PERSONAGGI DELLA CULTURA ITALIANA

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Presentazione del libro fotografico
PERSONAGGI DELLA CULTURA ITALIANA
del’ 900 e qualche volto dal mondo
di Vincenzo Cottinelli
Interverranno
Tino Bino, consigliere AAB
Cesare Colombo, maestro della fotografia italiana
Nino Dolfo, Corriere della Sera

Rilanciare l’impegno civile di Vincenzo Consolo

Rilanciare l’impegno civile di Vincenzo Consolo

olycom - vincenzo consolo -Ricordando a tre anni dalla scomparsa Vincenzo Consolo a S.Agata di Militello, suo paese natale, è stato facile sottolineare l’impegno sociale e politico di uno dei grandi scrittori del novecento. Ho avuto modo di conoscere da vicino Consolo negli ultimi anni della sua vita, quando ebbe modo di entrare in stretto contatto con il Centro Studi Pio La Torre e con le sue attività. Grazie a questa frequentazione e alla mia personale insistenza, Consolo nel 2009 ha scritto un atto unico dedicato a “Pio La Torre, orgoglio di Sicilia” rimasto tra i pochi testi teatrali dell’autore.

Testo donato al Centro, che lo ha pubblicato e che oggi viene recitato nelle scuole italiane collegate alle attività educative antimafiose del Centro. Quell’atto unico servì all’autore, come ebbe modo di dirmi, per colmare un vuoto che gli pesava. Fino ad allora non aveva avuto modo di scrivere nulla su Pio, suo amico, perciò avvertiva un personale debito morale verso l’amico ucciso dalla mafia. L’omaggio reso alle vittime di mafia servì a Consolo a ripercorrere il filo del suo impegno antimafia dal dopoguerra sino alle stragi degli anni ’90. Infatti nell’atto unico, dalla Strage di Portella al Sacco di Palermo, cioè dalla storia del movimento contadino alla mafia urbana del boom edilizio, descritti drammaticamente da una voce narrante, Consolo richiama la sua visione storica e democratica della Sicilia contrapposta a quella meccanicistica di Tomasi di Lampedusa, autore de “Il Gattopardo” che ignorava il ruolo della mafia nella difesa del feudo e a quella fatalista di Giovanni Verga.

L’atto unico si chiude infatti nel modo seguente: “I veri nobili non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita il rispetto della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino e tutti coloro che hanno lottato e sacrificato la loro vita per la libertà, la giustizia e il rispetto dei diritti di tutti”. Nel corso della sua vita e dei suoi scritti, Consolo ha affrontato il tema della mafia. Il tema si rintraccia quando riferisce del soldato italo-americano delle truppe Alleate sbarcate in Sicilia nel luglio 1943 che si presenta a casa dei Consolo presentandosi come fidanzato di una figlia di una loro cugina emigrata negli Usa.

La parente, avuta notizia del fatto, scrive allarmata per avvertire i suoi parenti che è tutto falso perché quel soldato è un gregario della “Mano nera”. Sempre nel 1943, alla fine dell’estate, Consolo ragazzino segue il padre commerciante che va alla ricerca di derrate alimentari sino a Villalba dove potrebbe comprare le lenticchie, pagando il pizzo, solo con il consenso di un signore grasso e ben vestito (Don Calò?). Il padre rifiutò di pagare, perse la possibilità di guadagno ma diede un esempio di rifiuto della mafia la cui presenza è avvertita da Vincenzo per la prima volta. Successivamente ne sentirà parlare, ancora giovinetto, dal grande capo dei comunisti siciliani, Girolamo Li Causi, in un comizio qualche anno dopo a Sant’Agata.

Ricordando il suo esser nato in un luogo poco segnato dalla storia, invaso dalla natura, dove non c’è stata una forte presenza arabo-normanna con tracce greco-bizantina più leggibili che sicuramente ha influito sulla identità di scrittore che per tutta la vita è impegnato a conciliare i due poli – quello logico illuminista di Leonardo Sciascia e quello lirico puro di Lucio Piccolo. Sciascia era un illuminista liberale, dice Consolo, mentre di sé stesso parla come di uno che aveva creduto nel cambiamento radicale della società, secondo un orientamento marxista. Stimolato dalla lettura di Sciascia, Carlo Levi, Danilo Dolci, Rocco Scotellaro, degli altri scrittori meridionalisti, Consolo entra in conflitto sia con i codici linguistici imposti sia con il “Potere”.

Vincenzo appare un moderno Odisseo in continua ricerca di sé stesso, vive la crisi della propria identità e vede i propri miti sfaldarsi, da quello della società contadina a quello della civiltà industriale, in quella Milano, del boom del dopoguerra dove si è trasferito attratto dagli inviti dei Vittorini, dei Calvino a esplorare la nuova società industriale. Il filo conduttore dello scrittore è l’ininterrotta riflessione sulla società siciliana e le sue ingiustizie, le ferite, le umiliazioni subìte dalla sua terra.. La narrazione del passato, serve a Consolo per leggere e interpretare il presente.

La Sicilia contadina e umana di una volta è rievocata in Retablo e nelle Pietre di Pantalica, mentre nel suo primo libro “La Ferita dell’Aprile” descrive il viaggio simbolico linguistico del giovane sanfratellano, Scavone, che viene sulla costa dove impara il siciliano e poi, con gli studi, l’italiano. L’olivo e l’olivastro tratteggia la tragedia dell’emigrazione dopo il terremoto del Belice, che richiama quella che stiamo vivendo in questi anni nel Mediterraneo. In tutti i suoi scritti Consolo esplora il mondo degli umili, perché la sua letteratura è uno strumento di ragionamento sulla realtà concreta interrogandosi alla maniera di Bertolt Brecht, su chi “paga le spese del nostro progresso”, visto che l’Occidente prospera sulle miserie dei tre quarti del mondo.

Quell’esule errante che cerca la sua Itaca si trova di fronte la grande minaccia della cancellazione della sua identità di cittadino della globalizzazione, “grande bottega del mondo”. Queste riflessioni esistenziali hanno accompagnato per tutta la vita Vincenzo Consolo, sino alla fine, sino al suo ultimo scritto che il Centro Studi La Torre ha avuto l’onore di pubblicare per espresso suo desiderio, rimanendogli per sempre grato.

11 marzo 2015
A
rticolo21

Rilanciare l’impegno civile di Vincenzo Consolo

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Rilanciare l’impegno civile di Vincenzo Consolo
Ricordando a tre anni dalla scomparsa
Vincenzo Consolo a S.Agata di Militello,
suo paese natale, è stato facile
sottolineare l’impegno sociale e politico
di uno dei grandi scrittori del novecento.
Ho avuto modo di conoscere da vicino
Consolo negli ultimi anni della sua vita,
quando ebbe modo di entrare in stretto
contatto con il Centro Studi Pio La Torre
e con le sue attività. Grazie a questa
frequentazione e alla mia personale
insistenza, Consolo nel 2009 ha scritto
un atto unico dedicato a “Pio La Torre,
orgoglio di Sicilia” rimasto tra i pochi testi teatrali dell’autore. Testo donato al Centro, che
lo ha pubblicato e che oggi viene recitato nelle scuole italiane collegate alle attività
educative antimafiose del Centro. Quell’atto unico servì all’autore, come ebbe modo di
dirmi, per colmare un vuoto che gli pesava.
Fino ad allora non aveva avuto modo di scrivere nulla su Pio, suo amico, perciò avvertiva
un personale debito morale verso l’amico ucciso dalla mafia. L’omaggio reso alle vittime di
mafia servì a Consolo a ripercorrere il filo del suo impegno antimafia dal dopoguerra sino
alle stragi degli anni ’90. Infatti nell’atto unico, dalla Strage di Portella al Sacco di Palermo,
cioè dalla storia del movimento contadino alla mafia urbana del boom edilizio, descritti
drammaticamente da una voce narrante, Consolo richiama la sua visione storica e
democratica della Sicilia contrapposta a quella meccanicistica di Tomasi di Lampedusa,
autore de “Il Gattopardo” che ignorava il ruolo della mafia nella difesa del feudo e a quella
fatalista di Giovanni Verga. L’atto unico si chiude infatti nel modo seguente: “I veri nobili
non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e
sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita il rispetto
della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i
Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino e tutti coloro che hanno lottato e
sacrificato la loro vita per la libertà, la giustizia e il rispetto dei diritti di tutti”.
Nel corso della sua vita e dei suoi scritti, Consolo ha affrontato il tema della mafia. Il tema
si rintraccia quando riferisce del soldato italo-americano delle truppe Alleate sbarcate in
Sicilia nel luglio 1943 che si presenta a casa dei Consolo presentandosi come fidanzato di
una figlia di una loro cugina emigrata negli Usa. La parente, avuta notizia del fatto, scrive
allarmata per avvertire i suoi parenti che è tutto falso perché quel soldato è un gregario
della “Mano nera”.
Sempre nel 1943, alla fine dell’estate, Consolo ragazzino segue il padre commerciante
che va alla ricerca di derrate alimentari sino a Villalba dove potrebbe comprare le
lenticchie, pagando il pizzo, solo con il consenso di un signore grasso e ben vestito (Don
Calò?). Il padre rifiutò di pagare, perse la possibilità di guadagno ma diede un esempio di
rifiuto della mafia la cui presenza è avvertita da Vincenzo per la prima volta.
Successivamente ne sentirà parlare, ancora giovinetto, dal grande capo dei comunisti
siciliani, Girolamo Li Causi, in un comizio qualche anno dopo a Sant’Agata. Ricordando il
suo esser nato in un luogo poco segnato dalla storia, invaso dalla natura, dove non c’è
stata una forte presenza arabo-normanna con tracce greco-bizantina più leggibili che
sicuramente ha influito sulla identità di scrittore che per tutta la vita è impegnato a
conciliare i due poli – quello logico illuminista di Leonardo Sciascia e quello lirico puro di
Lucio Piccolo. Sciascia era un illuminista liberale, dice Consolo, mentre di sé stesso parla
come di uno che aveva creduto nel cambiamento radicale della società, secondo un
orientamento marxista. Stimolato dalla lettura di Sciascia, Carlo Levi, Danilo Dolci, Rocco
Scotellaro, degli altri scrittori meridionalisti, Consolo entra in conflitto sia con i codici
linguistici imposti sia con il “Potere”. Vincenzo appare un moderno Odisseo in continua
ricerca di sé stesso, vive la crisi della propria identità e vede i propri miti sfaldarsi, da
quello della società contadina a quello della civiltà industriale, in quella Milano, del boom
del dopoguerra dove si è trasferito attratto dagli inviti dei Vittorini, dei Calvino a esplorare
la nuova società industriale.
Il filo conduttore dello scrittore è l’ininterrotta riflessione sulla società siciliana e le sue
ingiustizie, le ferite, le umiliazioni subìte dalla sua terra.. La narrazione del passato, serve
a Consolo per leggere e interpretare il presente. La Sicilia contadina e umana di una volta
è rievocata in Retablo e nelle Pietre di Pantalica, mentre nel suo primo libro “La Ferita
dell’Aprile” descrive il viaggio simbolico linguistico del giovane sanfratellano, Scavone,
che viene sulla costa dove impara il siciliano e poi, con gli studi, l’italiano. L’olivo e
l’olivastrotratteggia la tragedia dell’emigrazione dopo il terremoto del Belice, che richiama
quella che stiamo vivendo in questi anni nel Mediterraneo.
In tutti i suoi scritti Consolo esplora il mondo degli umili, perché la sua letteratura è uno
strumento di ragionamento sulla realtà concreta interrogandosi alla maniera di Bertolt
Brecht, su chi “paga le spese del nostro progresso”, visto che l’Occidente prospera sulle
miserie dei tre quarti del mondo. Quell’esule errante che cerca la sua Itaca si trova di
fronte la grande minaccia della cancellazione della sua identità di cittadino della
globalizzazione, “grande bottega del mondo”.
Queste riflessioni esistenziali hanno accompagnato per tutta la vita Vincenzo Consolo,
sino alla fine, sino al suo ultimo scritto che il Centro Studi La Torre ha avuto l’onore di
pubblicare per espresso suo desiderio, rimanendogli per sempre grato.

di Vito Lo Monaco

Intervento durante la presentazione del Meridiano dedicato allo scrittore ” Omaggio a Vincenzo Consolo ” 7 marzo 2015 a Sant’Agata di Militello
successivamente pubblicato dalla rivista  articolo21 – 9 marzo 2015

Vincenzo Consolo L’opera completa libreria Cavallotto

Vincenzo Consolo: l’opera completa

Vincenzo Consolo: l’opera completa

Venerdì 27 febbraio ore 17,30
Corso Sicilia 91

Presentazione del recente Meridiano
Vincenzo Consolo L’opera completa
Mondadori.

Ne parleranno Rosalba Galvagno, Attilio Scuderi,
Dario Stazzone e Salvatore Trovato.

consolo opera completa

L’opera completa di Vincenzo Consolo esca finalmente nei Meridiani Mondadori, Con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre

 

Vincenzo Consolo , l’implacabile siciliano

Vincenzo Consolo, l’implacabile siciliano
LIBRI E FUMETTI
Mondadori pubblica per la collana I Meridiani “L’opera completa di Vincenzo Consolo” a cura di Gianni Turchetta, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano, che raccoglie la produzione letteraria dell’autore di Sant’Agata di Militello definito dal curatore del volume «Ostinatamente e implacabilmente siciliano»

di Giuseppe Lorenti
da sicilymag.it

L’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto – Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia

Vincenzo Consolo è la Sicilia. Così, è difficile quando pensi a Consolo, ai suoi romanzi e saggi non legarlo alla sua terra. La Sicilia come paradigma e metafora dell’Italia, forse del mondo, un’isola che potrebbe essere un paradiso e che, invece, troppo spesso è stata un inferno. I maggiori studiosi di letteratura italiana considerano lo scrittore di Santa Agata di Militello uno dei pochi, nel panorama italiano del XX secolo, a poter mostrare cosa è stato, cosa ancora è per l’Occidente moderno la letteratura. Mondadori ha, da poco, pubblicato nella collana i Meridiani “L’opera completa di Vincenzo Consolo”, a cura di Gianni Turchetta, docente di Letteratura Italiana Contemporanea alla Università Statale di Milano. Perché sia chiaro del valore e dell’importanza dello scrittore siciliano Cesare Segre nell’introduzione all’opera lo definisce “ il maggior scrittore italiano della sua generazione”.

Il volume raccoglie la sua produzione letteraria, da La ferita dell’Aprile a Di qua dal faro, e Gianni Turchetta ha fatto un grande lavoro, accurato, chiaro, basterebbe leggere la cronologia per capire la ricchezza e il rigore del lavoro del curatore.
Turchetta ci fa comprendere meglio che scrittore, che siciliano, che italiano è stato Vincenzo Consolo: «La forza di Consolo sta nel rappresentare una Sicilia che è, davvero, Sicilia. Studiata, documentata e vissuta sulla propria pelle, quella Sicilia che riesce a diventare metafora del mondo. Si posso dirlo, Consolo è stato ostinatamente e implacabilmente siciliano».

Indubbiamente è stato un autore plurale, complesso, nella lingua e nello stile.
«E’ uno scrittore sperimentale ma non è uno scrittore di avanguardia. Il suo atteggiamento nei confronti della tradizione non è di rifiuto. Da un lato vuole innovare il linguaggio, le forme letterarie, ma non lo fa rinnegando la tradizione bensì reinventandola a suo modo. Consolo rifiuta una letteratura che sia troppo commerciale, troppo incline a soddisfare gusti facili, polemizza anche con scrittori che sono stati dei maestri e a cui rimprovera un linguaggio troppo chiaro e comunicativo. In questo senso è molto delicato il rapporto che aveva con Leonardo Sciascia che è chiaramente un maestro di letteratura civilmente impegnata però non è, esattamente, un suo maestro di stile».

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Gianni Turchetta

Per capire davvero la sua scrittura è necessario capire che un grande lavoro è stato fatto sulla lingua ma non solo su quella. C’è un enorme lavoro sulle strutture. «In tutta la sua opera c’è tanta verità. Consolo costruisce una lingua ad alta densità di forme e significati e questo lo fa moltiplicando il proprio discorso letterario a vari livelli. Uno è quello del linguaggio, una mescolanza di tanti italiani, di tanti dialetti, spesso ha usato un siciliano non vocabolarizzato; un altro è quello dei generi letterari, ogni sua opera è, difficilmente, identificabile in un genere preciso. Un elemento decisivo per la molteplicità consoliana è la moltiplicazione dei soggetti, mette in gioco diverse prospettive. In questo modo Vincenzo Consolo ci ricorda che la realtà è fatta di più prospettive, la realtà è plurale, e che ogni soggetto rappresentato porta con sé una propria verità».

“L’opera completa di Vincenzo Consolo” a cura di Gianni Turchetta sarà presentata alla Libreria Cavallotto di Catania (corso Sicilia, 91), venerdì 27 febbraio alle ore 17.30, ne parleranno Rosalba Galvagno, Attilio Scuderi, Dario Stazzone e Salvatore Trovato.

La herida de abril Traduccion de Miguel A. Cuevas

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Vincenzo Consolo | La ferita dell’aprile
[Mondadori, Milán, Italia, 1963]
La herida de abril
Miguel Ángel Cuevas   (Traducción)

Vincenzo ConsoloUna célebre idea de Eliot –“abril es el mes más cruel”- reformulada por el poeta Basilio Reale, presta el título a la primera novela del siciliano Vincenzo Consolo, La herida de abril, que vio la luz en 1963 con Mondadori y tuvo una segunda edición en Einaudi en 1977, pero que permanece inédita en castellano hasta la fecha.

En palabras del traductor Miguel Ángel Cuevas, que traslada a nuestro idioma con muy lograda fidelidad toda la aspereza poética y dialectal del texto, los grandes temas de Consolo están ya presentes en esta ópera prima, como el reflejo “de la enésima desposesión histórica, de la permanente violencia del poder, de la desorientación —no sin tintes irónicos— que provoca una educación sentimental emocionalmente lastrada; pero la fractura que narra es asimismo la que se vislumbra entre el acontecer vital y la literatura: la herida que, tras el fracaso y el escarnio del muchacho enamorado, abre el camino a la obstinación memorial del personaje, un aprendiz de escritor”.

Siciliano afincado en Milán pero nunca desvinculado de su isla, Consolo (Sant Agata di Militello, 1933) es sobre todo conocido como autor de una trilogía que parte de la invasión garibaldina de 1860 con La sonrisa del ignoto marinero, prosigue con los albores del fascismo en Italia con De noche, casa por casa y llega a la contemporaneidad con El pasmo de Palermo. Otras obras suyas traducidas al castellano son la hermosa novela Retablo, el texto dramático Lunaria o los ensayos breves reunidos bajo el título A este lado del faro. Entre sus premios destacan el Strega, el Pirandello, el Brancati o el Grinzane Cavour.

MediterráneoSur ha publicado asimismo una entrevista con Consolo: «Hoy es difícil imaginar en Europa un país más fascista que Italia» [Nov 2009]

[Alejandro Luque]

La herida de abril

Capítulo I

De los primeros dos años que pasé viajando me queda la carretera enroscada como una cinta, que puedo desenrollar: ver otra vez las revueltas, las zanjas, los montones de grava alquitranada, la cruz de hierro pasionista; notar de nuevo el sol en el muslo, el olor a chotuno, la rueda que se desinfla, la naftalina que emana de las ropas. La escuela apenas la recuerdo. Pero sí la camioneta, la preñavieja, como decía Bitto, ya que, tan machacada, era un milagro que llevara gente. Además que los mejores ratos los pasé con ella: al amanecer, en la plaza del pueblo, esperando a los pasajeros —enfermos con la almohada y la manta de la cama, diligencieros, propietarios que tenían asuntos en el Registro o en el Catastro, gente que se quedaba en la marina o que tomaba el directo para Messina-, y luego, en la estación, donde enlazaba con el rápido de las dos y media.

No sé cómo empecé a ayudar a Bitto, el caso es que me veo subiendo la escalerilla, caminando por el techo para colocar los bultos, lanzarle, a una señal, el cabo de la cuerda que lo amarrara.¿Qué puedo recordar de aquellos años de clases y de curas si me lo tomé tan a disgusto desde el primer día, si Bitto se cachondeaba de los libros, si me fascinaba cómo conducía, y la camioneta, la vida en movimiento? También pedía yo los billetes con la carterilla negra en bandolera, o corría a la fuente con la zafa para limpiar los cristales de los vómitos de las mujeres y los niños.

—¿Tú al colegio qué vas, a trajinar?— preguntaba mama viéndome las manos sucias, la chaqueta manchada.

Como todo lo bueno, la vida con la camioneta se acabó después que le soplaran a tío Peppe que Bitto me tenía de ayudante. Me colocó de pupilo en una casa y ese fue el día que empezó el colegio.

Un agujero grande como un pozo desgarraba el piso superior frontero al mar, en las ventanas con tiestos encima de las lastras, desde donde los curas, en verano, contemplan al personal que va y viene por la calle, leyendo el breviario ocultos entre las hojas de la malvarrosa, como muchachas a la espera del amor.

Las tejas aún blanqueadas de cal con cruces rojas a derecha e izquierda, encima de la iglesia y del teatro, como si fuera un hospital. Muy sabia decisión: se engañaba a los aviones. ¿Y los barcos? Los barcos miraban de manera horizontal y el resultado es este agujero como un pozo de grande. El proyectil había entrado por donde el padre rector, había perforado la pared opuesta y se había hincado en el patio; la O desapareció y la T de INSTITUTO pendía de un clavo en el aire. Corrió entonces la voz que toda la construcción se había hecho cisco, pero a la vuelta de la evacuación se constató este leve daño, y puesto que los albañiles se habían esfumado como quinina en tiempo de malaria, este es el año que los tienes aún en el castillo tirando de espuertas de mezcla.

El patio en declive, una porción de colina descendiente: las voladoras, el columpio, los zancos, los tejos, el aleleví. La chusma de raqueros corre enloquecida tras un balón. Otros, nosotros, nos distraemos con la oca y el monopoli.

En el mes de diciembre, la segunda quincena, estábamos en la iglesia para oír la novena. Qué frío por los huesos: parecía cielo abierto (viento de tierra y viento de mar), el desplazamiento de aire había hecho añicos los vidrios de colores y los sacos que habían clavado batían contra el muro como velas. Por suerte ya desde Difuntos empezó a hacerse la colecta en misa para estos vidrios de antes de la guerra con el cordero y las palmas, la vid y los racimos, la roca y los siete riachuelos, lirios y margaritas. A las nueve, cuando hacía bueno, iban a cruzarse a media altura los rayos del azul al rosa y, con el incienso, a uno recién comulgado o en gracia simplemente, le parecía estar entre esas bellas nubes que son el paraíso en los recordatorios.

¡Un frío! El oficio dura que te dura, siempre quietos. La salida era ser el incensor, pero te puede tocar una tarde y, esperando esperando, al final hasta te saltan; sobre todo se precisa seriedad, no reírse al mirar a la cara a los compañeros cuando te llegas a la balaustrada, brazo muerto y la mano como piña, tres meneos a la derecha, tres al centro y tres a la izquierda. Pero también los monaguillos, que iban y venían entre iglesia y sacristía según los oficios, podían beneficiarse del turíbolo, y hasta de las obleas para las hostias y del vino. Los cantores, los de siempre, pasada la criba de los ensayos con escalas, voz pura y argentina, belleza del alma reflejada en ojos y garganta: en esto Tano Squillace se llevaba la palma, y asimismo Vittorio Seminara, recién elegido presidente de la Inmaculada. Se acabó cuando las tetillas se bufan como botones y el labio bajo la nariz se pone negro, te sale una voz nueva incontrolable que quiere imitar la de un hombre y que no sabe: «el más grave en los climas demasiado cálidos es el tan debatido problema del estado de pureza en el periodo de la adolescencia».

Aquella tarde el del incienso pegó un patinazo. Yo, por mi parte, me organicé bien aquella vez o dos que me tocó hacerlo (que me ponía rojo dice, ¿a santo de qué?), los ojos al suelo y «toma Alfio Cirino y Filadelfio, ay Alfio Cirino y Filadelfio, pobre Alfio Cirino y Filadelfio» . Ya estaba: reverencia, mediavuelta, genuflexión y fuera.

Sucedió que Costa Benito, el hijo del ex-guarda de la ex-cámara fascista, apareció por la tarde en el colegio estrenando una camisa verde, y hasta aquí nada que decir, pero la pifió con los dos hermanos detrás, con camisas roja y blanca (esta última la llevaba el pequeñajo gordo y en los hombros se le traslucía claramente el descosido del bordado con el blasón real). ¡Tarariií… fiiir-més! Costa no necesitó más preámbulos y despachó a aquellos dos para casa que lloraban casi de la pena de perderse el vale de cincuenta por la novena completa que servía para el cine Fiat Voluntas Dei Angelo Musco la tarde de Navidad o Nochevieja. En la iglesia, en primera fila, Filippo Mùstica (¡quién si no!) se hizo adelante, las manos de bocina, y atacó:

y la bandera tricolor
ha sido siempre la más bella

etcétera, y Costa, que el brazo estirado llevaba y la mano de piña, y estaba comenzando toma Alfio, a mi manera, se trabucó: las cadenillas de oro se le enredaron en el encaje del roquete y las brasas se desperdigaron por los tres peldaños del presbiterio. No veas, el uno se agachaba bajo el banco para desahogarse, el otro se tapaba la boca con el pañuelo. Costa, tras un vano intento de recoger los tizones, corrió a la sacristía. Acudió el prefecto, el que se ocupa del orden y de la disciplina, y empezó con el chis eh chis con una cara que ya te contaré. Inmediatamente recompuestos, la atención se dirigió hacia el padre rector que oficiaba y hacia el altar, sobre el que se había colocado la cueva de cartón oculta por el velo morado que caería la noche del veinticuatro con el gloria in excelsis y las campanas dale que te pego. La iglesia se puso oscura en un momento y sólo las velas alumbraban el altar. El acólito le dio al pedal de firme y hubo enseguida un chirrido y luego las primeras notas sopladas y el canto de sopranos y contraltos alternativamente:

—Regem venturum Dominum,

—Venite, adoremus.

—Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna…

Y la luz no venía, hacía falta otra ráfaga de viento que desenganchara los plomos que hacían contacto, pero los cantores en la oscuridad parecían mejores. ¿De dónde salen estas voces, del cielo, de la tierra, de bajo la casulla, de la capa pluvial?

—Prope est iam Dominus…

—Veni, Domine, et noli tardare… —Veni, et ostende nobis faciem tuam…

El cántico acabó y el armonio se desinfló como una rana y, en el silencio, un pesado paso de zapatos claveteados, que si te los imaginas arrastrándose por el suelo se te ponen los pelos de punta, avanzó desde el fondo oscuro de la iglesia por el pasillo entremedio de los bancos. Uuuu… hizo el viento, y las llamitas del altar se estremecieron y la luz volvió de golpe. Un soldado alto y delgado apareció a los pies del presbiterio; ayvá, todos los ojos encima de él, pero, de espaldas, sólo había uniforme, con el correaje ancho que colgaba de la cintura por la cacha. En la genuflexión se retorció como un árbol en invierno, luego se irguió, giró a la derecha y la cara lanzó destellos por los lentes. Giró de nuevo y se mostró de frente, pero la gran cruz roja sobre el pecho atrajo la atención y no dejó tiempo para el resto. Se inclinó ante el peldaño de la hornacina de San Bosco, abrió el breviario, clavó allí su cabeza de jilguero, se puso a musitar.

Cantó fuerte el padre rector en tono capitular:

—Praecursor pro nobis ingreditur… Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio non habet fine-e-em.

—Deo gratia-a-as —respondieron los cantores.

Pero ¿quién prestaba atención a los oficios? Los de los primeros bancos echábamos al militar miradas de reojo, que estaba el prefecto al acecho.

Filippo dijo: —Este es un teniente capellán. ¿De qué va, si ya acabó la guerra?

Los cantores atacaron aún un himno, un motivo ligero y brillante que no parecía gregoriano, se podía perfectamente bailar. ¿Que no? En la sacristía, jo cuántas veces, con cabos en las manos. Yo entornaba los ojos, las pestañas rozándose apenas, y los cantores en el presbiterio, desde uno y otro lado, avanzaban cantando hacia el centro y hacían el corro, sus bonitas sotanas rojas y los roquetes blancos hinchados por el viento, luego se soltaban intercambiándose los sitios, y luego otra vez, hasta decir amén. Dice que los antiguos danzaban y está escrito que David se inventaba las oraciones cantando y danzando cítara en mano. Pero los cantores, allí en el altar, se dejaban llevar todos por igual, meciendo la cabeza a un tiempo.

«Con sus ángeles y sus santos». Rector acólitos cantores entraron en fila para la sacristía, los fieles salieron por la puerta del fondo y los del oratorio del colegio nos quedamos quietos en nuestro sitio para escuchar el sermón vespertino de nuestro prefecto. Squillace, Seminara y los demás monaguillos volvieron a los bancos desvestidos de sus hábitos. El prefecto subió al púlpito, se agarró al antepecho con las manos, basculó para atrás y para adelante, tan adelante que es que se tiraba, nos miró uno a uno fijo a los ojos, la boca apretada como una raya de tiza. ¿Habla o no habla? La primera palabra nos abriría el corazón. ¡Acabáramos! Incalificables, idiotas, estúpidos, reírse por un motivo que no era para reírse, ni mucho menos; tomar la iglesia por el patio o el teatro; prepararse tan mal para la Santa Navidad, mala cosa. El discurso este ya nos lo conocíamos, la novedad fue la mención de Filippo, personal. —Tú, Mùstica —y lo señaló con el dedo—, levántate.

Filippo no era de los que se enredan así como así, se levantó cansino, como quien acaba de despertarse.

—Y ahora dime: ¿tú crees o no crees que ahí dentro está nuestro Señor?

Vaya lo que se le ocurría al prefecto. Filippo abrió los brazos y agachó la cabeza como diciendo «natural».

—Y entonces —tronó el superior— ¿por qué te meneas hablas te ríes, eh? Si tuvieras eso siempre presente… ¡Tú y tus compañeros! El teniente capellán había cerrado el breviario, se había sentado y escuchaba con una sonrisa en los labios.

El prefecto apartó los brazos del púlpito y los cruzó sobre el pecho.

—Y ahora, pero no os lo merecéis —dijo—, os doy una buena noticia: ha recalado entre nosotros, asignado a este colegio, un hermano nuestro, el padre Sergio —y sonrió al capellán. —El padre Sergio es un repatriado, un capellán castrense que vuelve de la guerra. El Señor ha sido bondadoso al querer enviarlo precisamente aquí. No soy yo quien ha de deciros quién es el padre Sergio: aprenderéis por vosotros mismos a conocerlo y a quererlo. Ahora le ruego que os dirija unas pocas palabras de salutación.

El prefecto descendió del púlpito y subió el capellán. Comenzó: —Queridos muchachos…

Qué ronco estaba, la voz le salía ahogada, como de vendedor al cierre del mercado.

—Imaginaos…

¿Por qué no escupía? A lo mejor se aliviaba.

—La guerra…

Dice que una cosa que es menester en estos casos es un cacho de carbón encendido metido en vino en un vaso, y la cama con un ladrillo caliente bajo los pies.

—Entre las nieves de Rusia…

¡Adiós! ¿También flemas? Se puso a carraspear y a toser, pobre, que parecía un concierto de pitos.

—…Vuestro afecto, vuestra conducta ejemplar, la práctica religiosa, el estudio…

¡Ah, se liberó! Hizo un rebujo con el pañuelo y lo volvió al bolsillo.

—En fin, os doy las buenas noches.

Y ya iba a descender, pero se detuvo; era el prefecto que, sacudiendo los brazos, había acudido bajo el púlpito para susurrarle alabado sea Jesucristo.

—Alabado sea Jesucristo —don Sergio . —Sea por siempre alabado —nosotros todos a coro.

Costa había salido de la sacristía con la caña larga en las manos y le costaba apagar las velas del altar mayor, parecía que persiguiera palomillas: el apagador le oscilaba y no conseguía parar el cucurucho encima de la llama. Quizá le temblaban las manos por el frío o todavía por la agitación del incidente del turíbulo.

Se fueron todos, ordenadamente y en silencio, en fila, los dedos en la pila, la cruz, pero en el pasillo largo estallaron los saltos y las voces, carrerillas y empujones, manotazos y mascadas, lo normal.

Yo me quedé en mi sitio, de rodillas, como si rezara, para seguir estudiando a don Sergio, allá en un rincón en recogimiento; y delante de mí, también de rodillas, Squillace y Seminara. Costa había apagado velas y luces, San Bosco y María Auxiliadora, las estaciones y la lámpara grande. Ahora la mariposa del vaso formaba un círculo con un ala de ángel dentro, una orilla del mantel de flecos dorados y el IHS también de oro, el atril vacío, las vinajeras y el frasco del lavatorio. El incienso se había disipado, las últimas nubecillas colgaban del techo y desde allí salían por las ventanas abiertas al aire libre de diciembre. Y no había más. Don Sergio desaparecido en la oscuridad, quedaba de él una mancha negra, casi como si se hubiera puesto ya los hábitos. ¿Qué chiste tenía seguir allí mirando? Yo me iba, pero Squillace y Seminara se quedaban. ¡Vaya unas ganas, esos dos! Que se hacían los cinco dieces cabales o si no las estaciones, que no era el caso en periodo de Adviento. O si no la Buena Muerte. Capaces eran.

—Pues buen provecho . Yo sin pasarme, que luego no puedo ni respirar. ¡Aire, aire!

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