delle “profondità”, romanziere che non ha avuto mai timore a scandagliare le viscere più inquiete e meno consolatorie, e poi tentare, cercare di trovare, d’offrire spiegazioni e, come nel “Sorriso dell’ignoto marinaio”, suggerire soluzioni, vie d’uscita, a volte di fuga. Ogni suo romanzo, ogni sua parola rimanda alla Sicilia, alla sua bellezza e alle sue tragedie.

Il 23 maggio del 1992 sull’autostrada a Capaci esplode il tritolo in un Paese allo sbando, senza classe dirigente e con incerte istituzioni. Ai mesi di quell’estate rimandano le ultime pagine del romanzo “Lo Spasimo di Palermo” scritto, sin dall’inizio, con parole marchiate da sangue, dolore, malinconia, distanza: esilio dalla/nella terra dell’altra annunciata strage del 19 luglio. Bisogna partire da qui per apprezzare fino in fondo il senso di questi scritti sulla mafia, bisogna aver chiaro il rapporto dello scrittore con l’isola e con la parola decisiva: esilio.

Se la sua produzione creativa è il risultato di quella «nascita nell’isola, nell’assurdo della storica stortura, prigione dell’offesa, deserto della ragione, dissolvimento, spreco di vite, d’ogni umano bene», c’è sempre dell’altro: un carico di ragione, certamente di speranza. Nelle ultime pagine dello “Spasimo” scrive: “(Un lume occorre, una chiara luce)”, un lume timidamente indicato tra due parentesi tonde. Una fievole luce per sopravvivere? O, forse, per meglio capire. E questa luce si apre su ogni pagina di “Cosa loro”.

In un testo del luglio 2007 pubblicato sull’”Unità” in occasione dell’anniversario della strage di Via d’Amelio (“Borsellino, l’uomo che sfidò Polifemo”), quando Consolo affronta un tema cruciale riferendosi a quanti hanno creduto che la «mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati» (p. 261), si avverte quella lucida consapevolezza propria sia di Leonardo Sciascia che di Giovanni Falcone.

In “Cose di Cosa nostra” il giudice contesta l’opinione di chi pensa che la mafia sia un soggetto esterno, un nemico che da fuori minaccia i siciliani. I mafiosi sono «uomini come noi» e, conclude, «se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». Più dolente Sciascia (“La Sicilia come metafora”): «Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e “dal di dentro”; il mio “essere siciliano” soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così lottando contro la mafia io lotto contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione».

A partire dal primo intervento della raccolta, un dattiloscritto probabilmente del 1969, Consolo individua nell’assenza di fiducia nello Stato la causa del radicamento e rafforzamento della mafia; egli conosce bene l’Italia all’indomani dell’Unità quando le repressioni e «il trattamento da cittadini di seconda classe da parte del nuovo governo» (p. 14) non fanno altro che perpetuare anziché risolvere quella causa, tenendo «viva la sfiducia verso lo Stato», dando «maggior fiato alla mafia in un drammatico circolo vizioso», rinfocolando l’ostilità della popolazione «e questo, a sua volta, dava motivo per altri provvedimenti repressivi» (p. 15).

Ritorna in un altro testo del 1994 denunciando come «dopo l’impresa di Garibaldi […] la mafia rafforza ancora di più in Sicilia il suo potere, fidando su una maggiore lontananza del governo centrale e sul malcontento, sulla sfiducia nel potere costituito per le nuove leggi che impongono […] nuovi obblighi, come quello della leva militare, e pesanti tasse come quella sul macinato» (p. 158).

La mafia non è un fenomeno accidentale o casuale, continua a ricordarci Consolo, è l’effetto di precise responsabilità che chiamano in causa le classi dirigenti dell’isola e del Paese, sia nella fase di origine, sia nei decenni più recenti. Da questo punto di vista, nella riflessione dello scrittore un’attenzione particolare è riservata alla critica del “Gattopardo”. In un articolo del 1986 Consolo disvela la mistificazione ideologica del «sentenzioso romanzo che è “Il Gattopardo”».

`Noi fummo i Gattopardi e i Leoni; quelli che ci sostituiranno…», è la sentenza del Lampedusa. Ma non è stato così: «Che i gattopardi e i leoni non sono stati del tutto sostituiti, ma che essi stessi si sono trasformati in sciacalli e iene e che forse tali sono sempre stati» (p. 64). In un altro testo del 2007, più diretto è l’obiettivo polemico: «Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli» (p. 251).

La mafia era figlia di quel sistema economico e sociale, era l’effetto di concreti comportamenti delle classi dirigenti: «Tomasi di Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”, ignorava questo?» Insomma: «Al Salina o al Lampedusa, grande scrittore e sapiente letterato, vogliamo dire che sciacalletti e iene erano anche loro, i Gattopardi, consapevoli complici di quei mafiosi che agivano là, nei loro feudi» (p. 296). Era già stato molto chiaro Leopoldo Franchetti nel libro dato alle stampe nel 1877. Il giovane studioso toscano, un liberale conservatore, sottolineava le gravi responsabilità della classi “abbienti” siciliane. La relazione tra mafiosi e classe dominante è «un fenomeno complesso» ma con una certezza: se la classe dominante lo volesse la mafia verrebbe immediatamente distrutta (ha i mezzi materiali e l’autorità morale). Invece la relazione è reciproca e i destini intrecciati.

In un saggio scritto dopo la strage di Capaci Consolo spiega come sia cambiato il rapporto tra mafia e politica. Se per decenni «mafia e potere politico procedevano trionfalmente in simbiosi perfetta […] l’una e l’altro si alimentavano di un vasto consenso […] insieme poi davano e ricevevano protezione e padrinaggio al e dal potere di Roma» (p. 110), tutto cambia con quello che lo scrittore chiama «il Grande affare»: «Il devastante traffico internazionale della droga, con i suoi traffici succedanei, ha mutato il rapporto di forza tra mafia e potere politico, Cosa nostra ha finito per dominare politica, invadere industria, commercio, finanza».

Ma è cambiata anche la percezione della mafia e delle sue vittime, adesso uomini delle istituzioni, giudici, prefetti, ufficiali, politici, imprenditori. Sino al secondo dopoguerra la mafia uccideva capilega e sindacalisti che si opponevano ai gabellotti, e queste morti «provocavano dolore e rimpianto forse soltanto nel gruppo politico, nella classe da cui provenivano» (p. 126). Cambia la mafia, cambiano le vittime, cambia l’antimafia. Umberto Santino (“Storia del movimento antimafia”) sottolinea il passaggio di fase: a cambiare sono soprattutto le motivazioni dell’opposizione: se prima la lotta alla mafia si intrecciava e in larga parte si sovrapponeva al conflitto sociale e politico (antimafia sociale), dagli anni ottanta in poi il movente è l’indignazione e la rivendicazione dei valori civili (il diritto, la democrazia, la non violenza, ecc.) che non hanno una specifica connotazione di classe. Scrive Consolo: «Il dolore e il rimpianto per le vittime non ritrovavano più risonanza in un gruppo politico, in una classe sociale, ma in tutta la società civile».

Il nuovo anno da poco entrato è anche quello del trentesimo anniversario di Mani pulite. Tangentopoli, scrive efficacemente Consolo in un articolo del 1994, è la «perfetta realizzazione di un’utopia negativa» (p. 145) in cui il malaffare è divenuto elemento fisiologico, «quasi legale, sistematicamente accettato, praticato e tacitamente regolarizzato dai partiti al governo e qualche volta pure dall’opposizione»; e le leggi, vane e violate, assomigliavano sempre più «alle “gride” nella Lombardia del Seicento, la cui applicazione era sempre lasciata “all’arbitrio di Sua Eccellenza”».

L’implacabile descrizione del degrado morale del mondo politico e imprenditoriale non impedisce a Consolo di esprimere una dura, e all’epoca in controtendenza, critica alla trasmissione televisiva del processo Enimont, «un orrendo, fascinoso spettacolo». Non c’è nelle sue parole solo la rivendicazione della forza del diritto, il rifiuto della gogna mediatica, il rispetto della dignità degli imputati, c’è la denuncia di quella ipocrisia nazionale che tiene incollati al video milioni di telespettatori che non hanno mancato di dare il proprio voto ai politici processati: «Elettori-telespettatori che nello spettacolo-gogna si autoassolvono» (p. 146).

Il caso ha voluto che la scorsa domenica in allegato all’Espresso e a Repubblica venisse venduto il primo volume di una raccolta di scritti di Umberto Eco; in una delle sue “Bustine di Minerva”, commentando un altro processo, il famoso semiologo mette in guardia sul “«dovere di difendere la dignità del colpevole, che paga già in altra moneta», non esitando a parlare di «attentato alla Costituzione»: «Non vediamo la Giustizia in azione, ma la Televisione che interpreta la Giustizia».

Forza del diritto, dunque, e irriducibile denuncia di ogni ipocrisia. Nell’ottobre del 1990 su “L’Ora” in risposta ad un articolo di giornale dopo le dimissioni dal Premio Racalmare – Leonardo Sciascia, Consolo spiega il suo un inevitabile gesto di protesta: «Finché la mafia uccide in Sicilia […] non possiamo permetterci di “celebrare cerimonie letterarie sovvenzionate da pubblico denaro”». Ci sono momenti in cui bisogna saper dire “no”, non si può far finta che tutto prima o poi passi. Nella polemica, poi, mette in guardia su un altro rischio: le “cerimonie” finanziate da denaro pubblico forniscono «soltanto alibi a gravi responsabilità altrui, [danno] una mano a imbellettare ingiuriosamente i cadaveri» (p. 80). «Ci sono momenti» – questa la dolorosa consapevolezza dello scrittore – «in cui bisogna rifiutarsi di suonare e cantare in pubbliche feste o cerimonie […] perché non s’ingenerino equivoci o fraintendimenti […] per non allietare i responsabili dei mali».

Infine, qualche parola a titolo personale sul rapporto di Consolo con l’esperienza del movimento antiracket a cui sono dedicati alcuni degli articoli di “Cosa loro”. Vincenzo nella rivolta dei commercianti di Capo d’Orlando individuava una ragione di speranza che covava proprio in quei Nebrodi in cui era cresciuto e a cui ritornava ogni estate e ad ogni occasione. A partire dal famoso articolo all’indomani dell’omicidio di Libero Grassi “Morti in licenza” e, poi, dopo la sciagurata decisione del governo Berlusconi nei confronti di chi scrive e, ancora, in un saggio del 2005, Enzo è sempre stato un appassionato e affettuoso compagno di viaggio che ha saputo apprezzare quella strategia contro la solitudine e l’isolamento che è stata alla base dell’ACIO di Capo d’Orlando e continua a essere la ragione di fondo delle associazioni nate ispirandosi a quel modello. E proprio guardando a questo centro di commercianti affacciato sul Tirreno si può a ragione dire che la mafia è Cosa “loro”.

Consolo Vincenzo , l’intellettuale furioso contro i boss 

 2 novembre 2017

Nicolò Messina, docente a Valencia cura << Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione >>. Edito da Bompiani
Consolo Vincenzo , l’intellettuale furioso contro i boss
Una raccolta di articoli dello scrittore di Sant’Agata di Militello che abbracciano 40 anni, e tra le righe c’è anche il dissidio con Bufalino.

Il fenomeno mafioso osservato con sguardo (e indagato con linguaggio) da intellettuale. C’è spazio per l’analisi e per l’invettiva, oltre che per le citazioni, quando è Vincenzo Consolo a scrivere di Cosa Nostra: una sessantina di brani, datti temporalmente nell’arco di un quarantennio (1970-2010), più che altro articoli giornalistici, ma anche prefazioni e brani inediti, sono stati selezionati dal curatore Nicolò Messina, docente all’università di Valencia, e danno vita a un libro «Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione» (315 pagine, 18 euro), edito da Bompiani, tassello ulteriore del mondo di Consolo, quello della sua militanza costante e vigile nella lotta alla mafia (tanti gli interventi, principalmente su Unità, Messaggero e Corriere), militanza mai doma e duratura, se si pensa che uno degli ultimi volumi pubblicati in vita dallo scrittore scomparso cinque anni fa è stato l’atto unico «Pio La Torre, orgoglio di Sicilia», un’orazione civile edita dal Centro Studi intitolato al deputato comunista, vittima nel 1982 di un agguato mafioso con Rosario Di Salvo. Spesso sono gli eccidi dei corleonesi, la loro «ottusa spietata ferocia» ad alimentare la veemenza sulla pagina impressa da Consolo. Cadono i cadaveri sul selciato o vengono dilaniati dal tritolo e lo scrittore di Sant’Agata di Militello, incessantemente, prova a scuotere le coscienze, in modo critico e analitico eppure perentorio, con furore, oltre che con un linguaggio limpido, ovviamente lontano dalla ricerca e dalla sperimentalismo della sua prosa letteraria. Ogni articolo occasionale, spesso con spaccati storico-letterari, finisce però per far parte di un disegno complessivo e dà comunque compattezza di scrittura e pensiero al volume «Cosa loro». Che scriva dell’anatema di Giovanni Paolo II nella valle dei Templi (e di come non siano cristiani i politici che hanno stretto patti scellerati con l’organizzazione mafiosa, né i preti che ai politici mafiosi hanno procacciato voti…), dei feroci pescecani di mafia e ‘ndrangheta che azzannano l’università di Messina nel 1998, di Rita Atria o Libero Grassi, di Falcone e Borsellino, dei cugini Salvo o della strage di Portella della Ginestra, di padre Pino Puglisi, Consolo, con tormento, non assolve la «bellissima e disgraziata terra» di Sicilia da una evidente responsabilità civile. Gli unici squarci di speranza nell’Isola? Irradiati da quanti sono caduti nella lotta alla mafia e da chi la prosegue: «Sono loro l’onore di Sicilia e di tutto questo nostro paese irriconoscibile e irriconoscente». L’afflato politico e sociale del libro è preponderante, ma tra le righe si svela probabilmente anche quello che è più di un pettegolezzo letterario, il dissidio fra Consolo e Gesualdo Bufalino, esploso dopo la morte di Sciascia.

Lo scrittore di Comiso aveva confidato a più di un amico, riferendosi a Consolo: «L’ho cancellato anche dalla lista dei nemici…». La causa dello screzio? Potrebbe essere un articolo di Consolo di questo volume, scritto per il quotidiano L’Ora (in cui replicava a un fondo del Giornale di Sicilia): dopo l’uccisione del «giudice ragazzino» Rosario Livatino, da parte della Stidda, l’autore de «Il sorriso dell’ignoto marinaio» invitava gli organizzatori del premio Racalmare- Sciascia a dimettersi, a non celebrare «cerimonie letterarie sovvenzionate da denaro pubblico». Scrivendo di Bufalino, presidente della giuria («ricevendo premi non ha mai guardato, contrariamente a come faceva Sciascia, da quali mano gli arrivavano…»), Consolo aveva affondato ulteriormente il colpo. Per ironia della sorte i due, dopo questo libro postumo di Consolo, sono nello stesso catalogo: Bompiani pubblica le opere principali di Bufalino.

 di Salvatore Lo Iacono
Giornale di Sicilia
Giovedì 2 novembre 2017
ripreso dal:
Centro di studi e iniziative culturali Pio La Torre
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Consolo scrittura antimafia

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S’intitola Cosa loro, l’ha appena pubblicato Bompiani (pp. 318, euro 18.00), e raccoglie una scelta di 64 articoli ricavata, come scrive il curatore Nicolò Messina, dall’«ottantina» che Vincenzo Consolo scrisse sulla mafia, taluni ancora inediti, tra il 1969 e il 2010, e cioè due anni prima di morire. In appendice, utilissimi, Altre notizie sui testi e il Regesto, ovvero la bibliografia completa anche di tutti i pezzi esclusi. In un modo o nell’altro, ci sfilano davanti i protagonisti d’un capitolo insieme doloroso ed eroico della storia siciliana, che però è metafora della nazione tutta, da Luciano Leggio, noto come Liggio, a Pio La Torre. In mezzo: Pantaleone, Falcone e Borsellino; Riina e Brusca; i cugini Salvo e Lima; Cuffaro, Lombardo e Dell’Utri; Enzo Sellerio, Letizia Battaglia e tanti altri ancora. Fa piacere notare che -se si eccettua il dattiloscritto datato dal curatore, ma non con certezza assoluta, nel 1969- i primi due articoli pubblicati entrambi nel 1970, su Liggio e Il Padrino di Mario Puzo, sono apparsi proprio qui, sulle colonne di Avvenire. E’ chiaro che, come recita il sottotitolo (Mafie tra cronaca e riflessione), si tratta di prosa giornalistica e interventi civili, di quella che, in un dattiloscritto del 1985, Consolo stesso, tenendola per altro in gran conto, chiama «scrittura di presenza» (di testimonianza e denunzia), ovvero «una scrittura militante interamente liberata dallo stile», in virtù della quale l’intellettuale si sostituisce allo scrittore. Una scrittura -aggiunge poi Consolo- che «sembra ormai caduta in disuso», proprio nel momento in cui -e mi pare perfetta diagnosi storico-antropologica-, nei piani alti della letteratura, e paradossalmente, «la verticalità dello stile inclina pericolosamente verso l’orizzontalità», in cui tutto si uniforma e omologa, sino a coincidere con il linguaggio «dell’informazione».

Ho detto che siamo di fronte perlopiù ad articoli di cronaca: ma stiamo attenti. Perché il talento dello scrittore sfugge spesso al controllo vigile del militante. Forte, seppure repressa, resta la tentazione della metafora, e sempre sul punto d’innesco -per fortuna- la vocazione narrativa. Così, per fare un esempio, su Ignazio Salvo, “il ministro”, nell’aula del processo, dopo la morte del cugino Nino, in un articolo del 1986: «Ma non aveva più quella patina lustra di un tempo, era pallido e imbiancato come se una raffica di polvere l’avesse investito». Per non dire di quella disposizione all’invettiva che, non di rado, erompe nei suoi libri d’invenzione. E’ il 1982, su Salemi: «paese terribile, di predoni e d’assassini, nemici di Cristo e amici di Caifa, paese estremo, desolato, posto su nude, riarse colline di gesso». Consolo in effetti, senza però mai recedere dagli imperativi morali e politici, non perde occasione per aprire parentesi, per divagare in funzione narrativa, per lasciarsi andare al ritratto, in modo da servire, quando possibile -persino dalla trincea di un’aula di giustizia-, le ragioni della letteratura. Cito proprio dal primo articolo apparso su Avvenire, propiziato dalla scomparsa di Liggio da una clinica romana, «senza lasciare traccia di sé», dopo la clamorosa assoluzione per insufficienza di prove «dall’imputazione di associazione per delinquere e da una serie di omicidi (nove) e di un tentato omicidio per non aver commesso il fatto». Ecco: «Abbiamo raccontato il fatto con estrema sintesi, perché vogliamo parlare più particolarmente, per ragioni “letterarie”, d’un personaggio che nella storia di Liggio entra ogni tanto per poi sparire e di cui la stampa poco si è occupata».

La letteratura, insomma. E, se si vuole, il romanzo, seppure allo stato latente: quando è vero che, a entrare ora in scena, come arrivasse da un romanzo di Simenon, sarà un funzionario di polizia poco noto che risponde al nome di Angelo Mangano, «un gigante di due metri», il quale, cinque anni prima, d’origine siciliana ma trasferito da Genova a Corleone, in soli sei mesi riesce a catturare il capomafia. Lo intercetta, Consolo, in un libro di Dominique Fernandez, Les événements de Palerme e in pochissime pagine ne fa leggenda: quella d’un investigatore che procede implacabile, con conseguenzialità quasi matematica, mentre ottiene lo straordinario risultato di riconciliare con le istituzioni, diventandone come l’eroe, un paese riluttante e risentito, terrorizzato e omertoso. Ma intendiamoci: questi qui restano tentazioni e scantonamenti, mere parentesi. E’ evidente sin da subito, infatti, che Consolo guarda a Sciascia come maestro di razionalità, senza però seguirlo in quegli esiti formali di scrittura spuria, nutrita di saggismo, nobilmente elzeviristica, che avrebbero anticipato, in opere come -per citarne solo alcune- Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), La scomparsa di Majorana (1975), L’affaire Moro (1978), tanta narrativa non finzionale dei nostri anni. Nessuna intenzione, da parte di Consolo, di dismettere il cilicio della «scrittura di presenza», di concedere qualche chance alle ragioni dello stile, sacrificando la nuda e cronachistica referenza della verità. E tutto questo proprio per preservare le differenze, che non sono solo e banalmente di genere letterario, ma estetiche e ontologiche, quando è vero che, se entriamo nel dominio del romanzo, l’estetica e l’ontologia coincidono: come dimostra in modo eclatante e coerente tutta la vicenda del Consolo narratore, da La ferità dell’aprile (1963) a Lo spasimo di Palermo (1998), passando per  quel capolavoro assoluto che è Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976).

Che cosa voglio dire con ciò? Che per Consolo -il quale ha alle spalle la parola-giustizia di Vittorini, le alchimie liriche di Piccolo, le oltranze ritmiche di D’Arrigo- la letteratura più vera resta sempre consegnata a un’oltranza prosodica e a una scommessa di stile. Se gli si chiedeva quale scrittore sentisse a sé più vicino, la sua risposta, infatti, correva al nome d’un poeta: Andrea Zanzotto.

                                                                Massimo Onofri

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