7 COMPOSITORI E LO SCRITTORE VINCENZO CONSOLO SCRIVERANNO LA ” MESSA ” CHE SARA’ ESEGUITA A PALERMO un Requiem contro la mafia

7 COMPOSITORI E LO SCRITTORE VINCENZO CONSOLO SCRIVERANNO LA ” MESSA ” CHE SARA’ ESEGUITA A PALERMO
un Requiem contro la mafia
” le parole si perdono, la musica commuove e serve a ricordare ” . l’ iniziativa di questa Messa da Requiem e’ di Marco Tutino che comporra’ una parte dell’ opera come Lorenzo Ferrero, Carlo Galante , Paolo Arca’ , Matteo D’ Amico, Giovanni Sollima, Marco Betta

Sette compositori e lo scrittore Vincenzo Consolo scriveranno la “Messa” che sara’ eseguita a Palermo : Un Requiem contro la mafia “Le parole si perdono, la musica commuove e serve a ricordare”

MILANO . Una “Messa da Requiem” nella Cattedrale di Palermo. In quella stessa grande chiesa che ha accolto la disperazione e le lacrime dei siciliani dopo le ultime stragi di mafia. Un “Requiem” per le vittime della barbarie, per risvegliare i ricordi e le emozioni dei giorni terribili degli omicidi di Falcone e Borsellino. Per non dimenticare. A scriverla saranno sette giovani compositori, ciascuno preparera’ una parte: Lorenzo Ferrero l’ “Introitus”, Carlo Galante il “Dies Irae”, Paolo Arca’ l’ “Offertorio”, Matteo D’ Amico il “Sanctus”, Giovanni Sollima l’ “Agnus Dei”, Marco Betta il “Lux Aeterna”, Marco Tutino, ideatore dell’ iniziativa, il “Libera me”. “I siciliani rassegnati? Soprattutto sono stanchi. Troppe volte hanno assistito all’ esplosione della violenza, e ogni volta hanno rialzato la testa pur sapendo che dopo qualche giorno sarebbero tornati ad essere soli. Eppure, non hanno smesso di sperare: gli basta una mano tesa e nei loro occhi si riaccende la luce”. Sono intense, sincere le parole di Marco Tutino, milanese. “Ho sentito che dovevo fare qualcosa con quello che avevo, la musica. Non servira’ a vincere la mafia, ma servira’ alla gente. La musica ha un grande potere, quello di commuovere. I discorsi invece svaniscono presto e con loro lo sdegno”. Attualmente direttore artistico dei Pomeriggi Musicali di Milano, Tutino s’ e’ rivolto allo scrittore Vincenzo Consolo, siciliano, vincitore quest’ anno del Premio Strega col libro “Nottetempo, casa per casa”: “Gli ho chiesto di tradurre il testo in italiano, per dare alla “Messa” un’ attualita’ che il latino non ha piu’ . Poi ho allargato l’ iniziativa a sei colleghi”. Tutti giovani, tra i 30 e i 40 anni, tre settentrionali, due romani e due siciliani. “Nella mia scelta non ha pesato un criterio stilistico, ma una motivazione generazionale . continua Tutino .. E soprattutto la comune sensibilita’ verso i problemi sociali. E’ arrivata l’ ora per noi giovani di prendere posizione; non abbiamo piu’ fiducia nella vecchia guardia, ha smesso di sperare, ha abbassato le armi. Continua a dividersi su inutili polemiche, se e’ piu’ bravo il compositore neoromantico o l’ avanguardista. Bisogna rimboccarsi le maniche, invece”. La pensa allo stesso modo Lorenzo Ferrero, direttore artistico dell’ Arena di Verona: “E’ colpa della vecchia generazione se la gente crede che il mondo della musica sia disimpegnato: sono loro che hanno alimentato questa opinione. Il nostro e’ un segnale di svolta. Io dedico questa “Messa” a tutte le vittime della violenza. E sono contento della collaborazione di Consolo, che sapra’ tradurre il testo in un italiano non banale, in un linguaggio elevato, drammatico”. Dalla sua casa siciliana di Sant’ Agata di Militello, lo scrittore non nasconde la commozione: “Hanno pensato a me, e questo mi fa piacere. Una Messa per i morti e’ l’ omaggio piu’ vero che si possa fare alle vittime di tanta violenza. Ed e’ una voce di civilta’ . Di fronte a fatti cosi’ enormi, l’ impulso di un artista e’ quello di chiudersi nel silenzio. In questo caso, il silenzio sara’ riempito di musica, prima ancora che di nuove parole. Io cerchero’ di ricreare una lingua alta, che sia solenne e sacrale come il latino: introdurro’ espressioni di siciliano arcaico e modifichero’ il testo con riferimenti all’ attualita’ . Falcone e Borsellino? Non so se usero’ i loro nomi. Ma che sia un riferimento esplicito o metaforico, il loro sacrificio sara’ ricordato”. Sette stili diversi, e’ la prima volta nella storia della musica che il “Requiem” e’ scritto a piu’ mani. “Sarebbe la seconda, per la verita’ . dice Ferrero .. Perche’ anche quello che poi fu firmato solo da Verdi doveva essere opera di un gruppo di compositori”. Il sindaco di Palermo, appena saputo dell’ iniziativa, ha chiamato al telefono Marco Tutino per ringraziarlo: “M’ e’ sembrato sincero, e molto motivato. Mi ha offerto il suo completo appoggio perche’ l’ iniziativa vada in porto. E perche’ , come tutti vogliamo, sia Palermo ad ospitare la “prima”. So che ci vorra’ del tempo, anche perche’ stiamo contattando i piu’ grandi solisti lirici italiani, direttori, orchestre, e dovremo conciliare gli impegni di tutti. Che sia a dicembre o il prossimo anno, io spero soltanto che la “Messa” non sia ostacolata da invidie e piccole meschinita’ “.

Da sette compositori Requiem per Falcone Sette compositori e uno scrittore uniti per una Messa da Requiem dedicata a Falcone, Borsellino e a tutte le altre vittime della mafia. L’ iniziativa e’ del giovane musicista Marco Tutino: ha riunito altri sei colleghi per una composizione che verra’ probabilmente eseguita a dicembre nella Cattedrale di Palermo. Ciascuno dei compositori scrivera’ la musica di una delle sette parti di cui si compone la “Messa”. Il Requiem non avrà il solito testo latino: lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo sta scrivendo una versione italiana con un linguaggio drammatico e arcaico, anche se con riferimenti alla realtà attuale.

Iossa Mariolina

(22 agosto 1992) – Corriere della Sera

Premio Strega 1992 Vincenzo Consolo

Libri in concorso

Andrea Camilleri, La stagione della caccia (Sellerio)
Luca Canali, Diverse solitudini (Studio Tesi)
Carla Cerati, La perdita di Diego (Frassinelli)
Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa(Mondadori)
Luca Doninelli, La revoca (Garzanti)
Elena Ferrante, L’amore molesto (e/o)
Salvatore Mannuzzu, La figlia perduta (Einaudi)
Marina Mizzau, I bambini non volano (Bompiani)
Gianni Riotta, Cambio di stagione (Feltrinelli)
Vittoria Ronchey, 1944 (Rizzoli)
Marcello Venturoli, Io, Saffo (Newton Compton)

Prima votazione
Casa Bellonci, 5 giugno

Venturoli 68
Mannuzzu 64
Ronchey 64
Consolo 62
Cerati 34

Seconda votazione
Villa Giulia, 2 luglio

Consolo 136
Venturoli 100
Mannuzzu 77
Roncheyi 49
Cerati 19

Vincenzo Consolo
Nottetempo, casa per casa

Inseguito dalla luna, un uomo, un “lupo mannaro”, corre gridando i suoi tormenti per le contrade e le colline argentate di ulivi. Giunge a Palermo una piccola comunità e di forestieri stravaganti: sono cultori di misteriosi riti esoterici, di nozze pagane con la natura, guidati da un moderno superuomo, Aleister Crowley, venuto a giocare in un paese mediterraneo forse l’ultima delle sue provocazioni teatrali… Ancora una volta Vincenzo Consolo ha scelto di parlarci dell’oggi attraverso uno scenario familiare e un momento chiave della storia siciliana e italiana: i primi anni Venti, che segnano l’avvento del fascismo e la notte della ragione. È un romanzo corale, l’evocazione lirica e risentita di tanti destini individuali e di un’intera civiltà, colta nel momento in cui sta per essere sopraffatta.

Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio 1933. Laureato in giurisprudenza, vive dal 1968 a Milano, lavorando alla RAI e collaborando a quotidiani e riviste letterarie.
Ha esordito nella narrativa con il romanzo La ferita dell’aprile (1963), poi è tra gli altri sono stati pubblicati: Il sorriso dell’ignoto marinaio(1976), la favola Lunaria (1985), i racconti La pesca del tonno in Sicilia (1986) e Retablo (1987), e Le pietre di Pantalica (1988), raccolta di scene di argomento siciliano.

Vincenzo Consolo: «Falcone, il furore di un siciliano giusto»

Vincenzo Consolo: «Falcone, il furore di un siciliano giusto»

In un torrido fine giugno del 1963, a Ciaculli, un’Alfetta carica di tritolo uccideva, dilaniandoli, sette carabinieri: un tenente, tre marescialli, tre semplici guardie. Fu quell’esplosione il primo, tremendo cambio di linguaggio della mafia: dall’antico, rurale linguaggio dei pallettoni della lupara passava al linguaggio moderno e cittadino del tritolo; dalle vendette contro singoli avversari alle cieche, indiscriminate stragi con l’esplosivo o con le sventagliate di mitra. Ora in quella località sopra i colli che circondano Palermo, in mezzo ai fitti giardini di mandarini che in alto lasciano il posto alla scabra nudità della roccia, si erge una stele che ricorda le vittime: «Alla memoria di coloro che la mafia stroncò a Ciaculli e del loro sacrificio che trasformò l’esecrazione in un moto di riscatto civile» vi è sopra inciso. In quell’ estate, ai funerali del tenente Mario Malausa e dei suoi uomini, crediamo abbia assistito, sgomento e addolorato, l’allora ventiquattrenne Giovanni Falcone. Fresco di laurea, crediamo che quei morti, il dolore e il furore per quei servitori dello Stato assassinati in quel modo, abbiano spinto il giovane a compiere la sua scelta di vita, a entrare nella magistratura. Era nato Falcone nel cuore della Palermo storica, nell’ arabo quartiere della Kalsa, nell’ antica piazza della Magione che le bombe della guerra avevano lacerato e ridotto in macerie, in una vaga spianata ancora oggi là sotto il sole. Era figlio di un chimico, un uomo serio, rigoroso, morto prematuramente, e di Luisa Bentivegna, figlia di un ex sindaco di Palermo. Aveva compiuto gli studi medi al liceo Umberto, dove il bravo professore di storia e filosofia Franco Salvo esercitava una grande influenza sugli allievi. E aveva frequentato l’oratorio di San Francesco, presso i frati della chiesa medievale, dove era divenuto amico di un coetaneo nato nello stesso quartiere, nella piazza Vetreria, del futuro collega Paolo Borsellino. Falcone, Borsellino, il nisseno Giuseppe Ayala, l’abruzzese Giuseppe Di Lello, altri coetanei, sono i giovani di una nuova storia della magistratura palermitana: giudici che per una diversa coscienza civile, per profonda indignazione di fronte alla crescente violenza, alla barbarie vergognosa della mafia, a causa dei grandi delitti degli anni Settanta, degli assassinii di giudici sagaci e onesti, Costa, Terranova, Chinnici, assassinii di carabinieri e poliziotti, si riunivano attorno al giudice Caponnetto a formare il pool antimafia che porterà all’ incriminazione dei capi di Cosa Nostra, al grande processo del febbraio 1986. In quella mattina di vento, di pioggia, di grandine, ero anch’ io a Palermo all’ apertura del processo, entrai in quell’ aula verde, in quel bunker a forma di grande ventaglio, salii sulla tribuna della stampa, fui spettatore e cronista di quella storica liturgia giudiziaria. Vidi, dietro le sbarre delle gabbie, i volti di famigerati mafiosi, di Luciano Liggio, sprezzantemente vestito con tuta da ginnastica e scarpe di gomma, di Giuseppe Bono, di Pippo Calò. Ma vidi soprattutto, oltre al presidente della corte Giordano, la figura smilza, il viso scavato di antico cavaliere spagnolo, del pubblico ministero Ayala, il volto olivastro, con la folta barba brizzolata, di Falcone. Mi raccontava un fotografo di Palermo, uno di quelli costretti a fotografare morti ammazzati coperti da giornali, da lenzuola per le strade di Palermo, che l’aveva impressionato in due mesi, mettendo accanto due foto del giudice Falcone, scattate a poca distanza una dall’ altra, il rapido invecchiamento di quell’ uomo. Incontrai poi Falcone, insieme ad Ayala, qualche anno fa a un ricevimento in casa di comuni amici. Ci presentarono, mi fecero sedere accanto a lui. Non scambiammo che qualche parola. Mi colpì di quell’ uomo, oltre alla sua ritrazione, al suo rifugio nel silenzio, l’immobilità, del viso e della figura, la rigidità quasi, in contrasto con quegli occhi neri, mobili e attenti. Capii che a quell’atteggiamento, a quella incapacità di sciogliersi anche in un ambiente sicuro, in un contesto conviviale, l’aveva ridotto la vita disumana, da segregato, in continuo allarme per ogni rischio, per ogni pericolo che improvvisamente poteva presentarglisi, per l’enorme peso di lavoro, di responsabilità che era costretto a sostenere. Ayala invece reagiva a quella vita in modo del tutto opposto: con vivace, calorosa colloquialità, con allegria. Falcone non aveva più la barba brizzolata, gli erano rimasti solo i baffi sopra quelle labbra dalla parola avara, in quel viso da arabo con quell’espressione pensosa, triste, di uomo «con toda su muerte a cuestas», come dice il poeta. Aveva tanto lavorato e lottato per arrestare quel linguaggio fragoroso e mortifero della mafia, quel linguaggio del tritolo dall’ accento ormai da terrorismo basco, da guerriglia libanese.

Ѐ stato fermato sulla strada che da Punta Raisi lo portava a Palermo, tra l’alta roccia e il mare. Ѐ morto insieme alla povera moglie, Francesca Morvillo, ai fedeli uomini della scorta. La tonnellata di tritolo è esplosa nella vacanza della suprema autorità, nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre più dalla realtà di questo Paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere. C’è un famoso romanzo popolare palermitano, I Beati Paoli, scritto all’ inizio del secolo da Luigi Natoli, in cui si racconta di una settecentesca setta segreta che nella carenza del «braccio della Giustizia» statale, compiva vendette, faceva eseguire omicidi. La strage di oggi ci fa sospettare che una setta di Diabolici Paoli, massonerie, logge segrete, servizi deviati dello Stato o quant’ altro, in questo momento delicato, come in altri simili momenti, servendosi della mafia, o al di là o al di sopra della mafia, compia simili stragi perché i misfatti restino impuniti, per gettare il Paese nella confusione, nel terrore. Eliminando questa volta un uomo giusto ed eroico, uno dei siciliani migliori che non finiremo di rimpiangere; eliminando con lui altri quattro innocenti, nobili servitori dello Stato.

Vincenzo Consolo

(Corriere della Sera, pag. 9, 26 maggio 1992)

Vincenzo Consolo: «Falcone, il furore di un siciliano giusto»



In un torrido fine giugno del 1963, a Ciaculli, un’Alfetta carica di tritolo uccideva, dilaniandoli, sette carabinieri: un tenente, tre marescialli, tre semplici guardie. Fu quell’esplosione il primo, tremendo cambio di linguaggio della mafia: dall’antico, rurale linguaggio dei pallettoni della lupara passava al linguaggio moderno e cittadino del tritolo; dalle vendette contro singoli avversari alle cieche, indiscriminate stragi con l’esplosivo o con le sventagliate di mitra. Ora in quella località sopra i colli che circondano Palermo, in mezzo ai fitti giardini di mandarini che in alto lasciano il posto alla scabra nudità della roccia, si erge una stele che ricorda le vittime: «Alla memoria di coloro che la mafia stroncò a Ciaculli e del loro sacrificio che trasformò l’esecrazione in un moto di riscatto civile» vi è sopra inciso. In quell’ estate, ai funerali del tenente Mario Malausa e dei suoi uomini, crediamo abbia assistito, sgomento e addolorato, l’allora ventiquattrenne Giovanni Falcone. Fresco di laurea, crediamo che quei morti, il dolore e il furore per quei servitori dello Stato assassinati in quel modo, abbiano spinto il giovane a compiere la sua scelta di vita, a entrare nella magistratura. Era nato Falcone nel cuore della Palermo storica, nell’ arabo quartiere della Kalsa, nell’ antica piazza della Magione che le bombe della guerra avevano lacerato e ridotto in macerie, in una vaga spianata ancora oggi là sotto il sole. Era figlio di un chimico, un uomo serio, rigoroso, morto prematuramente, e di Luisa Bentivegna, figlia di un ex sindaco di Palermo. Aveva compiuto gli studi medi al liceo Umberto, dove il bravo professore di storia e filosofia Franco Salvo esercitava una grande influenza sugli allievi. E aveva frequentato l’oratorio di San Francesco, presso i frati della chiesa medievale, dove era divenuto amico di un coetaneo nato nello stesso quartiere, nella piazza Vetreria, del futuro collega Paolo Borsellino. Falcone, Borsellino, il nisseno Giuseppe Ayala, l’abruzzese Giuseppe Di Lello, altri coetanei, sono i giovani di una nuova storia della magistratura palermitana: giudici che per una diversa coscienza civile, per profonda indignazione di fronte alla crescente violenza, alla barbarie vergognosa della mafia, a causa dei grandi delitti degli anni Settanta, degli assassinii di giudici sagaci e onesti, Costa, Terranova, Chinnici, assassinii di carabinieri e poliziotti, si riunivano attorno al giudice Caponnetto a formare il pool antimafia che porterà all’ incriminazione dei capi di Cosa Nostra, al grande processo del febbraio 1986. In quella mattina di vento, di pioggia, di grandine, ero anch’ io a Palermo all’ apertura del processo, entrai in quell’ aula verde, in quel bunker a forma di grande ventaglio, salii sulla tribuna della stampa, fui spettatore e cronista di quella storica liturgia giudiziaria. Vidi, dietro le sbarre delle gabbie, i volti di famigerati mafiosi, di Luciano Liggio, sprezzantemente vestito con tuta da ginnastica e scarpe di gomma, di Giuseppe Bono, di Pippo Calò. Ma vidi soprattutto, oltre al presidente della corte Giordano, la figura smilza, il viso scavato di antico cavaliere spagnolo, del pubblico ministero Ayala, il volto olivastro, con la folta barba brizzolata, di Falcone. Mi raccontava un fotografo di Palermo, uno di quelli costretti a fotografare morti ammazzati coperti da giornali, da lenzuola per le strade di Palermo, che l’aveva impressionato in due mesi, mettendo accanto due foto del giudice Falcone, scattate a poca distanza una dall’ altra, il rapido invecchiamento di quell’ uomo. Incontrai poi Falcone, insieme ad Ayala, qualche anno fa a un ricevimento in casa di comuni amici. Ci presentarono, mi fecero sedere accanto a lui. Non scambiammo che qualche parola. Mi colpì di quell’ uomo, oltre alla sua ritrazione, al suo rifugio nel silenzio, l’immobilità, del viso e della figura, la rigidità quasi, in contrasto con quegli occhi neri, mobili e attenti. Capii che a quell’atteggiamento, a quella incapacità di sciogliersi anche in un ambiente sicuro, in un contesto conviviale, l’aveva ridotto la vita disumana, da segregato, in continuo allarme per ogni rischio, per ogni pericolo che improvvisamente poteva presentarglisi, per l’enorme peso di lavoro, di responsabilità che era costretto a sostenere. Ayala invece reagiva a quella vita in modo del tutto opposto: con vivace, calorosa colloquialità, con allegria. Falcone non aveva più la barba brizzolata, gli erano rimasti solo i baffi sopra quelle labbra dalla parola avara, in quel viso da arabo con quell’espressione pensosa, triste, di uomo «con toda su muerte a cuestas», come dice il poeta. Aveva tanto lavorato e lottato per arrestare quel linguaggio fragoroso e mortifero della mafia, quel linguaggio del tritolo dall’ accento ormai da terrorismo basco, da guerriglia libanese.Ѐ stato fermato sulla strada che da Punta Raisi lo portava a Palermo, tra l’alta roccia e il mare. Ѐ morto insieme alla povera moglie, Francesca Morvillo, ai fedeli uomini della scorta. La tonnellata di tritolo è esplosa nella vacanza della suprema autorità, nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre più dalla realtà di questo Paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere. C’è un famoso romanzo popolare palermitano, I Beati Paoli, scritto all’ inizio del secolo da Luigi Natoli, in cui si racconta di una settecentesca setta segreta che nella carenza del «braccio della Giustizia» statale, compiva vendette, faceva eseguire omicidi. La strage di oggi ci fa sospettare che una setta di Diabolici Paoli, massonerie, logge segrete, servizi deviati dello Stato o quant’ altro, in questo momento delicato, come in altri simili momenti, servendosi della mafia, o al di là o al di sopra della mafia, compia simili stragi perché i misfatti restino impuniti, per gettare il Paese nella confusione, nel terrore. Eliminando questa volta un uomo giusto ed eroico, uno dei siciliani migliori che non finiremo di rimpiangere; eliminando con lui altri quattro innocenti, nobili servitori dello Stato.

Vincenzo Consolo (Corriere della Sera, pag. 9, 26 maggio 1992)

UOMINI COME LUPI PAROLE COME SILENZI

Sono due biblioteche i primi antagonisti che si incontrano nel nuovo romanzo di Vincenzo Consolo (Nottetempo, casa per casa, Mondadori, pagg. 175): quella polverosa e non troppo frequentata del barone don Nenè Cicio, ospitata nel suo palazzotto patrizio di Cefalù, e quella del suo defunto zio don Michele, che don Nenè ha cominciato a chiamare Bastardo dopo l’ apertura del testamento. La prima, minuziosamente descritta neanche fosse la biblioteca di Des Esseintes, comprende le più improbabili opere di antiquaria siciliana accanto a “controversie storiche, teologiche, vite di santi, di missionari martiri, dissertazioni, apologie” e a vecchi trattati scientifici come la Flora palermitana, la Storia naturale delle Madonie, il Catalogo dei crostacei del Porto di Messina, e via dicendo; del tutto assente la letteratura, se non per il “segreto enfer” del barone, peraltro alquanto esiguo, visto che si limita ad accogliere le satire dialettali di Domenico Tempio e l’ opera venerata di Gabriele D’ Annunzio. Don Michele invece aveva libri in ogni stanza della sua grande casa, “di filosofia, di politica, di poesia”, e li raccontava a Petro Marano, figlio del suo mezzadro nominato erede universale: “‘ Vittor Ugo’ , diceva ‘ Vittor Ugo…’ e ‘ Gian Valgiàn, Cosetta…’ , ‘ Tolstòi’ e ‘ Natascia, Anna, Katiuscia…’ , e narrava, narrava le vicende, dell’ inverno, torno alla conca con la carbonella”. Più che due culture, sono due impronte antropologiche a fronteggiarsi: da una parte lo stanco e rituale ossequio alle tradizioni locali, radicato in una cinica accettazione dell’ esistente che nasconde solo volgarità intellettuale o edonismo d’ accatto; dall’ altra l’ esercizio ostinato e appassionato della fantasia, le fughe della mente verso altre realtà, e in un angolino la vis profetica di una pervicace fede nella palingenesi, con la minaccia incombente e inevitabile della follia. Il romanzo ruota per intero intorno allo scontro manicheo fra questi due modelli; e si ha l’ impressione che poco importi, in definitiva, l’ epoca storica in cui l’ intreccio è collocato (gli anni cruciali fra il ‘ 20 e il ‘ 22, le lotte contadine, l’ avvento del fascismo), di fronte a quell’ eterno conflitto che certo si cala di volta in volta in concrete incarnazioni istituzionali e sociali, ma che poi le trascende tutte in quanto resta un conflitto di “forme” pure, schemi astratti di rapporto col mondo. Voglio dire che la cantata sicilianissima e densa di umori da barocco popolare, quale Nottetempo, casa per casa può d’ acchito apparire, si rivela a ben guardare un’ articolata allegoria morale, una sorta di poema filosofico in cui l’ eco arcaica della physis presocratica (l’ unità e totalità delle cose e dell’ uomo. Il principio assoluto e comune della fisiologia e dell’ etica) fa da sottofondo ai lugubri rintocchi dell’ alienazione moderna, che quella totalità perduta riduce a pazzia, a deviazione mostruosa, a terrore. E don Nenè Cicio scimmiotta D’ Annunzio Il padre di Petro, ad esempio, è un “luponario”, un licantropo che urla alla luna e piange disperato sulla sua incomprensibile condizione (“Si spalancò la porta d’ una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna”); ed è pazza Lucia, sorella del giovane, che entra ed esce da una clinica psichiatrica, segregata e tormentata dai fantasmi ossessivi della sua malattia, eppure mai querula, anzi fiera e a suo modo orgogliosa. Sembrano, nell’ immaginario di Consolo, le propaggini esauste della schiatta dei puri e dei giusti, “piena della capacità d’ intendere e sostenere il vero, d’ essere nel cuore del reale, in armonia con esso”: la razza della speranza e della sintonia col mondo, della quale Petro, maestro di scuola generoso e progressista, è forse l’ ultimo erede sano. Dall’ altra parte, all’ altro polo del conflitto, non c’ è invece autentica follia: vi si incontrano al massimo il provinciale deréglement del barone Cicio, che scimmiotta un D’ Annunzio ridotto a magniloquente ed erotomane fantoccio, o le mistificazioni tra mistiche e sataniche di Aleister Crowley, uno sgangherato santone realmente esistito che trascina sul mare di Cefalù la sua esigua comunità di invasati sacerdoti dell’ amore di gruppo, alla quale aderisce con entusiasmo lo stesso don Nenè. E con questa comunità si incontra e scontra il personaggio più chiaramente allegorico del romanzo, il giovane pastore Janu, la cui carnale e prorompente innocenza è dapprima invano attratta dalla pazzia di Lucia, per poi rifluire nel grembo accogliente di un’ adepta di Crowley, e uscirne segnata per sempre da una malattia venerea che è anche e soprattutto inguaribile malattia morale. Petro, alla fine, fuggirà in Tunisia: per sottrarsi, lui amico di socialisti e anarchici, alle rappresaglie dei fascisti e degli sgherri di don Nené pronti a fargli pagare antichi e nuovi rancori sotto la protezione della camicia nera; ma anche per appartarsi in una lacuna franca, in un anfratto fuori dalla storia, dal quale poter affidare alla scrittura (ebbene sì, proprio all’ invenzione letteraria) le labili tracce di un Senso perduto, di una salvezza a venire da aspettare con pazienza e rassegnazione. I progetti palingenetici dell’ anarchico Schicchi, suo compagno di fuga, non lo toccano più di tanto: “Si ritrovò il libro dell’ anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare. Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”. Manganelli e sangue e auto rombanti della Targa Florio Il romanzo così si conclude: per la schiatta dei giusti, dunque, l’ unica alternativa alla follia è la scrittura. Ma non sarà anche questa un’ illusione, una soccorrevole menzogna? “E’ mai sempre questa la scrittura”, si chiede Consolo qualche pagina prima, “è l’ informe incandescente che s’ informa… è canto, movimento, pàrodo e stàsimo per liberare pena gioia furia rimorso, mostrare nella forma acconcia, nella più bella la tempesta?… E’ menzogna l’ intelligibile, la forma, o verità ulteriore? Ma prima è l’ inespresso, l’ ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto… E’ la ritrazione, l’ afasia, l’ impetramento la poesia più vera, è il silenzio, o l’ urlo disumano. E allora l’ infinita acribia stilistica con la quale lo scrittore ha allestito il suo poema filosofico, quel martellare frequentissimo di endecasillabi che si affaccia da una prosa divenuta niente più che una sottile pellicola delegata ad amalgamare e dissimulare i versi, ci slarga improvvisamente davanti un’ ulteriore prospettiva: forse quella lingua musicale e misteriosa, attorta su termini rari e preziosi e poi improvvisamente sciolta con ritmi di sistole e diastole nel giro del parlato popolare, capace di attingere alla più alta tradizione letteraria italiana (“le mura e gli archi” di Leopardi, addirittura un inopinato Pascoli: “trapassa per le stanze un lume, palpita, s’ è spento”) come alla materia, vivente o arcaica che sia, del dialetto siciliano; forse quella lingua, dicevo, è ora una semplice efflorescenza del silenzio, ora il camuffamento di un “urlo disumano”. E la storia, i manganelli e il sangue, i nobili e i contadini, i mafiosi e gli anarchici, le automobili rombanti della Targa Florio e i periclitanti carretti dei venditori ambulanti, altro forse non sono se non puro materiale esornativo, attribuito, “forma intelligibile” e menzognera prestata dalla letteratura a una Sostanza oscura e inattingibile, assoluto Male o assoluto Bene, Totalità infranta ab origine, e mai più ricomposta. In tal modo lo stesso processo di civilizzazione, con gli scontri e le lotte all’ ultimo sangue fra i don Nenè e i Petro Marano, con la follia, gli entusiasmi e le ciniche sopraffazioni che lo scandiscono, diverrebbe un mero esorcismo, una sorta di rito – magari altrettanto insensato e sterile quanto quelli praticati da Crowley e seguaci – rivolto a scongiurare la minaccia di quell’ oscurità, e proprio per questo di essa in qualche modo partecipe, ugualmente minaccioso, ugualmente incomprensibile. E lo scrittore finirebbe comunque col farsene complice, nella necessità di sfuggire all’ aut aut tra urlo e silenzio, affastellando i suoi prodotti in biblioteche sempre più polverose e sempre più mute alla benché minima richiesta di aiuto loro rivolta: un aiuto per potersi ritrovare, magari per un attimo, “nel cuore del reale”. Non è un romanzo perfetto, Nottetempo, casa per casa: talvolta la tensione si allenta, il giro stilistico si assolutizza, diventa maniera; talaltra l’ invenzione simbolica si ingolfa per troppo combustibile, si fa confusa, pletorica. E tuttavia è un romanzo importante, quasi un evento nei tempi grami della nostra narrativa: vi si respira, vivaddio, l’ aria della grande letteratura, quella che suscita interrogativi, pensieri, disagi, che ti restituisce lo spessore, le contraddizioni, il senso nascosto di un’ epoca. Un’ aria tanto ricca di ossigeno culturale può far male, dar le vertigini a chi è abituato allo smog e alla stagnazione della quotidianità; ma è un rischio che va corso con entusiasmo, e ringraziando di tutto cuore chi per una volta è riuscito a farcelo correre.

di STEFANO GIOVANARDI

La Sicilia passeggiata

DSC_0973

[…] Quest’ isola al centro del Mediterraneo,
questo luogo d’ incrocio d’ ogni vento e assalto, d’ogni dominio
e d’ogni civilizzazione . << La Sicilia mi richiama all’Asia e l’Africa;
trovarsi nel centro meraviglioso, dove convengono tanti raggi della storia universale,
non è cosa da nulla>> dice Goethe alla vigilia della sua partenza per l’ isola .
Isola della natura travagliata , isola del caos e della minaccia ;
terra vacillante, terra di magma e caligini, dei gessi, delle marne e degli zolfi;
terra di mari inquieti, di scogli infidi, di isole fumanti;
terra di pietrame, d’aridume, di squallide distese desolanti.
Isola della quiete, dell’ abbandono, della bellezza dispiegata e rapinosa;
terra della natura generosa, della luce chiara, delle acque, dei boschi,
dei giardini e delle zagare fragranti.
Isola dell’ esistenza pura e contrastante.
Isola dell’ infanzia dei miti, e delle favole. Isola della storia.
Di storia dei primordi , degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri,
di decadenze, di crolli, di barbarie.
Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue.
Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco.[…]

La Sicilia passeggiata
di Vincenzo Consolo
edizioni Eri Rai 1991

Una passeggiata a Palermo con le foto di Salvo Fundarotto

Salvo Fundarotto
Si forma nel laboratorio fotografico di Letizia Battaglia. Negli anni ’80 collabora come fotoreporter con il quotidiano palermitano L’Ora. Con la chiusura del giornale inizia a collaborare alla rivista dell’ Assemblea regionale siciliana Cronache Parlamentari Siciliane. Poi si dedica solo alla fotografia d’autore. Suoi lavori per Young & Rubicam, e poi per l’agenzia Grazia Neri . Le sue opere sono quasi esclusivamente in bianco e nero. Scompare a 56 anni nel 2011. 

Vincenzo Consolo Catarsi



Ermetici suoni, versi bestiali o ululare
del vento fra picchi, gole o accordi
 d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio
 come il tuo di pietra, creatura mia,
solo questo è degno, la tua cruda assenza,
 la tua afasia, la tua divina inerzia.
Là, per il cammino impervio e fatale,
 per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa,
 pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero.
lo che sarò erba, fronda, uccello…
Io che sarò cenere.
 Il silenzio o solo la parola vergine
del folle o del poeta.
“ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia
il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,
 e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:
 gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti;
 perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai
per causa di uno solo
d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto.
 allá, theoi…
 ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén”
Dico queste parole d’una lingua morta,
di corpo incenerito, priva delle scorie
 putride dello scambio, dell’utile
come la lingua alta, irraggiungibile,
 come la lingua altra, oscura,
 della Pizia o la Sibilla
che dall’antro libera al vento mugghii, foglie,
come la formula introversa, transustanziante,
dell’unto attore, del sacrificante.
Voglio opporre così, da questo treppiede
del vulcano, in quest’ultimo momento,
all’ermetismo osceno e violento,
all’afasia del potere immondo,
 il sacro ermetismo d’una lingua scritta.
 Come s’oppose a me, vile Agamennone,
 il fiore più bello nato alla mia casa,
 la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!,
 volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo,
alla vittoria mia per il comando.
S’oppose, col suo volo d’angelo
 a capofitto, col terribile silenzio,
la ritrazione in un’oscura lontananza,
con l’apparente morte, la paraplegia inumana.
Lo voglio dire qua,
a parole chiare e nette,
 lo voglio dire alle pietre e al fuoco,
al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora
 che urge appresso: mia figlia Delia
così di me s’è giustamente vendicata.
 Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare,
 con il suo precipitare nell’assenza,
 vuoto alla mia espansiva tracotanza,
 alla mia cieca, corposa violenza?
Perché, o noi crudeli, è così:
 chi muore per suo volere o d’altri
 è la sacrificale vittima, l’agnello bianco
 sopra la dura pietra, sotto la lama
 della nostra sopravvivenza.
 Così ogni tempo, ogni società ha ucciso
 il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco
 d’un colpo di pistola; Federico
 tra gli ulivi e i cardi (splendeva,
 contro il nero dei fucili, dei colbacchi
 la sua camicia bianca, splendeva
 nella notte lo sciame nella lampada di lucciole);
 Pier Paolo tra l’immondizia e il fango
 d’un Getsemani, d’un desolato campo.
 Così le creature che in esilio vanno sulla luna,
che hanno rotto ogni legame
 col nostro linguaggio marcio e insensato.
Aaaaaah! Aaaaaaah!
 Pesano le nostre colpe sulle spalle
 come una plumbea Terra!
 […]
 Nell’età ferita e luminosa,
 fremente di lievito e di zagara,
 venni la prima volta a questo monte.
 Venni con la brigata d’allegria
 e di chiasso dei compagni,
 con il sorriso dolce di Pantea.
 Scendeva per la vallata
 il fiume rovinoso della lava,
 solenne piena di panico e d’incanto
 (torceva in un lamento, inceneriva
 la betulla, il cerro, il faggio,
 rovinava il muro a secco,
 la cisterna, la pergola,
 la casa tenera di rosa,
 giallo sopra quel mare nero.
 Torceva pel terrore il collo
e scalpitava il mulo,
 il cane si perdeva nei guaiti
 legato sotto il carro dei fuggenti).
Mi feci appresso a consolarla,
smarrita e tremula com’era
avanti allo spettacolo tremendo.
E avanti al fuoco, avvampando,
dissi del mio marasma, del mio fuoco.
Lei, dolce, si volse a consolarmi.
 Tutta una vita, Pantea amorosa,
 s’assume in un unico momento.
 La mia, in quell’antico,
 dolcissimo e solenne, di verità assoluta
 dentro la verità della natura
 Raccolsi e le offrii un verde
 tralcio di ginestra
 ch’ella conservò come segno
 e pegno d’un sacro giuramento.
 Pose quel ramo poi nella scatola
 di legno, bianco come avorio,
 scolpito da un pastore d’Eraclea,
che regalò, viatico e amuleto,
 a nostra figlia, a Delia,
nel giorno primo che diventò fanciulla
E ancora sul vulcano, davanti a te,
 Demetra sigillata dentro il manto,
madre e donna offesa,
incenerito e privo di poesia,
 sono questa volta in cerca
 d’un castigo, d’una quiete.
Dell’ultima verità, e indicibile.
 […]
 Alla luce viola dell’estremo raggio,
 alla luce spenta, voglio dire addio
 alle arpe senza suono, alle creature senza accento:
al fiore straziato, più che morto,
 al nardo, al gelsomino delicato
 reciso dalla mia, dalla furia del mondo;
alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore.
 Io pago la mia follia, la mia fuga
 da voi, dal sacro accordo, dall’armonia.
 Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto,
 che il deserto consola della vita,
 chiamatelo asfodelo, fiore della morte,
chiamatelo loto, fiore dell’oblio.
Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle
feroce, l’Empedocle sacrilego.
 L’odio di me, di questo tempo odioso
 mi separa da voi, da voi già separate.
 Io vado, Pantea, vado figlia mia,
nella notte d’assenza come la tua,
vado dove finisce questo monte,
dove finisce questa terra,
vado dove comincia il fuoco
ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa.
E questo il solo, il degno modo,
 mie perse figlie, di trovarvi.
 Di ritornare nel giardino vago,
 nella casa vostra di pietra e onore,
 alla serena mensa degli affetti.
 Addio.

Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.


foto Giovanni Giovannetti


Elogio della poesia
Intervista con Vincenzo Consolo


Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.

Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.

La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.

La concentrazione viene  dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.

 Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..

 Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.

Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?

È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.

Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?

Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.

 Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.

 È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.

L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?

Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.

 Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.

Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.

Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?

Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.

 Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?

lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.

a cura di Enzo Di Mauro

 Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).

Foto Giovanni Giovannetti


Enzo Sellerio: Fotografia e/o racconto. Vincenzo Consolo.

Viaggi dal mare alla terra.

Viaggi dal mare alla terra

Vincenzo Consolo

« Nasceva Errigo Piraino dei Baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel R. Convitto Carolino d’onde usciva all’età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendo veramente persuaso, che l’uomo fu creato per lavorare e produrre, e che vive nel proprio merito, ed avendolo natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo, come le memorie da Lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede. »

In queste esigue righe, nelle sue scarne notizie, nelle sue poche date (al 1809 della nascita e al 1825 del matrimonio bisogna solo aggiungere il 1848 della nomina a rappresentante di Cefalù al General Parlamento di Sicilia, il 1861 dell’elezione a deputato al Primo Parlamento del Regno d’Italia, il 1864 della morte) è compendiata la vita del Mandralisca. Righe che abbiamo tratto dall’ « Elogio funebre – di Enrico Piraino – barone di Mandralisca – detto – dal Prof. Gaetano La Loggia», stampato a Palermo nella tipografia di Francesco Lao.

Ora, dentro queste righe guardando, come col microscopio la particella di un organismo o, in modo più sereno, col telescopio la luna, scorgiamo e conosciamo – per segni certi e anche per congetture l’intensa, ricchissima vita, l’affascinante personalità di un uomo della prima metà dell’Ottocento, in Sicilia, in uno straordinario paese di nome Cefalù.

L’estensore e declamatore dell’Elogio intanto, il professor Gaetano La Loggia, cospiratore dei moti del ’48 e del ’60, fu ministro del governo provvisorio di Garibaldi e quindi senatore del Nuovo Regno d’Italia; valentissimo medico, stese un umanitario «Catechismo e Istruzioni popolari sul colera. »

Col Mandralisca certo il La Loggia avrà stabilito una profonda e duratura amicizia in quel «reclusorio » che era il Regio convitto Carolino. Dove convenivano i rampolli delle più cospicue famiglie di Palermo e della Sicilia, i quali, giovani com’erano e quindi ricchi di slanci e armati di risentimento per l’oppressione che il potere esercitava, concepivano azioni affrancatrici, nutrivano comuni ideali di riscatto, stabilivano tra loro connivenze, duraturi legami, patti di solidarietà. Erano luoghi insomma, i convitti o collegi di quell’epoca, se non di vera istruzione (“superficiale” la qualifica il La Loggia ), di cultura e coltura cospirativa, scuola di educazione sentimentale e politica. Per i giovani.

Per le fanciulle invece i convitti o educandati erano spesso strutture di perenne segregazione, di condanna di innocenti: le storie di mal monacate sono state materia di famosi romanzi, ma sono stati anche reali drammi, consegnati a struggenti confessioni ( si legga per esempio «I misteri dei chiostri napoletani » di Enrichetta Caracciolo Forino).

Nasce dunque, Enrico, nel cinquecentesco palazzo Piraino ( perastro: sullo stemma al colmo dell’arco dell’imponente portale, proprio quest’umile e selvatico albero dispiega i suoi rami, a cui anela, con una zampa puntellata al suo tronco, un rampante leone) che s’affaccia sulla piazza del Duomo (Chiaru Signuruzzo), a fare da quinta, assieme al palazzo Maria, al Vescovato e al Seminario, al palazzo Martino, al convento di Santa Caterina, alla quadrata piazza, a fare da accolito alla maestà del Duomo, che al centro, in cima all’alta scalinata, domina palazzi e piazza, domina il paese. E Duomo e piazza e paese sono poi dominati, sono anzi protetti da quel gran promontorio, da quella rocca, dalla Rocca, la Kefa o Kefalé che accoglieva in sé l’antico borgo, che ha dato il nome, sonoro e musicale, a Cefalù.

Privati educatori, preti pedagoghi saranno stati i primi maestri del Piraino fanciullo, fino a che non venne mandato a Palermo al « Carolino». Da qui esce a soli sedici anni per sposare subito una cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi. Sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro eredi, e da famiglie spesso tra loro imparentate, matrimoni che erano il suggello formale di reali accordi economici, dei modi di rimettere insieme patrimoni. Ma in questi matrimoni, come un fiore raro e prezioso in un arido terreno, poteva anche nascere l’amore. Che crediamo sia nato fra i due sposi adolescenti Enrico e Maria Francesca. Per i quali, subito fiorita, la vita era costretta in un codice di rigidi doveri, obblighi, regole, discipline, com’era per tutti il quel paludato Ottocento e soprattutto per persone della loro classe. E’ dunque, supponiamo, per superare questo impasse, per uscir da questa prigione che l’intelligente Mandralisca (al contrario di tanti suoi coetanei e di tanti nobili come lui, di Cefalù e d’altrove, che s’immeschiniscono e spengono nella noia della quotidianità, nell’agio e nello sperpero, nell’ossessione dell’accumulo e della conservazione della roba) si abbandona alle avventure dello spirito,  alla passione della ricerca, alla febbre degli ideali: si consegna allo studio e alle esplorazioni naturalistiche e archeologiche, si nutre di ideali risorgimentali.
Dopo il matrimonio, assieme alla consorte, comincia a far la spola, Enrico, tra Cefalù e Lipari, riallacciando o rinsaldando così i legami fra le due città, che per le vie del mare, per ragioni di pesca o di commerci avranno sicuramente avuto origini remote (le vicende minime, ignote, i rapporti sconosciuti, le microstorie tra l’isola maggiore e le minori, tra paesi e città di coste opposte, nel piccolo teatro del basso Tirreno o nel più vasto teatro del Mediterraneo, sono quelle che più aiutano a capire l’essenza di un’epoca, di una civiltà).

Fa la spola, il Mandralisca, tra il cuore della «storica» Cefalù, tra il centro, il Chiaru Signoruzzo, e quindi la Strada Badia o Strada del Monte, dove poi eleggerà la sua dimora, e il cuore della «naturale», mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi.

Cefalù e Lipari sono dunque i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino ai suoi ultimi giorni. Poli per me – e qui mi permetto di introdurmi, forte del solo titolo d’aver scritto un romanzo storica, Il sorriso dell’ignoto marinaio, il cui ispiratore e protagonista è questo gran personaggio del Mandralisca – poli carichi di significati, di simboli, di metafore, entro cui si racchiude il cammino della vita del Mandralisca. Cerco di spiegare.

Cefalù, così rocciosa e solida, così affollata nel suo tessuto urbano di segni storici, così emblematicamente intrisa di auree arabe e normanne – è da qui che nasce la vera storia nostra, la storia che si chiama siciliana – Cefalù mi è sempre sembrata la porta, il preludio, la soglia luminosa del gran mondo palermitano (finanche la sua Rocca sembra il pròdromo del Monte Pellegrino), della Sicilia occidentale, del mondo maschile della regione e della storia.

Lipari, così vulcanica e marina, così mitica e arcaica mi è sembrato il luogo femminile della natura, dell’esistenza, dell’istinto, della discesa nell’oscurità del tempo, della risalita verso la fantasia creatrice.

C’è dunque in Mandralisca questo continuo movimento da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia (movimento, passaggio sintetizzato nel simbolo della chiocciola, che ho cercato di riprodurre nel mio romanzo). In questi viaggi, il Mandralisca trasporta «antichità », statuette, lucerne, vasi , monete recuperate nei suoi scavi in quell’onfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana di Lipari. Recupera, salva dalla minaccia della natura, riporta alla terra quel «Ritratto d’ignoto» di Antonello, già sfregiato dal gesto irrazionale d’una donna (ma segno, lo sfregio, di volontà di superamento della ragione verso la creazione di un nuovo assetto politico e sociale), che sarà il gioiello più splendido della sua raccolta, del suo futuro museo.

Ma tanti altri significati, tanti altri valori, tanti altri insegnamenti mi ha regalato, ci regala la figura del Mandralisca, questo personaggio più generoso del gattopardo principe di Salina, più preoccupato delle sorti comuni, generali, soprattutto delle sorti di quelli socialmente più fragili, indifesi. E questa sua nobile preoccupazione non è un’invenzione letteraria, ma la si può realmente leggere nel suo testamento. «Voglio dell’annua rendita di tutti i miei beni…si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un liceo… », così dispone. E legati assegna al Collegio di Maria «con l’obbligo di mantenere una Scuola Lancasteriana per le fanciulle», all’Ospedale degli infermi… E nel testamento dispone ancora della Biblioteca e del Museo installati nella sua dimora.

Nel libretto dell’Elogio, stilato da La Loggia, vi è anche un bel ritratto litografico del Mandralisca, disegnato da un tal Tambuscio. Vi appare, il Nostro, come un maturo signore dal viso scarno di studioso con baffi e pizzo, dalla fronte ampia, dallo sguardo severo, acuto, penetrante. A chi somiglia questo Mandralisca? Somiglia forse all’ «ignoto» di Antonello? Somiglia certo al barone Pisani, a Michele Amari, a Napoleone Colajanni… Agli uomini vale a dire di più alto sentire, di più nobili e generosi slanci a cui la Sicilia abbia dato i natali.

Uomini di cui, in questo nostro tempo di meschine chiusure, di feroci egoismi, di stravolgimenti morali, si sta rischiando di perdere la memoria, l’insegnamento.

Milano, aprile 1991.
Vincenzo Consolo, Viaggi dal mare alla terra, in Aa. VV., Museo Mandralisca, Palermo, Edizioni Novecento, Palermo 1991

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