E il sorriso si fece barocco

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1 feb 2015 Il Sole 24 Ore

Quando si accinse a raccontare il “sorriso” nella pittura europea, Daniel Arasse si arrestò davanti a una scoperta imprevista. Dovette constatare che fu Leonardo da Vinci a inventare il «ritratto con il sorriso». Prima della Gioconda c’era stato sì l’«uomo che ride» di Antonello da Messina, misterioso nella sua bellezza senza biografia; ma l’increspatura dilatata delle labbra sortiva l’effetto, in quel ritratto conservato a Cefalù, di una smorfia se non proprio di un ghigno. L’anonimità del personaggio di Antonello aveva già acceso la fantasia di Vincenzo Consolo, che aveva raccolto nella trama di un romanzo la vibrazione arricciata, insopportabilmente ironica, che infettava di malizia il volto dipinto sulla tavoletta quattrocentesca. La «chiocciola», che andava allargandosi attorno alle labbra stirate dell’uomo ridente di Cefalù, aveva indirizzato e determinato la trama del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo: il percorso a spirale della storia, le linee spezzate di una narrazione che si sottrae alle continuità e agli slarghi della costruzione romanzesca e su se stessa si avvolge in un disegno di contrappunti o «riurti» e in un «giuoco delle somiglianze», le volute delle lumache studiate da un barone malacologo, l’architettura vorticante di un luogo di detenzione. L’opera, pubblicata nel 1976, è ambientata negli anni del Risorgimento in Sicilia. Racconta la rivolta contadina di Alcàra Li Fusi. E riprende la polemica contro le passioni politiche astratte e il tema dell’impostura storiografica, riportati all’attenzione dal Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia. Scrive Salvatore Grassia: «La macchinazione narrativa del Sorriso nacque … proprio da una costola del Consiglio d’Egitto. E tuttavia, se l’Ulisse di Joyce – come diceva paradossalmente Borges – era la fonte dell’Odissea, per il semplice fatto che il romanzo dello scrittore irlandese aveva cambiato il modo di leggere il poema greco, allo stesso modo si potrebbe affermare che il romanzo di Consolo ha “barocchizzato” la lettura dell’apologo sciasciano sull’impostura».
Il sorriso dell’ignoto marinaio si impose subito come libro epocale: il capolavoro riconosciuto di una generazione che aveva attraversato il Sessantotto e i movimenti degli anni Settanta ed era sensibile a una metanarratività impostata sulla responsabilità politica della scrittura letteraria. Piacquero la precisione a scalpello del lavoro linguistico, la musicalità splendida della prosa, la scrittura di immagini, gli effetti plastici delle tante voci in campo, assorbite nelle inflessioni poderose e ritmate come nell’oralità di un antico contastorie siciliano. In una densa conversazione con Silvio Perrella lo stesso Consolo ha sintetizzato il salto di generazione che lo aveva contraddistinto: «gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino come Sciascia» scelsero una «lingua geometrizzata … cristallina, limpida … Io mi sono sempre chiesto perché questi scrittori che hanno vissuto il fascismo e la guerra abbiano optato per questo tipo di scrittura e di concezione illuministica del mondo. Perché speravano, perché la loro era una «scrittura di speranza». Speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare… Quelli della mia generazione, che hanno visto succedere al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era ancora nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo», barocco: plurilinguistico e pluriprospettico.
crivendo di un più tardo romanzo di Consolo, Retablo, che ha per protagonista il pittore novecentesco Fabrizio Clerici travestito da settecentesco «archeologo dei propri sogni barocchi», Giuseppe Traina ha applicato allo stile dello scrittore siciliano la definizione che Sciascia aveva dato delle Confessioni palermitane dipinte dal vero Clerici: «Un delirio barocco riflesso da uno specchio illuministico»; ovvero, «un barocco senza inganni e un illuminismo senza illusioni, giuste le lezioni di Leopardi e Pirandello (e di Sciascia)».
Il Meridiano dedicato a Consolo colloca lo scrittore tra i classici del Novecento. Nella premessa al volume, Cesare Segre esordisce lapidariamente: «Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione». Curata con passione da Gianni Turchetta, la raccolta di romanzi e saggi (e racconti; con la precisazione che Consolo si è sempre mosso ai confini dei generi letterari, praticando commistioni e ibridazioni), si apre con La ferita dell’aprile del 1963 e si chiude con Di qua dal faro del 1999. Include la «favola teatrale» Lunaria del 1985, Retablo del 1987 e, insieme a Le pietre di Pantalica del 1988, L’olivo e l’olivastro del 1994; allinea poi, lungo un percorso di intima tragicità che va dalla crisi delle illusioni all’ansia inquieta dell’afasia, la trilogia della storia: il Sorriso sul Risorgimento; Nottetempo, casa per casa, sull’avvento del fascismo; Lo spasimo di Palermo, sulla «collusione tra mafia e potere politico, con le stragi mafiose degli anni Novanta».
Nell’imponente apparato, il curatore segue la storia interna delle singole opere: il loro farsi e stratificarsi nel tempo, secondo la memoria che esse conservano del loro stesso costruirsi e grazie alle carte gelosamente ordinate e custodite nel vasto archivio privato. È un lavoro gigantesco, che fa i conti con la complessità di una scrittura letteraria che sin dall’inizio ha praticato citazioni, autocitazioni, evocazioni di reperti d’arte (dalle fotografie, alle pitture e sculture: dai quadri insospettabili di Turner, alle metope di Selinunte), rifacimenti di pagine di scrittori barocchi come Bartoli, e di scrittori più vicini come il Nabokov di Lolita; non senza la complicazione di più innesti nel corpo stesso di questa letteratura sulla letteratura, come ha documentato Grassia, individuando «le vele le vele» di Dino Campana che prendono vento dentro una pagina di Bartoli da Consolo rilavorata con l’aiuto del De Aetna di Bembo.
Turchetta rivede i testi. Corregge persino, e giustamente, qualche ipercorrettismo del curatore dell’edizione critica del Sorriso dell’ignoto marinaio. Io però non avrei accolto lo scioglimento di un’abbreviatura epigrafica contenuta in un cartiglio. Nella prima edizione del Sorriso, si legge «COEFALEDU SICILIAE URBS». Doveva essere «COEFALED ». Chiaramente è caduto il segno abbreviativo, che va ripristinato. Lo scioglimento («COEFALEDUM») appanna il gusto arcaicizzante dello scrittore, la sua passione per l’immagine.
Corredano il volume un utile glossario, una dettagliatissima cronologia della vita, e una bibliografia esaustiva. Viene ricordato, a proposito del racconto Libertà di Verga presente al Consolo del Sorriso, anche il film di Vancini, Bronte: cronaca di un massacro. Sciascia collaborò alla sceneggiatura, fiancheggiato da Benedetto Benedetti da poco scomparso. E qui mi piace ricordare il vecchio film-maker, che un giorno, tanti anni fa, in tempi difficili, non esitò a improvvisarsi editore per pubblicare le poesie dialettali di Tonino Guerra.

L’ignoto Consolo marinaio di Sicilia
Lo scatto fantastico della letteratura come opposizione alle sconfitte della ragione
Ernesto Ferrero Tuttolibri 7 2 2015
Raccontava Vincenzo Consolo d’aver provato come una scossa, vedendo il ritratto d’ignoto di Antonello da Messina conservato al Museo Mandralisca di Cefalù. Gli sembrava qualcuno di famiglia, che parlava proprio a lui. Da quell’agnizione, carica di ghiotti misteri, prendeva forma quello che sarebbe rimasto il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, apparso a sorpresa da Einaudi nel 1976 dopo una gestione lunga e tormentata: un manufatto d’altissima oreficeria nel cuore degli anni di piombo.
L’ignoto (probabilmente un notabile liparitano) è quasi diventato un suo alter ego. Il suo sorriso ha qualcosa di sarcastico e beffardo, la malizia volpina di un mercante. Invece il sorriso d’incredulità e amarezza che stirava le labbra di Consolo ad ogni nuova notizia di violenze, sopraffazioni e furberie restava quello di un bambino ferito che non si rassegna alle ingiustizie del mondo proprio quando ne riceve un’ulteriore conferma. Di fronte a un degrado della Sicilia che trovava un puntuale riscontro nel resto del Paese, negli ultimi anni il suo sconforto era diventato quasi immedicabile, e tuttavia continuava ad alimentare in modo sempre più convinto l’oltranza dell’espressionismo cui restava fedele.
È stato sempre un pendolare, Consolo: tra la natìa Sant’Agata di Militello, nel messinese, dov’era nato nel 1933, e la Milano degli studi in legge e poi del lavoro; tra una storia da frugare proprio là dove era più trascurata, quella popolare, e le tensioni di un presente sempre meno progressivo; tra arte e vita, tra «ebbrezza stilistica e rigore argomentativo» (Cesare Segre). Cercava di conciliare in se stesso le passioni scientifiche del barone Mandralisca, collezionista erudito, e quelle politiche del cospiratore Interdonato.
Le delusioni hanno finito per rendere ancora più acceso, quasi parossistico, l’amore per la propria terra, per la sua storia e cultura. In lui lo scatto fantastico della letteratura, unica opposizione praticabile di fronte alle sconfitte della ragione che tanto angustiavano Leonardo Sciascia, amico e maestro, nasceva dal mite furore dell’indagine archeologica, storica, antropologica, linguistica. Tra Gadda e D’Annunzio, mirava a colmare il divario tra la realtà e le parole, restituite all’intensità originale del loro suono, per inseguire la bellezza assoluta del vero poetico. Più avvertiva i limiti intrinseci della letteratura, più le assegnava ambizioni e responsabilità. In una sorta di spasimo mai rassegnato.
Assume il valore di un definitivo risarcimento postumo il Meridiano che Gianni Turchetta ha curato con sapiente empatia critica, equipaggiandolo d’una fittissima cronologia, e di ben trecento pagine di note ai testi, glossario e bibliografia, per illuminare il backstage delle opere, la loro struttura calcolatissima, la complessità di intrecci, rimandi, assonanze, analogie, opposizioni. Si va dal romanzo di formazione La ferita dell’aprile (1963) ai saggi raccolti in Di qua dal faro (1999), passando per opere che sfuggono ad ogni etichetta di genere, come Lunaria e Retablo.
In un profilo posto in apertura del volume, Cesare Segre è esplicito: «Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione». Colui che ha cercato di fare manzonianamente i conti con il presente attraverso le metafore offerte da alcuni momenti-chiave della nostra storia: il 1860 e dintorni con le sanguinose rivolte contadine che seguono l’arrivo di Garibaldi; i primi anni venti in cui il fascismo trova in Sicilia un terreno fertile; la cupa Palermo delle stragi di mafia. Ma senza pagare pedaggio alla linearità del romanzo tradizionale, che tutto crede di organizzare e spiegare in una sorta di discorso illuministico, «geometrizzante», come diceva lui, citando Leopardi. Non si accontentava della facile comunicabilità del linguaggio medio. Ogni adescamento anche vagamente commerciale gli riusciva insopportabile. Non amava gli avanguardismi, lo sghignazzo di chi si fa beffe di quanto è stato prodotto prima di lui. Preferiva dirsi sperimentale (come lo era stato Verga), e dunque tentare una letteratura frattale, di rifrazioni, scomposizioni e ricomposizioni, intarsio di generi, modi, linguaggi, materiali anche diversissimi, fondato su una prosa che è stata a giusto titolo definita ritmica.
Alla narratività distesa e onnisciente preferiva i lampeggiamenti nervosi della poesia. Una musicalità costruita e goduta in ogni singola parola. Consolo è in primo luogo un poeta, sempre. Ogni sua pagina, tramata di endecasillabi, richiede il massimo impegno interpretativo del lettore chiamato ad eseguirla, come è particolarmente evidente nel virtuosistico Nottetempo casa per casa (1992).
Si potrebbe dire della sua opera quel che lui stesso ha scritto del barocco in Sicilia, nato dall’orgoglio di opporre alle distruzioni dei terremoti scenografie ardite, nate da sogni smisurati. Solo così la paura si può volgere in coraggio, «l’oscuro in luce, l’orrore in bellezza, l’irrazionale in fantasia creatrice, l’anarchia incontrollabile della natura nella leibniziana, illuministica anarchia creatrice; il caos in logos, infine». Troppe volte angustiato dai terremoti del Novecento, Consolo non ha mai rinunciato ad opporvi le sue sontuose polifonie, i raffinati collages in cui ha ricuperato i tesori di una Sicilia omerica e domestica, mitica e quotidiana, aristocratica e plebea, reale e araldica.