La conversazione interrotta

Vincenzo Consolo

   Subito una citazione, un’epigrafe da porre idealmente sul frontespizio di questo numero di Nuove Effemeridi dedicato a Leonardo Sciascia. È un azzardo la mia scelta, perché lo scrittore, di sconfinata cultura e d’inarrivabile gusto, era fra l’altro maestro delle epigrafi, delle citazioni, dei rimandi, delle concatenazioni, degli infiniti echi letterari. Ma la mia epigrafe si giustifica per il fatto di essere di Borges, uno degli scrittori più amati da Sciascia. È una lirica, tratta da Fervore di Buenos Aires, intitolata Rimorso per qualsiasi morte:

    “Libero dalla memoria e dalla speranza,

illimitato, astratto, quasi futuro,

il morto non è morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,

del Quale si devono negare tutti i predicati,

il morto ubiquamente estraneo

non è che la perdizione e l’assenza del mondo.

Tutto gli derubiamo,

non gli lasciamo né colore né una sillaba…”

   Rimorso per qualsiasi morte, rimpianto per qualsiasi persona che non è più fra noi, con noi. Ma maggior rimorso e rimpianto, è innegabile, quando quella persona era per tutti illuminazione e insegnamento, coscienza ed esempio, probità e sapienza, fantasia e impegno… Così com’era Leonardo Sciascia, come dovrebbero essere i veri grandi scrittori. I quali non compaiono numerosi sulla scena della storia, e ancor più rari diventano in questa nostra epoca in cui tutto congiura per far allontanare dal mondo intelligenza e conoscenza, memoria e poesia.

   L’antologia di scritti di Nuove Effemeridi, stesi al momento emozionale della scomparsa dello scrittore, non è che un segno minimo – minimo perché immediato – di ciò che quest’uomo per noi, per la nostra sfera socio-culturale ha significato. Il tempo, il grande Tempo (“Che non consumi tu / tempo vorace” scrivevano come epigrafe gli incisori di paesaggi con rovine), il tempo confermerà, ahinoi, verità e grandezza alla sua opera, a quel prezioso e generoso patrimonio che ci ha lasciato. Come ha dato, il tempo, l’orrore, lo sgomento moderno della vita e della storia, verità e grandezza all’opera di Kafka; come ha dato, il tempo, la crisi, lo smarrimento dell’identità individuale e sociale, la perdita d’ogni certezza culturale e ideologica della nostra epoca, sempre più verità e grandezza all’opera di Pirandello.

   Difficile parlare delle tantissime voci che affollano questa antologia. Voci italiane di amici, di estimatori, di consonanti o di dissonanti con e dallo scrittore; e voci francesi, spagnole, tedesche, inglesi. Tuttavia non possiamo esimerci dal fare qualche osservazione, qualche commento brevissimo su alcune affermazioni contenute in questa preziosa documentazione. Non siamo d’accordo con l’analisi di Moravia, su quel procedere che egli vede in Sciascia, contrariamente al naturale processo illuminista o razionalista, dalla chiarezza verso l’oscurità. Per noi è sbagliato enunciare questa analisi senza aggiungere che il quai des brumes, il porto delle caligini, l’approdo nell’oscurità e nel mistero non è di Sciascia ma del mondo, della storia, del potere che muove la storia, e lo scrittore non fa che rappresentarlo, che denunciarlo, così come Gadda rappresentava il barocchismo del mondo.

   Vogliamo sottolineare la limpidezza d’animo e di mente, l’onestà personale e intellettuale che traspare dallo scritto di Emanuele Macaluso. E ancora la fideistica, inscalfibile convinzione di un critico letterario, peraltro fine, come Lorenzo Mondo, contro ogni prova provata, ogni confessione e testimonianza giudiziaria dei protagonisti, contro quanto sùbito intuito e sostenuto da Sciascia nel suo libro, che le lettere scritte da Moro nella prigione delle Brigate Rosse non erano di testa e di mano dello statista poi assassinato. Meglio non sottolineare invece, nel brano di Enzo Forcella dal titolo Due facce della medaglia, pubblicato da Repubblica, il tipico coraggio che viene a certe persone, riproponendo una polemica ormai sopita, nel momento in cui il sostenitore della tesi opposta viene a mancare ed è quindi nell’impossibilità di controbattere. La polemica è quella nota su Moro, sulla sorte di Moro. E se ne esce il giornalista, con una frase di involontaria, cinica ironia. Dice con la sicumera che gli viene dall’alto del potere del giornale per cui scrive: “Ma sul contrasto tra ‘intransigenti’ e ‘trattativisti’, avrebbe dovuto rendersi conto (Sciascia, naturalmente), proprio in nome della sua concezione laica e problematica della vita, che si trattava di una decisione politica e come tale opinabile”.  Concezione problematica della vita dice: e il problema era lì, proprio lì la vita di un uomo, di Aldo Moro, il problema era quello di salvare quella vita, contro le strategie della politica, contro la decisione del potere.

    Ma torniamo all’intelligenza, di quella della testa e di quella del cuore. Allora non possiamo non ricordare i lucidi brani dei francesi, di Fusco, di Fernandez, di Bianciotti e di Schifano, che sentono lo scrittore loro confratello di intelletto e di formazione, di metodo e di stile. Come confratello di fantasia e di passione, familiare per natura e per cultura lo sentono gli Spagnoli: Arias, Conte, Cruz, Gàandara, Savater, Barràl.

    E infine non possiamo non ricordare i bellissimi brani degli amici, di quelli che da vicino, giorno dopo giorno, hanno imparato a conoscere quest’uomo e questo scrittore e ad amarlo. Non possiamo non ricordare il racconto straordinario dell’incontro, a Castellina in Chianti, di Sciascia, la sua famiglia e Fabrizio Clerici, della scoperta, da parte dello scrittore, nella chiesa accanto alla casa del pittore, del quadro della tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, che sarà certo l’esca che incendierà il racconto Todo Modo e che farà da copertina al libro.

    Non possiamo dimenticare il tono commosso e commovente delle parole di Elvira Sellerio, che con Enzo Sellerio e con Sciascia e per Sciascia, ha creato qui a Palermo, in Sicilia, uno dei fatti più straordinari e più memorabili di questi anni: la casa editrice Sellerio. Altro non so dire, mi è difficile dire. Posso solo ora aggiungere, a queste pagine, qualche mia pagina, scritta nel linguaggio che mi è più congeniale, più agevole: quello memoriale, narrativo.

Viaggio a Caltanissetta

    Era l’ottobre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto, o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Demone, la Sicilia ai piedi della barriera appenninica dei Nebrodi e delle Madonie, la Sicilia tirrenica, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti: la Sicilia delle grandi terre, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti.

    Su un camion sgangherato, io e mio padre, percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti, quasi tutti i ponti, erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi, fangosi, polverosi o sopra fragili ponti di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia.    La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie (le famose lenticchie di Villalba) che da noi, terra di limoni e di olive, mancavano del tutto. Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica e nobile Sicilia contadina che neanche lo strazio della guerra era riuscita a cancellare.

    Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo, un tardo pomeriggio, a Caltanissetta.

    Nella piazza Garibaldi, affollata di gente (forse la stessa piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce “implorante e ironica” del venditore di panelle di Il giorno della civetta), nella piazza un uomo vendeva un giornale.  “La forbice, La forbice!” strillava l’uomo. Nella mia sapienza morfologica di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me il dialettismo di quel nome di giornale al singolare, non intuendone la sua valenza metaforica: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo l’interdizione del periodo fascista e l’interruzione della guerra.

    Il mio secondo viaggio a Caltanissetta avvenne alla fine di luglio del ’64 quando giunsi in treno dal mio paese in questa città, con dentro ancora vivo il ricordo del primo viaggio di venti anni prima, per incontrare Leonardo Sciascia.

    Nell’isolamento e nella solitudine del paese, nel vuoto storico d’una

zona fortemente segnata dalla natura ma non dalla cultura, era grande la necessità – al di là delle letture – di frequentazioni e di conversazioni, di confronti e di verifiche, di consigli e di apprendimento.

    Nell’imprevedibile gioco del caso, avevo avuto la ventura, e la fortuna, dentro l’immobile vastità dello spazio e dentro l’infinito scorrere del tempo, nella esigua geometria di quest’Isola e nel tempo breve d’una vita umana, di trovarmi ad essere conterraneo e contemporaneo di due grandi uomini, di un poeta e di uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

    A causa della vicinanza, frequentai per molto tempo il poeta di Capo d’Orlando. Ma, al di là della fascinazione e del rapimento della poesia (e quella di Piccolo era particolarmente rapinosa; e il poeta, il personaggio, straordinariamente affascinante e trascinante) sentivo il bisogno, per difesa e forse anche per vocazione della prosa, d’una scrittura scandita dalla logica, d’una narrazione sorto dalla realtà e dalla storia. La prosa che avevo letto sulle pagine che giungevano dal cuore della Sicilia, dalla piazza dove un giorno lontano avevo udito un uomo strillare un giornale intitolato La Forbice, da questa città, fra tutte in Sicilia crediamo la più carica e la più consapevole di e della storia, della storia intendiamo come superamento, attraverso lo scontro dialettico, delle carenze, degli squilibri di una comunità civile; la prosa, i racconti che avevo letto nei libri – allora ancora pochi -, nuovi, straordinari, straordinariamente ricchi di futuro, di Leonardo Sciascia.

    Per conoscere questo grande scrittore e – scoprii dopo – questo grande uomo, feci il mio secondo viaggio a Caltanissetta. E dietro invito dello stesso scrittore, scaturito dalle fragili credenziali del mio racconto, pubblicato nel ’63, a lui inviato e in cui, nella dedica, professavo il mio debito ai suoi libri, al suo insegnamento, alla alta, civile sua conversazione in Sicilia.  

Una conversazione in Sicilia

    C’è un testo importante nella storia della letteratura italiana contemporanea, un testo che ha formato e a cui si è conformata una generazione di scrittori: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.

   Perché “conversazione”? Certo, conversazione tra Silvestro e la madre Concezione, tra Silvestro e il fratello morto, tra Silvestro e il panniere, l’arrotino e tutti i personaggi che il protagonista incontra nel suo viaggio nella terra dell’infanzia, nella sua discesa agli “inferi”; “conversazione” anche, crediamo, come memoria di domenicali piazze siciliane ferventi di brulichio e brusio, al pari di alberi che, in certe ore della giornata, sono invasi da nugoli di uccelli (la piazza del bel paese di Nicosia e la piazza di Caltanissetta, affollata di uomini in tabarro e coppola, che Vittorini farà fotografare a Luigi Crocenzi per l’edizione illustrata del 1953 del suo romanzo); ma “conversazione” ancora come riferimento culturale: alle sacre conversazioni di tanta pittura italiana, e soprattutto, pensiamo, alla conversazione “dentro” la Flagellazione di Piero della Francesca, su cui ha indagato Carlo Ginzburg. Il quale scrive: “La scena della flagellazione di Cristo è immediatamente riconoscibile, ma si svolge in secondo piano e lateralmente. Una grande distanza, resa da Piero con maestria prospettica straordinaria, separa il Cristo da tre misteriosi personaggi in primo piano”. I tre personaggi, che regalano in secondo piano la scena sacra, conversano, e sembra, la loro, una conversazione filosofica.

Ora, al di là della identificazione dei tre personaggi e del significato da dare a tutta la scena, ci sembra importante questo spostamento di piano dal sacro al profano, dal divino all’umano, dal dramma alla speculazione.

    Nella Conversazione di Vittorini c’è anche, attraverso il dispiegamento dei dialoghi, che tendono, come dice Calvino, “a realizzare una comunicazione assoluta, una convivenza umana ideale”, c’è anche questa intenzione, questo tentativo di uscire dal divino e approdare all’umano, uscire cioè dal mito e approdare alla realtà, dalla natura alla storia, dal passato al presente, dalla memoria alla contingenza, dalla immobilità all’azione: infine, dal simbolismo alla metafora. Non ci interessa qui stabilire fino a che punto Vittorini ci sia riuscito, fino a che punto la “conversazione” releghi in secondo piano il mito senza fratture prospettiche, senza volontaristici scarti, fino a che punto sia piuttosto la sua un’uscita dal mito per approdare all’utopia (che si mostrerà poi in tutta evidenza ne Le città del mondo); utopia che, oltre ad essere un progetto chiuso, conservativo, come ci avverte Lewis Mumford, è ancora mito, mito del futuro speculare a quello del passato, destinato anch’esso a infrangersi contro gli scogli della storia.

    Vittorini aveva scritto Conversazione anche, crediamo, contro la concezione deterministica, antistorica verghiana, contro il 2mito2 letterario di Verga (non è stato Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una successione di uccisioni di padri?).

    A piazze siciliane, accennavamo sopra. Quelle praticate da Vittorini e dai vittoriniani, le piazze dei paesi della parte orientale dell’Isola, del Messinese, del Catanese, del Siracusano o del Ragusano, sono quasi sempre piazze “belle”, ricostruite, dopo un qualche disastro della natura – eruzione di vulcano o terremoto -, secondo un progetto e con un’aspirazione alla bellezza e all’armonia (le piazze barocche) o sono “spiazzi” di sperduti villaggi contadini o di masserie, luoghi privi di segni storici, assolutamente “naturali”.  Le “conversazioni” allora, in quelle piazze e in quegli spiazzi, si scostano man mano dalla comunicazione e tendono verso l’espressione, si formalizzano, si stilizzano, abbandonano man mano il rigore logico della prosa e si spostano verso i fraseggi del canto, i ritmi della poesia.  Le piazze dell’Occidente siciliano, e soprattutto quelle della zona delle zolfare, del Nisseno e dell’Agrigentino, al contrario, sono piazze “brutte”, nate senza un progetto architettonico, ma spontaneamente da una necessità, dove gli edifici, non più in arenaria dorata come a Noto, a Scicli o a Siracusa, sono in grigiastra pietra gessosa.  In queste piazze di paesi agrigentini dello zolfo, come Grotte o Racalmuto, dove alla vecchia cultura contadina s’era sostituita la nuova cultura operaia dei minatori, la “conversazione” nasce da una necessità sociale, si svolge nel modo più secco e disadorno, più diretto e chiaro, più logico e dialettico.  Ci è capitato di affermarlo più volte e con noi il critico Claude Ambroise: se non si può capire uno scrittore come Pirandello senza la realtà della zolfara, tanto meno si può capire uno scrittore come Leonardo Sciascia (ché lui ha mosso questo nostro discorso partito da lontano), questo scrittore letteratissimo e antiletterario, antimitico e antilirico, loico e laico, civile e “politico”, questo grande scrittore da poco scomparso.

    Tutta l’opera di Sciascia è una necessaria, essenziale, lucida e serrata – anche se man mano sempre più disperata – conversazione in Sicilia.  Una conversazione, questa volta sì, che tende “a realizzare una comunicazione assoluta”, una convivenza sociale, piuttosto che ideale, vale a dire utopica, più giusta, vale a dire più umana: una convivenza dove nessuno, individuo, Stato, o potere d’ogni tipo, politico, giudiziario, religioso o finanziario deve infrangere le regole della convivenza sociale, deve offendere il cittadino, l’uomo.  Una conversazione che ha le sue radici nel profondo della miniera, che dal profondo emergendo, come Ciàula che scopre la luna, nonché trovare conforto nella “chiarità d’argento”, trova forza nella luce diurna della ragione: luce solare, cruda, che, come in un quadro di Picasso, scandisce i piani e rivela la natura cubica della realtà.

    Con Sciascia, la società ideale e utopica è posta “in secondo piano e lateralmente”; la conversazione, per consapevolezza storica e per pratica della realtà distanziata “con maestria prospettica straordinaria” dagli assoluti, si svolge intorno al relativo e al contingente.

   È stato detto più volte, e lo dice lo stesso Sciascia, che tutta la sua “poetica” – e usiamo la parola nel senso etimologico, nel senso cioè del fare – è contenuta nel primo libro: Le parrocchie di Regalpetra. E in effetti lì si trovano tutti i temi che Sciascia svilupperà negli altri suoi libri. E vogliamo osservare qui che è raro trovare in un autore, sin dagli esordi, una così sicura scelta di campo, di campo letterario, e ad essa rimanere fedele; trovare un tono, un linguaggio, una scrittura così impostata sin dall’inizio, così certa e inconfondibile. Per quest’ultima, Sciascia stesso scrive: ”non ho mai avuto problemi di espressione, di forma, se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica (per cui, ad esempio, mi importa più di seguire l’evoluzione del romanzo poliziesco che il corso delle teorie estetiche)”. Per quanto riguarda i temi, scrive ancora: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di colore che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”.  Un unico libro sulla Sicilia, dunque: partendo, come nell’esordio, sempre da Regalpetra, da Racalmuto. Da Racalmuto snodando quel filo ad alta tensione che attraversa la Sicilia, l’Italia, tutto il contesto socio-culturale in cui si trova immerso il destinatario della sua narrazione o del suo ragionamento. Dove si trova il suo interlocutore.

    Ora, c’è un luogo in Regalpetra, un luogo privilegiato da cui si osserva la realtà sociale, in cui di essa realtà si conversa: il Circolo della Concordia. Concordia come sanzione della ricomposizione di una discordia: nel 1866 il circolo era stato bruciato dalla popolazione che vedeva nei civili, nei nobili degli antagonisti, dei dispensatori di ingiustizie. Un circolo quindi non come luogo di scontro emozionale ed irrazionale, come oggetto di violenza, ma come luogo di conversazione, di scontro dialettico, come immagine, come rappresentazione e teatro della democrazia parlamentare: il migliore dei sistemi possibili di convivenza civile. Nel circolo lo scrittore sta ad osservare e ad ascoltare, nel circolo e del circolo conversa lucidamente, criticamente, ironicamente; del circolo registra le vicende, le involuzioni e le evoluzioni, i periodi di apertura democratica e di chiusura.

    Il patto concordatario su cui si fonda il circolo, lo stato democratico, viene violato quando, chi ha la responsabilità della sua gestione (individui, organi o gruppi di potere), agisce contro lo Statuto: da cui i temi sciasciani del potere politico e del potere giudiziario degenerati, il tema di organizzazioni criminali come la mafia che minano lo statuto. E da qui, quando alla degenerazione segue l’omicidio (il massimo dell’infrazione sociale perché viola il primo e sommo principio del patto sociale: il rispetto della vita umana), da qui l’interesse di Sciascia per il romanzo poliziesco, la narrazione di più alto valore civile.  Perché l’indagine poliziesca non è che il tentativo di ricucire i fili dello strappo, operato nel tessuto sociale, attraverso l’individuazione e la condanna del colpevole. Ma così non vanno le cose in Sicilia, in Italia, dove l’omicidio non è che l’ultima manifestazione di una serie di delitti che il potere politico degenerato mette in atto attraverso quel suo braccio armato che è la mafia.  L’individuazione dell’assassino o degli assassini comporta l’individuazione dei mandanti, comporta l’indagine del potere su se stesso (come in quel romanzo giallo di Fernand Crommelynck che si chiama Monsieur Larose est-il l’assasin?), la messa sotto accusa di se stesso e la sua condanna. Nei gialli di Sciascia dunque gli assassini non sono quasi mai individuati e mai puniti perché vi si tratta di delitti politici, perché i suoi sono gialli politici.

   Tra il ’61 e il ’74 Sciascia pubblica quattro romanzi gialli: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo Modo. Attraverso essi si può vedere la storia dell’Italia di quegli anni, il processo di degenerazione del potere politico e degli organi dello stato parallelamente all’evolversi e all’ingigantirsi di quel fenomeno, di quel cancro della società civile che è la mafia, che sul corpo dello stato sembra aver operato la sua metastasi.

    Dei quattro, il libro di più alta tensione politica e letteraria ci sembra Todo Modo (“Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia”, scriverà Pasolini).  In quel libro lo scrittore va al cuore del potere politico in Italia, al cuore del potere di un partito; alla matrice metafisica a cui il partito si ispira e da cui deriva il suo potere; e nel momento critico in cui i più alti rappresentanti di quel potere manifestano la loro fede nella metafisica attraverso gli esercizi spirituali. Ma tutto il romanzo, come nella realtà, è rovesciato: la metafisica del bene diventa la metafisica del male; il Diavolo prende il posto di Dio; gli esercizi spirituali diventano esercizi criminali.

    Il testo è ricchissimo di intertestualità, di riferimenti, di significati espliciti e impliciti. Il personaggio narrante, un pittore, è “nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto (dice) che tra le pagine lo scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti)”. Parte dunque da Agrigento, da Racalmuto la narrazione. E da qui il protagonista, uomo solo – ripercorrendo à rebours tutta una catena di casualità e riapprodando all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza, appunto con la frase o tema musicale di Giacomo De Benedetti nella mente – compie un suo atto di libertà e parte.

    Ma occorre qui citare il passo che Giacomo De Benedetti scrive riguardo al mondo pirandelliano e da cui Sciascia muove per iniziare la sua narrazione: “A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di casualità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe riassumere l’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo”. Parte dunque, dicevamo, il protagonista di Todo Modo, e dopo tre giorni di vagabondaggio in macchina, arriva all’eremo di Zater. Qui la possibilità musicale è fermata dal frastuono di un concerto di pallottole, tonde e levigate come quelle parole per tre volte iterate da Sant’Ignazio nella Primera anotaciòn dei suoi Esercizi Spirituali: “Todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina…”: esercizi, metodo, iniziazione, portano verso il cammino della noche oscura, la teologia mistica, la contemplazione. Vogliamo qui subito soffermarci sulla frase à rebours. A rebours ci richiama alla mente il titolo del famoso romanzo di Huysmans, il padre della letteratura decadente francese, autore anche di Làbas, dove “esplora le provincie più tenebrose e remote del satanismo”, come dice Praz. Non siamo, come si vede, nel cattolicesimo di Manzoni o di Pascal, ma in quello decadente e decaduto (anche a livello stilistico o linguistico) che porta all’oscurità, alla disgregazione, all’annientamento; porta sulla zattera della Medusa; perché, dice don Gaetano, il deuteragonista, “il naufragio c’è già stato” e il secolo, il mondo, per i cattolici, “è l’orlo dell’abisso: dentro e fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso”.

    Mai, come in questo libro, la struttura gialla del racconto si è attagliata

All’argomento, dialetticamente, come costruzione razionale contro la disgregazione della ragione, l’indagine contro lo sgomento, la memoria contro l’oblio, la cultura contro l’ignoranza, il logos, la parola contro l’inesprimibile, il silenzio. Ma è questo, al contempo, il giallo più misterioso di Sciascia, dove cioè non è più possibile l’individuazione dell’assassino perché la ragione indagativa si arresta davanti al muro della metafisica: metafisica religiosa e metafisica del potere. Allora siamo, qui si, sulla zattera della Medusa dove può esplodere il cannibalismo, ma siamo anche nell’ambito letterario, l’unico dove ancora si può “immaginare e fare”, dove l’autore o l’io narrante, in un gesto di libertà e di liberazione, come quello del gidiano Lafcadio, può assurgere ad angelo sterminatore, angelo giustiziere.

    In Todo modo, come in altri libri di Sciascia, ci sono come delle anticipazioni (profezie sono state chiamate) di fatti che nella realtà puntualmente accadranno, sono accaduti. Todo modo dunque anticipa fatti e genera necessariamente altri due libri: Candido (1977) e L’affaire Moro (1978).

    Per quanto riguarda Candido, c’è in Todo modo come l’autocitazione, se pure antifrasticamente, di un libro a venire. Dice il narratore: “E forse si possono oggi scrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro non si fa […] Tutti. Tranne Candide”. I fatti, i fatti italiani, costringeranno invece il nostro scrittore a riscrivere anche Candide: Candidoovvero un sogno fatto in Sicilia. Quei fatti che lo costringeranno a scrivere anche, dolorosamente, pietosamente, di quel morto ammazzato sulla zattera della Medusa che è stato Aldo Moro.

    L’affaire Moro, la militanza politica e l’impegno civile al Parlamento italiano di Sciascia, che si conclude con la sua stesura della relazione di minoranza della commissione parlamentare sul “Caso Moro”, sembrano segnare una svolta nell’itinerario letterario di Sciascia. Lo scrittore sembra

rinunziare alla narrazione, al racconto cosiddetto “puro”. Rinunziare alle sue celebri e magistrali narrazioni “gialle” o poliziesche che leggevano, interpretavano o divinavano la realtà politica e civile contingente e futura. Il mondo, il mondo civile sembra dire lo scrittore, si è fatto così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale che non è più possibile, stando nella piazza, al circolo, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che, con mortale rischio morale, non si voglia scendere nei giardini sotterranei, nei bui meandri del potere di misteriose e criminose sette di balzachiani Devorants.

    I cultori della romanzeria, i fanatici della letterarietà rimproverano allo scrittore la sua ritrazione, la sua rinunzia al romanzo sull’attualità, imputando questa ritrazione, piuttosto che a nobile inquietudine, a crisi morale, a una banale stanchezza artistica o espressiva. Invece, dal ’78 in poi, l’attività letteraria di Sciascia, al di fuori e contro la cosiddetta narrazione pura, è quanto mai fervida e ricca di frutti. Il suo ritorno alla narrazione di tipo storico, come Dalle parti degli infedeli o Il teatro della memoria, La strega e il capitano o Una sentenza memorabile, 1912+1 o Porte aperte, il suo ritorno alla saggistica con Nero su Nero, Cruciverba, Stendhal e la Sicilia o Alfabeto pirandelliano; la sua ricognizione memorabile come Kermesse o Occhio di capra segnano le punte più alte dell’intelligenza, della sapienza e, perché no?, della poesia, l’aspra poesia di Leonardo Sciascia.

    Nel decennio tra il 1979 e il 1989, mentre lo scrittore si rifugiava nelle sue narrazioni storiche, nei suoi saggi e nelle sue memorie, sembrava che il cancro, contemporaneamente, continuasse a divorare parallelamente l’uomo. Il cancro dell’uomo si faceva metafora del cancro della società e viceversa.

    Parlavamo sopra di solitudine e di disperazione dello scrittore (ma che ha sempre sperato nella forza della ragione, nella funzione della scrittura), solitudine e disperazione che sono evidenti (è la parola giusta) negli ultimi suoi due racconti: finale e struggente passo d’addio; estremo, sottile e tragico ritorno al racconto: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice.

    Evidenti attraverso due citazioni iconografiche: rispettivamente di Dürer e di Klinger. Amava le incisioni, Sciascia, le gravures (e i due termini, l’italiano e il francese, certamente per lui si caricavano di altro significato), e amava soprattutto le acqueforti e le puntesecche (ancora altri termini significativi) che, con il loro segno nero, si potevano accostare alla scrittura; una scrittura che, passando dal negativo della lastra inchiostrata al positivo del foglio bianco, portava in sé una componente di imprevisto, poteva acquistare altro senso al di là delle intenzioni, e della mano, dell’artista. Era per lui, l’incisione, l’affascinante scrittura iconica più simile alla scrittura segnica, l’acquaforte più simile allo scrivere: allo scrivere che è “imprevedibile quanto il vivere”.

    Una famosa incisione del Dürer fa da leitmotiv a Il cavaliere e la morte. “Si era ormai abituato ad averla di fronte, nelle tante ore d’ufficio. Il cavaliere, la morte e il diavolo. Dietro, sul cartone di protezione, c’erano i titoli, vergati a matita, in tedesco e in francese: Ritter, Tod und Teufel; Le chevalier, la mort ed le diable. E misteriosamente: Christ? Savonarole? Il collezionista o il mercante che si era interrogato su quei nomi pensava forse che l’uno o l’altro Dürer avesse voluto simboleggiare nel cavaliere?”.  Queste considerazioni sull’incisione di Dürer sono del protagonista del racconto, Vice (questore), condannato a morire da una inesorabile malattia, ma ucciso prima dal potere politico-mafioso.  Quel cavaliere del Dürer (inciso dall’artista tedesco insieme al San Gerolamo nello studio e alla Melanconia I tra il 1513 e 1514: le tre incisioni maestre sono state chiamate) ha suscitato pagine di riflessioni, suggestive interpretazioni al grande critico Panofsky, ha dato modo all’italianista Lea Ritter Santini (Le immagini incrociate) di rimandare a tanti scrittori, filosofi che con quell’immagine si sono incontrati: Nietzsche, Mann, Hofmannsthal, D’Annunzio…

    Per noi quel cavaliere del Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo. L’inquietante Max Klinger (un Klinger che ha letto Poe e che è stato letto da Hitchcock), Sciascia cita nel suo ultimo racconto il congedo, Una storia semplice : “L’interruttore. Il guanto. Il brigadiere nulla sapeva, né l’avrebbe apprezzata, di una famosa serie di incisioni di Max Klinger appunto, intitolata Un guanto, ma nella sua mente il guanto del commissario trascorreva, trasvolava, si impennava come allora nella fantasia di Max Klinger”.

    Non un guanto ma, come per traslitterazione, neri uccelli volteggiavano sopra quel cavaliere disarcionato che sta per morire, che muore. I neri uccelli del potere, fra cui, il più sinistro e il più famelico o divorante, un goyesco “buitre carnivoro”.

    Sorvolando sopra quei corvi e quell’avvoltoio, anche se non siamo dotati di ali, consideriamo qui la caduta del cavaliere lungo il cammino verso la città “relegata in secondo piano”, verso la città ideale.  Consideriamo la sua grande, civile, generosa conversazione intrattenuta con noi, per noi, e ora interrotta. Ma nel suo silenzio, come nel silenzio di tutti i veri scrittori e veri poeti che ci hanno lasciati, se non vogliamo essere sopraffatti e storditi dal chiasso del mondo, cerchiamo di risentire le sue parole. Cerchiamo di non dimenticarle. Parole limpide, di luce, che ci giungono dalla periferia dell’Europa, dal cuore di un’isola sperduta e perduta; parole sorte tra uomini neri, che odorano di zolfo.

“Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro, pietà ed amore

trovavano antiche parole”.

     Così Sciascia in una lirica della sua giovinezza.

Questo testo è stato letto il 5 aprile allo Steri di Palermo in occasione della presentazione del n. 9 di “Nuove Effemeridi”, interamente dedicato alla figura e all’opera di Leonardo Sciascia.


Saggio introduttivo per il libro “Gli Arabi paesani, inchiesta sui giovani di oggi.

“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!” declamava alla prima seduta dell’Assemblea regionale il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nel- la sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Velasquez che raccontano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e viceré, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici: a sinistra i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro democristiani e separatisti; a destra monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, quel cardinale Ernesto Ruffini che implorerà “di cuore sul nuovo Parlamento siciliano l’abbondanza delle celesti benedizioni». (Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà di lì a poco solo su quel gruppo democristiano che col cardinal Ruffini intreccerà unita d’ intenti e di voleri), Cosa voleva dire quella implorata “concordia sacra” “tregua di Dio” del presidente Lo Presti? Era che sala d’ Ercole, tra gli scranni, un profondo fossato era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, un fossato entro cui scorreva la paura del centro e della destra per i seicentomila voti ottenuti dal Blocco del popolo. Paura che alcuni avevano cercato di fugare armando la mano d’un bandito, Giuliano, contro gli inermi lavoratori festeggianti il I° maggio a Portella delle Ginestre. «N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e cerano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò riversi sulle pietre una rosa maligna/nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancora un’illusione. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: – Femmine, che sono ‘sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca? Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso!” Ora il sangue delle undici vittime e dei feriti di Portella rigava quel fossato, ancora a demarcare, ancora a dividere le due Sicilie di sempre: quella proletaria dei contadini e dei braccianti e l’altra dei principi, dei sedara, dei gabelloti, dei campieri, dei mandanti e dei sicari. Sono, questi ultimi, i siciliani che si sentono eredi della storia illustre dell’Isola, che ne difendono l’antica civiltà e l’onore, sono questi che si riconosceranno nei “perfetti dei? del Gattopardo: d’un olimpo disumano, violento e sopraffattore, mafioso e “democristiano”. E mettiamo democristiano tra virgolette volendo dire che, messa da parte la componente popolare e sociale di quel partito, prevalendo l’altra, quella borghese delle clientele e delle cosche, niente ci sembra più siciliano del partito democristiano (come niente è stato in origine più padano, più lombardo del fascismo agrario e cattolico), di pratica politica cioè intesa in senso familiare e tribale, in senso mafioso e clientelare. Trent’anni sono passati da quel 25 maggio del ’47. Cosa è successo da allora lo sappiamo. Quella Sicilia di là dal fossato, la Sicilia che, dopo ottant’anni di unità sabauda, per non parlare di prima, dopo i vent’anni di fascismo con gli ultimi quattro anni di guerra, accesasi per l’ultima volta nella speranza di una nuova storia, di fare essa la nuova storia dell’Isola, è costretta a emigrare, a spargersi per l’Italia e l’Europa. E non erano, questi siciliani dell’emigrazione, solo contadini e braccianti, erano anche intellettuali. Restava nell’Isola, sequestrata dal potere, stretta nella morsa della promessa del favore e del ricatto, quella classe intermedia che riempiva uffici, riceveva assistenza, sovvenzioni, emolumenti. E in quei contadini e in quegli intellettuali emigrati, oltre la rabbia, era sempre dentro la speranza che nell’Isola prima o dopo qualcosa potesse cambiare, che prima o dopo fosse possibile il ritorno. Anche uno scrittore come Vittorini, che sempre respinse l’idea-sentimento di una patria-Sicilia, creandosi una dimensione ideologico-poetica di Sicilia-Lombardia, anche il Vittorini delle “‘tensioni” europee, nutrì per un momento la speranza di un cambia- mento. Si era intorno al ’50, e lo scrittore degli astratti furori di Conversazione, del notturno viaggio nel dolore e nella rassegnazione, tornato in Sicilia, assiste al grande movimento per la scoperta del petrolio: erano gli anni di Gela e di Mattei. Rapportò, o innestò, questa speranza dell’Isola a quella del Nord per l’industria “umana” e olivettiana, la speranza della nascita di una nuova società. Scrisse allora Le città del mondo, libro diurno e di grande movimento, di personaggi in lingua dalle rassegnazione dalle stasi di camionisti per le strade, di contadini a cavallo convergenti in una valle per una grande assemblea) Hai, quando la poesia si fa illusione e utopia, quando la storia taglia il filo che l’aggancia alla realtà. Nel maggio di quest’anno si è celebrato il trentennale dell’Autonomia siciliana. In quella sala d’Ercole del palazzo dei Normanni, accanto a Pancrazio De Pasquale, il primo, dopo trent’anni, presidente comunista del ‘Assemblea, cerano Andreotti, Ingrao e Murmura (quest’ultimo in rappresentanza di Fanfani). Ha parlato De Pasquale, ha risposto Andreotti, e da una parte c’era la richiesta di attuazione completa dello statuto e dall’altra la promessa, data la convinzione che è proprio dal rilancio della autonomia locale che può e deve scaturire a livello civile, culturale, umano il primo elemento di ricomposizione della società? e data la speranza che “dal Meridione e dalla Sicilia potrebbe emergere oggi, invertendo l’itinerario del secolo scorso, la riaggregazione a più alto livello dell’attuale società nazionale tanto turbata”. Il clima di ricorrenza e di celebrazione, chiaro, permette di eludere le analisi, i processi e le imputazioni, ché allora ci sarebbe stato davvero da sghignazzare, se non da gridare, alle parole di un presidente del Consiglio di quel partito della maggioranza che da trent’anni detiene il potere nel Paese, responsabile quindi delle condizioni di oggi della Sicilia, del Meridione, che appunta le speranze nelle autonomie locali di una ricomposizione- a livello, civile, culturale, umano della nostra società disgregata, di un nuovo risorgimento nazionale che parta dal Sud. E solo quest’ironia allora ci permettiamo menti avvertiti come siamo in fatto di risorgi i chi è che lascia oggi Pisacane per Cavour e i Savoia? Chi baratta la rivoluzione per il risorgimento, chi sono oggi questi nuovi Garibaldi del Sud? Intanto, quel fossato apertosi tra i banchi di sala d’Ercole, quello rigato di sangue, di cui si parlava all’inizio di questo scritto, è stato riempito. Il I° maggio di quest’anno s’è anche commemorata per la prima volta all’Assemblea regionale la strage di Portella delle Ginestre. Un’altra commemorazione a Piana degli Albanesi, sul luogo della strage, l’hanno fatta i sindacati unitari. Ma domenica 5 giugno a Palermo, mentre Pajetta commemorava da una parte Girolamo Li Causi, il grande capitano delle lotte del ’47, dall’altra parte il Centro Siciliano di documentazione svolgeva un convegno di studi sul tema: 1947- 1977. Portella delle Ginestre: una strage per il centrismo”: una controcelebrazione del trentennale? E in questo nostro paese di telegrammi ufficiali, di lacrime di coccodrillo, di corone di fiori di commemorazioni, di controcelebrazioni ce n’è gran bisogno: bisogno di analisi, di processi e di imputazioni. Cosa sappiamo, intanto, della Sicilia, del Meridione, dopo questi trenta anni di malgoverno, cosa sappiamo delle condizioni in cui sono state lasciate queste terre “di rapina”? Abbiamo avuto notizie solo di altre stragi, di sindacalisti ammazzati, di sciagure naturali che scoperchiavano altre e millenarie sciagure storiche, di mafia, di rapine, di corruzioni, di speculazioni, di intrighi e di compromissioni della classe dirigente: vasta è la letteratura a riguardo, e spesso romanzata fino al folklore, fino all’amenità, fino a perdere forza di verità, forza di denunzia. Ma dei siciliani che nell’Isola sono rimasti, dei loro mutamenti sociali e politici in questi anni poco sappiamo. La letteratura, a riguardo, crediamo che sia inesistente Ci sovviene soltanto qualche meritoria inchiesta giornalistica, come quella per esempio di Mario Farinella raccolta in volume sotto il titolo di “Profonda Sicilia”, una ricognizione per l’Isola sul finire degli anni ’60. E dei giovani meridionali, dei giovani siciliani di questa fine degli anni settanta, cosa sappiamo? Di questi, di cui non si può dire ormai che siano una generazione, ma una classe (una situazione esistenziale che è immediatamente storica Ed è allora, per questo che loro, i ragazzi, hanno sentito il bisogno di rivendiate, tra le altre cose, il principio che il personale è politico?): per l’emarginazione. il cui li abbiamo spinti, noi, i loro padri, per il deserto di valori in cui li costringiamo a vivere; por le varie crisi che gli abbiamo apparecchiato; per la distruzione di speranze, per le lande senza orizzonti in cui li abbiamo relegati, spogli di cultura e identità. Fino a poco tempo fa, dire giovani, dire siciliani, calabresi o lucani, appariva subito una definizione astratta se non qualunquistica, priva com’era di una distinzione di classe. Dire oggi giovani o giovani siciliani non è più sospettabile. Anzi. In questi, nei giovani siciliani, o giovani calabresi o giovani pugliesi, c’è già una doppia connotazione storica: in quanto giovani e in quanto meridionali. Di una storia che non è più uguale a quella delle generazioni precedenti. Tra queste ultime (del subito dopo- guerra, degli anni cinquanta o sessanta, del sessantotto o del dopo sessantotto) e le generazioni di questa fine degli anni settanta, sembra che dei terremoti siano avvenuti, a scavare abissi, voragini, a creare profondi mutamenti. A decifrare i quali non servono più i metri conosciuti e praticati sin qui. Quali nuovi metri allora si usano? Le sofisticate e asettiche analisi di laboratorio su campionature o cavie che gli scienziati, antropologi e sociologi, praticano con quel distacco e quella iattante autorevolezza che a noi – col rischio di apparire corrivi o vecchi umanisti superati – tanno nascere il dubbio di verità o deduzioni sospette perchè nate da quella scientificità “‘pura che è già ‘”socialdemocratica”; quando non risultano, queste analisi nel chiuso del laboratorio, immediatamente superate dallo svolgersi e radicalmente rivolgersi della realtà esterna. E allora preferiamo la vecchia, esposta. non-scientifica, non-rigorosa, ma “calda” e reale inchiesta giornalistica. E preferiamo anche la pratica di una realtà umana come quella giovanile (e spero che i lettori di questo scritto non siano portati a facili e offensive alla loro stessa intelligenza – battute cosiddette di spirito) di un poeta come Pasolini che lo portava a dolorose constatazioni, a inquietanti profezie. Ecco dunque un’inchiesta giornalistica sui giovani della provincia siciliana, questa di Giuseppe Corsentino: fra le prime e quindi preziosa; profonda, perchè di una realtà scovata in angolo bui e da anni dimenticati. Questa realtà giovanile della provincia siciliana è sconcertante. Per noi, lettori di vecchie letterature e vecchie inchieste sulla Sicilia, dove le classi separate davano un quadro dialetti- co e storicistico (gli zolfatari e i padroni di miniere, i contadini occupanti le terre incolte e i baroni e campieri, le speculazioni edilizie e le stragi a scoppi di tritolo e colpi di lupara, i cortili di Palermo e gli sprechi messi in luce da Dolci, le parole che erano pietre delle madri dei sindacalisti uccisi dalla mafia riportate da Levi, la fame dei bambini e i bottoni nella loro minestra, i salinari e il potere che si ricostituiva nel dopoguerra come ce li ha fatti vedere lo Sciascia de “Le parrocchie di Regalpetra”…), questo quadro di oggi della Sicilia dei giovani ci appare inedito (come inedito deve essere il quadro della realtà giovanile del resto delle regioni meridionali) non più dialettico, intanto, ma univoco, omologo, come oggi si dice. Di giovani quasi tutti appartenenti ormai (qualsiasi sia la loro origine) a una piccola borghesia vittima e disastrata dal consumismo (l’edonismo americano), di merci e di ideologie, disorientati e ondeggianti tra atteggiamenti di riporto di freakettonismo o indianismo paesano o triste e consapevole acquiescenza al vecchio ricatto e alla vecchia soggezione clientelare. Dall’altra parte, gli adulti, i vecchi, di fronte a questi giovani disorientati e disarmati, residui della risacca sessantottesca, “‘scollati” da qualsiasi organizzazione politica, instaurano vecchie controriforme, vecchie ipocrisie, vecchi vizii provinciali e bacchettonismi. Così è a Trapani a Sciacca, ad Agrigento, a Mazara, a Caltanissetta, a Castelvetrano, alienata e miracolata racina Canicattì, allo squallido deserto periferico di Gela… Qualcosa di diverso, di muovo, si nota noi giovani della Valle del Belice, dove il terremoto ha anche sconquassato le vecchie divisioni, le vecchie classi producendo, a prezzo di tanto dolore, uguaglianza e unità di impegno e di lotta. Siamo partiti da lontano: dalla Sicilia del 47. Questa è la Sicilia di oggi. Ma è anche il Meridione di oggi. Di questo Meridione che si è voluto cacciare dalle campagne e dai paesi, lo si è portato nelle fabbriche del Nord in nome della dea industria, che lo si è eletto a terra di conquista per i consumi, che si è spogliato di cultura e di identità. Oggi che quella divinità industriale dai piedi di argilla è crollata, c’è il marasma e lo smarrimento, nei giovani, soprattutto, i più fragili e vulnerabili. Per essi, la unica novità è la recente legge per l’avviamento al lavoro, e quale? In essi, intanto, c’ è il desiderio di un ritorno alla campagna: ci sono le rioccupazioni delle terre come negli anni ’50, si formano le comuni agricole, le cooperative. E questo significa che c’è nei giovani, oltre a una volontà di una vita diversa, anche il bisogno della ricerca di una cultura più “umana” di una identità più vera e più solida. Il governo, le forze economiche nazionali e non, terranno conto di questo loro bisogno?

VINCENZO CONSOLO  Milano, 26 agosto 1977