Pitture, sorrisi e somiglianze

 

Pitture, sorrisi e somiglianze

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L’epigrafe sciasciana, tratta dall’Ordine delle somiglianze, con cui nel ’76 Vincenzo Consolo apre il Sorriso dell’ignoto marinaio si rivela la spia di un dialogo intertestuale tra i due scrittori siciliani che ruota intorno all’isola e alla pittura di Antonello e che si arricchisce nel tempo di echi e richiami, concentrati soprattutto nell’articolo di Sciascia sul fortunato libro di Consolo e, per mano di quest’ultimo, nella Nota dell’autore, vent’anni dopo, stesa nel ’96 per la nuova edizione del proprio celebre romanzo presso Mondadori. Sullo sfondo di questi testi si staglia l’immagine della Sicilia offesa, e quindi l’impegno e l’amore per l’arte, la sofferenza dei contadini (e dei personaggi ritratti da Antonello) e l’indifferenza dei Gattopardi, con Sciascia e Consolo che nel loro colloquio a distanza si scambiano ruoli e maschere all’ombra del personaggio del Barone di Mandralisca, il fine intellettuale protagonista del Sorriso, che da appassionato collezionista d’arte si lascia alla fine prendere dalle urgenze sociali della sua terra.

In un articolo del 1996, ora raccolto in Di qua dal faro e dedicato e intitolato alle Epigrafi (a quelle di Leonardo Sciascia in particolare), Vincenzo Consolo si sofferma sul valore semantico di queste scritture prese in prestito da altri e poste alle soglie dei testi. Contrariamente allo scarso uso che ne fa Calvino, autore spesso presente nell’immaginario letterario consoliano, le epigrafi compaiono invece di frequente ad apertura dei libri sciasciani e, nell’articolo in questione, si sottolinea come questo abbia in qualche modo a che fare con la ‘sicilitudine’. Consolo parla di Sciascia, ma tra le righe lascia trasparire a tratti anche l’ombra del se stesso che a distanza di vent’anni, proprio in quel 1996, riattraversava e riconsiderava per la nuova pubblicazione mondadoriana Il sorriso dell’ignoto marinaio. Rispetto all’affabulatore Calvino,

Sciascia, meno chierico, più laico, a causa di un retroterra – quello siciliano, che si fa paradigma, nucleo metaforico – di più drammatica storia, di più atroce realtà, perde man mano fede nell’affabulazione, perde speranza in una possibile sopravvivenza e incidenza del racconto e, dopo aver rovesciato e quindi distrutto un modulo narrativo collaudato e funzionale […], arriva a spostare il testo nel paratesto, mutare il racconto in parodia, in saggismo, spingerlo verso le soglie, verso la citazione, la rimemorazione della letteratura, d’altri tempi e d’altri contesti, cielo di verità sopra un mondo, contro una storia di menzogna e di sconfitta, di offesa all’uomo.[1]

Sciascia, dunque, le epigrafi, la Sicilia, la sfiducia nella narrazione e nella storia (palcoscenico di «menzogna e sconfitta») e, sullo sfondo, il ‘ritorno’ di Consolo sul suo romanzo più celebre, segnato dalla forte impronta dell’epigrafe sciasciana posta in apertura a mo’ di implicita dedica.[2] Sembra anzi che nel riferirsi alle epigrafi dell’amico Leonardo, Consolo abbia in mente la propria, di cui indirettamente mette in risalto il ruolo chiave nella lettura del testo:

In Sciascia l’epigrafe […], come ogni altro elemento del paratesto, è quanto di più vicino, di più connaturato al testo ci sia. La sua epigrafe è sempre di un autore scelto per ammirazione e immedesimazione, è brano, frase d’un’opera sotto la cui luce bisogna porre il testo che ci accingiamo a leggere.[3]

Sulla scorta di questo suggerimento d’autore, alla luce dell’Ordine delle somiglianze, il celebre saggio sciasciano della seconda metà degli anni Sessanta citato in esergo al Sorriso, è opportuno porre pertanto anche il romanzo consoliano, alla ricerca della cifra profonda del debito del testo con quell’altro testo e con quell’altro scrittore, pure in questo caso senza dubbio «scelto per ammirazione e immedesimazione».

Il dialogo intertestuale sancito dall’epigrafe si arricchisce per altro nel tempo di echi e richiami, concentrati soprattutto nello scritto sciasciano sul fortunato libro di Consolo e, per mano di quest’ultimo, nella Nota dell’autore, vent’anni dopo, stesa nel ’96 per la nuova edizione del romanzo presso Mondadori.

È dall’Ordine delle somiglianze che bisogna tuttavia partire per rintracciare i rimandi di questo colloquio a distanza, fatto di arte, di letteratura, ma soprattutto di Sicilia. Già, perché al di là del singolare taglio argomentativo, il felice articolo di Sciascia è fondamentalmente uno scritto sulla Sicilia, in cui attraverso lo schermo offerto dalle pitture di Antonello da Messina, l’autore di Racalmuto trova modo di ritornare sui topoi della odiosamata sicilianità da lui costantemente declinati nella saggistica non meno che nella narrativa.

Ad inizio dello scritto, citando il Vasari, Sciascia prende le mosse da un ‘ritorno’ sull’isola di Antonello e da un nuovo allontanamento da essa alla volta di Venezia, dove l’artista trova l’ambiente giusto per continuare a coltivare i ‘piaceri venerei’ cui era dedito. Terra di partenze e ritorni (soprattutto di ritorni), la Sicilia è del resto nell’articolata raffigurazione sciasciana anche una terra vistosamente segnata dall’ossessione per la donna e per il sesso, ossessione che cattura i suoi abitanti e che di fatto si propone come espressione di una radicata insicurezza, spesso sconfinante in una compensativa ostentazione di superiorità. Significativamente, con un collegamento quanto meno azzardato, Sciascia chiama del resto subito in causa a tal proposito il Brancati ‘gallista’ del Don Giovanni in Sicilia, quasi a voler ricondurre ab initio lo stesso Antonello nel perimetro di una mappa antropologica e insieme letteraria da lui tracciata puntualmente attraverso articoli, romanzi e racconti. Il senso dell’imprevedibile accostamento sta non a caso nella sottolineatura dell’incredibile costanza con cui viene descritto nel corso dei secoli il siciliano tipo, in un «esplicito astoricismo» (in cui apparenza e realtà convergono a pari titolo) che avrà, secondo Sciascia, nel Gattopardolampedusiano la propria piena consacrazione. Di questa Sicilia, che è insieme dentro e fuori la storia, è parte anche la pittura di Antonello: L’ordine delle somiglianze non è infatti un generico scritto sull’artista, ma un preciso contributo sulla sua sicilianità, legata innanzitutto all’assunto che la vita e la visione della vita di ognuno, nonché il modo di esprimere nell’arte la vita, «sono irreversibilmente condizionati dai luoghi dagli ambienti dalle persone tra cui [ci] si trova a nascere e a passare l’infanzia, l’adolescenza».[4] Come ogni artista isolano pure Antonello non può non essere inquadrato all’interno di questo «inalienabile e inesauribile rapporto» con la sua terra, non può non rappresentarla, non raffigurarne la gente, presente a pieno titolo nei suoi ritratti grazie alla logica della somiglianza bioetnica. I suoi ritratti, che «somigliano» agli abitanti dell’isola, che «sono l’idea stessa, l’arché, della somiglianza», sono pertanto la quintessenza della sicilianità e dello spirito isolano; aiutano a penetrarne la natura più profonda perché – come recita il passo scelto da Consolo per l’epigrafe – «il gioco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza».[5]

Il Consolo che fa suo il testo sciasciano sa dunque che la ritrattistica di Antonello, proprio grazie al gioco delle somiglianze, è «uno strumento di conoscenza»; e nel pedinamento delle parole e del pensiero del maestro di Racalmuto non può certo essergli rimasto inosservato il fatto che questi concentrasse la propria attenzione su uno specifico ritratto, quello dell’Ignotoconservato presso il Museo Mandralisca di Cefalù.

Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto, olio su tavola (1465-1476

Quel ritratto somigliava a tutti e a nessuno, «al contadino e al principe del foro» («È un nobile o un plebeo?»), secondo alcuni somigliava addirittura allo stesso Sciascia («somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto)»), il quale attraverso questo improprio avant-texte entra significativamente in prima persona nelle dinamiche del romanzo consoliano. Ciò che va sottolineato è come nell’articolo sciasciano il futuro autore del Sorriso potesse rintracciare, tutta interna al ritratto, già espressa la dialettica tra nobili e plebei, contadini e rappresentanti della legge che sarà al centro del romanzo, la quale, a ben guardare, insieme a diversi altri elementi narrativi del libro, sembra così allungare le proprie radici remote proprio nelle suggestioni offerte dall’Ordine delle somiglianze.

Nell’articolo, Sciascia parla anche delle Madonne antonelliane, e di esse (dell’Annunciata di Palermo in particolare) mette indicativamente in risalto «il mistero del sorriso e dello sguardo», con una precisa notazione che trova una forte rispondenza nel titolo scelto da Consolo per il suo libro (e nell’importanza che all’interno del testo assume di conseguenza il motivo del sorriso), nonché nell’attenzione specifica riservata dallo scrittore allo sguardo dell’Ignoto nella sequenza della festa a casa di Mandralisca.[6]

E come in un’ideale scaletta di immagini che trovano poi precise rifrazioni nelSorriso di Consolo, Sciascia passa di seguito a prendere in considerazione gli Ecce Homo e i Crocifissi di Antonello, quasi puntuali modelli dell’umanità offesa[7] che nel romanzo trova da subito la propria icona nell’uomo affetto da silicosi incontrato da Mandralisca sulla nave. Anche la componente paesaggistica e i luoghi, subito dopo segnalati da Sciascia in quelle pitture (lo «Stretto di Messina», la «campagna», la «piazza che è scena di atroce indifferenza al martirio di San Sebastiano»), anticipano in qualche modo gli scenari del romanzo consoliano, che lungo la striscia tirrenica a ridosso della Sicilia ambienterà gli andirivieni per mare dei suoi personaggi e che farà partire dalla campagna e dalla piazza la rivolta di Alcara Li Fusi.

Antonello da Messina, San Sebastiano, olio su tela, (1478 c.)

Componente centrale del Sorriso è d’altronde la stessa dialettica sciasciano-antonelliana tra sofferenza ingiustamente inflitta e «atroce indifferenza», che l’autore dell’Ordine delle somiglianze rinviene nella «piazza» in cui ha luogo il martirio del San Sebastiano di Dresda, una piazza che apparentemente e architettonicamente non ha nulla di siciliano, ma che alcuni particolari svelano come tale (la donna madre col bambino in braccio, una borraccia appesa alla finestra, un uomo stramazzato nel sonno: «c’è un’aria di casa, di pomeriggio messinese. Si direbbe che c’è scirocco […]: tutto sembra dire della snervata ora del pomeriggio sciroccoso»).[8] Lo scirocco è lo stesso che ad apertura delSorriso agita le onde «nel canale, tra Tindari e Vulcano», lo stesso scirocco che assai significativamente nel romanzo si trasforma però poco dopo in emblema di irredimibile fissità («Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo […] gravava sopra la spiaggia»).[9]

E se Sciascia si sofferma sugli Ecce Homo di Antonello e sul suo San Sebastiano, Consolo sembra fargli puntualmente eco nella descrizione del prigioniero torturato incontrato da Mandralisca nel capitolo IV («Il Mandralisca s’accorse allora che le spalle, il petto, i fianchi, le braccia di quell’uomo erano solcati da segni neri e viola, la pelle scorticata, il sangue raggrumato; un ecceomo, un santo Bastiano»), così come indiretta eco di quell’«atroce indifferenza» estranea al patimento dipinta da Antonello ed evidenziata da Sciascia nell’Ordine delle somiglianze è, nella lettera di Mandralisca a Interdonato, il passo sul sorriso dell’Ignoto (ovvero sempre un quadro di Antonello), sfregiato forse non a torto da Catena Carnevale:

ho capito perché la vostra fidanzata, Catena Carnevale, l’ha sfregiato, proprio sul labbro appena steso in quel sorriso lieve, ma pungente, ironico, fiore di intelligenza e sapienza, di ragione, ma nel contempo fiore di distacco, lontananza […], d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica… Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso![10]

Il rimando tra i due passi non è affatto esplicito, ma assume fondamento con la mediazione di un altro celebre pronunciamento sciasciano, quello dato a caldo dallo scrittore sul Gattopardo lampedusiano. Nell’articolo su Antonello, il riferimento di Sciascia è all’indifferenza della piazza per il martirio di San Sebastiano; in Consolo il martirio, subito da un’umanità senza voce e diritti, diventa un martirio insieme fisico e storico-politico-sociale, il martirio di una rivoluzione risorgimentale tradita, che strizza l’occhio al Verga di Libertà non meno che al fortunato romanzo di Tomasi. E proprio Sciascia, che nell’Ordine delle somiglianze non manca di sottolineare l’«indifferenza» alla sofferenza nella pittura di Antonello, aveva a suo tempo già classificato come «congenita e sublime indifferenza» il totale disinteresse del principe di Lampedusa (così come del suo principe personaggio, Fabrizio Salina) per le rivendicazioni contadine presenti e passate, a segnare tra l’aristocrazia e l’umanità offesa una incolmabile distanza di classe e di visione del mondo.[11] Nel passo di Consolo sullo sfregio al sorriso dell’Ignoto convergono così ad un tempo lo Sciascia commentatore di Antonello e lo Sciascia critico del Gattopardo, entrambi rappresentati nell’espressione dell’uomo del dipinto dalla quale trapelano quell’ambivalente estraneità e mancanza di partecipazione, che – specifica Consolo – sono frutto di una diversità «dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura». La spia di questa ‘alterità’ è racchiusa da Consolo nel «sorriso», parola e motivo-chiave del romanzo (in bella mostra sin dal titolo) e non è certo senza significato che questo sorriso venga, nella specifica circostanza, assimilato all’altra immagine centrale del testo, quella della chiocciola.[12]

Nell’economia del libro, l’identificazione tra il sorriso e la metafora-chiave della lumaca si fa segno del rilievo semantico di questo «distacco» sociale rappresentato dall’espressione dell’Ignoto antonelliano, e l’ombra di Sciascia, che nel commento a caldo sul Gattopardo si era lungamente soffermato sulla descrizione lampedusiana della diversità dell’aristocrazia fatta da Padre Pirrone all’erbuario nel V capitolo del romanzo,[13] si riflette anche su questa componente del Sorriso dell’ignoto marinaio, dove sono proprio esponenti delle classi subalterne a fare eco al Padre Pirrone di Lampedusa: «’Sti nobili, sono tutti stravaganti», sentenzia nel capitolo II uno dei due sbirri ‘presi in prestito’ daConversazione in Sicilia; ma già nel I capitolo Sasà, il servo del barone di Mandralisca, aveva avuto modo di ironizzare sulla stravaganza della festa organizzata per la scopertura del ritratto («Come se fosse battesimo, che dico?, sposalizio. Fare una festa per un pezzo di sportello di stipo comprato a Lipari dallo speziale, pittato, dice lui, da uno che si chiamava ‘Ntonello da Messina»).[14]

Il Gattopardo raggiungeva il proprio culmine nel capitolo della festa a palazzo Ponteleone, stremata manifestazione di quell’«indifferenza» che così poco era piaciuta a Sciascia; la festa di Consolo (chiaramente modellata su quella lampedusiana)[15] si pone invece non nella parte finale ma in quella iniziale del testo, quasi a voler considerare il distacco aristocratico una condizione da superare piuttosto che da perpetrare.

Al centro di questi snodi semantici c’è ad ogni modo sempre il ritratto dell’Ignoto,[16] il ritratto che ‘somiglia’ a Interdonato anche e soprattutto grazie al sorriso segnato da un’ironia riscontrabile tanto nel volto dipinto («Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia»),[17] quanto in quello animato. Sulla nave che conduce da Lipari alla Sicilia il Mandralisca con la sua preziosa tavoletta, l’apparizione di Interdonato (in significativa concomitanza con la descrizione dell’uomo affetto da silicosi) è infatti inequivocabilmente connotata:

«Male di pietra» disse una voce quasi dentro l’orecchio del barone. Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro […]. «Male di pietra» continuò il marinaio. «[…] Speziali e aromatari li curano con senapismi e infusi e ci s’ingrassano […]». E qui sorrise, amaro e subito ironico.[18]

E subito dopo, in relazione ai titoli dei volumi sugli uccelli, i molluschi e le palme che Mandralisca ha con sé: «Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione».

Se l’ironia dell’uomo del ritratto è – come visto – cifra di «distacco» e aristocratica «lontananza» (un’ironia, quindi, di tipo lampedusiano), quella di Interdonato è piuttosto rivolta a chi si rapporta da estraneo alla sofferenza altrui (Mandralisca con i suoi studi, i medici e gli speziali che si arricchiscono con malati di silicosi), in un rovesciamento di prospettiva che riconduce ambivalentemente al sorriso le istanze di conservazione non meno che quelle di rivoluzione. Come l’immagine della chiocciola, anche quella del sorriso appena smorfiato dall’ironia è infatti depositaria nel testo di valenze semantiche plurime e apparentemente contraddittorie, indirettamente confermate dal fatto che lo sfregio al ritratto (e al sorriso, in particolare)[19] avvenga per mano dell’anticonformista figlia dello speziale (per professione esponente di una categoria sociale che sfrutta i patimenti dei diseredati), la quale, ben lungi da qualsiasi forma di indifferenza, si dedica invece alla composizione di versi ‘impegnati’: poesie dedicate a

quanto c’è d’ingiusto in questo nostro mondo, distorto, disumano. Scrive in particolare delle làstime e delle sofferenze dei pescatori, contadini e cavatori di pomice delle Eolie, dei loro dritti sacrosanti e da sempre conculcati; inveisce con la furia d’una erinni contro i responsabili di tutte le angherie e le disparità.[20]

Sempre al crocevia tra impegno e disimpegno, attraverso l’ambivalente sorriso dell’Ignoto passa del resto anche la ‘conversione’ di Mandralisca, lo stesso Mandralisca che durante la festa per la presentazione del dipinto (dopo aver improvvisamente visualizzato la somiglianza tra l’uomo del ritratto e il misterioso marinaio visto sulla nave) a chi tra i suoi ospiti gli chiedesse «a che sorridesse quello là» rispondeva sibillinamente e autorefenzialmente: «Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli», utilizzando una formula che Interdonato non manca di ribaltargli prontamente in occasione del loro successivo incontro, quello dell’agnizione che chiude idealmente il cerchio e che avvia, appunto, la metamorfosi del protagonista:

«E voi invece, barone, […] non siete un pazzo allegro, unimbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire […]»

«Ma voi, ma voi…» cominciò a fare il Mandralisca, sgranando gli occhi dietro le lunette del pince-nez, spostandoli meravigliato dal volto dell’Interdonato a quello, sopra, dell’ignoto d’Antonello. Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e, soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente.

«Il marinaio!» sclamò il Mandralisca.[21]

Che questa controversa dinamica tutta interna al romanzo (tra sordità alle spinte storico-sociali ed apertura ad esse e alle sorti dei diseredati) sia per molti aspetti influenzata da suggestioni sciasciane e si ponga in dialogo con la lezione morale e intellettuale del maestro di Racalmuto trapela in più di un luogo del libro di Consolo; e, in una sorta di botta e risposta da un testo all’altro e da un autore all’altro, ad avvalorarlo è in qualche modo lo stesso Sciascia che, già polemico commentatore della «sublime indifferenza» lampedusiana, introduce all’insegna della contraddizione, a lui così congeniale, la propria personale lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio (poi raccolta in Cruciverba): l’autore dell’articolo non prende le mosse dalle sollecitazioni engagé offerte dalla narrazione consoliana, ma si pone piuttosto dal punto di vista del viaggiatore straniero catturato dalle preziose collezioni del Museo Mandralisca di Cefalù. Sciascia fa subito riferimento al «ritratto virile» d’ignoto, il gioiello di punta lì custodito, e al rischio corso dal dipinto (e da tutti quelli che, come lui, lo amano) allorché, secondo quanto si racconta, venne sfregiato dalla figlia del farmacista liparoto. Lo scrittore sembra dunque porsi senz’altro a difesa dell’Ignoto dallo sguardo «persecutorio, ironico e beffardo», malgrado nel romanzo quell’ironia sia identificata come segno di aristocratico distacco; e sminuisce la portata implicitamente ‘rivoluzionaria’ del gesto della giovane attentatrice riducendolo ad «un atto di esasperazione e di rivolta connaturato all’amore» o, in alternativa alla ribellione («stupida») nei confronti dell’«intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa».[22] Ma le notazioni tutt’altro che scontate di questo lettore d’eccezione non si fermano qui:

La vera ragione, il senso profondo del racconto, direi che stanno […] nella ricerca di un riscatto a una cultura, quale quella siciliana, splendidamente isolata nelle sovrastrutture, nei vertici: così come quelle cime di montagne, nitide nell’azzurro, splendide di sole, che dominano paesaggi di nebbia.[23]

La ribellione non rappresenta dunque necessariamente un valore positivo, soprattutto se si oppone all’arte, alla cultura e all’intelligenza; Sciascia sembra anzi collocarsi dalla parte di quella cultura isolana snobisticamente nutritasi del proprio splendido isolamento, marginale e altezzosa allo stesso tempo, e per la quale egli immagina tuttavia (complice Consolo) una forma di possibile «riscatto», di possibile impegno. All’ombra del Sorriso dell’ignoto marinaio, Sciascia si confronta così idealmente, ancora una volta, con Lampedusa e con la cultura siciliana da lui rappresentata, in una dialettica tra due visioni non più opposte ma complementari, che nella recensione sciasciana viene per altro esplicitata attraverso il richiamo al rapporto tra Consolo e Piccolo, elemento non secondario nella genesi del personaggio del barone di Mandralisca (che mette da canto i propri interessi scientifici per porsi «dalla parte dei contadini che hanno massacrato i baroni come lui»)[24] e del romanzo tout court:

Altro elemento da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio che Consolo ha intrattenuto per anni con Lucio Piccolo. […] Tutto […] li destinava a respingersi reciprocamente: l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro […]. E facilmente viene da pensare […] che nel personaggio del barone di Mandralisca lo scrittore abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato […]: la coscienza della realtà siciliana, il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano. “Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change”.[25]

C’è in qualche modo l’impegno civile di Sciascia dietro la «rabbia civile» da lui sottolineata in Consolo e contrapposta alla «suprema indifferenza» del barone Piccolo di Calanovella, cugino di quel principe di Lampedusa, autore delGattopardo, a propria volta sciasciano prototipo della «congenita e sublime indifferenza» dell’aristocrazia isolana e, sempre in questo articolo sul Sorriso, chiamato poco prima indicativamente in causa a proposito dell’attività giornalistica consoliana «(di cui restano memorabili cose: non ultimi gli scritti sulGattopardo e su Lucio Piccolo)».[26] Sciascia lascia dunque intravedere sullo sfondo del libro la compresenza di diverse istanze della ‘sicilitudine’ (da quelle di stampo autoreferenzialmente sciasciano a quelle di marca lampedusiana) in un arco ideologico e culturale che va dalla denuncia all’indifferenza e che Consolo è appunto riuscito a fare coesistere e dialogare le une con le altre. Nelle pagine dedicate al capolavoro di Tomasi e ora raccolte in Di qua dal faro, Consolo dà del resto la propria più perspicace visione del principe di Lampedusa appoggiandosi ad una celebre recensione di Montale al Gattopardo, nella quale l’autore del romanzo viene rappresentato come «un grande snob nel più alto significato della parola, […] un uomo che tutto ha compreso della vita».[27] Un uomo – si potrebbe aggiungere – che si rifugia snobisticamente nella cultura (come Mandralisca) ma che, per quel gioco di riflessi che caratterizza il Sorriso, presta qualcosa anche ad Interdonato e al suo «sorriso ironico […], di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro».[28]

Questo sistema di rimandi tra Sciascia e Consolo, che coinvolge Il sorriso e tutto un insieme di scritti che ruotano intorno ad esso, si completa significativamente, per mano di Consolo, con un ricordo commosso dell’amico Leonardo (e della sua predilezione per il poliziesco e la ricerca della verità), nonché con la postfazione alla riedizione a distanza di un ventennio del proprio celebre romanzo del ’76 (Nota dell’autore, vent’anni dopo, poi riedita con il titoloIl sorriso, vent’anni dopo). Si tratta di pagine riunite in entrambi i casi in Di qua dal faro, silloge sciascianamente concepita per restituire «un’idea della Sicilia» («Della Sicilia, ma anche di quanto nell’isola converge e di quanto dall’isola diverge. Dare infine l’idea di un particolare mondo che è insieme, si sa, idea del Mondo»).[29] L’articolo su Sciascia, eloquentemente intitolato La conversazione interrotta, esordisce con l’aneddoto relativo all’incontro, ad inizio degli anni Sessanta, tra l’autore delle Parrocchie di Regalpetra ed «un letteratino che manifestava antipatia nei confronti del romanzo poliziesco […] per il prevalere in esso del contenuto sulla forma». Quel letteratino snob era appunto Vincenzo Consolo, che di quella conversazione ricorda:

Leonardo Sciascia, sorridendo di un sorriso fra l’enigmatico e il divertito, cercava di far capire che il romanzo poliziesco è importante, a volte necessario […]. Capì allora il giovane letterato che cosa nascondeva il sorriso di Sciascia, capì cos’era per lo scrittore il racconto poliziesco: uno strumento […] per affrontare la realtà, la oscura, terribile realtà siciliana.[30]

La memoria dell’amico Leonardo viene esplicitamente ricondotta al motivo del sorriso e a quello della sete di verità e giustizia, nonché, immediatamente dopo, al lavoro tutto sotterraneo compiuto dallo zolfataro che «scava cunicoli, gallerie». Anche la sciasciana «funzione civile» emerge dunque da un sottosuolo (come nel Sorriso dai meandri del carcere che si articola sottoterra), una oscura miniera in cui con il piccone viene delineato un linguaggio «preciso e incisivo».

Consolo non ha del resto mai fatto mistero del proprio debito nei confronti del maestro di Racalmuto, attraverso il quale ha imparato a conoscere Verga e la Sicilia dei ‘vinti’ e, insieme, a coltivare la razionale prospettiva di una reazione all’atavica immobilità. Sulla scia di queste premesse prende le mosse la tarda postfazione stesa da Consolo per quel suo romanzo che tornava in libreria a vent’anni di distanza. Proprio i nomi di Verga e Sciascia, e con essi quello di Lampedusa, tramano in profondità il testo pensato a corredo della riedizione del libro: verghiana e ad un tempo sciasciana è la Sicilia descritta nella postfazione, «deserto oggettivo, storico, sociale», segnato da paesi «di serena natura e di sommessa storia, con rari sopratoni di ribellismi, di rivolte popolari come quella risorgimentale di Alcara Li Fusi, tramandata più dal racconto orale che dalla storiografia, paesi remoti dimentichi e dimenticati».[31] Al momento della stesura del libro, Consolo si era da poco trasferito a Milano, vivendo – come nota espressamente (e «non sembri ingiurioso il nesso, ridicolo il riferimento») – la stessa esperienza che aveva portato a suo tempo Verga al ripiegamento e al ritorno nella sua isola dove avrebbe dato forma alla «più radicale rivoluzione stilistica della nostra letteratura moderna»; inquieta come la Milano verghiana di tardo Ottocento, la Milano consoliana degli anni Sessanta è una città suggestionata dalla «vasta rilettura ch’era stata fatta, in campo storiografico, del nostro Risorgimento in occasione del Centenario dell’Unità», e comunque già scossa e attraversata dai fermenti sessantottini. Appunto Verga, con Libertà, aveva dato il via ad un filone tutto siciliano di letteratura antirisorgimentale che, in seguito fiancheggiata da una storiografia non oleografica, era arrivata fino «allo Sciascia del Quarantotto, fino al Lampedusa del Gattopardo».[32]

Sciascia viene individuato come intellettuale di riferimento di questa revisione storica, sia come scrittore del Quarantotto sia come curatore del Nino Bixio a Bronte di Lombardo Radice, ma in realtà il suo nome si nasconde anche dietro il richiamo al Museo Mandralisca di Cefalù e al Ritratto d’ignoto di Antonello (al quale Sciascia aveva fatto cenno nell’Ordine delle somiglianze e sul quale si era ampiamente soffermato nello scritto sul romanzo consoliano), nonché dietro il riferimento al Gattopardo e alle polemiche intorno ad esso delle quali era stato parte proprio lo scrittore di Racalmuto.

Nelle pagine sciasciane l’indifferenza al patimento di certe pitture antonelliane dialogava indirettamente con l’indifferenza sublime e congenita del principe Tomasi: era il segno di una distanza esibita, così come «fiore di distacco e lontananza» («d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura») era il sorriso del ritratto segnato dall’ironia. Quasi a chiudere il cerchio dei rimandi, il Consolo della postfazione al romanzo del ’76 connota con la stessa cifra distintiva il ‘suo’ Lampedusa, nostalgico paladino di un mondo perduto («la sua bruciante ironia era verso ogni moto che mira a evoluzione, aspira a “magnifiche sorti e progressive”»), e per ciò inviso a quegli intellettuali che «al di là anche d’ogni bellezza, fosse pure letteraria, poetica, credevano nella giustizia, nell’equità come portato della storia». L’alternativa è dunque tra la «bellezza» e la «giustizia», emblemi di un bivio al quale Consolo pone il suo Mandralisca, e dinanzi al quale si era trovato anche lo Sciascia lettore del libro, che esortava al riscatto e nello stesso tempo si dichiarava ammiratore dell’antonelliano Ritratto d’ignoto. Questa dicotomia era stata personificata da Sciascia nelle figure di Lucio Piccolo e dello stesso Consolo; Consolo la ribalta nella postfazione facendo a propria volta ricorso ai nomi di Lampedusa e del ‘maestro’ Sciascia, e cerca, in osservanza a quella «rabbia civile» da questi riconosciutagli, di oltrepassare il bivio in una precisa direzione, accreditando il proprio libro come qualcosa di più di un «Antigattopardo» grazie al superamento «estetico» della forma del romanzo d’intreccio dominato dalla voce dell’autore:

Era l’indicazione del superamento insomma di quel “fiore” di civiltà, di arte, rappresentato dall’Ignoto di Antonello, dal suo ironico sorriso, dell’uscita, lungo la spirale della chiocciola, dal sotterraneo labirinto, dell’approdo alla consapevolezza, alla pari opportunità dialettica.[33]

Con una ripresa letterale di quanto Mandralisca argomentava ad Interdonato a proposito dello sfregio inflitto al sorriso dell’Ignoto («fiore di diastacco, lontananza») dalla ‘rivoluzionaria’ Catena Carnevale, il «fiore» menzionato dal Consolo della postfazione è quello di una cultura elitaria rappresentata da Antonello non meno che da Tomasi. Sciascia aveva espresso le proprie riserve in merito a quell’atto vandalico compiuto contro la bellezza, salvo poi a trovare in Mandralisca la possibile sintesi tra cultura e rivoluzione, di fatto più utopica che reale in una terra «tra le più immobili che si conoscano».[34] Da questa immobilità Consolo auspica l’«uscita, lungo la spirale della chiocciola», che è soprattutto un andare oltre il fiore di civiltà racchiuso nel sorriso. Sono le due metafore portanti del libro, la chiocciola e il sorriso, per altro esplicitamente sovrapposte dall’autore proprio nel passo in cui Mandralisca commenta lo sfregio di Catena Carnevale («Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!»).[35]Cariche ad un tempo di valenze positive e negative le due immagini restano sospese tra conservazione e rivoluzione, vecchio e nuovo, giustizia ed ingiustizia, e idealmente riconducibili l’una all’altra possono essere individuate quali cifre nascoste nel senso ultimo che lo scrittore riconosce al romanzo, anche a distanza di vent’anni:

Che senso ha la riproposta di questo Sorriso? E la risposta che posso darmi è che un senso il romanzo possa ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.[36]

Metafora è quella della chiocciola e metafora è quella del sorriso, ed entrambe coesistono in questa chiusa della postfazione così come figurativamente coesistono nel Ritratto d’ignoto, quel ritratto che, come diceva Sciascia, somigliava al nobile e al plebeo, al notaro e al contadino, ma che a ben guardare somiglia anche alla spirale stessa di una chiocciola, che dal sopracciglio del marinaio si prolunga nel profilo del naso e quindi del mento per avvolgersi su se stessa nelle rughe della guancia, nell’ombra delle narici, fino a trovare il proprio centro nel sorriso e nell’ambigua, e appunto perciò seducente, ironia di esso.


1 V. Consolo, ‘Le epigrafi’, ora in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2009, pp. 199-200.

2 Così l’epigrafe sciasciana del romanzo: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […] I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché, della somiglianza […] A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? (Leonardo Sciascia, L’ordine delle somiglianze)». Di Sciascia come «dedicatario vistosamente implicito del Sorriso» ha scritto Salvatore Grassia nel suo La ricreazione della mente. Una lettura del ‘Sorriso dell’ignoto marinaio’, Palermo, Sellerio, 2011, p. 17.

3 V. Consolo, ‘Le epigrafi’, pp. 200-201.

4 L. Sciascia, ‘L’ordine delle somiglianze’, in Id., Cruciverba, ora in Id., Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 1989, p. 988.

5 Ivi, p. 989. Sulla fondamentale valenza antropologica di questa ‘somiglianza’ analizzata da Sciascia cfr. le considerazioni di Maria Rizzarelli nel suo «Sorpreso a pensare per immagini». Sciascia e le arti visive, Pisa, ETS, 2013, pp. 158 e ss.; sull’argomento cfr. anche D. Stazzone, ‘Sciascia, Antonello e “l’ordine delle somiglianze”’, Sinestesie, IV, 1-2, 2006, pp. 70-88. Nicola Merola riconduce la stessa letteratura siciliana a questo principio sciasciano-antonelliano della somiglianza, rintracciando significativamente in Consolo il nome utile a riassumerne le direttrici fondanti, visto «che da sé si presenta come il punto idealmente terminale e un po’ anche l’epitome rivelatrice e la coscienza critica della letteratura siciliana» (N. Merola, La linea siciliana nella letteratura moderna, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006, p. 214).

6 Si legge: «Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. […] Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentiva come a disagio» (V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 2012, p. 22).

7 Dei Cristi antonelliani Sciascia scrive: «volti di ottuso dolore, maschere di carnale sofferenza; senza luce di divinità, senza coscienza del sacrificio da cui l’umanità intera sarà redenta. Uomini che soffrono la tortura, che subiscono il dileggio, che agonizzano inchiodati a una croce: vittime della ferocia umana e del destino» (L. Sciascia, L’ordine delle somiglianze, p. 991).

8 Ivi, p. 992.

9 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 10.

10 Ivi, pp. 102-103.

11 Cfr. L. Sciascia, Il Gattopardo, in Id., Opere, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1160-1161.

12 In proposito cfr. il fondamentale saggio di C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel ‘Sorriso dell’ignoto marinaio’’, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86.

13 Cfr. L. Sciascia, Il Gattopardo, pp. 1165 e ss.

14 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 15.

15 Nel Sorriso si legge infatti: «Il salone del barone Mandralisca aveva quasi ormai l’aspetto d’un museo. I monetari d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Màlvica, tutto era stato rimosso e ammassato nello studio […]. Gli invitati se ne stavano all’impiedi, tranne le anziane dame che occupavano, sotto il gonfiore delle crinoline, le poche sedie e ilpouf al centro del salone. Le signorine e i giovanotti facevano cerchio attorno al pianoforte dove la baronessa Maria Francesca accompagnava i gorgheggi della nipote Annetta» (ivi, p. 16). Sulla scrittura consoliana fittamente tramata di rimandi intertestuali cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, Universitat Autonoma de Barcelona, 2008 e S. Grassia, ‘Palinsesti barocchi. Nota sul ‘Soriso dell’ignoto marinaio’ di Vincenzo Consolo’, Otto/Novecento, XXXIII, 1, gen.-apr. 2009. Sulla struttura fecondamente plurale del testo si è soffermato anche Gianni Turchetta (L’ordine delle somiglianze e la regola dell’eterogeneo: sulla struttura plurale di ‘Il sorriso dell’ignoto marinaio’) nella relazione pronunciata al Seminario MOD (Noto, 14-15 febbraio 2014) dedicato al romanzo consoliano. A cura dello stesso Turchetta è appena stato pubblicato presso Mondadori il ‘Meridiano’ che raccoglieL’opera completa dello scrittore.

16 Sul ruolo centrale del dipinto antonelliano nell’economia semantica del romanzo cfr. almeno L. Bossi, ‘D’Antonello à Consolo: histoire d’un sourire, sourires de l’histoire’,Letteratura e arte, 4, 2006, pp. 293-302; C. Ambroise, ‘Le portrait et la catastrophe’,Cahiers d’études italiennes, 7, 2008, pp. 385-395; M.A. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’,Testo, 59, 2010, pp. 117-124.

17 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 22.

18 Ivi, pp. 7-8.

19 Nella pagina iniziale del romanzo si legge infatti: «Il ritratto risulta un poco stroppiato per due graffi a croce proprio sul pizzo delle labbra sorridenti del personaggio effigiato. Dice la gente di Lipari che la figlia dello speziale, Catena, ancora nubile alla bell’età di venticinqu’anni, irritata (era un giorno di cupo scirocco) dal sorriso insopportabile di quell’uomo, gli inferse due colpi col punteruolo d’agave che teneva per i buchi sul lino teso del telaio da ricamo» (ivi, p. 5).

20 Ivi, p. 44.

21 Ivi, p. 40.

22 L. Sciascia, ‘L’ignoto marinaio’, in Id., Cruciverba, poi in Id., Opere 1971-1983, pp. 995.

23 Ivi, pp. 995-996.

24 Ivi, p. 998.

25 Ibidem.

26 Ivi, p. 997.

27 Cfr. la recensione di Montale al libro di Lampedusa apparsa sul Corriere della seradel 12 dicembre 1958 (poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, vol. II, Milano, Mondadori, 1996) e V. Consolo, ‘Il Gattopardo’, ora in Id., Di qua dal faro, p. 173.

28 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 7.

29 V. Consolo, nota al testo, in Di qua dal faro, p. 283.

30 V. Consolo, ‘La conversazione interrotta’, ivi, p. 185.

31 V. Consolo, ‘Il sorriso, vent’anni dopo’, ivi, p. 277.

32 Ivi, p. 279.

33 Ivi, p. 282.

34 L. Sciascia, ‘L’ignoto marinaio’, p. 998.

35 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 103.

36 V. Consolo, ‘Il sorriso, vent’anni dopo’, p. 282.

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Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine

— Penso che vincere un premio come lo Strega possa essere, per uno scrittore serio, un’assicurazione contro i faccendoni, e il dilagare della carta. — La carta seppellisce i libri. Una volta gli scrittori lavoravano con la speranza nel futuro1 . Senza troppa esagerazione si può affermare che il tono essenziale della prosa consoliana rimane soprattutto riflessivo e didascalico. E se con questo ci si vuole riferire ad una remota disposizione che si ripresenti nelle opere degli scrittori siciliani, e cioè, una ricorrenza di quella peculiarità, nominata da Leonardo Sciascia una “specie di follia”. In questa zona discorsiva, acquista un rilievo massimo la figura di Luigi Pirandello atteggiata nell’argomentativo e sofistico ritmo di un ragionatore e di un maestro tutto volto a spiegare e insegnare. Ma questa razionalizzante sicilitudine non è da credere che s’aggiri in una forma di cattedratica istruzione o di astratta lezione2 . Al contrario, la meditazione svolta dell’autore, pur nei confini dello schema prestabilito si avvia di acute analisi e di fini notazioni psicologiche
1  F. Parazzoli: Il gioco del mondo. Dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie […]. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998, p. 23. 2  Cfr. M. Tropea: Nomi, „ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento. Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000, p. 5.
essenza della sicilitudine che superano i consueti limiti del comune repertorio morale. Pirandello, nel modo più autonomo, è riuscito a collegare i motivi siciliani come: mania, follia e superstizioni e grandi temi dello smarrimento dell’animo dell’uomo. Si potrebbe dire, a titolo non solo di paradosso, che lo scrittore avverta la presenza della conoscenza della vita nella totalità dei suoi aspetti come il frutto di un’esperienza non gradita e tendenzialmente rifiutata. Invece la liberazione dei sentimenti e dell’invenzione dal peso del reale presuppone un’intensa partecipazione ad esso, non un rifiuto, non un esilio, ma un’accettazione contrastata e difficile. Ad una maggiore immediatezza d’espressione si torna con l’esperienza di Vitalino Brancati che distingue la cultura della Sicilia in due grandi suddivisioni: “[…] quella occidentale degli arabi, dei cavilli, delle sottigliezze, della malinconia, di Pirandello e di Giovanni Gentile e dei mosaici; e quella orientale dei Fenici, dei Greci, della poesia, della musica, del commercio, dell’inganno, di Stesicoro, Verga, Bellini, San Giuliano”3 . Con le opere di Brancati si rimane sempre nella stessa dimensione della poesia invasa dalla follia che forma la peculiarità dell’anima e della cultura siciliana. Secondo Mario Tropea l’esistenza di una “letteratura siciliana” costituisce una figurazione di una insularità affermata non solamente dal punto di vista storico e antropologico. Nella sua sostanza si conferma una tonalità narrativa della psicologia umana4 . Allo sguardo satirico di Brancati, l’universo siciliano non appare come lo spazio di cui celebrare il fasto, né tanto meno la sede in cui si elaborano progetti politici; esso diviene piuttosto il bersaglio privilegiato di un processo di smascheramento, teso a mettere a nudo l’incapacità dei rappresentanti del potere, l’interesse dei cittadini e il loro stato di umiliante soggezione. In questo senso appare emblematico il punto di vista di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pieno d’ironia, pensata come sintesi di distacco aristocratico. Forse ha capito che allo scrittore non si chiede più l’eroismo di una classe feudale, ma la naturale mutevolezza di caratteri osservati nella
3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. ibidem.
realtà quotidiana. L’ottica dall’interno con cui il mondo della Sicilia è narrato compare nella presenza di nozioni dell’ironia e della storia. L’isola ha una sua storia che la genera e rigenera. Nella scelta di una narrazione mimetica l’insularità diventa una proprietà imprescindibile. Consolo non inventerebbe l’isola se non vi fosse venuto al mondo, se nella vita, nella scrittura non fosse venuto incontro ad esso e se non l’avesse raccontato tramite le vicissitudini dei compaesani. Pubblicando i suoi scritti, Consolo ha salvato dall’oblio inerente all’oralità le storie dolorose e fragili. Sembra che, simbolicamente, lo scrittore abbia saldato un debito nei confronti degli interlocutori del paese natio. Non si tratta, in questa analisi, di propugnare uno scavalcamento delle gerarchie né di rinnegare gli interessi degli scrittori; invano si cercherebbe in queste opere un progetto di riforma della società in base a nuovi valori. Mondo insulare e mondo della penisola sembrano impermeabili. Eclettico Capuana non tanto lontano dalla realtà del naturalismo di Verga rappresenta la follia proprio tramite uno studio “clinico”. Nella poetica che sembra quella di un generico realismo, Consolo varca la soglia della finzione e recupera le forme testuali della verità quasi documentaria: struttura e tono del reportage, appendici forniti dalla storia, narrazione in terza persona. Un’idea di narrazione polimorfica potrebbe risultare una necessità di inquadrarsi all’interno di una prospettiva di moderno umanesimo delle contraddizioni. Ferruccio Parazzoli ha ammesso di sentirsi come Ismaele — il protagonista di Moby Dick. Invece, però di andarsene per mare, lo studioso si accontenta di svolgere la ricerca tra gli amici5 . In Mondadori, la sua casa editrice, Consolo viene considerato uno dei più ascoltati scrittori italiani. “Quando dice fa opinione” — ricorda Parazzoli6 . Se lo scrittore si riferisce alla quotidianità politica, lo fa direttamente come nella constatazione rapportata alla situazione del settembre del 1994: “Io credo che chi ci governa sia affetto da una grave malattia mentale. […] Tutti i suoi gesti, tutte le sue azioni, tutti
5  Cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 54. 6  Ibidem.
gli ordini, tutto quanto lui dispone è all’insegna dell’irrazionalità e della follia”7 .

Prendendo le mosse dal mito sul Cavallo inventato da Ulisse, Consolo cerca di individuare un’ipotesi fondamentale dell’illusione vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale; l’illusione dell’Itaca e cioè dell’armonia, della storia e degli affetti. Dopo le tragedie subite c’era bisogno di razionalità e di ordine che potevano essere visti come tappe di un possibile recupero della ragione. Va poi sottolineato, sul piano delle corrispondenze fra la ragione e la follia che questa oscillazione è diventata una costante della storia dell’Italia. Consolo dichiara decisamente il desiderio di testimoniare il senso storico del suo tempo. In questo caso la testimonianza riguardante la situazione del paese è un espediente narrativo esemplare della tecnica della trasformazione che si gioca su capovolgimenti. La generazione di Consolo ha conosciuto un mondo che era la civiltà contadina è che poi ha cominciato a sostituire la vita con le cose, con la merce. In conseguenza è accaduto lo spostamento della centralità dell’essere e la sua sostituzione con l’avere. La rapidità di questo processo ha lesionato anche le altre sfere dell’attività umana. Secondo Consolo il movimento delle masse contadine ha portato alla distruzione della cultura popolare. Anche un discorso svolto dallo scrittore sui colpevoli di questo stato di cose indica chiaramente i politici un primo luogo e poi gli intellettuali. Questa idea di responsabilità sopravvive nella coscienza letteraria consoliana, specialmente quanto il narratore sottolinea la propria provenienza siciliana. In questo paesaggio dell’Italia corrotta e arrettrata, Milano è cominciata ad essere considerata come la città dell’utopia, senza sopraffazione e violenza. Non è quindi per un caso nemmeno da questo punto di vista, in fondo, che Vincenzo Consolo come Verga e Vittorini, approdì a Milano. Con il passare di tempo nasce la delusione. La cosa da notare subito è la convinzione di Consolo della responsabilità maggiore della Milano moderna, siccome più dotata nel campo di lavoro e di cultura, della digradazione e dell’avvilimento.
7  Ibidem, p. 25.
Si capisce ancora meglio, così, perché sia proprio quest’inclinazione a renderci più coscienziosi e più sensibili ai problemi della realtà circostante. Esaminando il percorso dello sviluppo del romanzo politico, Consolo pronuncia apertamente la sfortuna di Sciascia e di Pasolini. Il primo è stato dimenticato, il secondo invece, è stato imbalsamato in una nicchia di santità laica. Nelle sue narrazioni ci si rivolge come un’ultima volta a uno spazio e a un tempo che stanno per svanire definitivamente. Attingendo ai maestri come Verga, Pirandello, Vittorini, Consolo vuole mettere in evidenza una realtà che si può raccontare. Non consumata dall’informazione, dalla televisione o dai giornali ma capace di far sopportare e di capire la realtà. Una delle caratteristiche di questo modo robusto di narrare è quel ricorso frequente alla parola “armonia” che è diventata una parola chiave nel suo vocabolario di scrittore. Si scopre così che, correntemente alla sua essenza patetica, questa parola, come specchio e rappresentazione dello sguardo che lo affronta, può diventare un espediente che renderà più facile il conciliarsi con la vita e con la realtà. È altrettanto importante mettere in evidenza un’altra costante della produzione letteraria consoliana e cioè, la volontà di decifrare un passato remoto. L’atteggiamento di protesta contro la dissacrazione del nostro tempo. Gli elementi della materia che diventano veri e propri protagonisti della memoria di Consolo sono tra l’altro: le pietre, le piante e il mare. La loro capacità di ipostatizzare lo sguardo che li contempla e di oggettivarlo in una forma visibile, non si trasforma mai in pura contemplazione ma cambia nell’esperienza interiore. La memoria del mondo ormai dimenticato e trascurato diventa anche il modo per salvarlo. Con questo espediente lo scrittore vuole opporsi al senso della precarietà del mondo moderno. Nella prefazione al saggio di Basilio Reale lo scrittore constata: Ho sempre pensato la letteratura siciliana (e non solo la letteratura, ma la pittura, la scultura, la musica: l’arte insomma) svolgersi su due crinali, su due filoni o temi distinti: quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura, o del mito)8 .
8  V. Consolo: Prefazione. In: B. Reale: Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2001, p. 15.
La memoria di quel mondo viene conservata anche nella dimensione di fuga dal paese. La fuga che è possibile forse solo in letteratura. La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno. Molto legato ai valori come l’orgoglio, l’umiltà e il pudore, Consolo constata che la mancanza di pudore che ormai fa parte di ogni settore dell’attività umana, lo disorienta e offende. La paragona a una forma di violenza, come nei teatri anatomici quando si squadernavano i corpi. Parlando dell’importanza della memoria, lo scrittore rievoca la testimonianza di Pirandello, vissuta a circa due anni e legata ad un’eclisse solare che diventa un autentico archetipo della scrittura pirandelliana e un’ipostasi che è presente anche nella narrativa di Consolo9 . La prova di ricostruire questa memoria storica riguarda un mondo in cui la memoria sta per annullarsi. Ne rimangono solo delle apparenze e degli stereotipi. Per salvare questa realtà acquisisce soprattutto una forza dell’espressione linguistica, il richiamo alla lingua: unico segno realmente distintivo e significativo di appropriazione del mondo nelle possibilità di narrarlo, il che vuol dire per Consolo di ricrearlo narrativamente. Non a caso Giulio Ferroni riconosce allo scrittore il merito di essersi mosso alla ricerca di un linguaggio capace di unire in sé “la curiosità storica e razionale di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda”10. Per Consolo la forza stilistica e inventiva diventa simbolo dell’aspirazione barocca a inglobare i diversi aspetti del reale in un complesso eterogeneo, ma organizzato. Le stesse ansie e inquietudini che, come si è visto, stanno a fondamento della ricerca dello scrittore siciliano, permeano altrettanto la prosa di diversi autori legati alla loro terra, alla loro regione, al loro quartiere. Il rapporto con il nichilismo del Novecento, la crisi di valori, la redifinizione dell’identità, i temi fondamentali non solo dell’opera di Consolo non solo hanno volto l’attenzione di molti su
9 Consolo, questa prosa, la nomina “la memoria di un’eclisse”, cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 29. 10 G. Ferroni: Storia della letteratura italiana. Milano, Einaudi, 1991, p. 129.
questi problemi ma sono anche stati oggetto di analisi di vari critici11. Joanna Ugniewska, nella parte conclusiva del saggio di Matteo Collura ci ricorda che l’autore, attingendo al modello vittoriniano del viaggio orientato verso i luoghi dell’isola d’infanzia e di origine, definisce la propria narrazione come il percorso verso luoghi dove la memoria è stata imprigionata12. Nel corso del Novecento la critica aveva riesaminato con accenti più serrati il ruolo degli autori siciliani. Alcuni di loro come Elio Vittorini e Leonardo Sciascia e un po’ più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono stati premiati con il Nobel per la letteratura, gli altri hanno goduto un notevole successo editoriale. Nel quadro di questo pensiero siciliano non sarà luogo d’azione a sancirne il suo carattere originale. È vero che le narrazioni consoliane sono ambientate nella Sicilia, ma accade che le opere degli autori rievocati presentino i contesti geografici più neutri e generici. Da questo punto di vista, dunque, la provenienza potrebbe risultare un mero dato anagrafico. Ma in effetti la personalità consoliana era lungi dal limitarsi a tale rapporto tra la terra di nascita e le scelte future, tra l’aspirazione e i contrasti della vita, rapporto in certo modo risolto nella posizione dello scrittore di estrema apertura verso il reale, quale era propria di una scrittura che avverte in sé il continuo bisogno di nuovi orizzonti e di nuove situazioni. Se si volesse configurare la letteratura d’arte come perenne conflitto di “rappresentazione” e di “intellettualità”, si dovrebbe tornare mentalmente allo Stilnovismo, ma la presenza del momento intellettualistico è percepibile anche nell’arte moderna. Nel suo saggio dedicato agli scrittori siciliani del Novecento, Massimo Naro constata che l’atteggiamento intellettuale degli scrittori isolani si innesta sulla loro provenienza, non solo nel senso anagrafico o geografico, ma molto più profondamente, con le implicazioni etiche come antichi modi
11 Cfr. G. Pellegrino: Lotta, memoria e responsabilità: Eraldo Affinati. In: Scrittori in corso. Osservazioni sul racconto contemporaneo. A cura di L.A. Giuliani, G. Lo Castro. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 155. 12 Cfr. M. Collura: Na Sycylii. Przeł. J. Ugniewska. Warszawa, Fundacja Zeszytów Literackich, 2013, p. 158.
di percepire il mondo a partire dalla terra di nascita13. L’esperienza siciliana diventa una specie di prospettiva nella quale gli autori contrappongono l’isola ad ogni terraferma. Più netti sono i contorni dell’isola, più il mondo fa da sfondo, diventa il miraggio. Così, quando lo sguardo degli scrittori entra “dentro” l’isola, la descrizione della concretezza fisica dello spazio non perde mai di vista gli elementi “strutturali” della Sicilia stessa. Una concretezza descrittiva che non trascura la peculiarità funzionale di questa scrittura, di esprimerne la gratitudine e la nostalgia. Questa caratteristica dell’ottica siciliana viene confermata fortemente nell’analisi del titolo dell’opera di Antonio Di Grado Finis Siciliae14 svolta da Anna Tylusińska-Kowalska nella parte introduttiva al volume dedicato alla produzione artistica di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno e Matteo Collura15. Nel commentare il titolo del libro citato del Di Grado e il contenuto del proprio volume, la studiosa sottolinea la funzione del diversificato paesaggio siciliano da cui scaturisce il mito della tradizione, del legame con la terra di nascita e della storia non sempre felice. Pirandello ha già definito le caratteristiche di questa specie di ottica, usando il termine “raziocinare” per questo modo di esaminare: volutamente più lento, più pacato, meno calcolante e più poetico, ma sempre capace di focalizzare l’attenzione sulle questioni problematiche e urgenti del tempo. Le cose hanno un volto diverso nel senso che qui sono appunto gli scrittori a porsi delle domande che nelle altre parti del mondo si pongono dei filosofi: sull’esistenza, sulla verità, sulla giustizia e sul potere. Gli echi dello stesso dibattito sorgono nei pensieri di Gesualdo Bufalino che si chiedeva se ciò che l’uomo sperimenta sia conclusivo o provvisorio, reale o illusorio? Nelle sue
13 Cfr. Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento. A cura di M. Naro. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2003, p. 6. 14 A. Di Grado: Finis Siciliae. Scrittura nell’isola tra resistenza e resa. Acireale— Roma, Bonanno, 2005. 15 Cfr. Literacki pejzaż Sycylii. Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno, Matteo Collura. Red. A. Tylusińska-Kowalska. Warszawa, Wydawnictwo DiG, 2011, p. 9.
opere l’isola diventa metafora della teatralizzazione della vita16. Vale ancora aggiungere che nella sua ricerca appare chiara la volontà di valutare questa “qualità interrogante” della letteratura siciliana. Questo capitolo, di carattere esclusivamente introduttivo, si limita a considerare alcuni nomi e testi esemplari di questa lunga e complessa storia letteraria. La problematicità della letteratura siciliana si comprende nell’antirazionalità della poesia di Bartolo Cattafi, nell’opposizione tra certezza e dubbio nei libri di Giuseppe Antonio Borgese, nella contrapposizione tra fede e follia nei testi di Lucio Piccolo e Carmelo Samonà nella rappresentazione della dignità umana nelle opere di Elio Vittorini, nella ricerca del senso della vita in Francesco Lanza o in Nino Savarese, nella felicità perduta in Ercole Patti, nel nichilismo esistenziale in Sebastiano Addamo, nel dramma dell’emigrazione nella poesia di Stefano Vilardo, nell’impegno intellettuale di Vincenzo Consolo, nella protesta contro le violenze quotidiane di Dacia Maraini, nell’angoscia esistenziale nella narrativa di Gianni Riotta, Giosuè Calaciura e Roberto Alajmo. Consolo si realizza nella sua coscienza dell’intellettuale, egli misura costantemente la propria sorte d’uomo di cultura. Allude in questo modo alla tradizione l’iniziatore della quale viene considerato Dante — il primo intellettuale in senso moderno. Il sapere ritrovato è tutto orientato in senso “morale” e la reintegrazione della cultura nel destino dell’uomo segno un punto fermo nella storia della civiltà letteraria17. La caratteristica che unisce ambedue i personaggi è la coscienza “militante”. Alla letteratura siciliana è stato quindi assegnato il privilegio di colmare un ritardo, a sua volta necessario per riflettere sul valore e sulla ragione dell’esistenza umana. Giulio Ferroni denuncia la tendenza ad apparizione degli scrittori impegnati su altri terreni. Lo scrittore si pone cioè di fronte a un mondo passato e la sua continuità nel mondo postmoderno con gli strumenti mentali e catalogatori con cui aveva sempre osservato la
16 Cfr. J. Ugniewska: O zaletach peryferyjności, czyli jak można być Sycylijczykiem. W: Literacki pejzaż Sycylii…, p. 37. 17 Cfr. S. Battaglia: Mitografia del personaggio. Milano, Rizzoli Editore, 1968, p. 516.
resistenza della Sicilia continuamente decrescente18. Di qui il richiamo ad un rapporto difficile ma molto efficace tra memoria storica e ricerca linguistica, alle quali Consolo riconosce di essere “a livello d’indagine”. Un “livello” situato evidentemente nell’aver stabilito un nuovo rapporto con la realtà in cui appaiono mutati i fattori stessi del passato. Alla narrativa ha assegnato il dovere di confrontare la violenza del passato e quella del presente e provare la presenza della stessa continuità di un modo di soffrire e di cercare la via di salvezza. L’interesse per questi scrittori, che, con precisa terminologia, sono stati definiti siciliani, non è un fatto recente, ma ancora in fase di sistemazione critica. Nell’ottica della ricezione che esprime l’orizzonte dell’opera letteraria, si scorge negli scrittori siciliani la coscienza di un dramma e di un dissidio psicologico e quindi la profonda serietà morale dell’ispirazione. L’indagine più recente, mentre respinge l’interpretazione che fa degli autori siciliani le figure periferiche, accetta alcune conclusioni critiche precedenti, ma le integra con una nuova serie di proposte e di riconoscimenti. Vincenzo Consolo vive nella tradizione segnata dagli studiosi quasi esclusivamente per il fatto che fu l’amico, l’ammiratore e l’ereditario letterario di Leonardo Sciascia. Ma accanto a questa immagine esiste un’altra figurazione civica di Consolo, quella del letterato enciclopedico, che fa sentire nelle sue opere, con l’ardore della scoperta e l’ansia di comunicarla, tutto l’amore della scienza, della storia e della cultura. E non è da dimenticare il contegno civile di Vincenzo Consolo. Anche se opera nell’ambiente milanese, in uno stadio di involuzione più profonda, non è lontano dall’atteggiamento di partecipazione. Anzi, risulta propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un legame, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato. La letteratura che prende avvio dalla Sicilia è caratterizzata dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime 18 
Cfr. G. Ferroni, A. Cortellessa, I. Pantani, S. Tatti: Storia della letteratura italiana. La letteratura nell’epoca del postmoderno. Verso una civiltà planetaria 1968—2005. Vol. 17. Milano, Mondadori, 2005, p. 87.
31 il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme obbediente a molte sollecitazioni. Una letteratura di transizione, segnata da parecchie fortissime personalità di orgogliosi cantori della propria terra e capostipiti della civiltà antica, e da una propensione ai tentativi e agli esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contradditoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico, morale ed intellettuale. Esperienza intima e reale è quella che Consolo invera nelle sue opere e che egli fa conoscere distinguendo, su un fondamento assiologico due cose: il valore metaforico di vicende individuali nelle quali ciascuno può ritrovare le proprie passioni e il valore universale dei fatti della storia siciliana con le loro proiezioni ed interpretazioni. Bisogna quindi accostarsi alle opere consoliane come a una cronaca, i cui personaggi rappresentano una specie di dramatis personae, capaci di facilitare il passaggio dalla confessione e dall’indagine psicologica e antropologica ai processi della conoscenza di una più profonda e più complessa realtà, quella che non vive costretta nei limiti di questo, cioè, isolano, spazio. Il significato che assumono gli eventi riportati da Consolo nelle narrazioni, per esempio la strage che conclude il suo ultimo romanzo, risulta assai vasto. Lo spasimo di Palermo sembra una sconfitta della ragione di fronte alla violenza, invece secondo il messaggio metaforico può assumere il valore della presa di coscienza della società civile rinata. Nei romanzi consoliani vi è presente un’immensa esperienza di vita, ed è presente come può esserla a chi non solo la contempla ma anche a chi si mescola fra la vita. I flashback che illuminano l’infanzia difficile dei protagonisti consoliani, la fuga dall’isola e il deludente soggiorno a Milano sono raccontati come il dramma umano che appartiene all’universale travaglio. Questa prosa ci offre, alle soglie della civiltà postmoderna, un’ampia documentazione di fatti e di figure, un quadro mobile e profondo delle società e delle storie diverse. Non sorprende affatto, quindi, che in polemica con l’esistenza e la funzione del confine gli scrittori siciliani non abbandonassero il carattere della loro terra, indicando come correlato della sua consi – 32 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine stenza non la limitatezza causata dal mare, ma la fermezza della vicinanza del continente. Nell’immaginario degli autori siciliani l’isola risulta dunque un paesaggio percepito prima staticamente (da lontano) e poi dinamicamente (dall’interno), in una dialettica giustapposta tra “dentro” e “fuori”, tra spazio guardato e spazio vissuto che corrisponde alla duplice essenza dell’isola stessa, che è per definizione un luogo d’accesso posto al confine con mare, uno spazio in cui si abita in uno spazio in cui si viaggia. Per i siciliani le relazioni di spostamento seguono questa fenomenologia lineare di inoltramento (varcare il confine, passare il mare), che si accorda a un’inclinazione all’esplorazione delle direzioni ben determinate come: l’America, l’Italia e l’Europa occidentale. Nell’intreccio di queste istanze antitetiche ancora più nitido sembra il capovolgimento della situazione siciliana, che affonda in complesse dinamiche sociali e antropologiche. La Sicilia, dall’essere terra di emigrazione, è diventata la terra di immigrazione. La sintesi più valida del ribaltamento avvenuto, la dobbiamo a Leonardo Sciascia che nel suo racconto intitolato Il lungo viaggio presenta la partenza dei clandestini da una spiaggia tra Gela e Licata in cui adesso approdano gli immigrati dal Nordafrica. Un’attenzione più dettagliata al rapporto fra la letteratura e la storia viene espressa molte volte nei libri degli scrittori siciliani contemporanei. All’efficacia della storia reinterpretata dalla scrittura non si può non accostare quella della produzione letteraria sempre più florida che spesso coincide con la prima. L’attenzione per la scrittura siciliana è un fenomeno rilevante e procede di pari passo con le vere esplorazioni delle presenze letterarie che si compiono sempre più sistematicamente. Accanto agli autori e ai temi di massima rappresentatività, vi si trovano quelli più recenti che completano l’artistico panorama siciliano. Tra gli argomenti narrati quelli più frequenti riguardano l’espatrio (in America, in Africa, in Germania) e l’attuale condizione della penisola siciliana. Non di rado gli scrittori siciliani tendono a rappresentarsi in questo luogo in cui si concretizza la loro invenzione. Del ritorno in Sicilia scrivono dunque: D’Arrigo, Brancati, Vittorini, Consolo. Secondo Ignazio Romeo: “Tornare significa infatti anche, metaforicamente, Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine 33 scavare in se stessi e nella propria storia, cercare l’estraneo in quello che si è familiare: guardare, insomma, in profondità e a distanza”19. Ma è vero anche che da questo spazio limitato fisicamente si aprono i grandi percorsi della cultura e della fantasia. Sono due elementi fondamentali che reggono l’asse assiologico della letteratura siciliana, il primo riguardante il dibattito relativo all’attuale e storica esistenza umana e il secondo relativo alla letteratura stessa e il suo ruolo nella nostra modernità. Non si tratta di due realtà distintive che finiscono con lo scontrarsi ma di due componenti che complementandosi occupano un posto considerevole nel panorama letterario non solo siciliano o italiano. La forza dell’autoriflessione letteraria degli scrittori siciliani finisce nella maggior parte dei casi come il metadiscorso. Le domande sul senso dell’arte, poste da Verga e Pirandello — i primi esploratori di tale problematica, hanno un carattere ben definito. Una specie di slittamento metonimico da una fase di lotta per la ricchezza ad uno stadio di lotta per la parola, il contrasto essere/apparire, la permanenza del binomio vita/teatro diventano motivi costanti di chi vuole autointerrogarsi. Non meraviglia dunque il fatto che tutto ciò che Pirandello nomina nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ”il tumulto della civiltà” trae l’ispirazione dalla figura leopardiana del poeta “inattuale” che ha provocato la discussione sulla relazione tra la scrittura e la lettura, l’autore e il pubblico20. Si radica ai nostri occhi l’opinione che la Sicilia sia soltanto il simbolo, l’espediente che consente di stabilire un contatto tra l’uomo e la sua identità. Vincenzo Consolo si dedica alla stesura delle sue opere ricorrendo alla pluralità linguistica che caratterizza la sua espressione letteraria. Accanto all’uso del lessico dell’italiano comune, il prosatore si serve del dialetto siciliano con delle varietà di re19 I. Romeo: Passare il mare. Dall’emigrazione all’immigrazione: cento anni di memorie e racconti nelle pagine degli scrittori siciliani. Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali e dell’educazione permanente, 2007, p. 12. 20 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura alle domande sulla scrittura. La coscienza letteraria dei siciliani. Caltanissetta, Sciascia, 2003, p. 11. 34 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine gistri e di toni dal domestico familiare al lirico-volgare21. Giuseppe Bellia, analizzando il modo di scrivere consoliano, parla dell’autonomo sviluppo del filone gaddiano rafforzato dalla ricerca costante di linguaggi antichi, di tradizioni locali e di ritualità arcaiche. E nell’affermato gusto barocco dello scrittore riconosce il meccanismo di un reperimento o di un ritrovamento della parola e non della sua invenzione22. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessori, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e dei verbi. Mira ad esprimere molto in poco. Ha l’idolatria della parola, non solo come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attento a separare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed raccontare tutto con sincerità. Anche nell’uso delle parole poetiche Consolo segue l’ultimo Verga che invade lo strato sintattico introducendo le formule dubitative. Con questo procedimento lo scrittore ha dichiarato l’allontanamento dal centro ed ha espresso la mancanza di una univocità dei significati23. La prosa consoliana manifesta un’inquietudine uguale causata dall’assenza dell’interlocutore immediato inscrivendosi nell’attuale discorso sulla comunicazione letteraria. Lia Fava Guzzetta nomina Consolo “un intellettuale meridionale, consapevole di una ‘ferita’, di una esclusione e di uno sradicamento”24 che si applica allo studio profondo del passato troppo facilmente rifiutato dalla società odierna. La difficoltà sta nell’impossibilità dell’abbinare la parola di oggi alla rappresentazione della Sicilia di una volta. La narrazione che avviene per frammenti viene paragonata a volte alla dimensione del reportage giornalistico. Anche Giuseppe Traina nel suo saggio dedicato allo scrittore siciliano mette in rilievo l’importanza di questo genere destinato da Consolo alla testimonianza degli avvenimenti accaduti negli ultimi anni come, per esempio, i funerali dello studente Walter Rossi, militante della sinistra extraparlamentare ucciso
21 Cfr. G. Passarello: Un’isola non abbastanza isola. Palermo, Palumbo, 2007, p. 136. 22 Cfr. G. Bellia: L’obliquo percorso della memoria. La scrittura di Vincenzo Consolo tra storia, ritualità e sdegno. In: Sub specie typographica…
23 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura…, p. 15. 24 Ibidem, p. 19.

35 dai neofascisti25. Perciὸ, per evitare l’ambiguità del discorso, Consolo ricorre più volte ad un referente diverso dalla scrittura, appartenente invece al campo delle arti figurative, come i quadri di Antonello, di Caravaggio e di Raffaello, i dipinti di Clerici. Il romanzo Lo spasimo di Palermo vuole essere infatti la manifestazione della forza stilistica orientata verso la ricreazione di una speranza di giustizia e di razionalità nel modo in cui dominano oppressione e terrore anche se la sospensione della comunicazione tra un padre e un figlio espressa tramite il motivo di una lettera rimane una tra le scene più suggestive di questo romanzo che tratta dell’impossibilità della continuazione di scrivere. Consolo è cosciente delle conseguenze della postmodernità così come lo era George Steiner che nel Linguaggio e silenzio parla dell’esaurimento dell’era verbale e del dominio delle forme “postlinguistiche” e addirittura del silenzio parziale26.
25 Cfr. G. Traina: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo, 2001, p. 21. 26 Cfr. G. Steiner: Linguaggio e silenzio. Milano, Garzanti, 2001, p. 56.


Aneta ChmielRompere il silenzio I romanzi di Vincenzo Consolo

Invito alla lettura di “La ferita dell’aprile”

1963: Invito alla lettura di “La ferita dell’aprile” di Vincenzo Consolo

di Claudia Consoli
27.5.2013
La ferita dell’aprile
di Vincenzo Consolo
Einaudi, 1977 (2^ edizione)
pp. 138
Era il settembre 1963 quando il primo1 romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile, fece la sua apparizione nel mondadoriano “Tornasole”, diretto da Gallo e Sereni e fortemente orientato alla ricerca del nuovo. Proprio per la carica sperimentale della collana, il testo ebbe una ricezione alquanto elitaria; perché Consolo s’imponesse all’attenzione della critica e del pubblico si dovettero aspettare gli anni successivi, in particolare il 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Ma in questo libro d’esordio dell’autore di Sant’Agata di Militello si trovano già in nuce molti elementi, temi, particolarità delle prove narrative più mature.
In quell’anno in cui videro la luce grandi capolavori della nostra storia letteraria, come sottolinea Giulio Ferroni, “Consolo sembra percorrere una strada tutta sua, lontano sia dalle operazioni di tipo formalistico, dalle delibazioni estetizzanti, che dagli stravolgimenti avanguardistici e neoavanguardistici”.2 Partendo dall’espressionismo verghiano per poi imboccare una direzione originale, l’autore – allora solo trentenne – dava già dimostrazione della sua capacità di analisi e riflessione storica, consegnandoci una prosa narrativa tesa allo scavo nella memoria e nel passato, personale e collettivo.
L’inizio del romanzo, con la splendida similitudine della strada arrotolata come un nastro suggerisce subito l’idea del ricordo che prende forma dalla parola narrata:

Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso avvolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. [p.3]

La ferita dell’aprile può considerarsi la storia di una crescita, il quadro di un periodo particolare dell’esistenza, l’antefatto di una vita che ha da venire. Tutto costruito sul modulo del racconto biografico in prima persona e diviso in dodici brevi capitoli, il romanzo racconta la vita del giovane Scavone in un paese della costa settentrionale della Sicilia, rievocato con un po’ di nostalgia e al lettore regalato con la giusta dose di lirismo:

Questo paese è una grata, i vicoli incrociati, quelli piani trasversali e gli altri che scendono dritti fino a mare [..] laggiù, lo specchio di acqua chiara, un vetro azzurro in fondo al vicoletto. Ma verso l’alto c’è lo schermo della terra, le colline verdegrige con gli ulivi e gli agrumeti. Questo paese sembra posato tra le zampe d’un cane accovacciato, chiuso com’è i in questo rettangolo collinoso in riva al mare. [pp.121-122]

È il secondo dopoguerra e il protagonista, orfano di padre, trascorre un anno all’Istituto religioso del paese, luogo-prospettiva dal quale Scavone i suoi amici osservano il mondo che li circonda. I litigi di cortile e le prove di vera amicizia, i riti religiosi, i rapporti con gli americani e la distribuzione dei pacchi alimentari, la conoscenza di un nuovo frate educatore, l’esplorazione dei primi desideri sessuali, i viaggi in compagnia dello zio Giuseppe, il gioco del Monopoli.. la vita è scandita da attimi di piccoli piaceri, dialoghi ed eventi che segnano la formazione del personaggio. Sullo sfondo dei momenti di vita minuta, si scorgono tra le righe igrandi fatti storici: la strage di Portella della Ginestra, le elezioni amministrative dell’aprile 1947, lo scoppio del colera a Palermo, l’eruzione dell’Etna dello stesso anno e, file rouge di tutta la narrazione, l’anticomunismo clericale che permea l’educazione dei ragazzini, primo segnale di un’incipiente Guerra Fredda.
“Avvenimenti personali di scarsa incidenza e altri di più profondo impatto sono alternati senza essere organizzati su un asse prospettico che consenta di disporli in ordine di importanza”3: a Consolo non interessa subordinare il personale al politico.
Il microcosmo raccontatoci dall’autore colpisce per la sua ritualità. Come su un palcoscenico, i personaggi partecipano alle funzioni religiose (particolarmente evocative le scene dell’interruzione della novena di Natale e della processione pasquale) e a quelle “sociali”.
Scavone recita nel salotto della Baronessa e nello studio del Rettore dell’Istituto; sua madre nasconde la relazione con il cognato per poi sposarlo una volta che la cittadinanza glielo impone; i ragazzini fingono di trovare interessanti le prediche della domenica; Filì porta con sé l’amico e lo rende spettatore nascosto di un rapporto sessuale con una donna adulta. Consapevoli degli artifici entro i cui confini si muovono, sanno di essere un po’ attori e partecipano tutti a questo “gioco delle parti”.
Accanto al mondo sociale, ecco la recita in quello familiare. Su tutte le figure spicca quello dello zio Giuseppe Scavone su cui il ragazzino opera una completa proiezione della figura paterna assente. Protagonista indiscusso dello spettacolo familiare, a lui il ragazzino dedica tutto il suo amore filiale:

Era un giorno d’agosto e di calura e tornava di campagna in un bagno di sudore. Mi chiamò dentro e mi disse di sfilargli i borzacchini, di lavargli con l’aceto i piedi sfatti. Mi parve un re, un santo, assiso sul cassone, le mani sulle cosce, lo sguardo sopra di me in ginocchione a sfregargli i piedi immensi nel bacile di rame con l’aceto. [p.34]

Uno degli aspetti più interessanti della struttura del romanzo è la duplicità di funzione del protagonista.Narratore e personaggio, la sua voce ha assoluta centralità: da un lato è impegnato a vivere le dinamiche della vita in paese, dall’altro a raccontarle. Sia nell’agire che nel narrare, però, Scavone è distante dal dare giudizi e dall’attribuire definizioni. Registra quel che vede con l’aridità del catalogatore, non sempre ha piena consapevolezza di quello che succede nel mondo degli adulti, e il percorso di formazione è lontano dal dirsi concluso. Ovunque domina l’instabilità dei momenti di passaggio.
Ci sono due “dati saldamente pre-diegetici”4 a cui si accenna continuamente nel corso del libro ma che non vengono mai raccontati: la morte del padre e l’abbandono di un paese di cui non si pronuncia mai il nome e nel quale si può facilmente riconoscere San Fratello. Con la sua parlata di derivazione gallo-italica, il paese sui Nebrodi che farà la sua comparsa anche nelle opere successive di Consolo (Lunaria, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Le pietre di Pantalica), è come un marchio sulla figura di Scavone, che tutti chiamano“zanglè” perché parla una lingua speciale, diversa da quella dei suoi coetanei che per questo spesso lo deridono e lo fanno sentire diverso.
Arriviamo a questo punto alla lingua de La ferita dell’aprile, così audacemente costruita sul doppio asse lingua-dialetto, mai contrapposti ma, al contrario, immessi l’uno nell’altro. La lingua di Consolo è intrisa dioralità, si nutre di canti liturgici e popolari, di canzoncine politiche (Quando sarà abolito il capitale/ le piante daran gnocchi con la bagna/ e invece di patate pere e mele/ avremo confettini e pandispagna, p.68) e di scanzonate rime dialettali, interiezioni e modi di dire. Come sottolinea Daniela La Penna5, la struttura su cui si costruisce il testo è il pervasivo discorso indiretto libero, “punto di incontro tra diegesi e mimesi” e che non è difficile individuare come una chiara eco verghiana:

La capo ciurma le chiama puttanelle, zoccole, sempre la testa là voi ci avete, e loro cantano a struggimento s’è maritata Rosa Sarina e Peppinella, col canto e controcanto, ed io che sono bella mi voglio maritar. [p.74].

Il testo procede per immagini staccate che hanno il ritmo delle stagioni. Basta leggere queste righe sull’arrivo della primavera in Sicilia per sentire gli odori di una terra, intravederne i colori, intuirne i sapori:

Primavera prescialora che non lascia di dire è cominciata. La conca s’appende nel dammuso tirata oro con cenere e limone. Voglia di insalata sul terrazzo, voglia d’aceto, nespole agrimogne. I vecchi, lo scialle sulle spalle e le coppole sugli occhi, si portano nel sole a scatarrarsi, a togliersi l’inverno dalle ossa, disegnano il terreno col bastone, spaventano l’uccello e la lucertola. Le donne sui balconi, alle finestre, sciolte le crocchie, ripassano i capelli, fino alle spalle, fino alla vita, conservano i batuffoli nelle crepe per le rose di carta, centrini a punto croce, bambole d’organza e falpalà. I pittori, cappelli di giornale, sbarazzano i catoi, trespidi e tavole, testate e materassi sopra il marciapiede; la calce e gli scopini fanno la primavera, bianco e cilestrino, rosa cotto, giallo giudeo. [p.73]

La ferita dell’aprile è un romanzo che non ha nulla da invidiare ai testi del Consolo successivo in quanto a complessità e profondità tematica. Gli studiosi si sono interrogati sul senso della parabola di Scavone, dandone diverse interpretazioni. Giancarlo Ferretti, nella sua preziosa introduzione alla riedizione Mondadori del 1989, legge il libro come un “romanzo sul problema del potere” e sulla “carica liberatoria della diversità”; AlbertoCadioli ha, invece, sottolineato l’aspetto della formazione, sancita dal finale dell’opera e dall’ingresso del protagonista nel mondo degli adulti.

– Ecco, – pensavo, – la vita è un gioco di maretta: avere l’occhio fino a capire il momento per gridare «arripa!» e scivolare col legno sulla cresta. Un po’ prima, un po’ dopo, sbagliare il tempo, per ansie o dubbi o titubanze, significa farsi pigliare sotto, e travolgere, e sbattere nel fondo […] uno che pensa, uno che riflette e vuol capire questo mare grande e pauroso, vien preso per il culo e fatto fesso. E questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbìa? [p.105]

Nel microcosmo siciliano si condensa una riflessione dai toni elegiaci sull’uomo e sulla storia. Come nella Trezza di Verga, nella comunità di Consolo c’è spazio per un’etica, per una filosofia della vita, e non è certo un caso che anche qui sia affidata al mondo del mare.
Claudia Consoli
Edizione di riferimento: Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile, Torino, Einaudi, 1977.
1Il romanzo era stato preceduto solo da un racconto breve intitolato Un sacco di magnolie, composto durante gli anni universitari milanesi e pubblicato sulla rivista «La parrucca» nel 1957.
2La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, Lecce, Manni Editore, 2006, p.7.
3Ivi, pp.18-19.
4Ivi, p.19.
5Il saggio cui faccio riferimento è Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo contenuto nel già citato volumeLa parola scritta e pronunciata (p. 13).

Oltre il silenzio di Antonio Di Grado

 

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Oltre il silenzio

Non è facile parlare di Consolo. Perché a lui giustamente ripugnava il bla-bla letterario, e anzi si faceva sempre più netto, di libro in libro, il suo rifiuto della letteratura e del romanzo tradizionali, orientati a uno scioglimento salvifico e a una fittizia ricomposizione dei conflitti. E altrettanto fastidio esprimeva per certa critica parassitaria e devitalizzata, per le «prose piane» e le «storie tonde» dei «professori», ironicamente evocate fin dalle prime pagine dello Spasimo di Palermo, inutili e dannose almeno quanto gli scrittori-intrattenitori che quella critica blandisce e che di quella critica hanno bisogno per «ingrassare» la loro «musa acquietante», fatta di «trame» che sono «panie catturanti», cioè colpevoli inganni, e di parole che appartengono a «gerghi scaduti o lingue invase, smemorate».

Nell’impervia sfida di Consolo contro quei linguaggi culmina un’altra sfida, una scommessa purtroppo perduta, quella della grande tradizione letteraria siciliana, che da Verga e De Roberto a Pirandello, da Brancati e Vittorini a Sciascia si sforzò d’innalzare un argine di stile e di moralità, d’intelli­genza critica, contro l’omologazio­ne, contro la perdita delle radici e del senso, e a preservare una diversità che, se non è più storica e antropologica, se non è più nei costumi e nella lingua d’una terra frattanto omologata e imbarbarita, resti tale almeno sul piano conoscitivo, intellettuale, della lettura critica del reale, della demistificazione della storia redatta dai vincitori e della lingua mendace del potere.

La scomparsa dello scrittore m’ha portato indietro nel tempo, fino all’ormai lontano 1989, quando proposi al Teatro Stabile di Catania di commissionare ai tre grandi scrittori siciliani allora viventi – Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo – tre atti unici da riunire in un Trittico, che fu messo in scena nel novembre di quell’anno. Sciascia ormai stava male, molto male. Accolse l’invito ma mi pregò di provvedere io alla riduzione drammaturgica d’un suo racconto, Arrivano i nostri, un delizioso divertissement sul trasformismo d’un pugno di notabili siciliani, debitamente reazionari, ma raggiunti nel loro circolo dalla falsa notizia dell’invasione dell’Italia da parte dell’Armata Rossa. Una farsa amara, che concludeva il Trittico – dopo la mesta elegia di Bufalino e l’altisonante tragedia di Consolo – con un sorriso: lo stesso che strappai a Sciascia raccontandogli, all’indomani della prima, del successo e delle risate riscossi dal suo (e mio) Quando non arrivarono i nostri. L’ultimo sorriso, forse: si spense pochi giorni dopo, il 20 novembre. All’alba di quel giorno, fu proprio Consolo a darmi la notizia, per telefono, con voce rotta.

Pure Bufalino si prestò al cimento teatrale, con la sua sovrana sprezzatura da gentiluomo garbato e blasé. Trascrisse lui stesso in forma teatrale un suo racconto, La panchina. In mezzo, tra l’atto unico di Bufalino e quello di Sciascia e mio, un testo nuovo, scritto per l’occasione da Consolo: Catarsi, un testo di alta e impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Hölderlin e di Pasolini; un testo che definirei di non ritorno, perciò cruciale nella sua produzione, ché nell’altezza stessa del suo linguaggio certificava l’impossibilità del linguaggio stesso di redimere il mondo dalla comunicazione omologata e asservita al Potere. E perciò drammaticamente prefigurava le successive difficoltà creative di Consolo, dovute non già a impotenza o inaridimento ma a una lacerante consapevolezza della impossibilità della parola di riscattarci dall’insensatezza e dalla menzogna.

Consolo fu il più entusiasta dei tre, il più vicino e partecipe. Non so quanto il pubblico, che si commosse con Bufalino e si divertì con Sciascia, riuscì a capirlo. Ma questa è un’altra storia. Ora conta tornare a quel testo estremo e programmatico, perché rappresentò una cesura nella produzione dello scrittore così com’era un testo-fron­tiera tra il teatro e il canto, tra la parola e il silenzio, tra la resistenza e la resa, un testo la cui ardua poesia era tutt’uno con la rinunzia di Empedocle al compromesso col potere e con la sua lingua falsa e strumentale, e perciò era tutt’uno col silenzio dell’auto­an­­nul­la­­mento, della morte.

Il silenzio: forse i grandi scrittori siciliani, coi loro sconsolati ritorni e coi loro travagli espressivi talora paralizzanti (ultimo, per l’appunto, Consolo) provengono dal travaglio della parola poetica di Verga e dal suo struggente spegnersi nel silenzio e nell’amarezza. Anche il silenzio può essere letto come un testo; e tanto più le forme di comunicazione che lo evocano ma senza inabissarvisi, senza rinunziare cioè a quell’estrema mossa della speranza che è la parola che si pone e resta sospesa sulla soglia, che nel momento di spegnersi pronuncia l’indicibile. E la rinunzia al romanzo, quella di Consolo più che quella apparentemente analoga del protagonista del suo ultimo romanzo, che aveva davvero e in toto rinunziato alla scrittura, può dunque essere annoverata e letta all’interno di un’alta tradizione di prosa non romanzesca, che evita cioè la falsa conciliazione del romanzo sette-ottocen­tesco, eurocentrico, realistico e borghese senza rinunziare a interpretare e giudicare, anzi incrementando per ciò stesso il suo potenziale evocativo e analitico, critico.

Dopo il cimento teatrale di Catarsi e le successive prove saggistiche e narrative, e prima della drammatica impasse degli ultimi anni, questa poetica trovò definitiva e radicale conferma proprio nello Spasimo di Palermo, che chiudeva, col Sorriso e Nottetempo, il trittico nel quale la storia o meglio l’antistoria siciliana delle sconfitte della ragione e della perpetuazione del dominio viene dissezionata e squadernata nelle forme sempre più ellittiche e problematiche, e coscienziali, cioè votate allo scavo interiore, all’interrogazione febbrile, alla vertigine espressiva, di una narrazione polifonica e polisemica, magmatica e metamorfica, insieme ebbra e raziocinante, tramata da brusche cesure e fluidi trapassi.

A me pare che l’ambizione di Consolo sia stata quella di far confluire le due vie maestre, parallele e tuttavia talvolta intersecate, della grande narrativa isolana: quella lirico-evocativa, monodica, e mitizzante, che dalla casa del nespolo portava fino a Vittorini e poi a D’Arrigo, e che lui stesso palesemente proseguiva, e quella, apparentemente a lui più estranea, di tipo analitico e raziocinante: la linea, cioè, De Roberto-Borgese-Brancati-Sciascia, della quale egli adottava la vocazione sperimentale alla contaminazione e al saggismo, accentuandone la vocazione al plurilinguismo. E aspirava a combinarle, quelle due vie, in quel­­­l’u­­nicum riassuntivo, ma originale e diverso, che è la sua prosa poetico-critica, insieme analitica ed evocativa, consacrata alle due muse solo apparentemente antitetiche della nostalgia e dell’indi­gnazione, della me­mo­­ria e del furore civile, delle oltranze espressive e concettuali.

Antonio Di Grado

nella foto:  Antonio Di Grado, Vincenzo Consolo e Mariella Lo Giudice

Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo

Aneta Chmiel

Università della Slesia

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio alla luce di recenti studi

 Non a caso il romanzo di Vincenzo Consolo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio è considerato uno dei maggiori contributi alla letteratura siciliana (Barbagallo, G., 2009: 15/6). L’opera narra della rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcàra Li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Con una suggestività inconfondibile Consolo dipinge il quadro quasi fatato del paesaggio siciliano: Le montagne erano nette nella massa di cupo cilestro contro il cielo mondo, viola di parasceve. Vi si distinguevano ancora le costole sanguigne delle rocche, le vene discendenti dei torrenti, strette, slarganti in basso verso le fiumare; ai piedi, ai fianchi, le chiome mobili, grigio argento degli ulivi, e qua e là, nel piano, i fuochi intensi della sulla, dei papaveri, il giallo del frumento, l’azzurro tremulo del lino. Consolo, V., 2006: 7 Questa condizione d’eccezionale benessere nasconde tuttavia un mondo dove stanno per scoppiare tensioni profonde, forti ed irresistibili, dove regna il plurilinguismo e multiculturalismo e dove alla maggioranza siciliana si contrappone una comunità araba e all’elitaria aristocrazia si oppone il popolo e il proletariato. Le personificazioni espresse tramite le parole come: “le costole sanguigne”, “le vene discendenti”, “ai piedi”, “ai fianchi”, “le chiome mobili” denunciano un intento molto più che ovvio di animizzare quella terra, di mostrare il dolore subito dal suo corpo mortificato. Paradossalmente, la bellezza dei luoghi non solo menzionati, ma addirittura ricorrenti e presenti nel corso delle azioni diventa testimone degli scenari più sanguinari della storia. Il dramma del paese dei Nebrodi viene reso ancora più commovente quando ci si rende conto della gravità delle convergenze subite dai contadini innocenti durante lo scontro con le forze risorgimentali. Con questo romanzo lo scrittore vuole stabilire la misura del contributo delle masse contadine del meridione italiano nel Risorgimento, il ruolo dell’intellettuale negli importanti momenti storici e finalmente delineare il rapporto tra la letteratura e la storia, tra la memoria e il presente. Il protagonista del romanzo, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato malacologo, descrive gli episodi avvenuti che costituiscono un apporto importantissimo della vicenda risorgimentale, dato che rivelano il suo lato piuttosto oscuro. Presente in quasi tutti i capitoli, funge da coscienza del libro e anche da alter ego di Consolo (Segre, C., 2005: 130). Si può costatare che c’è una specie di appello alle facoltà empatiche del lettore davanti al quale il narratore cerca di svelare il mistero del prezzo che doveva pagare la Sicilia in nome degli ideali risorgimentali. Questa decisa presa di posizione incitò i lettori alla riflessione su un periodo della storia non del tutto glorioso. Il bisogno di raccontare questa storia non è scaturito solo dai ricordi personali dello scrittore, ma anche, o forse soprattutto, dalle riflessioni ispirate dal dibattito culturale svoltosi in quegli anni . Come prima approssimazione si potrebbe dire che, delineando le conseguenze dell’impresa risorgimentale in Sicilia, Consolo abbia ripreso la polemica non solo con la storia stessa, ma anche con la storia letteraria, e in particolare con il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolato Gattopardo. Non solo nel clima e nella rappresentazione dello stesso avvenimento vi si possono scorgere delle analogie. Soprattutto le figure dei protagonisti costituiscono un’esemplificazione di una contrapposizione ben distinta. Don Fabrizio, anche se uomo potente, risulta impassibile mentre osserva gli avvenimenti che hanno contribuito alla storia, invece il barone di Mandralisca, al contrario, soffre questa drammatica realtà che sta accadendo. Gaetano Barbagallo caratterizza il romanzo con l’aggettivo “audace” e si deve acconsentirlo, soprattutto se si prende in considerazione la quasi mitica presenza dell’impresa garibaldiana nella coscienza degli italiani (Barbagallo, G., 2009: 15/06). Consolo entra nella polemica non solo con la rappresentazione dell’impresa unitaria, ma anche con il passato stesso, perché la sua narrazione è stata pensata come una lettura del presente. Come scrive Sandra Mereu, “il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo” (Mereu, S., 2011: 11/08). Nel romanzo si ha un significativo ritorno al passato inteso come metafora del presente. Particolarmente attento al versante ideologico della narrativa italiana, Consolo tenta un’analisi condotta su tempi e luoghi. Lo scrittore svolge un complesso gioco di corrispondenze che simbolizzano soprattutto la crisi di valori. Il sorriso dell’ignoto marinaio diventa il simbolo di un atteggiamento di distacco dalle dolorose esperienze passate. Analogamente, la scelta della struttura narrativa risulta altrettanto simbolica. Consolo rompe la tradizione della stesura del romanzo storico, sperimentando una narrazione disarticolata, dove nel testo vengono inseriti documenti autentici o inventati o verosimili. Adamo, analizzando le strategie narrative impiegate da Consolo (Adamo, G., 2006: 72), definisce questo testo “antiromanzo storico” invece Cesare Segre suggerisce piuttosto la seguente perifrasi: “negazione del romanzo storico” (Segre, C., 1991: 77). Consolo tenta di rendere il testo verosimile mediante un ampio arazzo narrativo degli inserti documentari. Una simile operazione non meraviglia se la si considera come la volontà di intensificare il messaggio storicizzante e, al tempo stesso, l’espressione dell’impossibilità di accettare la realtà contemporanea. Anche per la chiarezza morale e la volontà d’impegno civile Consolo rinuncia al narratore onnisciente per dare la voce ai diversi soggetti che rappresentano punti di vista diversi. Il caso così anomalo della narrativa che induce il lettore a rivelare i segreti servendosi più dell’intenzione che della logica, risveglia l’interesse della critica e della ricerca. L’originalità della scrittura si manifesta, tra l’altro, nella sua poetica. Le didascalie delle acqueforti di Goya, indicate nel testo dal corsivo servono a descrivere gli effetti devastanti invece del racconto vero e proprio della stessa strage dei contadini. Non è tanto difficile rievocare, seguendo anche le suggestioni di Sandra Mereu, l’evidente associazione all’episodio manzoniano del Lazzaretto, quando si legge Carrettate per il cimitero e il nesso tra i monatti in divisa rosa e i garibaldini (Mereu, S., 2011: 11/08). Non solo in questo confronto delle immagini rievocate è leggibile la polemica di Consolo. Un fattore altrettanto suggestivo è la scelta del linguaggio poetico. Consolo decisamente rifiuta la lingua nazionale, identificandola con la lingua del potere, e ricorre all’impiego della lingua parlata da una variante minoritaria per dare omaggio e, soprattutto, per salvare dall’oblio la sorte dei più umili, “traditi da Garibaldi”. La contrapposizione: lingua nazionale — una parlata minoritaria oltre che il valore simbolico della metafora del presente assume il valore della polemica sull’integrazione nord — sud. Sandra Mereu si pone la domanda sull’universalità di questa strategia: “[…] se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale — dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale?” (Mereu, S., 2011: 11/08). Dal punto di vista del lettore sembra rischioso introdurre un personaggio come Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, intellettuale nell’ambito dove predomina la forza ingenua e incontrollata. Come spiega Vincenzo Consolo in una delle interviste, l’intellettuale dovrebbe caratterizzarsi per una certa responsabilità che consiste nell’esigenza e prontezza di esprimere un giudizio sulla storia e intervenire. Il barone Mandralisca, il protagonista, a causa dei fatti tragici avvenuti nella campagna siciliana nel 1860, lascia la malacologia per rivolgersi alla realtà drammatica. In questo significato il Mandralisca entra in polemica con il Gattopardo e Consolo si oppone a Lampedusa, il quale vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo (Bonina, G., IV: 92). Il clima de Il sorriso dell’ignoto marinaio, in realtà, non è lontano dai fervori della contemporaneità. L’autore stesso ribadisce la contingenza dei tempi evocati nel romanzo e gli anni settanta. È troppo forte il legame con la Sicilia e nello stesso tempo con la sua cultura per cercare di trascurare i fatti della storia, anche quelli scomodi. Consolo riconosce il primato della letteratura e il ruolo dell’intellettuale, il ruolo principale dunque è quello di rivendicare una propria identità. Il romanzo, effetto di un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico, diventa soprattutto un riflesso cosciente del contesto storico, sociale e stilistico. In questa sua scelta Consolo si ispira piuttosto a Sciascia che a Vittorini, perchè i temi presi in considerazione dallo scrittore appartengono al campo storico-sociale. In una sola cosa però Consolo si è distaccato da Sciascia e cioè nella scelta dello stile. Non vedendo una società armonica con la quale comunicare, ha adottato il registro espressivo e sperimentale. La scelta illuministica e razionale sciasciana ammetteva il senso della speranza, invece, la generazione successiva quella del Consolo non la nutriva più. (Sciascia su Risorgimento in Sicilia — Le parrocchie di Regalpetra). In risposta, Sciascia ha nominato Il sorriso dell’ignoto marinaio un parricidio sottintendendo, sicuramente, la frase di Skolvskij, secondo quale, la letteratura è una storia di parricidi e adozioni di zii (Bonina, G., IV: 92). La mimesi del romanzo, espressa tra l’altro, nella figura dell’erudito settecentesco, ha avvicinato il capolavoro di Consolo piuttosto a Verga, Gadda o Pasolini. L’evidente, non attenuata violenza del linguaggio non risente solo la restituzione di una realtà immediata, ma anche la dichiarata volontà consoliana di prendere una posizione nei confronti della storia. Tutto il rapporto che lega Consolo agli scrittori siciliani è posto su un duplice segno. Da una parte l’autore ammette di aver attinto ai suoi predecessori, e non nasconde il debito nei confronti della narrativa isolana, dall’altra invece, indica la scelta della propria, originale strada, la nomina nello stesso tempo parricida definendo così la propria vocazione. Per esempio, da Vittorini, che come saggista è stato ignorato, è stata presa un’altra caratteristica: la precisione della descrizione topografica quasi uguale a quella de Le città del mondo, la troviamo proprio ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Consolo chiama questo atteggiamento “più siciliano possibile […] più acribitico” (Bonina, G., IV: 92). Per dare un quadro trasparente della sua concezione della letteratura Consolo rievoca il parere di Moravia, secondo il quale “scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo” (Bonina, G., IV: 92). Importante che il movimento sia dal libro verso il lettore e che la scrittura abbia più peso e più influsso. Consolo sceglie invece l’aspetto espressivo della prosa, quasi orale, ritmica, basata sulla memoria. Il narratore sembra infatti, l’unico ad aver scelto questa strada della prosa artistica. Basilio Reale, per esempio, anche lui messinese ed esule a Milano nello stesso tempo si dedica però alla poesia. Anche se quasi in ogni libro è possibile rintracciare una trasposizione autobiografica, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio del Consolo ce n’è poco. La Milano contemporanea costituisce per Consolo uno strumento per capire meglio la Sicilia. Grazie al soggiorno e alla vita milanese lo scrittore ammette di essere in grado di scoprire un’altra Sicilia più vera e infelice, toccata dall’ingiustizia e perdita di identità. In questo senso Consolo segue Pasolini, che parlava dello “scandalo della storia”, cioè la necessità della consapevolezza storica per fondare la consapevolezza del presente, della propria identità, della propria dignità (Puglisi, S., 2008: 116). Consolo fa un passo avanti rispetto ai suoi maestri siciliani: tramite i suoi libri varca la soglia della ragione segnata, tra l’altro, da Sciascia, verso l’ingiustizia e lo smarrimento. In una certa misura Consolo consolida l’atteggiamento di Vittorini che voleva che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione rivolgendosi verso un mondo di progresso. Solo che Vittorini credeva in un’utopia, Consolo invece, rappresenta un comportamento pieno di amarezza per un mondo che scende verso i valori più bassi. Il romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato nel 1976 viene definito “il rovescio progressista del Gattopardo” e perciò entra in polemica con l’immobilismo di Tomasi di Lampedusa. L’intento dell’autore, legato indissolubilmente alla storia della propria terra natia, è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, e più dettagliatamente, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. parla addirittura della “convulsa realtà di quegli agiatissimi anni […]. Gli anni delle stragi nere e rosse, dell’esperienza folle delle Brigate Rosse, degli omicidi politici, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro” Consolo ammette più volte di ricorrere volontariamente al genere del romanzo storico e in particolare risorgimentale. Secondo lui, è l’unica forma narrativa possibile per rappresentare in modo metaforico il presente e le sue istanze, la cultura, la scrittura e la letteratura incluse. Consolo stesso scrisse il suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, in omaggio a Sciascia, e in particolare al suo romanzo Morte dell’inquisitore. Però non va dimenticato che alla base della stesura del romanzo vi si trovano almeno tre elementi principali: un’inchiesta sui cavatori di pomice svolta da Consolo per un settimanale, il fascino del quadro di Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto e infine la rivolta di Alcàra Li Fusi avvenuta nel 1860. Quest’ultimo fattore è accompagnato da un dibattito sul Risorgimento così detto “tradito” chiamato altrimenti la Resistenza. Questa plurivocità del romanzo viene sottolineata per di più dalla presenza di documenti variamente manipolati. Un procedimento che rende una narrazione verosimile dal punto di vista della sua storicizzazione, ma che, nello stesso tempo, la nega perchè si prefigge di spiegare i fatti (Traina, G., 2001: 58). I due protagonisti del romanzo devono affrontare, ognuno dalla propria prospettiva, la resistenza del mondo contadino siciliano. Il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, cercherà di comprendere le esigenze popolari, invece l’avvocato Giovanni Interdonato, il deuteragonista, rivoluzionario giacobino, svolgerà la funzione di staffetta tra i vari esuli e i patrioti dell’isola. I due protagonisti si incontreranno a causa della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo e occuperanno due parti opposte: il barone difenderà i contadini insorti e chiederà di aver clemenza all’Interdonato che avrà assunto l’incarico di giudice. Il barone Pirajno di Mandralisca è un aristocratico intellettuale che per certi aspetti può assomigliare alla figura del principe Salina che giudica tutto con un certo distacco, ma qui le analogie si esauriscono. I protagonisti del Lampedusa si instaurano su un forte contrasto, tra l’altro generazionale, invece nel romanzo consoliano la relazione tra i protagonisti è piuttosto di carattere polemico. Con il ritorno al tema del mito risorgimentale Consolo vuole intraprendere una polemica contro chi intende il Risorgimento come movimento omogeneo ed ispirato da una sola frazione. Il Consolo volge l’attenzione del lettore verso le sollevazioni contadine che lottavano contro i balzelli e l’usura. I risvolti vengono imprigionati nel castello di sant’Agata di Militello il quale nel romanzo viene rappresentato come “immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel buio e putridume” (Consolo, V., 2006: 136). Secondo Segre, la metafora della chiocciola attraversa tutto il romanzo rappresentando l’ingiustizia e i privilegi della cultura. Non a caso, il protagonista principale del romanzo di Mandralisca nelle sue ricerche si occupa di lumache. Per non ripetere quello che è già stato raccontato, Consolo rifiuta una narrazione classica e ricorre ai documenti e ai ricordi inventati dei personaggi realmente esistiti con lo scopo di concentrarsi sugli episodi. Grazie a questo procedimento il romanzo storico sfugge alla sua definizione tradizionale per acquisire delle sfumature e dei significati modificati. Negli anni Sessanta è stato ripreso il dibattito sui rapporti tra classi sociali e sulle possibilità di esprimersi da parte di esse. Siccome è stato costatato che le classi oppresse non erano in grado di farsi notare, Vincenzo Consolo, con questo romanzo, tenta di restituire loro, agli esclusi della storia, la propria voce. Secondo Consolo la Storia, l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. Per rendere ancora più trasparente questa divisione delle stesse classi Consolo fornisce praticamente ogni personaggio di un idioma: un brigante recluso parla il sanfratellano, il poco noto idioma gallo – romanzo, le guardie parlano il napoletano, Mandralisca usa un siciliano regolarizzato sul latino. L’italiano viene qui mescolato al dialetto siciliano il che vuole riflettere non solo l’impasto linguistico ma anche quello sociale, culturale, antropologico. In un’intervista Consolo ha affermato: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati” il suo quindi è “un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nella profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano (Falco, A., 2009/02). Beniamino Mirisola nomina addirittura l’opera consoliana il Bildungsroman, indicando nello stesso tempo come il protagonista principale Enrico Pirajno barone di Mandralisca e proponendo la sua prospettiva interpretativa (Mirisola, B., 2012). Pirajno viene rappresentato come un aristocratico, intellettuale, che vive dedicandosi alla sua ricerca da erudito, finché le violente circostanze non lo costringono al confronto con la cruda realtà. Il barone dovrà sacrificare in nome della giustizia e della ragione il proprio patrimonio culturale e spirituale. Il Consolo non si astiene dalla parabola che rende privilegiata la tendenza di interpretare le vicende del protagonista in quanto riflesso delle sue letture ed idee politiche. Il percorso formativo del protagonista, a differenza dei personaggi tradizionali del genere, non è stato rappresentato come il nucleo del romanzo, ma piuttosto lasciato in disparte, in favore della già menzionata dimensione intertestuale ed ideologica. Il suo cambiamento è graduale, avviene a passi lenti. Del suo divenire possono testimoniare i momenti narrativi come quello dell’iniziazione, per esempio: il protagonista si trova su una nave, in viaggio, dunque in movimento, il che riflette la sua condizione: in discesa o ascesa perpetua, come nella scena seguente: “una strada dura, tutta il salita, piena di giravolte e di tornanti” (Consolo, V., 2006: 87). Privo di questo schema dell’evoluzione interiore, sembra che il protagonista, sfugga alla classifica intenzionale che viene subito in mente. E invece, anche se non del tutto fedeli al canone e alle esigenze del genere, il romanzo e i suoi protagonisti risultano assai trasparenti. Il barone Mandralisca si associa al principe Salina. Ne troviamo prove in una serie di interventi di vario tipo che hanno azzardato un’interpretazione sul messaggio contenuto nel romanzo. I teorici, fra cui Corrado Stajano, Antonio Debenedetti, Paolo Milano e Geno Pampaloni non vogliono solo leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma gli attribuiscono le peculiarità seguenti: “antigattopardo” oppure “Gattopardo di sinistra”. Tutti però sono d’accordo che, ambedue gli autori: Consolo e Lampedusa, anche se hanno in comune certi aspetti, non coincidono per quanto riguarda la storia e il suo divenire (Mirisola, B., 2012). Lo definisce bene Cesare Segre, sempre in riferimento alla questione delle analogie tra le due opere: Consolo riprende dal Gattopardo solo lo spunto di un romanzo sulla Sicilia ai tempi dello sbarco di Garibaldi, con al centro un aristocratico che, essendo pure un intellettuale, è particolarmente portato a riflettere sui cambiamenti e a giudicare con qualche distacco, senza venire meno allo stile e alla sprezzatura della sua casta. Consolo, V., 1987: IX—X Il Consolo stesso rimane scettico per quanto riguarda le comparazioni tra i contenuti dei romanzi menzionati e ribadisce la loro futilità nel campo dell’analisi vera e propria del profilo del protagonista. Secondo lo scrittore sarebbe anche troppo rischioso identificarlo con il protagonista. Ammette invece, che le loro voci si accostano, ma solo nella seconda parte del romanzo. Un rapporto che pare ancora più stravagante se riusciremo a rievocare le origini letterarie del protagonista. Va sottolineato che lo scrittore si è ispirato a un personaggio realmente esistito di un nobile cefalutano e in questo modo ha garantito al suo protagonista uno statuto quasi autonomo. L’evoluzione del protagonista rappresentata in modo poco schematico, simbolico e significativo potrebbe essere un’altra caratteristica distintiva che avrebbe contribuito all’atteggiamento polemico verso la tradizione e la rappresentazione fino a quel momento adottata. Il barone di Mandralisca non ha paura di assumere le responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. Probabilmente si tratta di una sfida oppure di un invito a un’ulteriore presa di distanza dai suoi privilegi, dalla sua formazione e persino dalla sua cultura. Bibliografia Adamo, Giuliana, 2006: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. San Cesario di Lecce, Manni. Barbagallo, Gaetano, 2009: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”: i Nebrodi nel risorgimento siciliano, Persone, http://nebrodinetwork.it/wp/?p=125 [l’ultimo accesso: il 12 novembre 2011]. 224 Études Bonina, Gianni, Anno IV, nº 92: Vincenzo Consolo. Padri e parricidi. Vincenzo Consolo: la sua scrittura, le sue opere e il suo rapporto con il lavoro di Sciascia e Vittorini. Tra debiti e superamenti dei modelli letterari. L’intervista, http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=187 [l’ultimo accesso: il 14 dicembre 2011]. : Vincenzo Consolo. Consolo, Vincenzo, 1987: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Consolo, Vincenzo, 2006: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Falco, Annunziata, 2009: I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana, http:// dugi-doc.udg.edu/bitstream/handle/10256/1503/Falco_Annunziata.pdf [l’ultimo accesso: il 15 ottobre 2011]. Mereu, Sandra, 2011: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Libri, recensioni, http://94.32.64.110/www.equilibrielmas.it/website/Menu.php?menu=5244 [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Mirisola, Beniamino: Ragione e identità nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Gli Scrittori d’Italia — XI Congresso Nazionale dell’ADI, http://www.italianisti.it/ FileServices/133%20Mirisola%20Beniamino.pdf [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Puglisi, Sandro, 2008: Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo. Acireale — Roma, Bonanno Editore. Segre, Cesare, 1991: Intrecci e voci. La polifonia nella letteratura del Novecento. Torino, Einaudi. Segre, Cesare, 2005: Tempo di bilanci. La fine del Novecento. Torino, Einaudi. Traina, Giuseppe, 2001: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo. Nota bio-bibliografica Aneta Chmiel è docente di Glottodidattica presso il Dipartimento di Italianistica dell’Universìtà della Slesia a Sosnowiec. Ha conseguito la laurea in lettere nel 1998 e nel 2002 ha ottenuto il dottorato. È autrice di vari articoli sulla letteratura italiana rinascimentale e contemporanea. Ultimamente le sue ricerche si concentrano sulla narrativa di Vincenzo Consolo

«Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria» Variazioni consoliane sulla Sicilia, e altro.

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Osservatorio Bibliografico della Letteratura

Italiana Otto – novecentesca

Anno II, numero 6 -7

Settembre 2012

Rosalba Galvagno

 

«Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria»

Variazioni consoliane sulla Sicilia, e altro

Il racconto intitolato Il disastro storico può fare da cornice, in ragione della sua bruciante attualità, alla ricognizione del bel libro postumo di Vincenzo Consolo, ricchissimo di memorie, ironico e spassoso per alcuni tratti, implacabile e beffardo per altri, che ci ha ispirato alcune riflessioni.1

Il «disastro» è quello che spazza via la storia, in quanto catapulta l’uomo in uno stato naturale di nudità, smarrimento e animalità, sottraendolo appunto alla storia tanto faticosamente costruita.

Nelle calamità naturali, terremoti, alluvioni, eruzioni, oltre alle vittime umane e ai danni materiali, uno dei disastri maggiori è quello forse immediatamente inavvertibile ma che subito si produce e fa sentire i suoi effetti per generazioni future. È questo il disastro storico, il disastro della storia. Quando un terremoto, per esempio, squassa e polverizza città o tessuti umani fortemente storicizzati, che nei secoli avevano cioè sviluppato una loro particolare storia, una loro cultura, una loro civiltà, oltre a distruggere vite e documenti e beni, ributta indietro i superstiti dal piano della storia al piano della natura, dell’esistenza: in pochi secondi essi fanno balzi indietro di secoli.

Passati quei pochi secondi, in cui è preda di un terrore cosmico, l’uomo, spogliato di ogni segno storico, nudo e smarrito, scatena il suo istinto, la sua animalità.2

A dimostrazione di questa disumanizzazione Consolo cita due fatti emblematici, agghiaccianti, prodottisi all’indomani del terremoto nella valle del Belice del gennaio 1968. Uno riguardava il disinteresse e l’empietà quasi dei superstiti nei confronti dei loro morti e l’altro il costituirsi di branchi di cani famelici, predatori di sangue e putridume. C’è da meravigliarsi allora, s’interroga lo scrittore, se in questi momenti sbucano fuori i cosiddetti sciacalli, che scavano tra le macerie? Come ad esempio a San Francisco dopo il terremoto e l’incendio del 1906, dove i predoni venivano sommariamente impiccati, o dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria, dove i predoni venivano passati per le armi. Ma vi è un’altra forma di sciacallaggio, quello a freddo, razionale, che nasce al di fuori del teatro del disastro, non più degli sciacalli caldi o freddi e in un secondo tempo, come lo sciacallaggio del politico, del giornalista, dell’industriale, del generale. Ma non c’è fine a questa deriva, poiché c’è il terzo momento, non più degli sciacalli caldi o freddi, è quello delle iene, degli speculatori e profittatori della ricostruzione, insomma dei ladri e arraffatori di tangenti: «Quelli che, fingendo di ricostruire, mostruosamente continuano a

1 V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, Mondadori, Milano 2012. Il volume raccoglie 52 racconti, così preferiva chiamarli l’autore, scritti tra il 1957 e il 2011, di cui alcuni inediti. «Questo libro», si legge alla fine del conciso e accurato risvolto di copertina, «l’ultimo che ha personalmente concepito e voluto, restituisce intatta la sua lezione ai lettori di oggi e di domani».

2 Ivi, p. 64. Già in «La Stampa», 5 febbraio 1978.

distruggere, ancora a spogliare quelle popolazioni colpite dal disastro della loro cultura, della loro storia, a relegarle per sempre ai margini dell’esistenza».3

Nel lungo racconto, Un giorno come gli altri, composto di alcuni gustosissimi episodi4, Consolo, tra le varie peripezie e meditazioni da cui è occupato nel corso di una sua giornata milanese, si sofferma anche, mentre è intento ad un lavoro sul poeta Lucio Piccolo, su un suo ricorrente dilemma, sulla differenza cioè tra lo scrivere e il narrare, tra la mera operazione di scrittura impoetica estranea alla memoria che è lo scrivere, e quell’operazione poetica di scrittura invece che attinge quasi sempre alla memoria, e che è il narrare.5 Il narratore viene addirittura assimilato a un grande peccatore, che merita una pena come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni. E tra gli indovini menzionati e condannati da Dante Consolo cita, non a caso, Tiresia, colui al quale toccò come punizione di essere trasformato in donna («Ed anche “di maschio in femmina” diviene, come Tiresia, il narratore»), cioè, come ogni vero scrittore, di femminizzarsi e di avere così accesso ad un sapere (e un godimento) altro, proibito e peccaminoso:

Riprendo a lavorare a un articolo per un rotocalco sul poeta Lucio Piccolo. Mi accorgo che l’articolo mi è diventato racconto, che più che parlare di Piccolo, dei suoi Canti barocchi, in termini razionali, critici, parlo di me, della mia adolescenza in Sicilia, di mio nonno, del mio paese: mi sono lasciato prendere la mano dall’onda piacevole del ricordo, della memoria. “Invecchiamo” mi dico malinconicamente, “invecchiamo”. Ma, a voler essere giusti, che io sia invecchiato è un fatto che non c’entra molto col mio scrivere. È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta sedimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia arretrata regressiva. Diverso è lo scrivere, lo scrivere, per esempio, questa cronaca di una giornata della mia vita il 15 maggio 1979: mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro su carta. Grande peccato, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni:

Come ‘l viso mi scese in lor più basso

Mirabilmente apparve esser travolto

Ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso [petto];

ché da le reni era tornato ‘l volto,

ed in dietro venir li convenìa,

perché’l veder dinanzi era lor tolto.

Inf., XX, 10-15

Il tipo particolare di punizione che il nostro scrittore paventa per il narratore è dunque quella dantesca dell’immagine torta,6 un’immagine paradossale (il contrappasso

3 Ivi, p. 65. Una fine analisi del tema del disastro nei romanzi di Consolo ha fatto D. FERRARIS, La syntaxe narrative de Consolo: pour une orientation du désastre, in Vincenzo Consolo éthique et écriture, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris 2007, pp. 91-105.

4 Ivi, pp. 87-97, già in «Il Messaggero», 17 luglio 1980, quindi in Enzo Siciliano (a cura di), Racconti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1983 (I Meridiani), pp. 1430-42, poi nel vol. III della nuova edizione dell’antologia (Mondadori, Milano 2001, pp. 392-403).

5 Ivi, p. 92.

6 «com’io potea tener lo viso asciutto /quando la nostra imagine di presso / vidi sì torta, che ‘l pianto delli occhi/le natiche bagnava per lo fesso» (Inf., XX, 21-24, corsivi nostri). È opportuno rammentare che gli indovini sono collocati nella IV bolgia dell’VIII cerchio (delle Malebolge) dell’Inferno, dove sono i fraudolenti verso chi non si fida.

dantesco) che fa degli indovini degli esseri condannati ad avere «‘l viso travolto», girato all’indietro:

Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, continua Consolo, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora. Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa (“interiora di tonno salate”), olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita (“torrone di zucchero e sesamo”)… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete.7

Si sarà avvertito il passaggio apparentemente incongruo, un vero e proprio salto mortale, che lo scrittore opera nel brano appena letto, dove sta descrivendo la curiosa condizione del narratore-mago dalla testa stravolta ma dotato della capacità di volare rispetto allo scrittore di cronaca, ed ecco che, ex abrupto, nel racconto stesso si produce in re una dislocazione metaforica attraverso il salto semantico dall’incontinenza della parola fraudolenta degli indovini all’incontinenza della gola, per la quale i golosi sono flagellati dalla pioggia e straziati da Cerbero nel III cerchio dell’Inferno (canto VI).

Ma c’è di più. Questo frammento emblematico, come la citazione dantesca mostra, del cosiddetto procedimento palinsestico della scrittura di Consolo, esibisce anche una dimensione metatestuale, metaforica anch’essa, che coincide con l’esatta definizione retorica della figura della metafora riportata negli Elementi di retorica di Heinrich Lausberg, al paragrafo intitolato Tropi di dislocazione o di salto,8 di cui l’esempio consoliano costituisce una sorprendente e ineccepibile realizzazione (narratore-mago stravolto=goloso-assetato).

Su una sua precisa definizione di racconto, «racconto ibrido» per l’esattezza, e quindi sull’essenza della narrazione, Consolo ritornerà a distanza di dieci anni da Un giorno come gli altri (1980), nel bellissimo testo intitolato Memorie (1990), 9 dove, sintomaticamente, viene ripreso il tema del disastro e dei suoi corollari: l’opposizione fondamentale tra esistenza e storia, che si duplica in quella di oriente e occidente, natura e cultura e altre ancora:

Io sono d’una terra, la Sicilia (ma quante altre terre nel modo somigliarono, somigliano o somiglieranno alla Sicilia!) dove, oltre l’esistenza, anche la storia è stata da sempre devastata da tremende eruzioni di vulcani, immani terremoti, dove il figlio dell’uomo e il figlio della storia non hanno conosciuto altro che macerie di pietra, squallidi, desolanti ammassi di detriti attorno a zolfare morte. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura” dice Eliot.

Dicevo sopra di una mia ideale geografia letteraria siciliana, dicevo di un oriente e di un occidente. Ora, questo paese10 che mi ha dato i natali ha la ventura, il destino di trovarsi ai confini, alla confluenza di due

7 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 92-93.

8 «I tropi di dislocazione (o salto) […] presentano rispettivamente tra il significato proprio della parola sostituita (“guerriero” […]) e il significato proprio della parola sostituita tropicamente (“leone” […]) o un rapporto di somiglianza con il modello (metafora “guerriero/leone” […]) o un rapporto di contrari (ironia: “coraggioso/vigliacco” […])», H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 127.

9« Il Valdemone», I, 1, febbraio 1990, pp. 7-9, in CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 134-138.

10 Si tratta di Sant’Agata di Militello più su evocata: «Fin dal primo sguardo sul mondo, fin dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per sempre», ivi, p. 135.

regni, dove si perdono, sfumano, si ritraggono in una sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia. Lasciando, su questa remota spiaggia dell’incontro, segni indistinguibili e confusi. Remota spiaggia, limen, finisterre, ma anche luogo sgombro, vergine, terra da cui rinascere, ricominciare, porto da cui salpare per inediti viaggi. Nato qui ho preso coscienza, a poco a poco, d’aver avuto il privilegio di trovarmi legato all’ago di una bilancia i cui piatti possono restare in statico equilibrio o pendere, da una parte o dall’altra, il peso della natura o della cultura. E non è questo poi l’essenza della narrazione? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia? Non è quest’ibrido sublime, questa chimera affascinante?

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo.11

Di questo racconto pieno di aneddoti curiosi come quello divertentissimo della festa dall’editore dove è ospite Saul Bellow, importa soprattutto ricordare la pagina dedicata alla descrizione dello studio di Consolo nella sua casa di Milano. Una pagina autobiografica, come tantissime di questo bel libro, che ci invita ad entrare nel luogo più intimo dello scrittore, un luogo magico direi, alla cui immagine saranno in parte ispirate le indimenticabili descrizioni di studi e biblioteche presenti nei grandi romanzi.12

Il mio studio è una stanza con tre pareti rivestite di libri, anche nello spazio tra i due balconi vi sono libri (dal balcone, giù in fondo alla strada, oltre i due castelli daziarii della Porta, vedo il famedio del Cimitero Monumentale, dove al centro, sotto la cupola, è il sarcofago di Manzoni) e libri si accumulano per terra e sul bàule di canne che fa da tavolino davanti al divano-letto. Le librerie sono degli scaffali aperti di legno grezzo, comprati alla Rinascente, e la polvere si accumula sui libri, penetra tra le pagine, li invecchia precocemente. Sui ripiani degli scaffali, davanti ai libri, appoggio oggetti: temperini, uccelli di legno, teste di pupi siciliani, pezzetti di ossidiana, di lava, conchiglie… Sull’unico spazio vuoto, alle spalle del mio tavolo di lavoro, ho appeso i “miei quadri”: un disegno di un San Gerolamo nella caverna, nudo, seduto a terra, intento a leggere un libro appoggiato sulle ginocchia, un gran leone dietro le spalle e un teschio vicino ai piedi; un libro aperto, con le parole cancellate con tratti di china e una sola in parte risparmiata, raccon, incollato e chiuso in una teca di plexiglas, opera di un artista concettuale; due planimetrie secentesche, di Palermo e di Messina, strappate dal libro di Cluverio Siciliae antiquae descriptio. Questo dei libri antichi strappati, dei libri bruciati, dei libri perduti è un fatto che mi ossessiona. Ossessiona al punto che sogno sempre di trovare libri antichi, rotoli, cere, tavolette incise.13 Una volta mi sono calato dentro un’antica biblioteca sotterranea, forse romana, dove, ben allineati nelle loro scansie al muro, erano centinaia e centina di rotoli: cercavo di prenderli, di svolgerli, e quelli si dissolvevano come cenere. Un mio amico psicanalista, al quale ho raccontato questo mio sogno ricorrente, mi ha spiegato che si tratta di un sogno archetipico.

Mah… Fatto è che mi appassionano i libri sui libri, sulle biblioteche, sui bibliofili. E il libro che leggo e rileggo, come un libro d’avventure, è Cacciatore di libri sepolti. Come in questo tardo pomeriggio di

11 Ivi, pp. 137-138.

12 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Tesio, Einaudi Scuola, Torino 1995 (1976), pp. 3940, ID., Nottetempo casa per casa, Mondadori, Milano 1994 (1992), pp. 30-32.

13 Sull’aneddoto del sogno, parzialmente variato, Consolo tornerà successivamente «C’è questo ipogeo, c’è la visione dell’ipogeo continuamente e credo che sia dovuto al fatto che io cerco di partire sempre dalle radici più profonde e quindi anche le immagini di questi luoghi sotterranei, di queste caverne, siano un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia. Andare fino alle radici per poi risalire verso le zone della comunicazione, le zone della società. Sono luoghi che mi hanno sempre affascinato. È indecente raccontare i propri sogni, però devo dire che un mio sogno ricorrente è un sogno archeologico, un sogno che poi ho scoperto faceva anche il padre della psicanalisi assieme a Freud che era Jung. Nel sogno io mi calo in dei sotterranei dove scopro degli oggetti antichi, vasi o rotoli di pergamena, che mi danno molta gioia. Ho interpellato un mio amico psicanalista e mi ha detto che è un sogno positivo e quindi evidentemente questo sub-conscio emerge nella mia scrittura. La mia ricerca linguistica anche in quel senso, io cerco le parole che vengono da lontananze storiche, di lingue antiche, greco, latino, arabo e quindi c’è questo bisogno di ripartire dalla profondità. In tutti i miei libri c’è l’evocazione di questi luoghi sotterranei.» Cfr. Intervista con Vincenzo Consolo a cura di Dora Marraffa e Renato Corpaci, http://www.italialibri.net/, 2003, corsivi nostri.

maggio, qui nella mia stanza al terzo piano di una vecchia casa di Milano. A poco a poco non sento più il rumore delle macchine che sfrecciano sui Bastioni, mi allontano, viaggio per l’Asia minore e l’Egitto, sprofondo in antichità oscure, indecifrate.14

Una variante e perfino un equivalente di questi libri antichi sono per Consolo le antichità archeologiche, come quelle cui si accenna in un altro affascinante racconto, Le vele apparivano a Mozia,15 che descrive un viaggio in Sicilia fatto nell’aprile del 1984 con Fabrizio Clerici, Guttuso e altri per un fastoso matrimonio celebrato a Palermo e che li porterà a rifare l’antico itinerario per le stazioni di Segesta, Erice, Selinunte, Cusa, Agrigento e Mozia. Ma Consolo aveva già visitato quest’isola fenicia più di vent’anni prima, ed è di questa prima scoperta dell’isola e della Sicilia fino ad allora solo immaginata oltre la barriera dei Nebrodi, che egli vuole narrare:

Lieve di anni e ancor più lieve di cognizioni, ch’erano quelle miserelle del liceo che m’aveva appena licenziato, da un paesino sulla costa del Tirreno partii alla scoperta della mia Sicilia. Che immaginavo, al di là della barriera dei Nebrodi, da Siracusa a Gela, ad Agrigento, come una vastissima teoria di monumenti, un’unica sequenza di vestigia antiche, una distesa infinita, silente e metafisica, di pietre, di rovine. E subito s’infranse, è naturale, quella mia Arcadia contro il brulichìo, il turbinìo di vita e movimento delle contrade che traversavo.16

Questo racconto rivela l’occasione da cui era scaturita la composizione di Retablo,17 il romanzo ambientato nella Sicilia del Settecento che ha come protagonista un intellettuale e artista milanese di nome Fabrizio Clerici, che compie un viaggio sentimentale e artistico nell’isola seguendo appunto il tradizionale itinerario del Grand Tour. Viceversa, in Le vele apparivano a Mozia, pubblicato un anno dopo il romanzo, nel 1988, Consolo integra l’episodio, mirabilmente descritto in Retablo, della statua del cosiddetto ragazzo di Mozia, fornendo una spiegazione dell’affondamento, nel romanzo, della statua stessa, del sacrificio di questo idolo pur così venerato dal personaggio Clerici e dall’autore Consolo:

Per questa mia memoria della prima visita nell’intatta Mozia, in un mio racconto, Retablo, volli portar via dall’isola la stupenda statua in tunica trasparente del cosiddetto ragazzo di Mozia, quella che nell’ultimo approdo all’isola, nell’84, potei vedere, insieme al pittore Clerici, nel piccolo Museo, chiusa e protetta in una nicchia di tubi neri. Portarla via e farla naufragare, sparire in fondo al mare: come contrappasso o compenso18 di alla morte per acqua del giovane fenicio Phlebas – A current under sea/Picked his bones in whispers – eliotiana creazione; perché quella statua di marmo mi sembrò una discrepanza, un’assurdità, una macchia bianca nel tessuto rosso della fenicia Mozia; mi sembrò una levigatezza in contrasto alla rugosità delle arenarie dei Fenici; uno squarcio, una pericolosa falla estetica nel concreto, prammatico fasciame dei mercanti venuti dal Levante. Come l’arte, infine, un lusso, una mollezza nel duro, aspro commercio quotidiano della vita.19

14 La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 95-96.

15 «Il Gambero rosso», supplemento de «il manifesto», 5-6 giugno 1988, ivi, pp. 124-127.

16 Ivi, p. 125.

17 V. CONSOLO, Retablo, con 5 disegni di Fabrizio Clerici, Sellerio, Palermo 1987.

18 «Una corrente sottomarina / gli spolpò le ossa in bisbigli»: T.S. ELIOT, La terra desolata, Rizzoli, Introduzione, traduzione e note di Alessandro Serpieri, Milano 1982, p. 113.

19 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., p. 127.

A distanza, ancora una volta di circa dieci anni, Consolo tornerà con qualche variazione e più distesamente, per ben due pagine, sulla sua amata Mozia nel racconto La grande vacanza orientale-occidentale,20 una struggente rimemorazione dei luoghi delle origini, tra oriente e occidente della sua linea di confine, secondo la sua geografia ideale, che si conclude con una meravigliosa tappa a Selinunte:

L’ultimo approdo della lontana mia estate di privilegio – privilegio archeologico come quello ironicamente invocato da Stendhal, a me concesso da un padre benevolo – fu fra le rovine di Selinunte. Dal mattino al tramonto vagai per la collina dei templi, in mezzo a un mare di rovine, capitelli, frontoni, rocchi di colonne distesi, come quelli giganteschi del tempio di Zeus che nascondevano sotto l’ammasso antri, cunicoli […].

Mi risvegliai l’indomani nel letto della locanda. Per la finestra, la prima scena che vidi del mondo fu la collina dell’Acropoli coi templi già illuminati dal sole.21

Un altro luogo di elezione per Consolo, mirabilmente descritto nei suoi romanzi e in molti racconti, è ovviamente Cefalù, come si legge in La corona e le armi,22 che comincia a guisa di un vero e proprio racconto autobiografico, scritto in terza persona, che narra il viaggio a Palermo, sul camion del padre commerciante, di un bambino, che scopre così per la prima volta l’abbagliante Cefalù, e che prosegue con un commento finale, in prima persona, proprio su questa inaugurale scoperta della meravigliosa cittadina normanna:

[…] ad un tratto, uscendo da un vicolo, si trovarono davanti ad una piazza, una immensa piazza assolata, piena di palme snelle, diritte, alte, con palazzi ai lati e in faccia, sopra una scalinata, una grande chiesa, con due alte e possenti torri, tutta d’oro e arrossata dal sole. Il sole che avvampava pure la grande rocca incombente dietro la chiesa. Egli restò abbagliato, immobile a contemplare quello spettacolo che lo intimoriva e lo affascinava. Mai aveva visto tanta bellezza, tanta imponenza, tanto sfolgorio…

[…]

Questo abbozzo di racconto, che potrebbe intitolarsi Il viaggio, vuole dire della prima “visione” del duomo di Cefalù di uno come me, per esempio, cresciuto in una zona ibrida, in una zona di confluenza tra la provincia di Messina e di Palermo. Zona senza incidenza e caratteri particolari, dove la storia, remotissima e labile, ha finito per essere sopraffatta dalla natura. Zona quindi di esistenza, di eventologia quotidiana. Il passaggio al di là di quel confine che amministrativamente separa le due province e che si localizza nel paese di Finale, è stato come un oltrepassare le colonne d’Ercole, l’impressione incancellabile di progredire in una dimensione nuova, sconosciuta, la dimensione delle tracce storiche, dei segni chiari della storia; di entrare cioè in una zona di realtà narrabile. E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione.23

È recente l’eco dei festeggiamenti per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, non possono quindi non essere menzionati almeno due testi che trattano lo scottante tema dell’Unità d’Italia dalla prospettiva consoliana, una prospettiva per nulla celebrativa e tuttavia profondamente, autenticamente italiana e unitaria, come quella dei maggiori scrittori siciliani di cui Consolo naturalmente ha fatto tesoro. Si sbaglia a ritenere che Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia e perfino Tomasi di Lampedusa abbiano avuto una posizione ambigua nei confronti dell’unificazione della nazione o addirittura una posizione antiunitaria. Semplicemente, e indipendentemente dal loro

20 «Alias», supplemento de «il manifesto»,7 agosto 1999, ivi, pp. 166-167.

21 Ivi, pp. 167-169.

22 «Giornale di Sicilia», 17 marzo 1981, ivi, pp. 98-102.

23 Ivi, p. 101.

credo politico, hanno letto e analizzato da scrittori (non da storici) il fondamentale capitolo del Risorgimento siciliano, rilevandone i paradossi e le inevitabili imposture. Consolo fa altrettanto con una punta di soave ironia però, che è mancata, e pour cause, ai suoi predecessori. Cominciamo da Il più bel monumento,24 che ricostruisce la curiosa vicenda della costruzione, sempre procrastinata, del monumento a Garibaldi che la cittadina di Marsala decide di erigere, solo nel 1978:

La notizia ci giunge da Marsala. Ricordate? Il porto di Allah, il vino Marsala, i Mille e Garibaldi. E proprio a quest’ultimo, al gran Condottiero, si riferisce la notizia. Scrive un quotidiano siciliano, in data 18 febbraio 1978: “L’eroe dei due Mondi e i suoi Mille avranno un’opera alla memoria nella città che lo vide sbarcare 118 anni fa…” Un’opera alla memoria è un monumento che la Regione siciliana ha deciso di erigere, finalmente in quella città, affidandone l’incarico allo scultore Giuseppe Mazzullo. Chi avrebbe sospettato che proprio Marsala non avesse mai eretto un monumento all’eroe? Marsala, che lo accolse per prima quella mattina dell’11 maggio del 1860, barbuto e biondo capellone, caciotta ricamata in testa, camicia rossa, poncho e sciabolane, già eroe, già storico, già monumento?25

E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte è un altro racconto assai istruttivo che non solo ricostruisce, ma mette in relazione, in modo storicamente impeccabile, da un lato la vicenda della concessione, da parte di Ferdinando I, di alcuni feudi del Brontese (i feudi del convento benedettino di Santa Maria di Maniace, del comune di Bronte e dell’Ospedale di Palermo) nonché del titolo di Duca all’ammiraglio Nelson, per ringraziarlo dell’aiuto prestatogli durante la repressione della Repubblica napoletana nata il 22 gennaio 1799, e, dall’altro, la vicenda della strage di Bronte del 2 agosto 1862, provocata, tra l’altro, dall’usurpazione delle terre demaniali da parte della Ducea a danno dei contadini. Questa strage, come è noto, verrà ferocemente repressa da Bixio non senza, almeno a quanto afferma Benedetto Radice, il precedente accordo concesso agli inglesi da Garibaldi per soffocare la rivolta di Bronte.

Piccolo grande Gattopardo26 è il titolo-calembour di un racconto spiritoso e nostalgico. Un ricordo del grande poeta Lucio Piccolo cugino dell’autore del Gattopardo. Consolo rimemora il suo primo incontro col poeta, seguito da numerosi altri:

Frequentai Piccolo per anni, andando da lui, come per un tacito accordo, tre volte la settimana. Mi diceva ogni volta, congedandomi: «Ritorni, ritorni, Consolo, facciamo conversazione». E la conversazione era in effetti un incessante monologo del poeta che io ascoltavo volta per volta ammaliato, immobile nella poltrona davanti a lui. Era per me come andare a scuola da un gran maestro, a lezione di letteratura, di poesia, impartita da un uomo di sterminata cultura, “che aveva letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo D’Orlando”, come scrisse Montale. Piccolo, dopo l’esordio dei Canti barocchi, aveva suscitato molte curiosità fra i letterati. E lì, nella sua villa, si erano recati per conoscerlo in tanti: Piovene, Bassani, Pasolini, Bernari, Camilla Cederna, Corrado Stajano, Vanni Scheiwiller, Alfredo Todisco… Con Salvatore Quasimodo mi feci io promotore dell’incontro. Nel salone della villa, Quasimodo rimase incantato ad ascoltare Piccolo, ma uscendo, appena giunti nella corte, esclamò, come indispettito, giocando sul nome del barone: «Questo piccolo poeta!»

24 «La Stampa», 9 aprile 1978, ivi, pp. 70-72.

25 Ivi, p. 70.

26 «L’Unità», 11 agosto 2004, ivi, pp. 210-214.

Nel 1963 avevo pubblicato il mio primo romanzo nella mondadoriana collana “Il tornasole”, La ferita dell’aprile, scritto in un linguaggio quanto mai lontano da quello aulico e ricercato di Piccolo. Glielo diedi da leggere e, chiedendogli poi il giudizio, «Troppe parolacce, troppe parolacce!» mi disse.27

Consolo si ricorderà ancora dell’incontro tra Sciascia e Piccolo, sempre combinato da lui, e quindi di quello fra Pasolini e Piccolo avvenuto a Zafferana nel settembre del 1968, in occasione del premio letterario Brancati:

Pasolini, in quei giorni, girava, sulle falde dell’Etna, alcune scene del suo film Porcile. E aspettava con ansia l’arrivo dell’attore francese Pierre Clementi. Il quale arrivò finalmente, là all’albergo Airone dov’eravamo ospitati. Arrivò nella sala da pranzo in compagnia di Pasolini. Io ero al tavolo con Piccolo, il quale, alla vista di quel bellissimo giovane con i capelli fluenti fin sopra le spalle, meravigliato, esclamò: «Cos’è, una donna coi baffi?».28

La mia isola è Las Vegas29 che dà il titolo all’intero volume è un testo tra i più recenti, del 2004, un testo di appena tre pagine attraversato da un’amara e sferzante ironia, che volge uno sguardo sulla Sicilia, ma anche sulla Lombardia, ormai del tutto disincantato, che esclude financo il ricordo dell’isola come di un’immaginaria Arcadia, di un rifugio della e nella memoria. Consolo vi proietta una sorta di derisoria distopia per la quale, se avesse vinto Il Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile, la Sicilia sarebbe diventata la 49sima stella degli Stati Uniti d’America. Quest’isola in mezzo al Mediterraneo in mano agli americani sarebbe affogata nell’oro. Sarebbe diventata, l’Isola, con casinò, teatri, i più liberi commerci, come Las Vegas o come la Cuba del beato tempo di Fulgezio Batista.30

Mi ha particolarmente colpita in questo racconto l’uso di un termine che non ricordo di avere letto in altre pagine di Consolo. Si tratta della parola «matria» che lo scrittore affianca a «patria» («Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei»).31 Ebbene sul momento ho pensato a un neologismo (è anche un neologismo ovviamente), ma, dalla ricerca effettua sulla LIZ, matria ricorre solo due volte in due lettere di Torquato Tasso. Nella lettera spedita da Ferrara il 7 giugno 1585 a Giulio Caria, Napoli:

Né io son ben sicuro, quanto a gli altri sieno piaciuti i miei poemi; perché con niun altro argomento mi poteva meglio esser dimostrato, che con gli effetti. Ma se Vostra Signoria è un di coloro i quali n’abbiano preso alcun diletto, ne godo fra me stesso per molte cagioni; de le quali è la prima, ch’ella sia di quella nobil patria de la quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria32, secondo l’usanza antica di Creti.

In quella spedita da Roma il 6 dicembre 1590 a Francesco Polverino, Napoli:

27 Ivi, pp. 211-212.

28 Ivi, p. 213.

29 «La Sicilia», 15 agosto 2004, ivi, pp. 215-217.

30 Ivi, p. 217.

31 Ivi, p. 215.

32 Corsivo mio.

Perciocché una patria medesima può congiungere tutti gli animi, quantunque per altro alienissimi: e bench’io non fossi de l’istessa, nondimeno è noto a ciascuno che fu patria di mia madre, e di tutti i miei materni antecessori; laonde posso chiamarla, con le voci di Platone, “matria”33 almeno. E non essendo nato sotto altro cielo, né cresciuto in altro seno più lungamente, o più felicemente, ch’in quel de la città di Napoli; non fo deliberazione di lasciar in altra parte l’ossa già stanche di più lungo viaggio, o di più lungo travaglio. Ma io supplico che mi sia lecito di ritornarci […].

 

 

 

 

 

Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo

Cade qui opportuno parlare di un altro scrittore siciliano non certo meno colto e raffinato di Gesualdo Bufalino (di lui più giovane di poco più d’un decennio)1, ma a lui ideologicamente e letterariamente opposto: Vincenzo Consolo. Nella sua opera che qui come sempre, più che descrivere affronteremo per quanto servirà al nostro discorso più generale, non c’è infatti soltanto un fortissimo sentimento della storia, ma c’è pure il coraggioso tentativo, inevitabilmente sperimentalistico, di impostare il romanzo sul fondamento di una parola e di un fraseggio non turgidi ma icastici, quasi una traduzione istantanea del pensare e dell’agire degli uomini.

  • 2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e in (…)
  • 3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secon (…)

2 Siciliano dunque di Sant’Agata di Militello, «un paese – per ripetere ciò che ne scrisse Leonardo Sciascia2 – a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare, Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle)», sesto degli otto figli di un piccolo commerciante di prodotti alimentari, Consolo trascorse nell’isola adolescenza e giovinezza (tranne gli anni universitari a Milano) e del suo paese natale fece echeggiare, già nella sua “opera prima” (La ferita dell’aprile del 1963), quello che sempre Sciascia (che se ne intendeva) definì l’«impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare». Ed era quello (e ancora Sciascia lo sottolinea) non già un artificioso gaddismo siculo anziché lombardo, ma un prepotente volersi inserire da subito nella storia e in quella, precipuamente, di coloro che la vivono, come del resto accadde allo stesso scrittore, dalla parte degli sconfitti; la patiscono nelle sue ingiustizie e vi si ribellano, altro non potendo, con la parola e con la scrittura. La letteratura, in due parole, non come professione ma come impegno civile. Donde anche una notorietà raggiunta tutt’altro che facilmente3.

Il senso della storia

  • 4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.
  • 5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagoni (…)

3 Ebbe a scrivere Marx nella Sacra famiglia4: «La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che essa costituisce la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda, in tale estraniazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana. Per usare un’espressione di Hegel essa è, nell’abiezione, la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione tra la sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura». Ebbene: questo non facile compito di rappresentare nel profondo e come all’interno stesso della coscienza tale drammatico dilemma mi sembra quello assunto dal nostro Vincenzo Consolo, forse tra i maggiori scrittori italiani ancora in vita. C’è una sua pagina, nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) – questo romanzo (ma il termine è improprio come vedremo), che culmina nella rivolta contadina di Alcàra Li Fusi contro i feudatari del luogo al tempo della spedizione garibaldina dei Mille che, nel significato sopra proposto, mi sembra esemplare. Avendovi casualmente assistito, il protagonista del libro, l’appassionato malacologo barone di Mandralisca, di idee liberali ma lontano sino a quel momento dall’azione politica, non può esimersi, date le circostanze, da due decisive riflessioni: la considerazione cioè che esiste una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima e mai scritta la seconda, e che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste precisamente la tragedia della Storia. Nell’atto di stendere una relazione sui fatti appena accaduti, e di stenderla come avrebbe fatto uno «di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti», intuendo e avendo come già chiaramente presente tale versione in inconciliabile opposizione a quelle delle «gazzette e libelli» appartenenti, per così dire, alla voce ufficiale della storia, confessa e ammette l’impossibilità dell’impresa: «No, no!» dice 5 nel suo particolare linguaggio d’intellettuale siculo di metà Ottocento. «Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo». Questo «scarto di voce e di persona» – ossia questo immedesimarsi nella classe del proletariato per dirla con Marx – gli appare un’azione scorretta; quanto meno un’impostura. Spiega difatti:

È impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando [Mentre invece] un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta.

4 Perché? Perché la classe dei possidenti, pur con tutto il suo presunto progresso, o forse proprio per questa sua presunzione, non ha la chiave per intendere la natura pur sempre umana dell’altra, che tuttavia la storia ha come lasciato nel suo analfabetismo secolare del corpo e dello spirito. Ascoltiamo ancora il barone:

Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata [di Militello], dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima.

5 Fermiamoci un momento per sottolineare questo passaggio-chiave e davvero decisivo non solo per denunciare autocriticamente una frattura che appare incolmabile tra le due classi e le due “umanità”, ma per prenderne soprattutto atto onde iniziare, ed esattamente da qui, la pars costruens dell’impegno e del dovere politico. La storia, sostanzialmente dice il barone di Mandralisca, non appartenente alla classe dei cosiddetti illuminati e sicuramente dei possidenti, ha indubitabilmente compiuto nel corso dei secoli, e già da prima della nascita del Redentore, il suo cammino progressivo e feroce: il diritto di proprietà ha generato i suoi codici politici giuridici e culturali e, irridente, ha lasciato l’altra parte, quella sopraffatta, nei suoi, totalmente disattesi incomprensibili e disprezzabili. È col ferro che si costruisce la civiltà, proposizione inconfessabile ma vera. Quindi prosegue:

E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia; riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri che mai hanno raggiunto i diritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose.

6 Ci si ricordi a questo punto della novella Libertà di Verga, relativa alla selvaggia rivolta di Bronte nel catanese e alla ancor più spietata e selvaggia repressione di Nino Bixio (4 agosto 1860): non potremo non renderci immediatamente conto della profonda differenza d’atteggiamento che nei confronti delle due rivolte, così prossime nei luoghi e nel tempo, hanno assunto due diversi esponenti della classe dei possidenti: in Verga la brutalità della sommossa e del suo castigo (giusto oltre che inevitabile) è appena addolcita, se così posso esprimermi, dal sentimento religioso della misericordia e in ogni caso, sul piano storico, assistiamo alla risoluta affermazione che le due classi antagoniste, quasi per decreto divino, dovranno eternamente coesistere nello statu quo («I galantuomini non potevano lavorare le loro terre con le proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»); in Consolo, che ha ben più presente, anzi sommamente presente la natura umana delle due classi antagoniste, hai non solo il riconoscimento di quanto sia stata giusta la cruda ribellione contadina, ma anche l’inattesa affermazione che la classe dei possidenti, mancando dei necessari “codici” interpretativi, dovrebbe comunque astenersi dal giudicare un evento che ha in realtà appalesato l’ignominia umana della Storia stessa. E quando – e sia pur in un tempo remotissimo – anche la classe degli oppressi e dei vinti avrà conquistato i valori superiori della civiltà, essi saranno in ogni caso diversi da quelli acquisiti e comunemente intesi dagli appartenenti alla classe degli attuali possidenti: saranno «parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi»; e «vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose». Qui in realtà ci troviamo di fronte all’autentico “senso della storia” e, soprattutto, allo svelamento delle sue infamie morali, politiche ed economiche.

La difficile conquista della ragione

  • 6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7«Gli uomini desti – ebbe a sentenziare Eraclito – appartengono a un mondo comune e solo nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio». Potrebbe questo essere un motto da apporsi quale epigrafe a Retablo, quello scritto di Consolo del 1987 che fa come da intermezzo tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e i successivi Nottetempo, casa per casa (1992) e Lo Spasimo di Palermo (1999), una trilogia che in un vorticoso crescendo svela gli inganni le crudezze e le insensatezze della storia, dalla cosiddetta unità d’Italia – in realtà la piemontizzazione della penisola – alle sopraffazioni del fascismo e ai crimini del momento che abbiamo appena vissuto (gli assassinî di Falcone e Borsellino). Retablo (come del resto e con ben maggiore evidenza il precedente Lunaria) è invece come un momento di pausa nel quale tuttavia, per il particolare discorso che veniamo conducendo, non mancano importanti e rivelatrici considerazioni. Nel secondo quadro del trittico, il più vasto e imponente intitolato Peregrinazione (siamo nel Settecento, l’età della borghesia illuminata, dei viaggi e delle grandi scoperte archeologiche, dell’entusiasmo per il dispotismo illuminato e in certo modo del ritrovamento dell’uomo nel nome della ragione), l’aristocratico pittore milanese Fabrizio Clerici, giunto con berbera navigazione nella favolosa Mozia de’ Fenici, si trova di fronte a orci ricolmi di «ossa antiche, più antiche di Cristo o Maometto, ormai polite e nette come ciottoli di mare» e, in più, «ossa d’innocenti»: si trova cioè in quel cimitero ove i Fenici di quest’isola seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dei. Ma il riflessivo artista milanese, l’ideale compagno dei Verri e dei Beccaria, non inorridisce come il suo siculo valletto, l’innocente e sventurato Isidoro; spiega anzi come quei remoti navigatori aprirono per le vie del mare nuove conoscenze insegnando a tutti i popoli, ad esempio, l’alfabeto e la scrittura segnica dei suoni. Sennonché il fervore precettistico del savio milanese s’interrompe presto in questa riflessione quasi rivolta sottovoce a se stesso6:

Ma così mai sempre è la veritate della storia, il suo progredire lento e contrastato, il miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, barbarie e civiltà. E troppo presto esulta, a mio giudizio, il barone di Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois, per la superiore civiltà dei Greci di Sicilia, per i Siracusani che, dopo la vittoria d’Imera, per volontà del loro re Gelone, imposero ai Cartaginesi nel trattato di pace d’abolire quell’usanza d’uccidere i fanciulli. Così dice il filosofo, il giurista (e qui riporto quanto ritiene la memoria mia): «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec le Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la coutume d’immoler leurs enfans. Chose admirable!…» Ma ignorava il Montesquieu che i Siracusani stessi, col tiranno loro Dionisio, tempo dopo, espugnata e saccheggiata quest’isola di Mozia, punivano crocifiggendoli quei Greci mercenari che avean combattuto coi Moziesi. E vogliamo qui memorare le barbarie dei Romani o i massacri vergognosi che gli Ispani, nel nome di Cristo e della santa Chiesa, compirono contra i popoli inermi delle Nuove Indie? Ah, lasciamo di dire qui di quanto l’uomo è stato orribile, stupido, efferato. Ed è, anche in questo nostro che sembra il tempo della ragione chiara e progressiva. L’uomo dico in astratto, nel cammino generale della storia, ma anche ciascun uomo al concreto è parimenti ottuso, violento nel breve tempo della propria vita. Vive sopravvivendo sordo, cieco, indifferente su una distesa di debolezze e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe. Calpesta procedendo ossa d’innocenti, come questi del campo per cui procediamo io e Isidoro.

8Gli uomini “desti”, coloro che sentono di appartenere a un mondo comune, che vivono in un mondo comune – gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri o gli uni contro gli altri – possono, sol che lo vogliano, comprendere cosa sia la storia, misurarne le ben maggiori atrocità e le ben minori ma confortanti virtualità; possono, sul fondamento delle riflessioni portate su di essa, rinnovarsi dal profondo, conquistare coscienza e consapevolezza di ragione, non disperare. In questo senso il lungo viaggio del milanese Fabrizio Clerici per la Sicilia del presente e del passato (fenicio, greco, cartaginese, romano, arabo, bizantino e via discorrendo) diviene un lungo, arduo itinerario non in Dio ma nella riconquista dell’umano e dell’umano intelligere; e non solo relativamente al protagonista-principe del racconto – il raffinato intellettuale Fabrizio Clerici – ma anche nei confronti, per così dire, del suo miserando Sancio Panza, quell’infelice fraticello che sfratatosi per amore, Isidoro, accompagna lungo tutto il viaggio il suo dominus vittima anch’egli – almeno in questo le due classi economiche e sociali appartengono alla medesima natura umana – d’una altezzosa nobildonna milanese che sta per divenire la marchesina Beccaria. Rendersi conto del perché di tutto ciò e ricostruire il vissuto (anche il sogno, anche il privato) alla luce di una ragione difficilmente conquistata e ancor più difficilmente conquistabile, costituisce l’impegno dei protagonisti degli scritti di Consolo, del loro autore che in essi rivive e inventando s’immerge (il che vale anche per l’esordio della Ferita dell’aprile), dell’uomo che si sforza di annientare la propria animalità per divenire veramente uomo. L’olivo e l’olivastro: l’umano e il bestiale, il coltivato e il selvatico.

  • 7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

9Un primo e riuscito tentativo di realizzare quest’arduo proposito è sicuramente consegnato in Nottetempo, casa per casa del 1992, una sorta di poema; come vorrei definirlo, che nei classici dodici canti svolge appunto il tema dell’uomo che atrocemente colpito da un’ignota offesa o sacrilegio, Petro Marano (dal suo nome di rinnegato? – gli abissi della storia), si sforza da sé solo di levarsi di dosso la continuata pena della sventura: la follia animalesca del padre, la stortura mentale che colpisce la sorella, la confusione babelica che corrompe persino il linguaggio, «stracangia le parole e il senso loro», onde «il pane si fa pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno»7. Ma converrà volger l’occhio sulla chiusa, su quella Fuga che porta in epigrafe un verso virgiliano: Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum. Che il destino, o Petro Marano, ti sia felice come quello d’Enea, sorride forse il lettore…

  • 8 Ivi, pp. 109-10.
  • 9 Ivi, pp. 109-10.

10 Petro comunque non è progenie di Venere. Suo padre ha avuto sì la buona sorte d’ereditare da un illuminato barone cui serviva, parte della terra e case che il defunto possedeva, ma il lascito non ha tardato a volgersi in offesa: “Bastardo” l’erede e “figlio del Bastardo” il figlio dell’erede; oltre che il livido, perenne rancore dell’espropriato. Il clima arcaico d’una società quasi ancora immersa nella pastorizia e nell’agricoltura con le sue tare ereditarie (la feudale arroganza dei grossi possidenti e la meschina miseria della plebe analfabeta) fa il resto; come fa il resto (siamo al principio degli anni Venti) il progressivo avanzare del fascismo, l’ubriacatura della media borghesia che delira per il dannunzianesimo, l’ormai evidente fallimento della cosiddetta questione meridionale (un fallimento, sia detto tra parentesi, consapevolmente progettato e voluto), la stravolgente devastazione irrazionalistica, da distruzione della ragione, storicamente rappresentata dal comparire in Sicilia della Grande Bestia dell’Apocalisse, alias Aleister Crowley, mago profeta e satanista. Inutilmente compare anche, quasi in conclusione della fabula, la figura di quel personaggio che un tempo si definiva l’eroe positivo – quel Cicco Paolo Miceli che, nonostante il suo aspetto da rachitico, aveva vivida la coscienza e gli occhi sempre accesi e il cui interesse primo «era la storia, la vita pubblica, la condizione al presente della gente, ché per la gente aveva attenzione, per la miseria»8: inutilmente. Nonostante un popolano amore ritrovato nel cui grembo avrebbe voluto entrare interamente e, rannicchiandovisi dentro e totalmente dimenticandosi, trovare finalmente la pace; nonostante l’enorme sforzo di solidarizzare con i ribelli e gli anarchici di cui pure non condivideva affatto, per così dire, il “dannunzianesimo di sinistra” (quello di un melmoso e parolaio Rapisardi), Petro Marano comprende che la riabilitazione non può che consistere nella fuga, ma una fuga che fosse insieme resurrezione: l’emigrazione a Tunisi come un emigrante qualsiasi, un emigrante «in cerca di lavoro, casa, di rispetto». Ed è su questo rispetto che vale la pena di posare particolarmente l’accento: rispetto per se stesso e per gli altri, per gli uomini desti di Eraclito, per gli uomini che appartengono al mondo comune e che lasciano al sonno quello infinitamente inferiore del privato; lo riscattano anzi dal suo dolore col proposito di darne, col tempo, meditata ragione. Per il momento e come in attesa di questo difficile risveglio, del sorgere di questo molto meno enfatico sole dell’avvenire, è l’ora del distacco – nottetempo e casa per casa – da un passato consapevolmente se pur dolorosamente respinto; da una memoria della quale si dovrà un giorno calcolare il peso, capirne a fondo il significato. «Andarono spediti col venticello di levante del mattino. Col cielo che appena si chiariva dietro la massa della Rocca, l’arco di luna, le stelle che smorivano, i lumi del paese, le lampare delle barche. Chiariva il mare, la scia della paranza. Vide nascere man mano e lontanarsi il Castello sopra il colmo, la roccia digradante, la balza tonda, il Duomo contro in tutta l’eminenza, San Domenico, la caserma, Marchiafava, il Monte Frumentario, e le casipole ammassate, le mura, gli archi, le infinite finestrelle, le altane, i làstrici sul porto… Conosceva quel paese in ogni casa, muro, pietra […] l’aveva amato. Ora n’era deluso, disamorato per quello ch’era avvenuto, il sopravvento, il dominio ch’aveva preso la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…»9. Conosciamo tutti l’addio che Renzo diede alla patria; questo di Petro Marano fa balenare, attraverso la memoria, le infamie della Storia.

  • 10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 L’ultimo dei testi della trilogia di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, è fuor di dubbio il più complesso, il più drammatico e il più attuale: perciò stesso, e quasi inevitabilmente, il più difficile di questi difficili libri; in certa misura il meno lineare nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nel contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo. Lo “Spasimo di Palermo”, beninteso, è riferito a un dipinto di Raffaello che ritrae la caduta di Cristo sul cammino del Calvario e allo spasimo della Vergine che, andata a lui incontro, rimane attonita davanti a tanto strazio del Figlio; ed è uno strazio ed uno spasimo che da Palermo e dalla Sicilia non tarda ad allargarsi al mondo intero, a questa società in cui la violenza nazi-fascista, sotto altre forme apparentemente più benevole, mercé il traino dell’ormai libero e selvaggio capitalismo, non ha fatto che inondare il mondo con la sua spietata corruzione. Dopo la guerra il dopoguerra. Cosa hanno fatto, di effettivamente positivo e concreto, le due generazioni che si sono via via succedute, quella del protagonista del libro, lo scrittore Gioacchino Martinez, e quella del figlio Mauro? La prima, anche nel turbine dei privati dolori, s’è «murata» nell’inerte «azzardo letterario»; la seconda, ritenendosi forte di una «lucida ragione», nell’azzardo temerario e inconcludente della lotta armata, del terrorismo. Ma è forse così che si costruisce una società nuova e civile, fondata sulla giusta convivenza? Questa amara confessione, che è implicitamente sottesa in tutte le aggrovigliate pagine del racconto, che in certo modo ne determina gli eventi e si concretizza in rimorsi che a loro volta prendono figura d’assurde e ossessive apparizioni; questa confessione si libera finalmente nel capitolo conclusivo sennonché, proprio al termine della confessione e della liberazione, esplode sotto casa l’attentato e la morte del giudice Borsellino. Aveva appena scritto il padre al figlio10:

Questa città [Palermo], lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada, per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici.

12 Parole dure, icastiche e, soprattutto, veritiere; tali da evocare il rimpianto per il grande romanzo realista dell’Ottocento; parole che suggeriscono la figura super-umana del balzacchiano Vautrin che induce, simile a un Mefistofele, gli uomini che si dibattono nella loro insensatezza a prendere la via della realtà, ossia dell’abiezione capitalistica: la via dell’arrivismo nudo e crudo. Cosa viene qui particolarmente illustrato se non la disinvolta complicità, ormai neppur quasi dissimulata, tra uomini di governo e uomini di malaffare nel sostenersi reciprocamente nell’età in cui viviamo, in questo “dopoguerra” in cui il capitalismo, arrivato ormai a un potere senza più limiti, spinge gli uomini verso la degradazione più completa attirandoli progressivamente nelle spire della più profonda degenerazione? Il conte Mosca, in Stendhal, così formulava i suoi consigli a Fabrizio del Dongo: «La vita nella società somiglia al gioco del whist. Chi vuol giocare non deve indagare se le regole del gioco siano giuste, se abbiano qualche ragione morale o altro».

  • 11 È la pagina conclusiva del libro.

13Proprio mentre sta stendendo questa sua confessione-rapporto che vorrebbe essere in certa misura liberatrice, lo scrittore Gioacchino Martinez viene interrotto dall’attentato al giudice Borsellino11:

E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle carni, la morte che galoppa trionfante.

Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il suo banchetto, coperto di polvere, vetri, calcinacci.

Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi verso il cielo fosco.

Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto

O gran mano di Dio, ca tantu pisi,

cala, manu di Diu, fatti palisi!

14Allo scadere di duemila anni di civiltà post Christum natum i popolani si vedono ancora costretti a invocare la giustizia di Dio.

Memoria e romanzo

15Nel 1881, l’anno dei Malavoglia, Giovanni Verga non si faceva illusioni sul suo romanzo. «So anch’io – scriveva a Felice Camerini – che il mio lavoro non avrà successo di lettura, e lo sapevo quando mi sono messo a disegnare le mie figure»; eppure – diceva a un altro suo corrispondente – «se mai dovessi tornare a scriverli li scriverei allo stesso modo». Perché? Perché ciò cui lo scrittore mirò – come pure s’espresse altrove lui stesso – fu il tentativo di dare, attraverso semplicità di linee e uniformità di tono, l’efficacia della coralità dell’insieme e far sì che a libro chiuso, tutti i personaggi che l’artista aveva posto sulla pagina con il metodo del discorso indiretto e della rappresentazione degli eventi quali si riflettono nei cuori e nei cervelli d’essi personaggi, resuscitassero nella mente del lettore con l’evidenza di chi li aveva conosciuti di persona, nato e vissuto in mezzo a loro. Mai nessuno aveva prima tentato di dar vita a un’opera d’arte tanto collettiva, autonoma e capace d’imporsi solo in virtù della forza espressiva con la quale si presentava; e non a caso la chiusa del romanzo è rimasta memorabile: «Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».

16Che a Verga si colleghi consapevolmente Vincenzo Consolo è cosa ben nota e che lo stesso Consolo, anche adducendo particolari circostanze biografiche, orgogliosamente rivendica. E sin dall’esordio del ’63 con La ferita dell’aprile il cui incipit suona:

Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva Bitto.

  • 12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

17Parrebbe, a prima vista, di trovarsi di fronte a un nuovo Pavese di Sicilia, ma ben presto ci si ricrede. Uno scampolo quasi a caso12:

Di fronte c’era il mare, alto fino ai nostri occhi, con la fila di luci di barche che facevano su e giù per l’acqua un poco mossa: parevano lanterne appese ad una corda, scosse dal vento. Domani si mangia sarde, ma la signora aspettava che fetevano prima di comprarle. Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga: correte, femmine, correte, prima che si squagliano.

  • 13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.
  • 14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-2 (…)

18La strada era dunque segnata. Si trattava ora di percorrerla con autonomia per dare nuova forma al genere romanzo. Come «epopea borghese» esso s’era dissolto – è stato detto e già ricordato – nella notte tra il 1 e il 2 dicembre del 1851 quando, sulle barricate, l’eroe dell’Educazione sentimentale flaubertiana Frédéric Moreau vede cadere Dussardier al grido Viva la Repubblica! e riconosce nell’agente di polizia il suo ex compagno di lotta “radicale” Sénécal; cominciava proprio allora, e nello stesso Frédéric Moraeu, la ricerca di quel tempo perduto che fonda la sua consistenza essenzialmente sulla memoria, ma sulla memoria del privato. Per Consolo, come del resto già accennavo, essa diviene invece lo strumento principale per indagare le vicende della storia, le grandezze e le infamie del passato, le ricadute sulle contraddizioni del presente: la memoria (la ricerca storico-culturale) come strumento di conoscenza. E ciò inevitabilmente esige, ripercuotendovisi, una diversa elaborazione del fraseggio, esige quella «furia verbale», come lo stesso Consolo ammette con le parole dello scrittore Gioacchino Martinez che più da vicino l’impersona, che in una diversa e dissonante lingua può finire in urlo o dissolversi nel silenzio13. In altri termini: la memoria come il medium insostituibile per ripercorrere tanto il vissuto personale quanto, e soprattutto, il passato collettivo, intrinsecamente congiunti; soprattutto quando si è nati e ci si è formati in Sicilia, la terra miticamente (ma in gran parte anche storicamente) più antica del mondo e già abbracciata da Ulisse. «Non so vedere – dice l’eroe14  – altra cosa più dolce, per uno, della sua terra»: un affetto d’uomo che risuonerà almeno, altissimo, fino a Ugo Foscolo; senza neppure dimenticare che furono i poeti dalla Magna Curia fridericiana a gettare le basi del volgare d’Italia: i primi poeti toscani, gli stilnovisti stessi, non fecero che tradurli com’è testimoniato dall’opera di Stefano Protonotaro da Messina. In questo senso si potrebbe persin dire che la ricerca formale di Consolo, sia stilistica sia lessicale, sia una sorta di ritorno alle origini.

  • 15 Vd. supra la nota 13.

19Nelle molteplici teorie avanguardistiche che si sono succedute alla dissoluzione del romanzo come epopea borghese – la celebrazione della borghesia nel suo vigore dissacratore e vincente del feudalesimo – c’è sempre un motivo di fondo comune: il senso di estraniazione e di solitudine. Per esse esiste solo l’individuo eternamente ed essenzialmente solitario, svincolato da ogni rapporto umano e a maggior ragione da ogni rapporto sociale; egli è “gettato” nel mondo quasi senza alcun senso e imperscrutabilmente, ond’egli finisce anche con l’illudersi che, in questo modo, gli si apra quell’infinita ricchezza di possibilità virtuali in cui fa apparentemente consistere la pienezza della sua anima. Non c’è nessuna realtà, c’è la coscienza umana, ebbe a dire Gottfried Benn. È essa che forma incessantemente i mondi della sua creatività, che li trasforma, li subisce e li modella spiritualmente. Ebbene: nulla di più lontano, rispetto a queste posizioni avanguardistiche e sperimentalistiche, dell’avanguardismo e dello sperimentalismo di Consolo. Egli potrà far ben dire allo stesso alter ego appena su ricordato15 che il romanzo rappresenta ormai un genere letterario «scaduto, corrotto e impraticabile»: sennonché lo scrittore ha saputo rinnovarlo in qualcos’altro, vale a dire in una forma letteraria nella quale il particolarissimo linguaggio mnemonico che pure ricorre (e tutt’altro che raramente) a improvvisi e quasi inattesi squarci lirici, cerca di fare i conti con la storica umana collettività (la terra di Sicilia ne è l’emblema) onde finalmente coglierne, al di là delle macerie di cui è disseminata, i momenti più vividi di pathos morale e civile.

NOTE

1 Bufalino nasce nel 1921; Consolo nel 1933.

2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e intitolata L’ignoto marinaio, ora in L. Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, 1989, pp. 994-98 (nella raccolta Cruciverba).

3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secondi in un istituto salesiano poi liberamente rievocati nel libro d’esordio La ferita d’aprile del ’63 presso Mondadori); dopo quelli universitari e giuridici a Milano presso l’Università Cattolica, Consolo torna in Sicilia e stringe particolare amicizia con Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia. Dal ’68 è a Milano addetto, nella sede milanese, ai programmi culturali della RAI. Il successo gli arride nel 1976 con il Sorriso del vecchio marinaio. Col successivo Nottetempo, casa per casa (1992) vince lo Strega. Vive ora a Milano.

4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.

5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagonista del libro, il barone Enrico Mandralisca di Pirajno, possessore del celebre dipinto di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, vd. quanto ne scrive Sciascia nel già ricordato (n. 2) L’ignoto marinaio.

6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

8 Ivi, pp. 109-10.

9 Ivi, pp. 109-10.

10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 È la pagina conclusiva del libro.

12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.

14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-22.

15 Vd. supra la nota 13.

Il senso della storia nell’opera di Vincezo Consolo
Ugo Dotti Biblioteca Aragno

Lise Bossi L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo : pour une odysée du désastre

download (1)Cahiers d’études italiennes

14 (2012)

Les années quatre-vingt et le cas italien

Lise Bossi

L’olivo e l’olivastro de Vincenzo

Consolo : pour une odysée du désastre

 

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Lise Bossi, « L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo : pour une odysée du désastre », Cahiers d’études

italiennes [En ligne], 14 | 2012, mis en ligne le 15 septembre 2013, consulté le 15 septembre 2013. URL :

Cahiers d’études italiennes, n° 14, 2012, p. 201-212. 201

Sulla scena ci sembra sia rimasto solo il coro

che in tono alto, poetico, in una lingua non più

comunicabile, commenta e lamenta la tragedia

senza soluzione, il dolore senza catarsi 1.

Publié en 1994, L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo 2 reconstitue les

étapes d’une nouvelle Odyssée, entendue à la fois comme voyage de retour,

comme nostos dans l’espace réel, et comme voyage fantastique dans l’espace

de la littérature et de la poésie, pour l’un de « ceux qui sont nés par

hasard dans l’île aux trois angles » (OO, p. 22). Mais cette Odyssée, largement

autobiographique, rêvée initialement comme un retour vers une

sicilienne Ithaque d’affection et de mémoire, se transforme bientôt en un

voyage dans le désastre qui s’est consommé pendant cette époque atroce

qu’a été, pour la Sicile comme pour l’Italie tout entière, la période des

années quatre-vingt.

Et nous sommes conviés à suivre le voyageur, à travers « une île perdue,

une Ithaque damnée » (OO, p. 80), où tout ce qui subsiste de ce qu’il a

connu et aimé est conservé par des érudits et des poètes, qui combattent

les prétendants à coup de chantiers de fouilles et de mots écrits noir sur

noir, ou par des sortes de gardiens de cimetières verghiens qui ont arrêté le

temps en régressant vers une illusoire Troie retrouvée (p. 53).

  1. La citation en exergue est extraite de Di qua dal faro, Milan, Mondadori, 1999, p. 262.
  2. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milan, Mondadori, 1994 ; ci-après, OO. La pagination renvoie à l’édition

de poche : V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Oscar Scrittori del Novecento, Milan, Mondadori, 1999.

 

C’est justement cette Troie, « lieu de pure existence, de simple hasard »

(OO, p. 49), celle du fallacieux âge d’or à laquelle s’accrochent les

Malavoglia, que le narrateur a voulu fuir lorsqu’il a quitté la Sicile à la fin

des années soixante pour aller vers ce qu’il appelle les lieux de l’histoire.

Vers Palerme, d’abord, « le lieu où se croisent les cultures et les idiomes les

plus divers » (p. 123) ; puis, lorsqu’il a eu le sentiment que toute la Sicile

n’était plus qu’un désert historique et social, vers Milan, « dans un contexte

urbain dont il ne possédait ni la mémoire, ni le langage » (SIM, p. 176 3). Et

lorsque Milan est devenu l’emblème de « la triste, aliénée et féroce nouvelle

Italie du massacre de la mémoire, de l’identité, de la décence et de la civilisation,

l’Italie corrompue, barbare, de la mise à sac, des spéculations, de la

mafia, des attentats, de la drogue, des voitures, du football, de la télévision

et des lotos, du tapage et des poisons » (OO, p. 71), alors, celui qui écrit a

eu le désir de réduire la fracture qui déchirait sa vie en accomplissant une

sorte de « voyage pénitentiel » (p. 20) afin de revenir, après plus de vingt

ans, au point de départ (p. 120).

À ceci près qu’il ne s’agit pas, pour « l’éternel Ulysse, le voyageur errant

à travers l’île qui fut autrefois son Ithaque » (OO, p. 141), de se laisser réabsorber

« par cette nature et cette histoire suspendues, par cette ensorcelante

immobilité » (p. 122) qu’il a quittées jadis en se bornant à constater, sur

le mode nostalgique et plaintif, qu’il ne retrouve que quelques vestiges de

la Sicile qu’il a aimée. Il s’agit d’abord et surtout d’affronter « les ennemis

réels, les ennemis historiques qui se sont installés dans sa maison » (p. 20),

en dénonçant ce qu’ils ont fait de son Ithaque et, métaphoriquement 4,

de toute l’Italie, au cours des deux dernières décennies, celles des années

soixante-dix et quatre-vingt.

Pour cette double tâche d’évocation et de dénonciation, Consolo fait

un choix poétique difficile car il prend consciemment le risque mortel « de

sortir du récit, de nier la fiction » (OO, p. 77), contrairement à certains

de ses compatriotes, tel son ami Sciascia en particulier, qui ont cru pou-

  1. V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Turin, Einaudi, 1976 ; ci-après, SIM. Ce texte sera à nouveau

publié avec une postface intitulée : « nota dell’autore, vent’anni dopo », Milan, Mondadori, 1997. La pagination

renvoie à l’édition de poche : V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Oscar Scrittori del Novecento, Milan,

Mondadori, 2002. Le texte de la postface que nous citons ici et auquel nous reviendrons plus loin est paru

aussi dans Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, ouvr. cité ; ci-après, DQDF. La pagination renvoie à l’édition de

poche : V. Consolo, Di qua dal faro, Oscar Scrittori del Novecento, Milan, Mondadori, 2001.

  1. Outre que par Consolo, le fait que la Sicile et la situation sicilienne soient devenues une métaphore de ce

qui se passe dans l’Italie tout entière après la seconde guerre mondiale et la trahison des idéaux de la Résistance,

est illustré par Sciascia, en particulier dans son ouvrage intitulé la Sicilia come metafora, Milan, Mondadori,

1979, ouvrage qui présente la caractéristique très significative d’avoir été d’abord publié en France sous le titre

La Sicile comme métaphore, conversations en italien avec Marcelle Padovani, Paris, Stock, 1979.

voir se servir des instruments de la littérature de masse pour dénoncer les

dérives de la société dont la littérature de masse est le produit 5. Il choisit

en outre, comme un autre Ulysse sicilien, comme Verga, d’inventer une

langue. Mais, alors que la langue de Verga « a comme imprimé le positif

italien sur un négatif lexical et syntaxique dialectal » (DQDF, p. 119), celle

de Consolo est prise dans l’épaisseur de toutes les langues de toutes les

cultures qui se sont succédées et imbriquées dans l’île, pour mieux en dire

et en préserver la réalité, au risque d’être, comme Verga, « détesté à cause

de sa langue extrême » (OO, p. 58) et de devoir un jour se réfugier dans la

solitude, dans l’aphasie, ce qui signifierait, ce qui signifie peut-être déjà,

que les monstres ne sont plus des fruits du sommeil ou du remords mais

« de vraies menaces, des catastrophes réelles et imminentes » (p. 58).

Ce n’est donc pas la thématique existentielle de l’exil et du retour qui

justifie, à elle seule, la référence constamment explicite au voyage initiatique

et expiatoire d’Ulysse, c’est aussi que l’Odyssée est d’abord et avant

tout un poème et que Consolo entend, dans le droit fil de l’expérimentation

littéraire qu’il conduit depuis des années déjà 6, défendre et illustrer

un nouvel épos et un nouveau logos, tissés, comme la toile de Pénélope,

avec tous les fils de la mémoire rassemblés pour résister aux usurpateurs et

à leurs créatures monstrueuses.

« Ora non può narrare 7 ». Tels sont les mots qui ouvrent un texte qui refuse

effectivement la linéarité du récit, son développement sur un axe temporel

unique et la hiérarchie qui régit les rapports entre le narrateur et ceux qui

devraient rester des personnages, entre sa voix dominante et leurs voix

secondaires.

À une seule exception près, à laquelle nous reviendrons, celui qui écrit

le fait à la troisième personne, en se définissant justement comme « celui

qui écrit » (OO, p. 77) ou comme le voyageur. Un voyageur écrivant dont

l’existence pourrait relier, et relie parfois, anecdotiquement, les fragments

  1. Nous faisons en particulier allusion ici aux quatre grands romans où Sciascia a utilisé, en les subvertissant,

les règles et les modalités narratives du genre policier pour dénoncer la subversion de l’État de droit par les

représentants de l’État ; romans que l’on peut donc considérer comme les ouvrages fondateurs de ce que l’on

appelle aujourd’hui “il noir mediterraneo” ou “noir d’inchiesta” : Il giorno della civetta, Turin, Einaudi, 1961 ;

A ciascuno il suo, Turin, Einaudi, 1966 ; Il contesto, Turin, Einaudi, 1971 ; Todo modo, Turin, Einaudi, 1974 ;

auxquels on peut ajouter son tout dernier roman : Una storia semplice, Milan, Adelphi, 1989.

  1. Outre que dans la postface à Il sorriso dell’ignoto marinaio précédemment citée, Consolo développe les

axes principaux de sa poétique plurilingue et multiculturelle dans un certain nombre des articles du recueil Di

qua dal faro ; particulièrement dans la section « Sicilia e oltre », p. 211-248.

  1. Dans cette partie de notre étude, consacrée à l’écriture et à la langue de Consolo, nous avons choisi de

conserver le texte original pour certaines citations particulièrement représentatives du rythme et du caractère

“mistilingue” de sa prose.

de ce qui ne peut pas et ne veut pas devenir un récit, pour la bonne raison

que son voyage personnel dans l’espace circonscrit de l’île est aussi un

voyage à travers d’autres vies et dans d’autres temps, voire dans le non-lieu

et le non-temps, dans l’utopie et l’uchronie littéraires.

L’ouvrage est en effet conçu comme une succession de tranches de vie

que chacun de ceux qui les ont vécues vient exposer tour à tour. Beaucoup

d’entre elles sont issues de la réalité, qu’il s’agisse de la vie ordinaire des

émigrants anonymes poussés par les caprices de la nature ou par la misère

à quitter une terre ébranlée par les tremblements de terre et ravagée par

les éruptions volcaniques ou saignée par la corruption et les exactions

mafieuses ; ou bien qu’il s’agisse de la vie, dédoublée ou redoublée par leurs

oeuvres, d’artistes et d’écrivains emblématiques : Antonello da Messina (OO,

  1. 10) et le Caravage dont les tableaux proposent des paysages d’amour et

de mémoire sur lesquels plane déjà l’ombre de la corruption et de la mort

(p. 86-97) ; mais aussi Verga, qui a vécu l’exil et le retour « in un’isola che

non era l’Itaca dell’infanzia, la Trezza della memoria, ma la Catania pietrosa

e inospitale, emblema d’ogni luogo fermo o imbarbarito, che mai lo

riconobbe come l’esule che torna, come il figlio » (p. 58) et Sciascia, à qui

Vittorini avait prédit qu’il serait emprisonné dans la forme de celui qui

reste en Sicile (p. 16). Ou encore Pirandello qui pensait, au début du siècle

dernier, que « quel presente burrascoso e incerto […], ebbro d’eloquio osceno,

poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante,

con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, della struttura »

(p. 67).

Et c’est bien parce que Consolo est convaincu de vivre, lui aussi, un

présent tempétueux qu’il rompt à son tour les structures du récit en intercalant

entre ces tranches de vie, et en résonance avec elles, des moments

de sa propre vie, mais aussi des tranches de vie empruntées à ces oeuvres

et à ces textes littéraires, sous forme d’évocations presque incantatoires ou

de citations ; en entremêlant aux passages de l’Odyssée, origine de toutes

les odyssées du monde, des fragments de I Malavoglia, par exemple, parce

que même si « la “casa del nespolo” n’a jamais existé […] les personnages,

les personnes, les Malavoglia de toutes les Trezza du monde ont existé »

(OO, p. 50).

Tous ces fragments d’être, capturés dans toutes les époques et tous les

milieux, habitent et animent chaque lieu visité par le voyageur. Toutes

ces voix se mêlent dans une polyphonie où chaque personnage de la nouvelle

épopée, du nouvel épos qui nous est proposé, peut se faire entendre

et continuer à exister dans une sorte d’éternel présent qui est celui de la

mémoire personnelle et littéraire. Et celui qui écrit peut dire qu’il est à la

fois « l’astuto inventore degli inganni, il guerriero spietato, l’ambiguo indovino,

il re privato dell’onore, il folle massacratore degli armenti […], l’assassino

di […] sua figlia » (OO , p. 1) ; il peut dire la peine de Maruzza qui,

« madre ammantata, immobile avanti al mare, ai marosi, priva di lacrime,

lamento, parola […], si porta le mani nei capelli, urla nera nel cuore (p. 47) ;

il peut dire qu’il est né à Gibellina et « ha lasciato nelle baracche la madre e

la sorella […]. La sorella più non parla, sì e no con la testa è il massimo che

dice » (p. 9-10). Ainsi, coryphée à la voix plurielle, il redonne une voix à

chacun des membres de cette humanité multiple, littéraire ou réelle, pour

que les hommes du temps présent les entendent et se souviennent d’eux.

C’est pourquoi il ne veut pas être seulement un nouvel Ulysse qui en

racontant « diventa l’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrato,

l’artefice e il giudice […], l’inventore di ogni fola, menzogna, l’espositore

impudico e coatto d’ogni suo terrore, delitto, rimorso » (OO, p. 19). Car, tel

Ulysse avec son bagage de remords et de peine, il a atteint « le point le plus

bas de l’impuissance humaine, de la vulnérabilité » et il va devoir choisir

entre « la perte de soi, l’anéantissement dans la nature et le salut au sein

d’une société, d’une culture » (p. 17-18), entre l’oléastre et l’olivier. Car,

comme l’inventeur du « monstre technologique » (p. 20), qui du meilleur

peut faire le pire, de l’instrument de la victoire l’instrument du désastre,

du progrès la barbarie, il fait lui aussi partie de cette humanité ambiguë

dont Ulysse, le plus humain des héros grecs, est le plus parfait représentant.

C’est justement contre ce désastre et cette barbarie dont il découvre

les plaies à chaque étape de son périple autour de l’île que le voyageur

Consolo, devenu bâtisseur d’épopée, a voulu dresser le rempart de toutes

les vies et de toutes les voix stratifiées qu’il a convoquées dans son Odyssée

moderne, un fragment après l’autre, un mot après l’autre. Un rempart à

l’image de l’histoire de la Sicile, condamnée par la géographie à subir l’histoire

8, et qui a connu au cours des siècles une infinité de maux, qu’il s’agisse

des tremblements de terre ou des éruptions de l’Etna, des rivalités entre

colonies voisines ou des invasions constantes, mais dont les villes détruites

par les secousses ou les coulées de lave ont été relevées, à l’instar de Catane

dont les habitants sont revenus « a ricostruire mura, rialzare colonne, portali,

recuperare torsi, rilievi, mescolando epoche, stili, epigrafi, idoli, in una babele,

in una sfida spavalda e irridente » (OO, p. 57). Et Syracuse a su devenir,

malgré les invasions ou grâce à elles, « la molteplice città, di cinque nomi,

d’antico fasto, di potenza, d’ineguagliabile bellezza, di re sapienti e di tiranni

  1. Expression empruntée à L. Sciascia, Cruciverba, Turin, Einaudi, 1983, p. 176.

ciechi, di lunghe paci e rovinose guerre, di barbarici assalti e di saccheggi: in

Siracusa è scritta come in ogni città d’antica gloria, la storia dell’umana civiltà

e del suo tramonto » (p. 83-84).

Et c’est justement à Syracuse que celui qui écrit mesure l’abîme qui

sépare la ville de ses souvenirs, l’île où, « voyageur solitaire le long d’un

itinéraire de connaissance et d’amour, par les sentiers de l’Histoire, il vagabonda

pendant un lointain été » (OO, p. 143), et la ville présente, l’île

damnée, métaphore de l’Italie fascisante des années quatre-vingt (p. 140).

C’est de part et d’autre de l’omphalos d’Ortygie que les deux réalités, la

passée et la présente, se distinguent l’une de l’autre, c’est « dans l’espace

en forme d’oeil, dans la pupille de la nymphe, sur la place où règne la maîtresse

de la lumière et de la vue » (p. 83), que, à l’instar du Caravage sur le

visage de son page, le coryphée voit, comme dans un miroir déformant,

fleurir « la vermeille, la noire tache de la peste, de la corruption et de la

fin » (p. 92).

Bien sûr le voyageur pourrait, au risque de se comporter comme « un

presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, si ritrae in continuo

dal presente, sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della

memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che

conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura » (OO,

  1. 84). Mais il ne veut pas de ce repli sur un hypothétique âge d’or : « Odia

ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro » (p. 105).

Car désormais, non seulement ce que les caprices de la nature détruisent

n’est plus reconstruit mais, de surcroît, la spéculation immobilière et

l’industrialisation sauvage achèvent de faire disparaître, en les recouvrant

d’une dernière strate mortifère, les témoignages d’une culture millénaire et

les beautés d’un patrimoine naturel incomparable. Comme à Augusta « che

gli appare nella luce cinerea, nella tristezza di un’Ilio espugnata e distrutta,

nella consunzione dell’abbandono, nell’avvelenamento di cielo, mare, suolo »

(p. 34). Comme à Milazzo où « sulla piana dove pascolavano gli armenti del

Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di

tralicci, di ciminiere che perennamente vomitano fiamme e fumo » (p. 28).

Et le cancer qui ronge les lieux se propage et corrompt aussi les habitants

(p. 117). Comme à Gela où est née non seulement la ville « dell’edilizia

selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango

e all’immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal

mare grasso d’oli, dai frangiflutti di cemento [ma anche] la Gela della perdita

d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia » (p. 79). Comme à

Avola dont la place géométrique et lumineuse est

vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra, rotta nel silenzio dal rombare delle

motociclette che l’attraversano nel centro per le sue strade ortogonali, occupata […] da

mucchi di giovani […] che fumano, muti e vacui fissano la vacuità della piazza come in

attesa di qualcuno, di qualcosa che li salvi. O li uccida. Cosa è successo in questa vasta

solare piazza d’Avola? Cos’è successo nella piazza di Nicosia, Scicli, Ispica, Modica, Noto,

Palazzolo, Ferla, Floridia, Ibla? Cos’è successo in tutte le belle piazze di Sicilia, nelle piazze

di quest’Italia d’assenza, ansia, di nuovo metafisiche, invase dalla notte, dalle nebbie, dai

lucori elettronici dei video della morte? (OO, p. 112)

Cos’è successo, dio mio, cos’è successo a Gela, nell’isola, nel paese in questo atroce tempo?

Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assasssino? Cos’è

successo a te che stai leggendo? (OO, p. 81)

Que s’est-il passé, effectivement, pour que celui qui écrit se prenne

lui-même à partie dans une sorte de dédoublement où sa voix semble se

dissocier de sa plume et lance ce « Dio mio » qui n’est pas une exclamation

vide de sens mais un véritable cri de douleur ; un cri de douleur à travers

lequel Consolo, car c’est bien de lui qu’il s’agit ici, trahit, pour la seule et

unique fois tout au long de cette Odyssée polyphonique, l’engagement

qu’il s’est fixé de n’être que le porte-voix et le porte-plume, de ne jamais

dire, contrairement à Pausanias, « Io sono il messaggero, l’anghelos, sono il

vostro medium, a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi,

le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio » (OO, p. 39). Pausanias

qui représente, dans le texte de Consolo, les Proci, les prétendants de la

naissante littérature postmoderne qui se font les complices, à moins qu’ils

n’en soient les fauteurs, de l’assassinat de la culture et de la mémoire par

le pouvoir politico-médiatique déjà tout-puissant depuis un certain décret

de 1983. Pausanias à qui Empédocle, dont Consolo reprend à son compte

l’approche sensorielle et poétique de la connaissance et la philosophie du

savoir révélé par le logos, rétorque :

Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! È proprio il degno figlio di

quest’orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo gran teatro compromesso,

di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di

poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto.

(OO, p. 40)

Que s’est-il passé pour que, après avoir engagé directement sa responsabilité

en tant qu’écrivant, celui qui écrit apostrophe ainsi le lecteur et

l’accuse d’être le complice de l’assassinat du logos par les Proci de la littérature

de masse ?

Peut-être la réponse se trouve-t-elle dans ce qu’ils ont tous en commun :

le langage, l’écriture, les mots en somme ?

Peut-être tout cela a-t-il commencé dans les mots, par les mots ?

C’est en tout cas ce que Consolo entend démontrer, comme Sciascia

l’avait fait, en 1978, à l’occasion de sa magistrale enquête philologique sur

les documents relatifs à l’Affaire Moro 9. Une enquête où il donnait raison

à Pasolini qui, dans son célèbre article de 1975, dit “l’article des lucioles”,

affirmait déjà que « comme toujours, ce n’est que dans la langue que sont

apparus les premiers symptômes ». « Les symptômes, commente Sciascia,

de la course vers le vide de ce pouvoir démocrate-chrétien qui avait été,

jusqu’à dix ans auparavant, la continuation pure et simple du régime fasciste.

» (AM, p. 15)

Les mêmes symptômes s’étaient justement manifestés dans les années

qui avaient précédé la montée du fascisme, et la transformation du langage

en gesticulation oratoire, en rhétorique patriotarde 10, avait déjà été

un signe avant-coureur, une préfiguration de la corruption du corps social

et de la vie publique par la peste fasciste. Alors, la langue que Verga avait

forgée pour son poème narratif, son « épopée populaire » (OO, p. 48),

s’était abîmée dans « la retorica sicilianista, l’equivoco, l’alibi regressivo e

dialettale dei mafiosi, dei baroni e dei poetastri » (p. 77), ou s’était perdue

dans l’aphasie et le silence, devant « l’eloquio vano, prezioso e abbagliante di

D’Annunzio, […] i giochi spacconi e insensati dei futuristi » (p. 59).

De la même façon, les malheurs de Gela ont commencé lorsque, au lieu

d’encourager, après l’unanimisme fasciste, ce qui aurait pu être un nouveau

Risorgimento culturel et linguistique, la plupart des intellectuels italiens,

pour des raisons largement idéologiques, ont préféré, comme Visconti,

tourner des films tels que La terra trema, où « la lingua inventata da Verga

regrediva in dialetto, in suono incomprensivo, in murmure di fondo » (OO,

  1. 50) ou bien considérer, comme Vittorini, que la découverte de pétrole

dans les tombes grecques et les citernes sarrasines de ce petit village de

pêcheurs et la naissance de Gela 1, Gela 2, Gela 3 et de la Gulf Italia

Company méritaient d’être célébrées à grand renfort de « volenterosa poesia,

retorica industriale, lombarda e progressiva » (p. 78).

Le résultat de ces choix esthétiques et politiques, dont Consolo n’exclut

pas, comme on l’a vu, que lui-même et le lecteur aient pu être les

complices, s’affichent sur le visage de la Gela des années quatre-vingt et

la misère culturelle et morale dans laquelle vivent ses habitants se reflète

dans le spectacle de désolation qu’elle offre au voyageur. La misère des plus

jeunes, en particulier, qui n’ont eu pour seuls repères que ceux qui leur

  1. L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978 ; ci-après AM.
  2. Sciascia avait analysé les raisons politiques et sociologiques de ce qu’il considérait, déjà, comme une dérive

irréversible de la langue et de la littérature vers la confusion et le vide dans 1912+1, Milan, Adelphi, 1986, p. 13-16.

ont été fournis par « la furbastra e volgare letteratura sulla degradazione e la

marginalità sociale, sul male di Gela, di Licata, di Palma di Montecchiaro,

di Canicattì o di Palermo servito in serials televisivi, in Piovra 1, Piovra 2,

Piovra 3 [e nei] libri di vuote chiacchiere, di stanca ecolalia sui mali di Sicilia »

(OO, p. 80). Quant à ceux qui n’ont même plus ces repères-là, il ne leur

reste que « il linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa

e del tritolo » (p. 79).Si, effectivement, tout s’est d’abord joué dans

la langue du fait d’une funeste trahison des clercs, Consolo semble penser

que ce n’est qu’avec la langue que l’on peut reconstruire ce que la langue

du non-dire politique et la non-langue de la culture de masse ont détruit 11.

Et pour qu’on ne puisse pas dire de tous les villages de Sicile, de tous

les villages d’Italie, ce que, à la fin des années quatre-vingt, il dit d’Acitrezza

qui n’est plus que « morte dell’anima, sigillo d’ogni pianto, arresto del

canto, fine del poema, turbinio di parole, suoni privi di senso » (OO, p. 49),

il proclame que

Trova solo senso il dire o ridire il male, nel mondo invaso in ogni piega e piaga dal diluvio

melmoso e indifferente di parole atone e consunte, con parole antiche o nuove, con diverso

accento, di diverso cuore, intelligenza. Dirlo nel greco d’Eschilo, in un volgare vergine

come quello di Giacomo o di Cielo o nella lingua pietrosa e aspra d’Acitrezza. (OO, p. 77)

Il ne s’agit pas là d’une simple déclaration de poétique mais d’une

véritable déclaration de guerre contre la langue corruptrice du pouvoir,

dénoncée précédemment par Pasolini et Sciascia, de la même façon que

le refus du récit était une déclaration de guerre contre la pensée unique

incarnée par le tout-puissant narrateur, le roman étant le genre littéraire le

plus menacé par l’une et par l’autre car, « dès lors qu’il doit nécessairement

contenir une valeur communicative, il risque d’être envahi par la communication

du pouvoir, il risque d’être entièrement possédé par sa langue »

(DQDF, p. 235).

Pour ne pas être possédé par la langue uniformisante de ce pouvoir destructeur

de culture et de mémoire dont la disparition des lucioles marque

métaphoriquement la naissance, par la langue de la nouvelle société de

masse, Consolo entend donc, comme Verga autrefois, inventer un nouveau

logos, capable d’aller au-delà de l’idéologie dominante, au-delà de la signification

historique et politique, « dans le sens d’une condition humaine

  1. À propos de la langue du non-dire inventée par les hommes politiques italiens à l’aube des années quatrevingt,

voir la réflexion de Sciascia dans L’affaire Moro, explicitement énoncée p. 15-16 et développée tout au long

de son enquête sur les documents de l’enquête. Quant à la non-langue de la culture de masse ici dénoncée, elle

fait l’objet d’une analyse critique plus approfondie de la part de Consolo dans la dernière section de Di qua dal

faro intitulée Parole come pietre.

générale et éternelle. Un langage qui, en allant de la communication vers

l’expression, rejoint donc la poésie » (DQDF, p. 229 et p. 282).

De fait, à l’instar de la construction polyphonique qu’il a élaborée en

atomisant le récit en une succession horizontale de tranches de vie qui

trouvent leur cohérence dans les rapports psychologiques et physiques qui

lient les uns aux autres ceux qui les ont vécues et les relient aux lieux où

ils ont vécu, Consolo forge une langue multiple en creusant verticalement

dans l’épaisseur des stratifications linguistico-culturelles accumulées dans

le creuset sicilien. Ainsi, dans le même paragraphe et parfois dans la même

phrase, se succèdent des mots d’autrefois et des mots d’aujourd’hui, des

mots d’ici et des mots d’ailleurs, dans une infinité de combinaisons qui

permet à la fois de capturer au mieux la vraie réalité et d’échapper aux tentatives

de récupération par la langue plate et vide du discours dominant,

grâce à un “mistilinguisme” que nous avons analysé de façon plus systématique

dans d’autres travaux 12 et dont les citations que nous donnons ici

en langue originale donnent un aperçu.

Cependant, cette langue hybride, ce cheval qui recèle dans ses flancs

les troupes bigarrées de toutes les langues du bassin méditerranéen à travers

les âges et qui est destiné à faire tomber la nouvelle Troie de la kermesse

médiatico-littéraire afin qu’Ulysse-Consolo puisse rentrer dans une

Ithaque débarrassée des usurpateurs, n’est-elle pas l’un de ses monstres

artificiels capables de réveiller les vrais monstres que l’on voit lorsqu’on

s’approche de Gela, de vrais monstres à la double nature, issus eux aussi de

strates multiples, capables eux aussi de tromper sur leurs origines et leurs

fins, et qui ressemblent à s’y méprendre aux Cyclopes et aux Lestrygons qui

entravèrent jadis le retour d’Ulysse et annoncèrent naguère le fascisme ?

Sono ancora lì sparsi i fortini, le casematte della difesa costiera, sembrano, affioranti dalle

dune, dai macconi, bianchi di fresca scialbatura, le coperture a calotta, i neri occhi delle

feritoie, le teste di giganti, d’arcaici guerrieri che stanno per risorgere o mostri, robot di calcestruzzo,

che emergono da ipogei, caserme sotterrranee, avanzano, marciano, distruggono

[…] Più avanti, nella vasta landa saudita, sono le teste d’ariete, i lunghi colli delle pompe

che vanno su e giù come in un movimento vano e inarrestabile, gli astratti metafisici

ingranggi di cui nessuno sa l’origine e il fine. Qui è il teatro dell’abbaglio e dell’inganno,

del petrolio favoloso […] qui il Gela 1, Gela 2, Gela 3 [che] accesero Mattei di forza e di

  1. Voir, en particulier, L. Bossi, La voix de la Sicile, entre idiolecte et mistilinguisme (actes du colloque international

« Les enjeux du plurilinguisme dans la littérature italienne », CIRILLIS de l’université de Toulouse-Le

Mirail, 11-13 mai 2006). Collection de l’ECRIT, CIRILLIS/IL LABORATORIO, Presses de l’université de

Toulouse-Le Mirail, 2007. Ead., De Verga à Camilleri : entre sicilitude et sicilianité, les auteurs siciliens font-ils du

genre ? (actes du Séminaire « Identité(s), langage et modes de pensée », CERCLI de l’université de Saint-Étienne,

7 novembre 2003), dans Identité, langage(s) et modes de pensée, études réunies par Agnès Morini, Publications

de l’université de Saint-Étienne, 2004.

speranza, lo spinsero alla sfida dell’ENI statuale al duro capitalismo dei privati, al Gulf

Italia Company, alla Montecatini […], posero sopra le facce malariche dei contadini i

bianchi caschi di plastica operaia.

Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d’ammassi

di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul colle difesa

da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il

terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi (OO, p. 78-79).

Comme l’auraient dit Manzoni, et Sciascia après lui, ainsi allaient les

choses en 1994.

Pour avoir trop bien manipulé la technique de ce sous-produit littéraire

de la culture de masse qu’était le roman policier dans les années soixantedix,

Sciascia, justement, avait été accusé d’avoir, avec ces préfigurations que

sont Il contesto et Todo modo, provoqué en quelque sorte « l’affaire Moro »

alors même que son but était de dénoncer les énigmatiques corrélations

dont Moro a été l’acteur et la victime, ainsi que le langage du non-dire

qu’il a si bien su utiliser et qui l’a ensuite empêché de se faire comprendre 13.

Mais depuis, le roman policier et sa structure sont devenus une sorte de

schéma narratif unique utilisé non seulement par ceux qui veulent, à la

suite de Sciascia, dénoncer les dérives du pouvoir politico-médiatique 14,

mais aussi et surtout par les suppôts de ce même pouvoir dont les ouvrages

produits à la chaîne étouffent et excluent toute tentative de subversion et se

bornent à entretenir les peurs ataviques et les comportements paranoïaques

que le pouvoir a toujours su utiliser à son profit.

De la même façon, alors que Consolo espérait encore, à la fin des années

quatre-vingt, pouvoir opposer au déferlement de la communication standardisée,

son épos à la structure polyphonique, composée de tout le substrat

mythopoétique méditerranéen, et son nouveau logos, sa langue plurielle,

faite de toutes les langues d’histoire et de mémoire fondues dans le creuset

sicilien, ses tentatives et celles de ceux qui, comme lui, s’efforçaient de faire

entendre des voix marginales, ont été noyées dans un multiculturalisme

et un communautarisme institutionnels grâce auxquels ces voix ont été

récupérées et canalisées.

En démultipliant et en divisant ainsi les enracinements culturels au

nom d’une diversité de façade, les serviteurs du pouvoir ont réussi à affaiblir

les racines de l’olivier dans lequel Ulysse avait taillé sa couche nuptiale,

  1. Voir AM, p. 16 et p. 27. Consolo a lui-même fait une analyse des choix narratifs de Sciascia dans la section

de Di qua dal faro intitulée Intorno a Leonardo Sciascia, p. 185-208, dans laquelle on lira avec profit les articles

Letteratura e potere et Le epigrafi, en particulier p. 199.

  1. Massimo Carlotto ou le collectif Wu Ming, entre autres représentants du genre noir d’inchiesta, exploitent

aujourd’hui cette veine et se substituent aux journalistes et aux historiens défaillants.

Lise Bossi

qui est aussi le berceau de toute notre civilisation, et, par myopie ou de

propos idéologique délibéré, à ne préserver que cette partie du tronc sur

laquelle prospère l’oléastre, l’olivier sauvage.

Encore quelques années et la langue de Consolo, dont la complexité

sémantique et la richesse lexicale défient déjà la traduction, sera devenue

incompréhensible pour la plus grande partie de ses compatriotes ; encore

quelques années et plus personne ne saura pourquoi Ulysse voulait tant

revenir à Ithaque. Et alors, qui dira le mal et dans quelle langue ?