Il brano ritrovato

Con i paesani a Milano dove il sole si appanna nella muffa giallognola
Alla stazione Era frastornato da tutta quella confusione in mezzo ai treni tra vagoni, carrelli, passeggeri sotto il tetto di lamiere e vetro

«A rrivammo, arrivammo! urlò uno dentro lo scompartimento . Sveglia, sveglia!». Vito aprì gli occhi, scostò la testa di quello accanto che gli dormiva sopra la spalla, e guardò fuori attraverso il vetro del finestrino appannato dal fiato suo e dei suoi compagni. Vi sfregò sopra il dorso della mano, ma quell’appannatura era anche fuori, ‘na foschia che sfumava una pianura d’alberi scheletriti e case, di capannoni e ciminiere. Sentì ora, tornato fuori dal sonno alla coscienza, tutto il puzzo che ristagnava dentro il treno, di piedi, sigarette e di formaggio. Guardò il pavimento, e vide i suoi piedi e le caviglie gonfie dentro le calze verdi, le scarpe accanto, in mezzo a tutto quello zàccano che avevano combinato col mangiare, di scorze d’uova, d’arance, pezzi di pane, di carte unte d’olio. Una stalla sembrava, e loro cos’erano, lui e i suoi paesani, chiusi per un giorno e passa dentro quella stia, se non bestie, muli portati in una fiera. Il treno, dopo un poco, fece una frenata lunga, con stridore, ebbe un sussulto e si fermò. «Presto, ohu, arrivammo!», fece un altro, alzandosi per tirare giù la valigia. In quel momento scorse la porta, e l’accompagnatore dell’Ufficio Provinciale di Caltanissetta, gridò dentro: «Prepararsi, prepararsi, la prossima è Milano!».Vito guardò fuori, e vide ch’erano davanti a ‘na stazione, con la tettoia e le colonne di ghisa, ferrovieri e passeggeri lì di sotto, e la scritta MILANO LAMBRATE. Tirò giù allora la sua valigia, indossò la giacca, si mise in testa il tasco, s’avvolse il lungo collo d’uccello nella sciarpa.Cercarono di portarsi nel corridoio, ma il corridoio, come il giorno avanti, era affollato, di gente che lì accucciata, a terra o sopra le valigie, aveva viaggiato tutto il tempo.Il treno fischiò più volte e infine ripartì. Dopo breve marcia, fu finalmente alla stazione Centrale di Milano. Cominciò allora tutta la babilonia, tutto il bordello per scendere dal treno, di molti che vociavano, gridavano, scaricavano valigie e pacchi dai finestrini per far presto a prendere la coincidenza.Erano emigranti che si fermavano in Italia, che avevano parenti o conoscenti in Lombardia o Piemonte, a Varese o Vigevano, a Chivasso, Rivalta o Pinerolo. Napolitani, maggiormente, ma anche Lucani e Calabresi.Il funzionario del Lavoro, il signor Staìbbi, passando pel corridoio sopra uomini e valigie, gridò ancora dentro: «Scendete e aspettate tutti sopra il marciapiede. Non vi muovete da lì fino a quando non arrivo io».E così fecero,’na volta che poterono scendere dal treno, e Vito si tenne accosto ai suoi due compagni e paesani, a Turi Trubbia e Santo Brucculèri, ch’erano stati in guerra ed erano pratici di Continente e di cittadi.Era frastornato da tutta quella confusione fra mezzo ai treni, in quell’immensa stazione di Milano con quel tetto di lamiere e vetro come ‘na grande galleria, dentro cui s’ammassava muffa giallognola vagante. Sopra vagoni, carrelli, passeggeri, manifesti di reclame che Vito a stento riusciva a leggere, Calze Si-Si, Lame Bartali, Inverno Pirelli, Brillantina Vegetale Cubana.Giunse Staìbbi e li chiamò. S’unirono ad altri gruppi fermi sul marciapiede e formarono così ‘na compagnia, uno squadrone ben allineato, con Staìbbi accanto a loro che marciava come un capitano. Scesero le scale di quella stazione di marmi e mascheroni, dentro cui passi, voci e più l’altoparlante, rintronavano come dentro una grotta, e furono davanti alla cittade grande di Milano.Vito non sapeva dove guardare, giù per la spianata, pel vialone con binari, fili, alberi, macchine e camion con rimorchio che correvano, tram e filobus, e torno torno casoni altissimi che si perdevano in cima dentro a quella muffa. E sopra, sopra quelle case, in cielo, scorse un globo rossastro e appannato, come fosse dietro un vetro affumicato. Capì che era il sole, un sole che si poteva benissimo mirare senz?essere allucinati, come ‘na luna piena nella notte

Consolo Vincenzo
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(19 gennaio 2015) – Corriere della Sera