‘Il dovere del racconto’

La Sicilia di Vincenzo Consolo

di Valentina Pinello

Di Vincenzo Consolo si sente già la mancanza. Era una presenza, un punto di riferimento, un’intelligenza sulla quale poter contare per avere una riflessione lucida e illuminante su quello che sta succedendo nel nostro paese e nella sua Sicilia. Da Milano scrutava, studiava, rifletteva e, solo quando aveva qualcosa da voler comunicare, parlava o scriveva. Non è mai stato uno scrittore prolifico, tra “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e “Retablo” sono passati dieci anni. La Sicilia era il suo chiodo fisso anche se aveva deciso di lasciarla, come racconta in un’intervista inedita, che adesso vogliamo riproporvi, di qualche anno fa, ma di estrema attualità perché, come diceva Consolo, «c’è un impegno morale nel rappresentare il nostro tempo da parte dello scrittore; anche se scrive libri di storia, non deve essere la storia romanzata, deve essere una storia metaforica come ci ha insegnato Manzoni, cioè si parla del passato per rappresentare la nostra contemporaneità».

A distanza di una settimana dalla sua morte, ci manca il suo modo di saper cogliere e raccontare la realtà, avremmo voluto chiedere il suo punto di vista su tanti temi di estrema attualità, dal movimento dei Forconi che agita da settimane la Sicilia fino all’immigrazione, al quale è stato sempre particolarmente sensibile. Alcune di queste domande trovano una risposta in quell’utile, unica e senza tempo chiacchierata di qualche anno fa, nella sua casa siciliana a Sant’Agata di Militello, di fronte alle Isole Eolie.

LA SICILIA DI VINCENZO CONSOLO.
INTERVISTA  ALLO SCRITTORE DEL “SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO”  

Trascorrere un paio d’ore conversando con Vincenzo Consolo è stato come aver riletto pagine significative di storia e di letteratura della Sicilia e averle fatte proprie. Il suo modo di parlare con semplicità di fatti non sempre comprensibili ai non siciliani,, denota una linearità di pensiero che solo un attento conoscitore di quell’Isola può possedere. Ascoltarlo provoca un piacere diverso rispetto a leggere i suoi libri, noti invece per una prosa ricercata, non di immediata comprensione, anche se musicale, intessuta di riferimenti linguistici che derivano radici culturali della terra siciliana.

Consolo vive a Milano da più di trent’anni, ma torna spesso a Sant’Agata di Militello, suo paese d’origine, dove l’abbiamo incontrato.

«Ormai siamo diventati degli Ulissidi, espropriati della nostra identità e alla ricerca della nostra Itaca. Quando torniamo però Itaca non c’è più; la patria è ormai diventato un luogo interiore .Vedendo la realtà siciliana fatta di ingiustizie ho deciso di spostarmi a Milano, patria di Beccaria. Qui da noi il diritto si trasforma in favore che ti lega ad una persona, in alcuni casi,  anche per tutta la vita. Sono andato via per questo. Lo sradicamento (solamente fisico, le mie memorie sono qui) è doloroso, però alla fine necessario. Non è facile ricostruire legami in luoghi che non sono i tuoi. Ma  stando qui si fa un danno a se stessi. Bisogna però tornare e quando si torna si è più forti, forse anche meno vulnerabili, o meglio, meno ‘ricattabili’».

“Sciascia è lo scrittore che è perché è nato a Racalmuto”, si legge in uno dei suoi saggi; e anche per quanto riguarda Pirandello lei sottolinea la sua provenienza dalla provincia di Agrigento, una zona ricca di miniere di zolfo. La vita delle miniere entra in molti romanzi siciliani, a tal punto che si parla di una “letteratura dello zolfo”. Dopo questa premessa, com’è stato influenzato lei dalle sue zone d’origine, sempre presenti nei suoi romanzi?

«Tutta una serie di scrittori di cui io parlo sono stati influenzati dalla condizione delle zolfare, in cui esisteva un rapporto di assoggettamento totale dell’operaio al padrone. La realtà delle zolfare poggiava principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso.  Dalla condizione di carusi, sfruttati come servi  della gleba, era quasi impossibile riscattarsi. Col tempo però questi  presero coscienza della loro condizione e dal mondo delle zolfare si sollevarono le prime proteste operaie. La prima riunione di sindacati (allora si chiamavano Società di Mutuo Soccorso) avvenne a Grotte. Per l’occasione vennero gli operai del nord a portare la loro solidarietà, come oggi avviene per gli operai della Fiat di Termini Imerese.

Nella Sicilia occidentale è nata una letteratura diversa rispetto a quella orientale. Così Pirandello parla del mondo delle zolfare e dei primi scioperi (ne “I vecchi e i giovani”); ma non è l’unico. Altri esempi sono Alessio Di Giovanni in “Gabrieli lu carusu” o Angelo Petix, nel dopoguerra, in “La miniera occupata”. Anche Verga ne parla, in “Dal tuo al mio”o in “Rosso Malpelo”; ma lo scrittore catanese non è un uomo di zolfo e per lui la lotta di classe non serve a niente. Verga parla piuttosto di una metafisica della roba e la sua è una concezione conservatrice.

In scrittori della parte orientale della Sicilia, anche se di forte impegno civile, mi riferisco a Brancati o a Vittorini, è invece più marcata la propensione ad una scrittura lirica (vedi “Conversazione in Sicilia”).

Arrivando a me: quando ho deciso di intraprendere questa strada, provenendo da un paese intermedio tra queste due realtà da me descritte seguendo una sorta di geografia ideale, ho dovuto decidere da che parte stare. Nella mia zona, quella di Sant’Agata di Militello, non c’è stato il problema del latifondo, della distruzione della natura; c’era la piccola proprietà terriera, ma non ci sono mai stati grandi scontri sociali. Per me si pose quindi il problema se rimanere chiuso in quest’ambito, sviluppando temi di tipo esistenziale, oppure avvicinarmi alle zone di Messina o Catania, oppure ancora spostarmi verso le zone occidentali. Bene, alla fine ho concepito una sorta di ibrido, una ‘chimera’ , tra mondo occidentale, di impegno civile, e mondo orientale, lirico».

Al di là dei suoi orientamenti stilistici, di quale Sicilia ama parlare?

«Si ha della Sicilia un’immagine eccessivamente colorata, nel senso più negativo. Un po’ come avviene per il sud America: del Brasile, per esempio, si parla per il Carnevale di Rio e si rischia di non andare oltre. La Sicilia vera, quella di cui mi piace parlare, è quella dell’uomo che ha cercato di riscattarsi, di ritrovare la sua identità. Niente colorismo alla Camilleri! Rischiamo di farci espropriare del nostro patrimonio umano. L’identità non deve però essere compiacenza di sé, ma comprensione dell’altro partendo da una migliore conoscenza di noi stessi».

Al tema dello scontro tra civiltà, non pensa che la storia della Sicilia abbia dato una risposta, intessuta com’è di cultura e di tradizioni arabe? Basti pensare alle tecniche per la coltivazione degli agrumi o ai sistemi di pesca del tonno.

«Chi solleva lo scontro di civiltà mostra ignoranza e malafede. Confondere l’integralismo islamico con la religione islamica è lo stesso di confondere il Cristianesimo con l’Inquisizione e l’Autodafè. Parlare di crisi dell’Islam significa alimentare razzismi e xenofobie. Sciascia, citando Amari, “Storia dei musulmani in Sicilia”, dice che la storia della nostra isola inizia con l’arrivo degli arabi musulmani, nell’827; da lì è iniziato un risveglio culturale, economico e artistico. Non si può cancellare questa storia. I normanni, intelligentemente, non hanno cancellato questa dominazione. Nel periodo normanno a Palermo c’erano ancora numerose moschee , oltre che sinagoghe e chiese cristiane, e un riconoscimento reciproco. Con gli spagnoli è venuta meno questa pacifica convivenza.

Nel corso degli anni ci sono stati degli intellettuali che hanno cercato di creare dei fossati di odio e di vendetta; la Fallaci appartiene a questa schiera e purtroppo interpreta il pensiero di molti».

Nella Sicilia attuale, dei condoni edilizi, delle case costruite sulla Valle dei Templi, del clientelismo, delle coste sempre più deturpate dal cemento (da cui anche i tonni sono scappati!), pensa che “l’olivastro”, il selvatico, abbia completamente asfissiato “l’olivo”, usando la distinzione presente nel suo libro, “L’olivo e l’olivastro”, appunto.

«Credo di sì. Ho paragonato Falcone e Borsellino a persone che hanno cercato di disboscare, con l’ascia della legge, il selvatico. Ma sono stati uccisi. A Palermo si è diffuso un clima di assoluto fastidio verso i magistrati. Si è passati dall’indignazione degli anni di Falcone, alla dimenticanza. E’ un brutto segno quando in una società non si riconosce l’importanza della magistratura e quando non si riconosce l’indipendenza dell’Antimafia».

Valentina Pinello
15 gennaio 2012 pubblicata su Golem

Foto di Giovanna Borgese

La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo

a cura di Annagrazia D’Oria

La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?

In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.

C’è una soluzione per continuare a scrivere?

Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.

Che cosa intende per “spirito socratico”?

Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.

  Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.

Parlaci di Catarsi…

E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o  suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.

Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.

Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.

C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”

, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.

E la Sicilia di Pirandello?

Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?

La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di

Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).

E Sciascia?

Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al  potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non  vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?

Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.

Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.

Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.

Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.

Vincenzo Consolo

Prologo

Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
 senza scampo, l’abisso smisurato;
 è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
 gli estremi: le forze naturali
 il deserto di ceneri, di lave
 e la parola che squarcia ogni velame,
 valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
 vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
 ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
 per la dura sordità del mondo,
 la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
 e di Memoria, alle Muse trapassate,
 chiediamo aiuto a tanti, a molti,
 poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
 necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
 e il rimorso è un segno oscuro
 o chiaro che in questa notte spessa
 tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
 il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
 la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia,  l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.

1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci

Articolo pubblicato da “Liberazione“del 2 Ottobre 2001

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci

“ Parole che conducono alla violenza “

 

« Che rimescolio di razze, di lingue in questa turba vitale, invadente, in questi dominatori venuti dal mare, dai deserti lontani, in questi guerrieri audaci e sereni coltivatori di palme, d’ulivi, di cedri! Sono insieme arabi, persiani, egizi, libici, sudanesi, berberi, spagnoli, tutti uniti nella fede in Allah. Sono rudi, incolti, feroci e sapienti, dottissimi, cultori di numeri, astronomie, raffinati poeti (…) Palermo fu, per questi ispirati invasori, il divano della loro nostalgia delle sabbie e delle oasi, ricordo e ricreazione del Cairo, di Baghdad, Medina, Damasco, della Mecca. » Tra le pagine più intense dell’opera di Vincenzo consolo, vi sono quelle che lo scrittore siciliano ha dedicato alla presenza araba e musulmana nel mezzogiorno d’Italia. In particolare è alla Sicilia normanna che Consolo guarda come ad un’epoca di sviluppo, fondata sull’incontro tra le culture, su una convivenza vissuta come ricchezza, meticciato, crescita nel confronto reciproco. Un periodo in cui Palermo era «una città dalle trecento moschee, in un bosco di minareti da cui muezzin modulano il loro richiamo, di chiese bizantine e romane, di sinagoghe ebraiche».

Per un intellettuale che ha fatto di queste radici multiple la chiave del proprio approccio alla storia siciliana e la base della sua stessa personale esperienza culturale, le violente parole usate da Oriana Fallaci sul “Corriere della Sera” di sabato 29 – e destinate a diventare un istant-book – contro il mondo musulmano e gli immigrati che vivono in Italia, non possono suscitare che disgusto e indignazione.

«Non varrebbe nemmeno la pena di commentare un simile sproloquio violento e viscerale – spiega Consolo – se non fosse che queste parole sono cadute in un momento delicato non solo per l’Italia ma per tutto il mondo. Credo che tutto derivi dalla situazione personale della Fallaci, quella di una persona molto malata, lo dico perché è lei stessa a parlarne, condizione che, unita al fatto che lei si trovava a Manhattan al momento degli attacchi, l’ha portata però a esacerbare certe reazioni non razionali. Siamo tutti concordi nel deprecare il terrorismo e la violenza, ma questo non c’entra nulla con ciò che lei ha detto. Mi sono sembrati in particolare brutti e molto bassi  suoi giudizi contro gli immigrati, ad esempio quando parla delle piazze di Firenze. La Fallaci ha evidentemente ben poca consapevolezza di quelle che sono le culture del mondo. E’ vero, si è fatta una larga esperienza come corrispondente nei luoghi più orrendi del pianeta, ma io ricordo che in tutti i grandi corrispondenti c’era soprattutto un senso di pietà, penso ad un fotografo come Robert Kapa e a tanti altri. Invece questo atto della Fallaci è solo violento, ingiusto, non solo non è improntato alla ragione o alla cultura, ma può spingere i meno avveduti a agire di conseguenza, in particolare contro gli immigrati».

Le frasi della Fallaci non sono però isolate, arrivano dopo quelle di politici che, da Bush a Berlusconi, hanno voluto proprio sottolineare l’idea che ci si trovi di fronte a uno “ scontro di civiltà” e che in questo conflitto si esprima “ la superiorità” della cultura occidentale. Lei, anche negli scorsi anni, era già intervenuto contro una simile deriva, ad esempio dopo le parole del cardinale di Bologna Biffi sui pericoli dell’immigrazione musulmana.

«Io vengo da una terra che ha conosciuto il passaggio di tante culture, di tante civiltà, e di questo si è molto arricchita. Ovunque nel mondo il genere umano è cresciuto e progredito attraverso lo scambio: ha dato e ricevuto altre culture. Quanto ad estremismo e fondamentalismo, è sotto gli occhi di tutti che si tratta di fenomeni che ci sono e sono criminali da tutte le parti. Sulla questione della “gerarchia” delle culture, credo che né Bush, né Berlusconi abbiano mai letto alcun libro sul mondo musulmano; Bush è lontano, ma un europeo dovrebbe sapere cosa ha rappresentato questo incontro per noi, in particolare proprio in Italia. Inoltre è incredibile e assurdo che da noi qualcuno se la prenda con gli arabi o esistano xenofobia e razzismo, visto che siamo stati tutti figli di immigrati. E’ chiaro che l’attacco dell’ 11 settembre ha dato la stura ha quello che già c’era precedentemente. Tutti ricordiamo Biffi e Bossi e la criminalizzazione dei clandestini: chi arriva oggi nel nostro paese è giudicato nemico e ostile. Vorrei ricordare a tutti quanto è già accaduto nel passato dell’Europa, quando questa idea che la diversità fosse da eliminare ha prodotto vergogne che nessuno potrà mai cancellare».

La Sicilia che lei ha descritto in molti dei suoi romanzi appare quasi come un modello all’inverso, rispetto a questo clima da crociata, frutto di molteplici contaminazioni, di una convivenza feconda di stimoli.

« Il cammino della civiltà è stato tracciato con l’incrocio tra le culture e, in particolare la Palermo del periodo dei normanni, ospitava le lingue e etnie più varie e fu uno dei periodi più alti della civiltà dell’isola, come del resto è accaduto in Andalusia o più recentemente a Sarajevo: tutte città cosmopolite arricchite dalle culture del mondo, mentre la chiusura verso gli altri conduce alla  Vandea e alle forme di intolleranza più idiota. Anche Beirut era una di queste città cosmopolite, come lo sono Londra o Parigi oggi, centri che mostrano tutta la ricchezza di un simile processo. Paesi e città monoculturali sono invece destinati alla regressione».

Si ha l’impressione che le valutazioni violente che vengono espresse in questi giorni sull’Islam, servano a dipingere la cultura musulmana per quello che si vorrebbe fosse, per costruire “un nemico” a cui opporsi, piuttosto che definire i contorni di una civiltà estesa in tutto il mondo.

«A questi temi è dedicato il mio ultimo libro, che raccoglie una serie di saggi dedicati alla storia dei rapporti tra Sicilia e Maghreb e dell’emigrazione meridionale della fine dell’800 che si indirizzò verso la Tunisia, l’Algeria e il Marocco. Si trattava di masse di braccianti e lavoratori meridionali che arrivarono dal nord africa ancora prima dell’inizio del protettorato francese e furono accolti benissimo. Molti nutrivano speranze verso quella terra al di là del mare: ci fu anche un’emigrazione politica di persone che parteciparono ai moti risorgimentali e che si rifugiarono nel Maghreb. Oggi sta succedendo il contrario, è da quelle coste che approdano qui da noi e subito ci allarmiamo, diciamo che sono dei criminali. Tornando a quanto è accaduto: per affrontare questi argomenti ci vogliono ragione e cultura e io credo che Oriana Fallaci sia priva sia dell’uno che dell’altra».

Guido Caldiron

 

Le interviste di ITALIALIBRI VINCENZO CONSOLO

«Devo dire che sono nato in una famiglia piccolo borghese…»
(Vincenzo Consolo)

Gli anni della formazione

Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?

Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

D. La prima domanda è questa: Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?

1933. Benito Mussolini tra la folla
evo dire che sono nato in una famiglia piccolo-borghese. Mio padre era un commerciante, lavorava insieme ai fratelli ed era stato l’unico trasgressore di quelle che erano le regole di comportamento della piccola borghesia di allora, in un paese siciliano. Si era innamorato di una ragazza che era di condizioni economiche un po’ inferiori alle sue. Era senza dote e suo padre voleva che sposasse un’altra ragazza. Mio padre ha insistito, ha voluto quella ragazza di cui si era innamorato e hanno fatto la famosa fuitina, sono scappati e poi hanno regolarizzato il matrimonio successivamente. Mi ricordava mia madre che si erano sposati in sagrestia perché quelli che facevano questo atto trasgressivo non potevano fare il matrimonio in chiesa. Hanno fatto poi otto figli, e questo è un segno del loro amore. Noi eravamo gli unici figli di questa autorità che era rappresentata dagli zii e dal nonno. Eravamo sovrastati da questa plurima autorità. Io ero il sesto di otto figli.
Mio padre non era un intellettuale, era un uomo di poca cultura, pratico, però aveva visto che i fascisti erano le persone meno rispettabili del paese, che sotto il regime avevano trovato la collocazione più giusta e l’alibi per i loro fallimenti personali. I ricordi più vividi sono del periodo della guerra quando, al momento dello sbarco degli americani in Sicilia, comincia il periodo dei mitragliamenti, dei bombardamenti e quindi la paura per queste forme che io bambino non riuscivo a capire. Sentivamo i mitragliamenti di notte, le incursioni e anche i bombardamenti dal mare. Le corazzate americane si piazzavano e bombardavano il paese e tutta la costa. C’era il terrore da parte mia. Per un bambino di quell’età – nel ‘42/’43 avevo 10/11 anni – era una violenza inaudita. Finalmente mio padre si convinse e ci trasferimmo in campagna. Lì mi sentii più rassicurato. Ci furono però dei morti anche in campagna perché le bombe venivano sganciate alla cieca. Mi ricordo la notte terribile, prima che arrivassero gli americani, di questi incessanti cannoneggiamenti, mitragliamenti, bombardamenti. Un mio zio mi fece vedere attraverso un cannocchiale i militari americani che scendevano dalla montagna di San Fratello e quindi ebbi la visione di questi liberatori. Andai con mio padre – ero un ragazzino curioso e petulante – in paese per vedere i danni subiti dalle nostre case. La strada del paese dove si affacciava la nostra casa era ingombra di macerie, fili della luce. Non c’erano state però ruberie. Mio padre, quando finimmo l’ispezione a casa nostra dove era crollato un pezzo di casa, mi disse: tu aspettami qui e non prendere niente in mano. Io ero lì immobile. Passò una colonna di americani. Vidi per la prima volta in vita mia un negro e rimasi sbalordito. Questo nero, vedendo lo stupore del bambino da solo sul marciapiede, mi tirò un tubetto di caramelle. Mi colpì sulla pancia, mi fece male, ma io incuriosito dapprima toccai il tubetto con il piede e poi lo presi in mano. Lo scartocciai e vidi che erano le caramelle con il buco. Quando venne mio padre non gli dissi di aver trasgredito il suo ordine di non toccare niente. Tornammo poi in campagna. Questi ricordi della guerra li ho trasferiti nell’ultimo mio libro, Lo spasimo di Palermo,una sorta di flashback.
Mi ricordo del secondo dopoguerra di noi ragazzini, come eravamo esposti a infiniti pericoli, a causa delle bombe sparse di qua e di là e la nostra occupazione preferita era quella di giocare con queste armi, con le micce che incendiavamo, le bombe a mano che buttavamo. Molti miei compagni sono rimasti segnati per la vita da questi giochi proibiti. Mi ricordo un compagno a cui era saltata una mano, un altro che era diventato cieco. Mi ricordo un ragazzino completamente bruciato perché aveva preso fuoco con le micce. Ho un ricordo terribile di queste ulteriori vittime, che erano i bambini, un po’ come in tutte le guerre. Frequentai la scuola media in un istituto religioso di salesiani dove c’era anche l’oratorio. Questa educazione cattolica forzata, i reduci che tornavano, queste sono le mie memorie che ho raccontato nel mio primo libro in cui mi sono liberato di questa memoria dell’infanzia, e che si chiamaLa ferita dell’aprile.
Finiti gli studi della scuola media la mia scoperta del mondo fu andando a studiare a 80 km dal mio paese dove frequentai il ginnasio e il liceo. Fu la rivelazione di un mondo nuovo e diverso. Barcellona era spagnola, catalana, sia di nome che di fatto, gli abitanti erano diversi da quelli del mio paese. Avevano un senso più libertario, erano delle persone più intraprendenti, meno ancorate a una geometria di accortezza, parca, che era il mondo del mio paese.
C’era un nucleo di anarchici e c’era un anarchico che era un professore di veterinaria dell’Università di Messina, un poeta, che era andato in carcere durante il periodo del fascismo e che poi aveva capeggiato, nel secondo dopoguerra, una rivolta di braccianti, aveva ingaggiato una battaglia con i carabinieri, i carabinieri sparando e lui colpendoli con le tegole del tetto di casa sua. E poi fu imprigionato e liberato dalla prigione da Togliatti che lo fece mettere in lista per le elezioni di ’48. Diventò poi deputato. Questo personaggio mi aveva molto affascinato ed è stato molto importante nella mia vita. Con il suo libertarismo mi aveva fatto conoscere un altro modo per leggere il mondo, un modo più libero, più libertario, soprattutto di opposizione a quelli che sono i periodi di dittatura, di oppressione e di repressione.
D. Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

«Sono capitato in uno scaglione di ex detenuti e di persone che facevano il militare in ritardo, perché magari erano andati all’estero ed erano tornati, quasi tutti analfabeti. Io diventai lo scrivano del plotone, scrivevo le lettere per le famiglie di questi militari».
(Vincenzo Consolo)

Gli anni della formazione

Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?
Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

D. Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

a tesi, in Filosofia del Diritto, riguardava la crisi dei diritti della persona umana, della dichiarazione della Società delle Nazioni – allora non si chiamava ancora ONU. Verteva sulla crisi di questi diritti dell’uomo. Non mi sono laureato all’Università Cattolica, bensì all’Università di Messina. Qui a Milano, all’Università Cattolica, ho fatto tre anni. Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito. C’era stato il cognatino del mio fratello maggiore che era approdato prima di me alla Cattolica e quando in casa si fece la riunione per stabilire dove mandarmi a studiare, mio fratello maggiore disse: «Lo mandiamo a Milano», perché c’era il precedente del cognatino.
All’Università Cattolica c’erano molti studenti meridionali delle zone più depresse, della Calabria, della Lucania, della Puglia. Molti siciliani. Molti erano «a posto gratuito» perché avevano il certificato di povertà che rilasciavano i parroci. Questi miei compagni di scuola divennero poi, con gli anni, classe dirigente italiana. Molti eminenti uomini politici, democristiani, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco, i fratelli Prodi. Era l’Italia che riprendeva le sue fila. Io sono arrivato a Milano nel ’52 e quindi era ancora una Milano che si stava ricostruendo dopo la ferita della guerra.
Poi ho dovuto interrompere gli studi per un disguido di carattere burocratico – non avevo presentato i documenti di iscrizione all’Università per avere l’esenzione militare – ero stato chiamato militare, sono dovuto partire e sono capitato in uno scaglione di ex detenuti e di persone che facevano il militare in ritardo, perché magari erano andati all’estero ed erano tornati, quasi tutti analfabeti. Io diventai lo scrivano del plotone, scrivevo le lettere per le famiglie di questi militari. Finito il periodo militare che allora era lunghissimo, durava 18 mesi, mi trasferii a Messina dove mi laureai con un professore di filosofia del diritto, uno che aveva fatto parte della Costituente, un socialista. Mi laureai. Come alibi, per ritardare l’impegno con il lavoro, mi mise a fare la pratica notarile, prima presso un notaio del paese e poi andai a fare la pratica presso mio cognato che era notaio a Lipari, e ho vissuto questa bella stagione di peregrinazione per le isole Eolie, dove andavamo a fare i contratti, testamenti, compravendite e così via. Non diventai notaio. Quegli anni mi servirono per coltivare quella che era la mia passione per la lettura. Fu in quegli anni che cominciai a scrivere il mio primo romanzo, La ferita dell’aprile.
D. Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?

«Capii attraverso le letture e l’aggiornamento attraverso le riviste letterarie, cosa era successo: la conclusione di un’estetica letteraria che andava sotto il nome di neorealismo e la possibile collocazione come scrittore sulla linea di una scrittura comunicativa oppure di una scrittura espressiva o sperimentale, che dir si voglia».
(Vincenzo Consolo)

L’avventura della scrittura

Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?
Cosa L’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?
A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?
Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…

D. Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?

ì, rifiutai di fare qualsiasi attività di leguleio, avvocato o fare concorso di giudice o notaio. Ho insegnato nelle scuole agrarie. L’insegnamento in scuole sperdute, in paesini di montagna, mi serviva per conoscere meglio il mondo contadino che io volevo raccontare. Negli anni in cui avevo deciso di fare lo scrittore, gli schemi, gli esempi, gli archetipi nostri erano da una parte Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli e con il libro siciliano Le parole sono pietre, che parlano appunto dei due mondi contadino sotto il fascismo e dall’altra parte i miti di Pavese, diVittorini, soprattutto il Vittorini di Conversazioni in Sicilia. Io volevo conoscere questo mondo, volevo assolutamente rappresentarlo.
L’idea era di una scrittura di tipo sociologico, «alla Carlo Levi», però poi quando mi misi a scrivere, con la consapevolezza che acquisii di quello che era successo letterariamente prima che io cominciassi a scrivere, di quello che si stava svolgendo allora in Italia, in campo letterario, capii attraverso le letture e l’aggiornamento attraverso le riviste letterarie, cosa era successo: la conclusione di un’estetica letteraria che andava sotto il nome di neorealismo e la possibile collocazione come scrittore sulla linea di una scrittura comunicativa oppure di una scrittura espressiva o sperimentale, che dir si voglia. La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava, attraverso altri scrittori, come Gadda e Pasolini di quegli anni. Pasolini nel ’61 aveva pubblicato il suo saggio sulla lingua italiana che si chiamava Nuove questioni linguistiche, dove diceva della trasformazione della lingua italiana. In parallelo, quello che era accaduto nel nostro Paese sul finire degli anni ‘50, inizio ’60, della grande trasformazione italiana, della grande emigrazione.
D. Cosa l’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?

uesto mondo, l’ho espresso in parte con il mio primo libro, il libro dell’iniziazione La ferita dell’aprile, dove ho raccontato quello che era il clima sociale, politico del secondo dopoguerra, le prime elezioni regionali in Sicilia del ’47 e le elezioni del ’48. Sappiamo che in Sicilia si era perpetuato un sistema economico di tipo medioevale che era quello del latifondo e del feudalesimo. Già alla fine dell’800 si erano tentate delle riforme agrarie mai attuate. Il fascismo, trionfalisticamente, aveva cercato di adottare una riforma agraria che andava sotto il nome di «assalto al latifondo» ma era stato un inganno e una finzione. Nel secondo dopoguerra, queste istanze popolari, soprattutto del mondo contadino, si erano di nuovo ricreate. La storia di quegli anni è nota, restituita ormai dai libri di storia, dalla filmografia, l’ultimo film che abbiamo visto in questi giorni è stato Placido Rizzotto ma ci sono stati tanti «Placido Rizzotto» in Sicilia, tanti sindacalisti uccisi dalla mafia alleata con il potere degli agrari. Il movimento indipendentista siciliano cercò un escamotage per staccare la storia della Sicilia dalla storia italiana e farla diventare un’isola indipendente, dove il gioco del potere nella conservazione sarebbe stato più facile.
L’opposizione dei contadini a questo movimento indipendentistico culmina con la storia di Giuliano, il bandito ingaggiato da questi agrari indipendentisti, che insieme alla mafia gli avevano armato la mano per fare sparare sui contadini che a Portello delle Ginestre festeggiavano il Primo Maggio. Questo episodio riguardava l’elezione del ’47, in cui c’era stata la vittoria della sinistra che andava sotto il nome di «Blocco del popolo», seguita dal revanchismo della conservazione alle elezioni nazionali del ’48 e la vittoria della DC, grazie anche all’episodio della strage di Portello delle Ginestre, che aveva fatto da intimidazione alle forze progressiste. Io ho cercato di raccontare questo periodo della storia siciliana in questo mio libro. Poi si era attuata la riforma agraria, nel ’50, ancora una volta una riforma fittizia, perché i contadini assegnatari non avevano modo né strumenti né mezzi per coltivare queste terre, che erano terre che non davano profitto perché erano terre aride, dove mancava l’acqua. Così i contadini sono stati costretti a fare la loro valigia di cartone, a emigrare . E questo è stato il grande esodo meridionale.
Il mito del mondo contadino, mentre ero lì, mi era sparito sotto gli occhi. Il mondo contadino finiva, la gente era costretta ad andare, c’era questo famoso «treno del sole» che si riempiva di emigranti che arrivavano a Milano e venivano smistati nell’Europa centrale, nelle miniere del Belgio, in Francia e in Svizzera oppure andavano a Verona e venivano convogliati in Germania. Da contadini si trasformavano in operai e andavano nelle fabbriche del centro Europa, oppure rimanevano nel triangolo industriale nel Nord Italia. Ci sono tanti libri e inchieste su questa emigrazione interna nostra e su tutto quello che era avvenuto in quegli anni. Ho assistito alla fine, de visu, di questo mondo contadino e ho quindi visto l’inutilità del mio stare in Sicilia. Io volevo vedere da vicino questa grande trasformazione della realtà italiana.
Sollecitato anche da due intellettuali, Vittorini e Calvino, che allora pubblicavano una rivista che si intitolava «Menabò», che invitavano i giovani intellettuali italiani a studiare questa nuova realtà italiana, il processo di industrializzazione del nostro paese, l’inurbamento delle masse meridionali sono arrivato a Milano nel ’68 perché volevo vedere questa grande trasformazione. Mi sono inurbato e prima di partire mi sono consultato con due miei grandi amici, due persone assolutamente diverse e opposte come nascita. Erano due scrittori: uno era Leonardo Sciascia e l’altro era, un poeta, un barone, Lucio Piccolo di Cala Novella, che era cugino diLampedusa e che ho frequentato per tanti anni, perché abitava a Capo d’Orlando vicino al mio paese. È stato un grande maestro per me perché era un uomo sapientissimo, conosceva la letteratura e la poesia mondiale in un modo meraviglioso. Conosceva parecchie lingue, era stato scoperto da Montale, pubblicato da Mondadori. Quando decisi di partire, Sciascia mi spinse a partire, qui non c’è più speranza, se io fossi più giovane e non avessi famiglia partirei anch’io. Io ero più giovane, ero libero e quindi più disinvolto. Piccolo invece, che aveva una concezione romantica della letteratura, mi diceva: non parta, perché rimanendo lontani si ha più fascino, se raggiunge i centri culturali, lì diventa uno come tanti altri. Lui non pensava che potessi avere delle altre necessità, di vedere questo nuovo mondo che stava nascendo.
Sono arrivato a Milano nel ’68 perché volevo vedere questa grande trasformazione. Nel ’67 avevo fatto un concorso alla fatidica RAI. La chiamo fatidica perché gran parte degli scrittori sono passati attraverso questa grande madre corruttrice che è stata la RAI. Io feci questo concorso per funzionari e lo vinsi. Fummo in 5 su una pletora di concorrenti. Nel concorso si chiedeva tutto lo scibile umano: storia della letteratura, storia del cinema, del teatro, con una commissione molto ampollosa dove c’erano Strehler, Paolo Grassi, il Prof. Apollonio, dirigente della Rai, Leone Piccione e tanti altri. Sono stato assunto a 150.000 lire al mese e nel ’68 presi servizio alla sede di Milano.
D. A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?

«Al di qua della morte, mentre siamo in vita, il dovere dell’intellettuale è quello di essere partecipe a quelli che sono i destini di infelicità dell’uomo, che risiedono nelle zone di marginalità della società, nelle classi meno privilegiate, meno abbienti, e quindi bisogna capire quali sono le condizioni di questi emarginati e perché questi emarginati in certi momenti tragici arrivano a dei gesti estremi».
(Vincenzo Consolo)

L’avventura della scrittura

Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?
Cosa L’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?
A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?
Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…

D. A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?

uando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa sarebbero stati gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo.
In quegli anni, negli anni in cui pubblicai il primo libro, era venuto alla ribalta il Gruppo avanguardistico «63», la cui prima riunione si era svolta a Palermo. C’erano nomi che sono poi diventati famosi: c’era Umberto Eco, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi. Io andai a sentire questi avanguardisti nel momento in cui avevo finito di scrivere il mio libro e mi convinsi, ascoltandoli, che non avevo niente da spartire con loro, la mia scelta era diametralmente opposta alla loro. Pasolini ha fatto una chiarificazione molto netta tra sperimentalismo e avanguardia, due cose assolutamente diverse tra loro. La mia scelta stilistica si poneva sul versante, della sperimentazione. Quindi i temi che sono confluiti nel mio secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Lo sfondo del libro è storico. Rievoca il 1860, l’arrivo di Garibaldi in Sicilia, che doveva sottrarre al giogo del regno borbonico le zone meridionali, il Regno delle Due Sicilie, le speranze che si erano accese al suo arrivo, come i contadini siciliani avevano inteso l’Unità d’Italia. L’avevano intesa come trasformazione sociale. Finalmente sarebbe stata restituita loro la giustizia che gli era sempre stata negata. Il protagonista del mio libro era uno scienziato che si chiamava Mandralisca, un personaggio storico che, seppure nel passato, da giovane, avesse vissuto una vicenda da rivoluzionario risorgimentale (aveva partecipato ai moti rivoluzionari del ’48), poi invece si era rinchiuso nella sua casa di Cefalù e si era dato allo studio delle lumache. Era un collezionista d’arte perché la moglie era di Lipari, dove lui comprava o reperiva oggetti archeologici. La sua casa era diventata una sorta di museo. Ma soprattutto il barone possedeva un quadro: un ritratto di Antonello da Messina. Ho fatto convergere questi elementi per imbastire la mia narrazione, in cui il personaggio del mio romanzo, questo Barone di Mandralisca, si discosta dal Principe di Salina deIl Gattopardo, il quale guarda questi medesimi avvenimenti storici con estremo disincanto. Per il Gattopardo niente ha valore perché sempre c’è questo appuntamento col momento della morte, perciò i cambiamenti storici sono assolutamente inutili. C’era una visione metastorica in Salina. Io ho voluto dire il contrario: al di qua della morte, mentre siamo in vita, il dovere dell’intellettuale è quello di essere partecipe a quelli che sono i destini di infelicità dell’uomo, che risiedono nelle zone di marginalità della società, nelle classi meno privilegiate, meno abbienti, e quindi bisogna capire quali sono le condizioni di questi emarginati e perché questi emarginati in certi momenti tragici arrivano a dei gesti estremi. Cercare di capire quali sono i motivi che li spingono a tanto, loro che non hanno il potere della scrittura, perché la storia è una scrittura continua dei privilegiati, la storia la scrivono sempre quelli che vincono, e quindi era anche un meta-romanzo nel senso che la riflessione era anche sul potere della scrittura letteraria e quindi c’era un’impostazione stilistica e strutturale del libro che metteva in luce queste domande che allora si agitavano nei dibattiti culturali e sulle riviste letterarie.
D. Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…
Per la verità non è che tutta la stesura… la vicenda del Sorriso io avevo scritto i primi 3 capitoli e lì mi ero bloccato, non ero andato più avanti perché non volevo finire questo libro. Racconto questo episodio perché è interessante: mentre io ero giù in Sicilia e lavoravo al giornale «L’Ora», il giornale mi aveva mandato a seguire un processo in Corte d’Assise a Trapani, io dovevo fare la cronaca, e spedire da Trapani, perché c’era una redazione del giornale a Trapani, spedire due articoli. Spedire significava scrivere velocemente in albergo questi due articoli, uno di cronaca, del processo, e poi dirò di che processo si tratta, e uno di considerazioni, di riflessioni. Finiti gli articoli dovevo correre alla stazione per spedirli per treno, perché allora non si dettava al telefono, non c’erano i fax, eravamo ancora in un mondo arcaico.
Il processo era il processo al cosiddetto «Mostro di Marsala» ed era un tipo, uno di Marsala, un alienato che aveva ucciso tre bambine, che non aveva violentato, non era un caso di pedofilia. Questo criminale deficiente aveva preso queste tre bambine e le aveva buttate in una cava, dove erano morte di inedia. Un delitto inspiegabile. Il pubblico ministero in quel processo era un giudice che si chiamava Ciaccio Montalto, che è stato poi ucciso dalla mafia. La sua tesi era che il padre di una bambina, che si chiamava Valente, era un corriere della droga. A un certo punto lui aveva voluto smettere con questi legami, con questi che avevano il monopolio della distribuzione della droga, che erano i mafiosi, e quindi era emigrato in Germania. I mafiosi per fare tornare in Sicilia questo Valente avevano detto a questo deficiente di rapire la bambina. E la bambina usciva di scuola ed era in compagnia di altre due amichette. Lui aveva preso tutte e tre e avevano fatto una fine tragica. Questa era la tesi di Montalto. Un giorno, alla fine di una delle sedute di questo processo, Ciaccio Montalto mi fa segno di avvicinarmi e mi dà una pianta, dicendomi: questa è la pianta di casa mia, dove abito – abitava a Val d’Erice – stasera venga a cena che le voglio parlare. Venga da solo – c’era mia moglie con me. Mi sentivo già in un’atmosfera da romanzo poliziesco alla Sciascia, mi sembrava di vivere dentro un film di Francesco Rosi. La sera, con la mia piccola Dyane, andai a Val d’Erice, a cena da Ciaccio Montalto e lui, dopo cena – abbiamo parlato di letteratura, politica – mi disse: io ricevo minacce, sia con lettere anonime sia per telefono, minacce di morte, se mi capita qualcosa lei lo scriva. Fatto è che il processo finì, io tornai a Milano e dopo non so quanti anni questo poveretto viene ucciso, proprio nel momento in cui decide di lasciare la Sicilia e doveva essere trasferito in Toscana. Lui stava indagando sui rapporti di «Cosa Nostra» trapanese con la mafia americana, sul traffico della droga. Ciaccio Montalto viene fatto fuori e io lo scrivo sul «Messaggero» di Roma e scrivo questa vicenda di lui che mi aveva detto così. Io a Ciaccio Montalto avevo detto: «ma scusi, perché lo dice a me e non ai suoi superiori, ai magistrati?» e lui candidamente mi dice: dei miei superiori non mi fido. Quindi la situazione della magistratura era quella che era. Io ho raccontato la vicenda sul Messaggero e Sciascia allora era deputato a Roma e fa un’interrogazione alla Camera su questa vicenda che avevo raccontato. Il Ministro degli Interni, Rognoni, disse che non gli risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto delle minacce anonime. Giacomo Ciaccio Montalto era un giovane straordinario, intelligente, colto. Dicevo, che mentre ero lì, mi arrivano le bozze dei primi due capitoli del mio libro che io avevo dato a uno stampatore di Milano che era un bancarellaio, un libraio di origine siciliana, si chiamava Manusei e volevo finire questo libro, volevo spendere questi due capitoli con questi due racconti in un’edizione numerata con un’incisione di Guttuso. Mi arrivano le bozze di questo libro e capita in Sicilia, in quel frangente, un mio amico che era Corrado Stajano. Arriva a Palermo con la moglie, mi telefona e con mia moglie e con lui ci incontriamo a Palermo. Avevo corretto le bozze e le consegno a lui da portare su a Milano a questo stampatore, lui legge questi due capitoli del libro e rimane molto colpito e scrive un articolo su «Il Giorno». Dopodiché io ricevo parecchie lettere da editori, fra cui anche Einaudi, e allora io sono stato costretto, tornando a Milano, a finire questo romanzo nell’arco di poco tempo e quindi dal terzo capitolo in poi la scrittura è stata molto più rapida, veloce.
D. Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto», ossia al caos: invitava alla ricerca di soluzioni razionali di problemi dell’uomo o almeno di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio», così come scriveva nelle Città invisibili. A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?

«Si arrivava a una sorta di afasia, di impraticabilità della scrittura che era speculare (sia quella dei futuristi che quella del «Gruppo ‘63») alla pseudo afasia del potere. Erano due pseudo afasie che corrispondevano. Gli uni per impraticabilità di questo linguaggio, gli altri per occultamento della verità, perché il potere occulta sempre la verità».
(Vincenzo Consolo)

Poetica di Vincenzo Consolo

Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto». A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?
Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e inRetablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti…» Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?
È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?
Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

D. Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvinolanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto», ossia al caos: invitava alla ricerca di soluzioni razionali di problemi dell’uomo o almeno di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio», così come scriveva nelle Città invisibili. A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?

a mia posizione era perfettamente aderente a quello che era stato il suggerimento calviniano. Io seguivo molto in quegli anni i temi che si dibattevano su questa rivista che era appunto «Menabò», pubblicata da Vittorini e Calvino.
Vittorini aveva visto soprattutto la trasformazione linguistica e pensava alla nascita di una nuova koinè dall’incrocio dei dialetti meridionali con quelli settentrionali. Lui aveva poca fiducia nei dialetti meridionali perché diceva che erano portatori di rassegnazione e anche di furbizia e corruzione morale. Non aveva tutti i torti perché i dialetti meridionali sono quasi sempre ammiccanti, eufemistici mentre lui trovava i dialetti del Nord Italia, proprio perché crescevano su una realtà sociale diversa, molto più espliciti e più leali, più comunicativi. Non immaginava Vittorini, come poi ha visto Pasolini, che su questa ipotetica koinè sarebbe poi sorta una super-koinè che sarebbe stato il nuovo italiano di tipo tecnologico e aziendale che i mezzi di comunicazione di massa, che allora esplodevano, avrebbe diffuso nel nostro paese, trasformando la lingua italiana.
Il suggerimento di Calvino di dare ordine al caos era un suggerimento del tipo razionalistico-illuministico e alla fine anche un suggerimento di ordine etico e morale. Perché io credo che questa sia la funzione dell’intellettuale e dello scrittore, quella di cercare l’ordine, la ragione di fronte al caos di sempre, non solo dell’epoca di cui parlava Calvino. Al contrario c’era in quegli anni un’avanguardia, rappresentata dal Gruppo ‘63, i cui esegeti, i cui teorici proclamavano che bisognava rompere i nessi di tipo semantico o di tipo sintattico perché questa frattura dei nessi, questo caos linguistico e strutturale rappresentava il caos della società. Uno di questi teorici era Angelo Guglielmi. Questo programma del Gruppo ‘63, non faceva altro che ripetere quello che era stato il programma dei futuristi, soprattutto di Marinetti, il quale aveva dettato un decalogo per poter accedere alla scrittura e proclamava: primo, abolire i verbi, mettere i verbi all’infinito, secondo, abolire gli avverbi; terzo, abolire non so che cosa. Si arrivava a una sorta di afasia, di impraticabilità della scrittura che era speculare (sia quella dei futuristi che quella del Gruppo ‘63) alla pseudo afasia del potere. Erano due pseudo afasie che corrispondevano. Gli uni per impraticabilità di questo linguaggio, gli altri per occultamento della verità, perché il potere occulta sempre la verità.
L’ha studiato molto bene Pasolini con il suo saggio del 1961 Nuove questioni linguistiche, prendendo come esempio del cambiamento linguistico italiano un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. Si capiva che era un linguaggio tecnologico aziendale astratto dove quella che era la realtà e la logicità veniva messa in secondo piano – se c’era – veniva occultata da questo linguaggio assolutamente illogico, di tipo «caotico».
D. Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e in Retablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti». Per restare alla metafora di Retablo, che è poi la metafora del palinsesto, (che è poi la situazione dell’intellettuale contemporaneo «politically correct», che scrive sul retro di fogli già utilizzati) Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?

ì. La scelta dei temi, che sono temi storici metaforici e la scelta di questo tipo di linguaggio che è un linguaggio di tipo palinsestico, che è una scrittura su altre scritture, è quello che distingue lo scrittore, del mio tipo, impegnato con la storia, impegnato con le vicende della società e d’altra parte anche uno scrittore di tipo sperimentale, molto attento alla forma, che non ha una scrittura di tipo razionalistico-illuministico. Voglio dire che gli scrittori illuministi come Moravia, Calvino, Sciascia usano, indifferentemente per qualsiasi tipo di argomento, questo strumento linguistico estremamente razionale, referenziale, comunicativo. Lo scrittore di tipo sperimentale usa un controcodice, che è un codice espressivo che tiene conto della tradizione letteraria e linguistica e quindi cerca di portare nella sua scrittura tutti gli echi che fanno parte della nostra tradizione letteraria. Gli avanguardisti al contrario operano una sorta di azzeramento dei linguaggi e su questo azzeramento poi costruiscono un linguaggio artificiale, che è quello di cui parlavo prima e che diventa un linguaggio poco praticabile e incomprensibile. Lei ha riportato quella frase di Retablo che è emblematica. Gli sperimentalisti tengono conto di quello che è la tradizione letteraria e su questa tradizione cercano di elaborare sperimentando e cercando di far coincidere quelle che sono le istanze del nostro tempo e di trasferirle sulla scrittura, di far coincidere cioè il libro con il tempo in cui opera, anche se il romanzo è di sfondo storico, in cui vi sia quella vitalità, quella gente che attualizza il romanzo storico attraverso la metafora e lo fa sembrare lo fa essere specchio della contemporaneità, del momento in cui lo scrittore si trova a rappresentare un fatto, a raccontare un evento. Il padre del romanzo storico nella letteratura italiana moderna è stato Alessandro Manzoni, lui ci ha insegnato cos’è il romanzo storico metaforico. Naturalmente c’è un’assoluta diversità tra i romanzi di Walter Scott da cui sembra che Manzoni abbia preso l’idea e I promessi sposi del Manzoni. In Scott non c’è metafora, sono delle storie romanzate, mentre il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché si parla del passato per illuminare il presente perché i fatti di quel passato che si è scelto di raccontare somigliano terribilmente ai fatti della nostra contingenza, del nostro presente: Manzoni parlava del ‘600 per parlare dell’800 perché nell’800 c’erano gli stessi rischi C’erano i rischi delle stesse follie, degli stessi marasmi sociali, degli stessi fanatismi, delle stesse pesti, delle stesse condanne, delle stesse torture.
D. È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?

«Il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché si parla del passato per illuminare il presente perché i fatti di quel passato che si è scelto di raccontare somigliano terribilmente ai fatti della nostra contingenza, del nostro presente».
(Vincenzo Consolo)

Poetica di Vincenzo Consolo

Negli anni delle neoavanguardie e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto». A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?
Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e inRetablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti…» Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?
È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?
Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

D. È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?

ì, la consapevolezza di sapere che la storia è maestra di vita anche se poi continuiamo a fare gli stessi errori. Se guardiamo la storia vediamo però che gli uomini, in un determinato momento, si sono comportati in un determinato modo, hanno fatto quegli errori e allora la consapevolezza storica può suscitare una certa saggezza, evitare gli errori, dal punto di vista personale ma anche dal punto di vista collettivo. Questo nostro tempo è un tempo in cui il passato e la storia diventano uno scandalo, qualcosa da rimuovere e da cancellare, perché il potere politico ci impone di vivere in un infinito presente, dove non si ha consapevolezza del passato, della storia. Era Pasolini che parlava dello scandalo del passato, della rievocazione del passato e invitava a rievocarlo, a trasferirlo nel presente e questo passato diventa scandaloso e ingombrante, irritante da parte del sistema del potere. La letteratura in sé, in questo nostro contesto, è qualcosa di perturbante, qualcosa che crea scandalo perché non è dominabile.
D. Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

ho espresso, ho cercato di raccontarlo nel mio libro L’olivo e l’olivastro che è un libro al di fuori della finzione narrativa, in cui il protagonista non ha nome. È scritto in terza persona ma si capisce che l’io narrante è il protagonista di questo viaggio nella realtà. Non c’è finzione letteraria. È un viaggio in Sicilia, una ricognizione della mia terra, vedere quali sono stati i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori. Però nel libro Ho raccontato la fuga, dopo un terremoto, quello della Valle del Belice nel ’68, l’anno in cui sono arrivato a Milano. Era un terremoto anche metaforico. Il ritorno del protagonista che non fa che verificare con questo viaggio in Sicilia, che le realtà, sia pure economicamente diverse, le realtà che si chiamano di desiderio sono assolutamente uguali. Si desiderano le stesse cose, si parla lo stesso linguaggio e quindi c’è l’omologazione assoluta, l’uniformità in tutte le dimensioni sia nella terra del terremoto sociale sia nella terra della ricchezza. Ci sono solo differenze economiche anche se Sicilia e Lombardia, se Sicilia Nord Est fanno parte dello stesso contesto di primo mondo. All’interno ci sono differenze: maggiore disoccupazione, meno consumi, ma quello che gli economisti chiamano la «offlimità», cioè i desideri provocati, indotti sono uguali sia al Nord che al Sud. Al Sud c’è forse più frustrazione perché i desideri non si possono soddisfare. Non si può avere la macchina o la cucina o la seconda casa. Al Nord ci sono altri tipi di infelicità. Il fatto di ridurre l’uomo soltanto alla dimensione del lavoro, della produzione e del consumo, dove non si aprono altri spazi, spiragli di libertà, come quella sorta di visione kafkiana della colonia penale. Le società sviluppate, affluenti, pagano duramente questo prezzo di venire condannate alla colonia penale. Ogni tanto mi viene di pensare alla società giapponese, a queste creature, questi uomini che vivono roboticamente in questa assoluta condanna al lavoro, al consumo senza nessuna libertà. Mi sono accorto, durante l’ultimo viaggio, come questa nostra nevrosi, questa alienazione, in Spagna non è arrivata del tutto. La gente ama ancora stare insieme, chiacchierare, andare nei bar, perdere tempo. Forse è dovuto al ritardo loro, alla dittatura di Franco, non c’è il dominio della televisione. La gente sta in mezzo alla strada, non si chiude in casa a vedere la tele. Eppure Madrid è una città fredda, è un clima continentale.
E quindi poi tutto questo l’ho trasferito con la finzione narrativa che diventa Lo spasimo di Palermo, questo ritorno nell’isola da parte di questo protagonista che si chiama Gioacchino Martinez, che ritorna nella sua Itaca, da cui era stato costretto a scappare. Sono due libri che bisogna mettere insieme, un primo e un secondo tempo.
D. Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo è chiuso nel silenzio e non riesce più a scrivere. Lei stesso ha affermato, riferendosi all’opera teatrale Catarsi, che scrisse nel 1989: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…

«È necessario comunque scrivere, ma scrivere in una forma che sia non più dialogante, riducendo la parte dialogica, comunicativa , spostarsi sempre di più verso la parte espressiva, la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo».
(Vincenzo Consolo)

Dalla parola al silenzio

Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Lei stesso ha affermato: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…
Si può dire cheCatarsi non sia un esperimento isolato…
In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?
Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

D. Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo è chiuso nel silenzio e non riesce più a scrivere. Lei stesso ha affermato, riferendosi all’opera teatrale Catarsi, che scrisse nel 1989: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…

o sento molto che oggi lo scrittore è stato espulso dalla società e quindi non ha più parole per comunicare con questa società e quindi la tentazione è proprio l’afasia, nel senso che si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il contesto situazionale. Questo tema dell’afasia l’ho espresso in questa mia operetta che si chiamaCatarsi dove prendevo spunto dalla morte di Empedocle e parlavo di un Empedocle moderno, contemporaneo, che tenta il suicidio sulle falde dell’Etna. È un Empedocle che si trova in una situazione estrema. Estrema perché è vicino al cratere di un vulcano ed estrema perché è sul punto di chiudere la sua vita con il suicidio. Quindi il suo linguaggio è un linguaggio che non è più comunicabile. Perché sono arrivato a questa conclusione? Perché penso che oggi il testo letterario, naviga nell’assoluta insonorità di un contesto situazionale. Non trova più il suo referente, non trova più l’ascolto. Portavo l’esempio della tragedia greca perché lì c’è un personaggio l’«Anghelos» (il messaggero) che arriva sulla scena e racconta agli spettatori presenti nella cavea un fatto accaduto in un altro momento, in un altro luogo. Da questo racconto, molto comunicativo, del messaggero, può avere inizio la tragedia, cioè i personaggi della tragedia si muovono e poi c’è il coro che commenta in un tono più alto, con un tono poetico e con il canto e con la danza commenta e lamenta l’azione scenica. Questo è la tragedia per esempio moderna di Euripide dove dice Nietsche ne La nascita della tragedia che c’è appunto nella tragedia di Euripide, in questa articolazione della tragedia del messaggero dei personaggi e del coro, c’è l’irruzione dello spirito socratico, c’è il ragionamento. Il ragionamento è quello del messaggero, che si rivolge ai personaggi della cavea. Oggi dico che nel nostro contesto, nella civiltà di massa, il pubblico della cavea non c’è più. La tragedia si svolge in un teatro vuoto. Non ci sono più spettatori. L’unico modo per rappresentare la tragedia è quella di relegarla nella zona del coro, con un lamentare e commentare la tragedia del nostro tempo in un tono alto, con una forma musicale. Cioè far agire soltanto quello che Nietsche chiama lo «spirito dionisiaco», che è proprio della poesia. Io credo che questa forma letteraria che si chiama romanzo, narrazione, oggi si possa praticare soltanto in una forma poematica. Non è più possibile praticare una scrittura comunicativa che era quella del messaggero, che era lo scrittore di una volta, che narrava e narrando faceva poi delle riflessioni sull’azione narrativa. Quello che faceva Manzoni con le sue riflessioni o tutta la letteratura dell’800. Era lo scrittore che interveniva con la sua autorevolezza e commentava la vicenda che stava raccontando. Oggi non si può più raccontare. Io contesto le teorie di Milan Kundera che considera il romanzo come una commistione di narrazione e filosofia. Io credo che questo spirito socratico, riflessivo e comunicativo oggi non sia più possibile. Credo che si possa narrare soltanto in forma poetica e quindi nella forma meno mercificabile e meno comunicabile possibile.
D. Si può dire che Catarsi non sia un esperimento isolato…

on è isolato perché poi questa idea l’ho sviluppata ed esplicitata maggiormente ne Lo spasimo di Palermo dove nell’epigrafe Prometeo incatenato dice: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». Significativamente il protagonista è uno scrittore che ha praticato un tipo di scrittura sperimentale (naturalmente è autobiografico) espressiva che decide di non scrivere più perché arriva all’ultimo stadio della sua sperimentazione, non solo letteraria ma anche all’ultima esperienza della sua vita. Decide di tornare nell’isola da cui era partito e che aveva lasciato anni prima, dovuto a necessità, a distacco da una terra che era diventata invivibile, barbarica. Torna e trova la sua conclusione, la sua fine. È un Ulisse che viene ucciso dai Proci, da quelli che Pirandello ha chiamato «i giganti della montagna» che possono essere di qualsiasi tipo. Quindi è uno scrittore afasico, uno scrittore che decide di non scrivere in forma narrativa e di scrivere in altre forme: saggistica, ricerca storica… e si propone di fare delle ricerche su altri temi.
È necessario comunque scrivere, ma scrivere in una forma che sia non più dialogante, riducendo la parte dialogica, comunicativa , spostarsi sempre di più verso la parte espressiva, la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo. Questa forma più alta che non sia la forma comunicativa. Parlo di forma non di contenuto, la forma poetica. Per questo la mia prosa è organizzata in senso ritmico, come se fossero dei versi.
D. In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?

Ho scelto questo argomento degli anni ’20, della nascita del fascismo perché mi sembrava che nel momento in cui scrivevo il libro ci fossero tutti i segni che corrispondessero a quei segni di allora, nel senso di crisi delle ideologie, si parlava allora di riflusso e quindi insorgere di nuove metafisiche, di settarismi, … … si cominciava a parlare di new age e queste cose qui, che mi sembrano tutte forme di irrazionalismo che preludono – speriamo che non avvenga – a delle forme fascistiche di assetti politici di tipo fascistico».
(Vincenzo Consolo)

Dalla parola al silenzio

Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Lei stesso ha affermato: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…
Si può dire cheCatarsi non sia un esperimento isolato…
In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?
Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

D. In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?

nche quello era un esperimento, nel senso che c’era un rifiuto. Questo l’ho sempre teorizzato e praticato, il rifiuto della forma romanzesca, perché credo che oggi non si possono scrivere romanzi. Chi scrive romanzi è in malafede o è ignorante. Voglio essere radicale, per un volta, credo che nel nostro contesto non si possa più praticare questa forma narrativa che è stata di nobilissima tradizione in Europa e non solo. In questa mia concezione della narrazione non romanzo si inquadrano queste due opere che vengono dette «teatrali» ma molto teatrali non sono, nel senso che non hanno una loro rappresentabilità ma sono opere da leggere. In Lunaria che è una sorta di racconto fantastico dove si riprende un tema leopardiano della caduta della luna che significa la caduta di una cultura, di una civiltà, non ho voluto adottare la forma narrativa e ho ridotto il racconto alla forma dialogica per cui fatalmente prendeva un aspetto teatrale. Quindi io nego che l’operetta possa essere rappresentata perché è un teatro di parola secondo il Manifesto pasoliniano, è un linguaggio molto alto e pieno di riferimenti culturali. È stato senz’altro rappresentato, ma io non parto da presupposti teatrali, parto da presupposti narrativi e dico che è una fiaba raccontata in forma dialogica, senza quelle parti diegetiche che ci sono nelle narrazioni tradizionali.
Io ho cercato di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese.
D. Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

uesto è il secondo momento della trilogia, dell’arco storico che ho voluto rappresentare. È un romanzo che si svolge negli anni ’20 e che vuole raccontare la nascita del fascismo vista da un paesino della Sicilia. Per la seconda volta mi sono trovato il paese di Cefalù come teatro per i miei personaggi. Personaggi storici veri e come sempre succede nei romanzi storici anche con personaggi di invenzione, come diceManzoni, personaggi che debbono avere il colore del tempo. La vicenda è presto detta: c’è una famiglia che si chiama Marano, il protagonista è un giovane maestro di scuola che si chiama Pietro Marano. Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura meridionalista. Questo maestro ha una famiglia infelice, malata, perché oltre alla memoria genetica di questa violenza iniziale della costrizione a cambiare cultura e religione, c’è anche il passaggio di classe di questa famigliola che da contadina diventa famiglia di piccoli possidenti, grazie a un eccentrico signore locale, un barone, un libertario, un tolstojano, che aveva privilegiato questa famiglia, piuttosto che il nipote, che era un perfetto imbecille, uno di questi baronetti di provincia. Questo cambio di classe da contadini a piccoli proprietari terrieri li porta a dover ubbidire alle regole della piccola borghesia, per cui i comportamenti devono essere assolutamente diversi, il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione: nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari. Il padre di questo ragazzo soffre di depressione, malinconia e, preso da questo lacerante dolore dell’esistere, la notte esce. La sorella che si chiama Lucia non può sposare il giovane pastore di cui è innamorata perché non appartiene più alla sua classe e quindi c’è questa sorta di mutilazione sentimentale e la ragazza impazzisce. Il ragazzo si trova di fronte a questa infelicità familiare e immagina – in questa sua solitudine, nel sopportare questo peso di dolore – che in una società più giusta e più armonica, questo dolore privato e familiare si possa distribuire nella società, trovare consolazione nella società. Quindi abbraccia il credo socialista di quegli anni e trova inganno anche lì perché trova dei massimalisti, degli estremisti che lo portano verso deviazioni per cui questo giovane maestro è costretto a scappare e a rifugiarsi in Tunisia, esule, perché ricercato dalla polizia. Intanto fallisce il socialismo in questo primo dopoguerra, c’è la crisi delle ideologie, una crisi sociale, disoccupati, reduci che reclamano diritti e c’è un decadentismo culturale, l’insorgere di nuove metafisiche, di sette religiose. Un personaggio emblematico è un inglese satanista che approda a Cefalù, dopo una vita di peregrinazioni per il mondo inseguendo questi esoterismi, e immagina che a Cefalù, creando una chiesa, l’Abbazia di Telema, si possa soppiantare il cristianesimo ed instaurare l’era di Satana. Questo personaggio inglese che si chiamava Aleister Crowley, che aveva conosciuto tutti i maggiori intellettuali dell’epoca, del primo dopoguerra, da Ferdinando Pessoa a Yates a Katherine Mainsfield, faceva parte di sette segrete, era approdato in Sicilia. Questo personaggio storico è simbolico di un certo decadentismo culturale, dell’insorgere in certi momenti di crisi ideologica, di nuove metafisiche, di nuovi misticismi sia di segno nero sia di segno bianco. Quando si sceglie un argomento storico non è che si sceglie a caso. Io ho scelto per Il sorriso dell’ignoto marinaio il 1860 perché mi sembrava che il tempo corrispondesse al tempo che stavamo vivendo in Italia negli anni ’70 e ho scelto questo argomento degli anni ’20, della nascita del fascismo, perché mi sembrava che nel momento in cui scrivevo il libro ci fossero tutti quei segni che corrispondessero ai segni di allora, nel senso di crisi delle ideologie, si parlava allora di riflusso e quindi insorgere di nuove metafisiche, di settarismi, si cominciava a parlare di new age e queste cose qui, che mi sembrano tutte forme di irrazionalismo che preludono – speriamo che non avvenga – a delle forme fascistiche di assetti politici di tipo fascistico. Ho cercato di raccontare cosa sono i decadentismi culturali e cosa sono le forme politiche che insorgono quando ci sono queste forme di decadentismo culturale e di crisi ideologiche.
D. Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”, intendendo il collegamento e l’intertestualità della sua scrittura con la scrittura di altri grandi scrittori, Gadda,Verga, Pirandello, Sciascia, Manzoni e così via. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?

«Io penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza».
(Vincenzo Consolo)

La questione linguistica

Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?
In un’intervista Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione alManifesto in difesa della lingua italiana.Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?
In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…
A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

D. Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”, intendendo il collegamento e l’intertestualità della sua scrittura con la scrittura di altri grandi scrittori: Gadda,Verga, Pirandello, Sciascia, Manzoni e così via. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?

o penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza. Io credo che capiti a tutti gli scrittori di immaginare un altro da sé, che sia un suo doppio. Calvino addirittura diceva che lui pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui. Qui c’è tutta l’ironia calviniana. Lui pensava a un lettore che avesse la stessa consapevolezza, la stessa conoscenza della letteratura che aveva lui ed era molto difficile. Io penso a uno che sia veramente il mio doppio che abbia la mia stessa storia, la mia stessa cultura, le mie stesse letture che faccia parte di una stessa sfera culturale. Quello che non mi riesce di fare, perché mi sembra ingannevole, è di essere condiscendente, di mettere in atto delle cose, delle strategie che diventano delle trappole, questi sono confini che non riesco a valicare. Questa rigidità però paga poco.
D. In un’intervista a «La Libreria di Dora» Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione all’iniziativa promossa dall’Associazione «La bella lingua» che si è concretizzata nel Manifesto in difesa della lingua italiana. Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?

ì, io non credo al dirigismo nella lingua. I francesi hanno tentato in tutti i modi di arginare l’invasione dell’americano con il solito loro sciovinismo, Nell’introduzione del mio libro avevo adottato un vocabolo inglese che si adattava benissimo al contesto, al tipo di racconto. L’hanno censurato e hanno messo un vocabolo francese.
La mia adesione a quel movimento per la salvaguardia della lingua italiana era un po’ mettere un allarme, di dire: stiamo attenti che questa nostra lingua sta sparendo. E in effetti è così. C’è però, paradossalmente, da una parte l’invasione della nostra lingua, che è una lingua fragile, perché la nostra è una società fragile dal punto di vista economico, rapportato ai paesi più potenti. Noi non abbiamo dei bacini di utenza della nostra lingua vasti come quelli inglesi o come quelli spagnoli. Non abbiamo avuto colonie, per fortuna, e quindi l’italiano si parla solamente in questa nostra piccola penisola. Dove avviene che con la rivoluzione tecnologica, con lo sviluppo economico questa nostra lingua, che è una lingua bellissima, una lingua complessa, forse una delle lingue più belle che esistano al mondo, che è una lingua complessa, è anche una lingua fragile, che sta per essere invasa da lingue che non appartengono alla nostra storia.
La bellezza della nostra lingua risiedeva nel fatto che aveva due affluenti: la lingua colta delle accademie, la lingua di cultura, quella che Dante chiama «la lingua grammaticale» e dall’altra parte le lingue popolari, i dialetti, che confluivano verso la lingua centrale. Due affluenti che determinavano un arricchimento continuo.
Oggi questi due canali sembra che si siano essiccati e così la nostra lingua è diventata una lingua orizzontale, rigida e anche fragile perché invasa da un super-potere che è un potere economico, che non è il nostro. Questa lingua viene assunta così, senza nessuna critica, matericamente da alcuni scrittori, soprattutto giovani, che non tengono più conto di quello che è l’aspetto linguistico. Da una parte abbiamo questo tipo di letteratura giovanile, giovanilistica, che diventa quasi una scrittura di tipo verbale, che mi ricorda un po’ i neonaturalisti, se si può usare questo termine, di assumere passivamente sulla carte quelli che erano i segni della società, senza nessun vaglio, nessuna ricreazione. Dall’altra c’è il bisogno, da parte di scrittori ma soprattutto dei poeti, di non praticare questa lingua e usare un’altra lingua, che è una lingua di ricerca, che è assolutamente diversa dal gergo di consumo che usiamo normalmente per cui un personaggio come Edoardo Sanguineti che viene dal Gruppo 63 può paradossalmente dichiarare di «fare l’elogio della lingua di Maurizio Costanzo» (popolare conduttore televisivo ndr), proclamando contemporaneamente che la lingua letteraria italiana, di alcuni scrittori italiani, credo del mio tipo, o di tipo sperimentale o meno, è una lingua paludata.
Questa esigenza di una lingua ormai impraticabile la sentono di più i poeti, infatti oggi i poeti sono tornati a scrivere in dialetto, che non è il dialetto che usavano i poeti dialettali, oggi si chiamano poeti «in dialetto” perché lo scelgono con molta consapevolezza e molto rigore per la necessità di trovare una lingua altra che non sia l’italiano impraticabile di oggi. Quando Pasolini scriveva in friulano, allora c’era una realtà dialettale che era quella della sua regione, fortemente connotata linguisticamente perché non era un dialetto ma quasi una lingua, il ladino o friulano che si parlava nella sua zona. L’adozione per esempio del romanesco o la polifonia gaddiana, questo orchestrare tutti i dialetti, perché sentivano che la lingua italiana era fortemente compromessa con il dannunzianesimo, aveva altri tipi di compromissioni, quindi perGadda c’era l’esigenza di orchestrare la polifonia dialettale italiana.Leopardi diceva che la ricchezza della nostra lingua stava nel fatto che non era una sola lingua ma tante lingue.
D. In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…

Portavo l’esempio anche di una mia esperienza personale nel secondo dopoguerra in questo saggio su «Autodafé», di come i preti all’oratorio dove ho frequentato le scuole medie ci impedivano di parlare in dialetto».
(Vincenzo Consolo)

La questione linguistica

Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?
In un’intervista Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione alManifesto in difesa della lingua italiana.Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?
In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…
A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

D. In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…

a trovavo quanto mai attuale. Portavo l’esempio anche di una mia esperienza personale nel secondo dopoguerra in questo saggio su «Autodafé», di come i preti all’oratorio dove ho frequentato le scuole medie ci impedivano di parlare in dialetto. Ed era un retaggio del periodo fascista perché il fascismo voleva cancellare i dialetti e dare una lingua unica a questo paese. Dare una lingua unica a una società che unica non è, che armonica non è… Questo si è potuto verificare in alcuni paesi dove c’era armonia sociale, per cui si è creata una lingua unica, uguale per tutti, senza queste digressioni dialettali, mi riferisco a un paese come la Francia. L’affermazione di Barthes scaturiva da un’affermazione di Renard, che diceva che la lingua francese è incapace di assurdi, di paradossi, perché è una lingua razionale, ma vivaddio è una lingua democratica, contestandola. Barthes diceva che la lingua in sé, il codice linguistico non è reazionario, né progressista, è semplicemente fascista. Appunto perché il codice linguistico che ci è imposto, ci impone di parlare in un determinato modo. Oggi più che mai la lingua che noi usiamo è una lingua fascistica perché appunto è elaborata soltanto dal potere economico e quindi dalla tecnologia. Oggi la lingua la impone il sig. Gates. I ragazzini assorbono tutta l’idiozia dei messaggi pubblicitari, nel linguaggio quotidiano ripetono passivamente questi messaggi. Quello è fascismo. Non sono linguaggi elaborati da loro, loro li ripetono come delle macchine, dei pappagalli.
D. A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

on ci sono sintomi. Mi fa impressione sentire – in confronto all’analisi che aveva fatto Pasolini sul politichese di Aldo Moro, su questa lingua astratta di tipo tecnologico aziendale – sentire i discorsi dei giovani politici di oggi. Già Aldo Moro aveva un background di tipo umanistico. Sentire oggi parlare signori come Berlusconi [Berlusconi Silvio, cavaliere, magnate dei mezzi di comunicazione, deputato, controverso fondatore del partito-azienda «Forza Italia» ndr], sembra di ascoltare il linguaggio dei robot. I suoi slogan, mi sembrano appartenere a un linguaggio robotico, pubblicitario, di assoluta forza persuasiva, con un’articolazione ridotta al minimo. I nessi sintattici sono pressochè inesistenti. Non c’è articolazione di pensiero, sono solo affermazioni apodittico che servono solo a intimidire e a persuadere. Così erano gli slogan che aveva coniato il nostroD’Annunzio per il Sig. Mussolini. Erano delle urla, delle frasi che cercavano di intimidire e persuadere.
D. Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?

«Man mano negli anni ho capito che la visualità, la pittura, era per me un modo per fare da contrappeso alla mia ricerca stilistica nel campo della scrittura, nel senso che io inseguo una sorta di musicalità della frase, della prosa, di dare una scansione, un tempo, un ritmo alla frase, di modo che la mia scrittura si avvicina molto a quella che è la scrittura poetica e di bilanciare questa sonorità con una parte visiva, di creare una sorta di equilibrio fra suono e visione».
(Vincenzo Consolo)

Letteratura e arte figurativa

Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?
Quale luogo scenario, ambiente interno o esterno, ricorre più frequentemente nei suoi romanzi e che funzione/valore viene ad assumere nei suoi testi?

D. Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?

Raffaelo, Lo spasimo di Palermo (dettaglio)

a avuto un’importanza enorme l’arte visiva, la pittura. Io sono nato in una sorta di deserto culturale, in un paesino della provincia siciliana dove non c’era una biblioteca, una pinacoteca, niente, insomma. Le uniche cose che vedevo erano le pitture religiose nelle chiese, per le quali non avevo molta attenzione. Da ragazzino andavo in villeggiatura a Cefalù e per la prima volta varcai un museo, il Museo Mandralisca, come il protagonista del mio romanzo e per la prima volta mi sono trovato davanti a questo ritratto di Antonello da Messina che mi impressionò molto Io ero un adolescente, avrò avuto 15-16 anni. Mi impressionò molto perché era un ritratto enigmatico un po’ sul tipo della Gioconda. Quando uno si trova davanti a questo quadro ci sono delle cose che ti muovono, che ti impressionano, che ti emozionano. Io non sapevo spiegare perché il sorriso di questo ignoto signore, detto popolarmente «l’ignoto marinaio», mi incuriosisse tanto. Perché notavo delle fisionomie che mi erano familiari: poteva essere la faccia di mio padre, dei miei zii, di mio nonno, era il tipo mediterraneo. Questo sguardo acuto del personaggio e questo sorriso ironico era un archetipo.
Da lì cominciò la mia curiosità nei confronti della pittura. Quando venni a studiare a Milano cominciai a frequentare le gallerie, le pinacoteche, ero molto incuriosito dalla pittura. Poi il ritratto di Antonello diventò per me un elemento di narrazione molto importante, fa da filo conduttore di tutto il romanzo (Il sorriso dell’ignoto marinaio NdR), e poi man mano negli anni ho capito che la visualità, la pittura, era per me un modo per fare da contrappeso alla mia ricerca stilistica nel campo della scrittura, nel senso che io inseguo una sorta di musicalità della frase, della prosa, di dare una scansione, un tempo, un ritmo alla frase, di modo che la mia scrittura si avvicina molto a quella che è la scrittura poetica e di bilanciare questa sonorità con una parte visiva, di creare una sorta di equilibrio fra suono e visione. Questa era l’esigenza.
In Retablo c’è addirittura un pittore come protagonista del romanzo, ma anche in Nottetempo, casa per casa c’è ancora il ritorno di Antonello da Messina, e ci sono anche altri riferimenti pittorici.
Ne L’olivo e l’olivastro ci sono due squarci narrativi, dove si entra nella finzione letteraria. Uno è il racconto della fuga di Caravaggio dall’Isola di Malta quando approda in Sicilia, arriva a Siracusa e gli viene commissionato dal Senato il Seppellimento di Santa Lucia. Io cerco di raccontare in forma narrativa questo soggiorno a Siracusa di Caravaggio, il momento in cui lui dipinge questo grande quadro che oggi si trova al Museo Bellomo. Infine poi ne Lo spasimo di Palermo c’è un quadro di Raffaello che si chiama Lo spasimo di Sicilia, un quadro che Raffaello aveva dipinto per la chiesa degli Olivetani di Palermo e che poi andò al re di Spagna Filippo IV ed ora si trova al Prado. Questo quadro commissionato dai padri olivetani era destinato alla chiesa che si chiama «Lo spasimo di Palermo». Raffaello intitolò il quadro Lo spasimo di Sicilia e questa parola «spasimo» prende una connotazione quasi universale, lo spasimo del mondo, quello che è il dolore del mondo.
D. Quale luogo scenario, ambiente interno o esterno, ricorre più frequentemente nei suoi romanzi e che funzione/valore viene ad assumere nei suoi testi?

è questo ipogeo, c’è la visione dell’ipogeo continuamente e credo che sia dovuto al fatto che io cerco di partire sempre dalle radici più profonde e quindi anche le immagini di questi luoghi sotterranei, di queste caverne, siano un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia. Andare fino alle radici per poi risalire verso le zone della comunicazione, le zone della società. Sono luoghi che mi hanno sempre affascianto. È indecente raccontare i propri sogni, però devo dire che un mio sogno ricorrente è un sogno archeologico, un sogno che poi ho scoperto faceva anche il padre della psicanalisi assieme a Freud che era Jung. Nel sogno io mi calo in dei sotterranei dove scopro degli oggetti antichi, vasi o rotoli di pergamena, che mi danno molta gioia. Ho interpellato un mio amico psicanalista e mi ha detto che è un sogno positivo e quindi evidentemente questo sub-conscio emerge nella mia scrittura. La mia ricerca linguistica anche in quel senso, io cerco le parole che vengono da lontananze storiche, di lingue antiche, greco, latino, arabo e quindi c’è questo bisogno di ripartire dalla profondità. In tutti i miei libri c’è l’evocazione di questi luoghi sotterranei.
D. Arriviamo all’attualità…

Non pensa che sia la faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci o corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?
Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Emilio Tadini sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?
Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?

D. Arriviamo all’attualità. Lei sembra vivere la politica in maniera viscerale. Siamo alla vigilia di un’elezione che verrà vinta al 90% dall’opposizione. Non pensa che sia a destra sia a sinistra in Italia sembri contare di più la fedeltà ad oltranza ad uno schieramento (o lo spregio per uno schieramento opposto) che la capacità di determinare l’effettiva competenza e affidabilità di una squadra di governo? Non pensa quindi che sia proprio questa faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci o corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?

Orologio geo-politico
La copertina di questo autorevole settimanale britannico, in edicola nei giorni in cui è esce l’intervista, colloca l’Italia, di fronte all’incognita del voto del maggio 2001, in un’atmosfera di evidente apprensione, condivisa anche dalla comunità internazionale.
ontesto il fatto che io viva in modo viscerale la politica. Ho sempre cercato di esercitare la razionalità, ho avuto sempre i miei principi politici e la mia ideologia nella quale ho sempre creduto e ho cercato di interpretare la mia azione nella società rimanendo fedele alla mia ideologia. Sono stato e sono un marxista, più gramsciano che marxiano. Penso che questo sia un Paese che non ha mai avuto un’effettiva democrazia. Parlavamo poco fa della mancanza di una società. È un Paese che vive in una sorta di immobilismo seicentesco, in una sorta di eterno controriformismo. Facciamo dei passettini avanti nel senso della democrazia e della uguaglianza e poi immediatamente c’è una sorta di ritorno indietro e tutto questo diventa disperante.
Da qui nasce la faziosità della nostra civiltà ancora comunale di guelfi e ghibellini e da questa continua crisi italiana nascono i mestatori, i profittatori, gli opportunisti, i vili, i trasformisti, i delatori e tutto quanto di orrore c’è in questo paese. Non siamo arrivati con la dittatura fascista alla teorizzazione dell’orrore assoluto come in Germania, però si sono scatenati in questo Paese tutte le meschinità, le vigliaccherie, con l’avvento della dittatura fascista, che sono proprie del carattere italiano. Quindi possiamo diventare feroci. Siamo considerati «italiani brava gente» quando bravi non siamo. Il nostro segno più evidente penso sia quello della viltà, siamo un popolo vile e questo lo dico non mitizzando l’eroismo, ma siamo un Paese irrazionale, un Paese che nella sua storia non ha mai raggiunto la maturazione o la maturità. Non ci sono state forme di ribellismo, non c’è mai stata una rivoluzione, ci sono stati tentativi di illuminismo, in Piemonte e in Lombardia e a Napoli che sono naufragati perché erano delle forme elitarie che non hanno mai raggiunto gli strati popolari e quindi destinati al fallimento.
Ci sono stati degli ideologi, come Mazzini e Pisacane che hanno cercato di liberare gli strati popolari e sono stati uccisi, come Pisacane, da quegli stessi popolani che loro volevano liberare. La storia italiana è fatta di questa viltà, di questa ignoranza, di questa incomprensione. Un Paese dove non c’è stata una rivoluzione borghese e ancora adesso piangiamo di questa mancata rivoluzione.Moravia riportava una frase molto bella di Brancati. Pronunziata nel secondo dopoguerra, parlando della Sicilia diceva: «In Sicilia per essere almeno liberali bisogna essere comunisti».
Questa frase si può estendere a tutta l’Italia. Per essere almeno liberali bisogna essere comunisti. Non comunisti nel senso in cui lo dice Berlusconi (1) con orrore, ma nel senso di pensare a una società giusta dove non ci sia il sopraffattore, il feudatario, non ci sia quello che ti fa lavorare in nero, quello che sfrutta, lo xenofobo e così via.
D. Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Chiederei il libro assoluto, letterario, che per me è La Divina Commedia. Chiederei il Don Quijote de la Mancha con il rammarico di non poterlo gustare nella sua lingua originale, non conosco lo spagnolo. Voglio essere partigiano e ritornare alla mia terra: rileggerei I Malavoglia e mi piacerebbe rileggere I promessi sposi di Manzoni. Questi credo siano l’ossatura della nostra cultura, della nostra letteratura. Non tralascerei naturalmente Leopardi sia nello Zibaldone che nella poesia. Credo che sia una continua ossigenazione del nostro pensiero e del nostro sentimento.
D. In un elzeviro dal titolo I testi di valore salvati dalla rete, pubblicato venerdì 2 febbraio 2001 sul «Corriere della Sera», Emilio Tadini, dopo aver fatto una distinzione tra testo e libro ed aver affermato la priorità del primo sul secondo, sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?

«In internet credo che avvenga questo: chiunque può immettere un proprio testo senza nessun vaglio perché non c’è il vaglio dei lettori editoriali delle case editrici, non c’è il vaglio della critica per cui il prodotto pseudo-letterario viene immesso subito alla fruizione dei lettori e non ha nessuna griglia e quindi, come si fa a giudicare un prodotto così? Non so se siamo di fronte alla democrazia assoluta in questo senso. Io credo che nella cultura, in letteratura non possa esistere la democrazia. Ci vuole una aristocratica selezione».
(Vincenzo Consolo)

Conclusione

Non pensa che sia la faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci e corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?
Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Emilio Tadini sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?
Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?

D. In un elzeviro dal titolo I testi di valore salvati dalla rete, pubblicato venerdì 2 febbraio 2001 sul «Corriere della Sera», Emilio Tadini, dopo aver fatto una distinzione tra testo e libro ed aver affermato la priorità del primo sul secondo, sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?

on conosco, ed è una mia mancanza, il mondo di Internet. Questa osservazione di Tadini ho l’impressione che riprenda un discorso che faceva pochi giorni fa Yaroslaw Kapuchinsky, questo giornalista straordinario e bravissimo che parlava della globalizzazione. Lui poggiava l’accento sui libri e sulla cultura. Oggi non importa più sapere se un libro è buono o cattivo ma importa sapere, con un criterio di tipo merceologico, quante copie ha venduto. La stessa cosa si può dire dei dischi, della musica.
Oggi vale più il numero della qualità. Questo è un andazzo che mette in apprensione. Non vi sono criteri estetici, etici per giudicare un libro. Il discorso del bestsellerismo è un discorso che si morde la coda per cui non importa più se il libro ha dei contenuti, del valore letterario o meno, importa che un numero di lettori abbia raggiunto questo libro, per cui diventa una reazione a catena, un elemento di persuasione per tutti gli altri per cui i lettori, o almeno gli acquirenti, diventano sempre di più. Ho detto tanti anni fa questo: il momento della mutazione è avvenuto in Italia tanti anni fa con il fenomeno de Il nome della rosa. Il fenomeno de Il Gattopardo aveva altri significati, altre spiegazioni, Il nome della rosa ha segnato il momento della mutazione, è diventato un bestseller a carattere internazionale, poi è venuta la Tamaro, oggi c’è Camilleri, si potrebbe andare all’infinito, Baricco ecc. Non discuto sul valore intrinseco del libro parlo come fenomeno di bestseller. Diventa una reazione a catena. Ci sono tanti motivi per spiegare il fenomeno ma c’è qualcosa di extra-letterario che induce, persuade, che innesca questo fenomeno della reazione catena per cui bisogna comprare quel libro e il fatto che lo comprino in centomila, ci sono altri centomila che vogliono quel libro. Si va poi all’infinito. Moraviacercava di dare una spiegazione al fenomeno del bestseller. Cos’è il bestseller? Lui diceva che non è che uno scrittore si cala dall’alto e cerca di mettere in atto gli elementi per creare il bestseller. Questo non riesce quasi mai. Invece una persona che dal basso dà il meglio di sé in quel momento, incontra il gusto corrente di quel momento. Così avviene il bestseller.
Al di là di questo ci sono anche fenomeni di induzione oggi. I messaggi pubblicitari, i fatti extra-letterari, che sono la presenza dello scrittore nelle ribalte mediatiche, il fatto di essere personaggio, sono tante connotazioni che possono spiegare il fenomeno del bestseller. Questo discorso di Kapuchinsky è stato ripreso pochi giorni fa da Arbasino su «la Repubblica» e quindi credo che il discorso di Tadini sia la conseguenza di questo articolo di Kapuchinsky. Io parlavo della fine della letteratura in questo senso, parlavo delle sacche di resistenza di fronte a questa globalizzazione. In Internet credo che avvenga questo: chiunque può immettere un proprio testo senza nessun vaglio perché non c’è il vaglio dei lettori editoriali delle case editrici, non c’è il vaglio della critica per cui il prodotto pseudo-letterario viene immesso direttamente alla fruizione dei lettori e non ha nessuna griglia e quindi, come si fa a giudicare un prodotto così? Non so se siamo di fronte alla democrazia assoluta in questo senso. Io credo che nella cultura, nella letteratura non possa esistere la democrazia. Ci vuole una aristocratica selezione.
D. Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Non sono uno scrittore con l’assillo della pubblicazione annuale o semestrale. Io penso di pubblicare un libro quando penso che il libro sia necessario, che abbia una sua necessità ma soprattutto che abbia una sua consequenzialità nel senso che si possa riallacciare a quello che era stato il mio libro precedente.
D. Io aggiungerei solo una cosa. Nonostante la tragedia sia il genere che potrebbe maggiormente classificare i suoi testi – e in effetti è una strada che Lei ha percorso, d’altra parte Lei utilizza decisamente una metrica nei suoi scritti e, in un certo senso si tratta di versi, anche se non si presentano in forma di poesia, ma di prosa – eppure il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?
Le zone deputate al teatro sono impraticabili perché è un mondo così invaso dal profitto e dagli estetismi che è impraticabile. Le mie opere sono tragedie, Lo spasimo di Palermo è una tragedia e questo l’hanno detto i critici, sia italiani che francesi. È appena uscita la traduzione spagnola e un critico sul «El País» ha parlato di tragedia in prosa. L’ho fatto esplicitamente con Catarsi ma anche con altri pezzi che ho scritto per dei musicisti. Ho scritto Elegia per note musicata da un musicista, morto di recente, Francesco Pennise. Mi piace scrivere questi testi che hanno una destinazione per gli oratori, per la musica che è una forma molto alta e bella e che mi riporta alla tragedia greca, con questa parte di composizioni cantate e recitate. Ultimamente anche un giovane musicista che si chiama Matteo D’Amico ed è un pronipote di Pirandello ha musicato dei brani de Lo spasimo di Palermo. Mi ha fatto tradurre lo Stabat Mater di Jacopone da Todi in italiano e ha fatto un oratorio, delle parti musicate, delle parti recitate da un’attrice molto brava che è Maddalena Crippa. Sono andato a Roma per sentire questo concerto e devo dire che era di grande efficacia. Si svolgeva nell’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma. Forse in futuro svilupperò questa mia propensione verso l’espressione musicale, fornire dei testi per dei compositori.

Gennaio,febbraio,marzo2001
italialibri

Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

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Palermo e ciò che resta, scritture variegate  Lo Spasimo di Palermo,Vincenzo Consolo

Così dice sinteticamente Vincenzo Consolo: “è un libro in cui vengono registrate le sconfitte, è soprattutto la memoria degli innocenti sopraffatti dai delinquenti.”

Inevitabile appare dunque a Consolo fare i conti con la storia lacerante della sua terra fatta di interruzioni violente di sopraffazioni e sebbene questo romanzo abbia la forma del romanzo storico nulla ce lo fa ricondurre alla tradizione canonica del genere letterario. E’ assente lo schema narrativo lineare del romanzo, nessuna unità organica spazio-temporale, solo frammenti giustapposti che si ricompongono lentamente. Più volte l’autore ha dichiarato la sua avversità alla forma romanzo e di questo c’è traccia anche in quest’ultima opera: “Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.”

Ed il silenzio rappresenta il limite, il filo del rasoio, quell’attrazione repulsiva in cui vive costantemente il protagonista ed anche l’autore, terrorizzato com’è da un lato dal vuoto dell’azione e dall’altro dall’inefficacia delle parole.

Il dato suggestivo che emerge in rilievo è però la poesia o meglio “la lingua-poesia, la lingua rivelazione”. “E’ una lingua contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli più anziani, involontari complici dei responsabili del disastro sociale”, si legge nel libro di Consolo. Ma l’arrovellarsi nel ricercare una lingua diversa è servito a ben poco, ammette disilluso il protagonista anzi è servito a ritrarre la scrittura nel silenzio, non nella pace ma nella coscienza turbata dalla tragedia.

Intervista a Vincenzo Consolo 1999

Sciacca, Chiesa di Santa Margherita , 1999

Ogni narratore sa quanto siano determinanti nell’ esperienza letteraria i luoghi frequentati nella propria vita. Essi hanno il potere di costituire la propria identità, di fondarla a partire dal nucleo più irriducibile dell’anima. Racchiudono il deposito della memoria individuale e della storia. Non di meno la lingua custodisce il patrimonio genetico del territorio, della cultura, della storia. Accade perciò ad uno scrittore sradicato dai propri abituali paesaggi e dalle consuete vicissitudini di ferirsi nello sguardo e nel linguaggio. Si trasforma l’orizzonte visivo, così come il tappeto sonoro della lingua. Ciò che si produce non è perdita cicatrizzante, è materia vivente, umore organico. La memoria si fa vivida e la presenza copiosa riflessione sul mondo.

Accadde a molti scrittori siciliani, a Verga, Pirandello, Brancati, Vittorini. E’ accaduto anche a Vincenzo Consolo, uno tra i maggiori narratori italiani di questo ultimo ventennio. Il suo nome è associato ormai da tempo a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale e una profonda amicizia. Consolo vive a Milano da un trentennio, come Verga ha avuto bisogno di un osservatorio lontano per dare forma alla sua esperienza letteraria. E’ un autore sui generis perché non scrive romanzi, convinto com’è che “non si possono scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, predilige una narrazione orientata verso la poesia, alla ricerca estenuante del potere rivelatore della parola. Dei suoi libri si dice che sono difficili a leggersi. Tutto è affidato alla densità delle parole, anzi alla sonorità lirica, anche la sintassi è ardua, lontana dalla chiarezza razionale di stampo illuministico. E’ prosa che si eleva a poesia ricca com’è di figure retoriche tipiche della poesia: allitterazioni, assonanze, paronomasie. Si procede lentamente come in un rituale in cui le sonorità scandiscono i momenti evocativi della memoria. Eppure i suoi temi riguardano la storia, quella siciliana in particolare. Ed in questo si capisce l’affinità, seppure solo genericamente tematica con Sciascia. Il solco aperto dallo scrittore di Racalmuto è ancora troppo ampio per potersi colmare.

Sono passati quattro anni dal suo ultimo libro L’olivo e l’olivastro, e Consolo, con il suo recentissimo Lo Spasimo di Palermo, sembra aver dato ulteriormente impulso alla trattazione di temi storico-civili.

Abbiamo incontrato lo scrittore siciliano di recente a Sciacca in occasione della presentazione del libro tenutasi nella chiesa di Santa Margherita, nell’ambito del ciclo promosso dall’Assessorato alla Cultura dal titolo Lettura con l’autore.

Consolo ha parlato a lungo ma più che del suo libro ha preferito soffermarsi sulla polemica che si è generata a partire da un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa nella quale fa cenno della realtà socio-culturale di quella parte della Sicilia, il Ragusano, che proprio qualche settimana fa è stata teatro di un’ennesima strage mafiosa. “E’ venuta meno l’educazione alla legalità” afferma, “ci si è scordati dell’orgoglio di essere onesti”.

Impegnato a far luce su quelle realtà tanto bene conosciute, Consolo si fa prendere dalla passione civile, si rifiuta di trasformare un evento culturale come la presentazione del libro in un rendez vous mondano. Continua lucidamente ad analizzare il nesso tra letteratura e società. E’ amareggiato: “non legge più nessuno, viviamo in una dimensione di fondamentalismo economico” sostiene senza enfasi, quasi rassegnato.

Lamenta ancora il vuoto di una letteratura, quella italiana ed occidentale in genere, che rinnega la propria tradizione ed assorbe i modelli culturali tipici della società mediatizzata. La televisione, il cinema di consumo, le canzonette, Internet, appiattiscono la lingua, la svuotano di senso, cristallizzano i sentimenti che essa è capace di esprimere. Aggiunge anche che “le letterature più fertili sono quelle meticciate”, quelle nate dall’ibridazione delle lingue, delle culture, dall’innesto di codici linguistici su tradizioni totalmente differenti; “territori dove non è passato il rullo compressore del capitalismo, della tecnologia e dell’industria, che risultano essere meno contaminati dal contagio pervasivo e scarnificante del linguaggio mediatizzato. Quello che è accaduto, effetto del colonialismo, alle letterature anglofone o francofone dell’Africa, o a quelle creole dell’America meridionale.

La letteratura è ormai marginalizzata dalla cultura contemporanea. All’autore non resta altro che tentare di cogliere il respiro del tempo ed illudersi che possa salvare gli uomini attraverso “la scrittura, ultimo segno della speranza”.

Abbiamo approfondito alcune questioni emerse in quest’incontro parlandone direttamente con Vincenzo Consolo.

Si è parlato di politica, di letteratura, di società, sembra che allo scrittore resti solo di osservare ciò che accade. Come vive il dissidio tra il fare, in pratica scrivere, e la consapevolezza dell’inutilità del fare, dell’inefficacia della scrittura a determinare cambiamenti?

Il dissidio insanabile in uno scrittore è questo: avere l’angoscia dell’inesistenza. Quando si scrive si ha sempre questa paura di non essere, che significa poi, di non essere letto o capito.

I tempi della letteratura e i quelli della politica sono assolutamente discordanti. La politica è l’azione del giorno per giorno, degli adattamenti, dei compromessi, mentre i tempi della letteratura sono molto più lunghi perché lavorano in un terreno che non è visibile, i terreni dell’intelligenza della coscienza e della sensibilità del lettore.

Quest’angoscia lo scrittore la sente. Soprattutto uno scrittore non immediatamente comprensibile. Quella della difficoltà della mia scrittura è una storia che mi perseguita. Il problema è quello dell’inadeguatezza nei confronti della realtà. Lo scrittore rappresenta la realtà, illumina delle parti della dimensione umana che sono state lasciate in ombra, cerca di dare luce a queste parti che sono state lasciate allo scuro, ma non sa se tutti riescono a mettere gli occhi su quella realtà che lo scrittore scopre, che è poi la dimensione della vita.

Lo scrittore non è solo custode della lingua ma esprime anche una funzione civile…

Le due cose devono andare insieme. La funzione civile si esprime attraverso l’azione sociale della scrittura e non solo attraverso i contenuti. I miei non sono mai di tipo intimistico o esistenziale sono di tipo storico-civile.

La lingua che utilizza nelle sue opere è ricca di parole desuete, si richiede al lettore uno sforzo particolare…

Sono i colori che formano il quadro. Il colore è lo stile dello scrittore. I miei sono colori più affollati e meno visibili, si devono decrittare. La mia scrittura richiede al lettore una partecipazione maggiore che non in altri scrittori di tipo razionalistico illuministico, esso si trova di fronte ad una lingua diversa, ad una tonalità che lui conosce ma che aveva dimenticato. Cerco di risvegliare questa lingua assopita dentro il lettore stesso. Questa lingua è fortemente minacciata oggi perché si è estinta questa sua profondità e questa ricchezza che era rappresentata dai dialetti. Siamo arrivati alla lingua nazionale, quella descritta da Pasolini nel ‘61 nelle Nuove questioni linguistiche in cui ha annunziato con trepidazione e senza emozione la nascita della lingua italiana come lingua nazionale. Era una lingua neocapitalistica, di tipo tecnologico aziendale che aveva chiuso i rapporti con questa profondità linguistica che una volta aveva, quella che Leopardi chiama l’infinito della lingua. Dal ‘61 ad oggi si è impoverita sempre più. Credo che sia una lingua che si stia spegnendo, estinguendo, oltre a superficializzarsi, a rendersi rigida a non avere più questi apporti. Dall’altra parte si è invasa di una lingua prammatica e tecnologico-commerciale come l’americano.

Si è sempre parlato di sperimentalismo, quando si parla della sua scrittura, ha mai conosciuto Antonio Pizzuto, altro scrittore siciliano sperimentalista?

Ho conosciuto Pizzuto, è stato uno sperimentalista che andava sino alle estreme conseguenze sino ad arrivare alla musica tonale, all’astrattismo dove la figurazione la linea del racconto spariva e tutto era giocato sui ritmi sui suoni. Si è sempre parlato di Gadda, quando bisognava trovare un riferimento alla mia scrittura. In me non c’è quell’esplosione sarcastica e polifonica che c’è in Gadda la mia esplosione linguistica è molto controllata.

Quali sono le letture della sua formazione?

Sono nato in una casa senza libri e in un paese senza biblioteca. Per me trovare i libri era estremamente difficile. La prima biblioteca che ho scoperto era in casa di un parente di mio padre, adoratore di Victor Hugo. Quando scoprì questa piccola biblioteca incominciai a frequentare casa sua, proprio col desiderio di leggere questi libri che mi sembravano un mondo misterioso. Ero un ragazzino, il primo libro che lessi che mi sconvolse e mi determinò fu I miserabili di Victor Hugo. Non ho mai avuto una letteratura per l’infanzia non ho letto né favole né fumetti. Prima ho letto i classici, libri straordinari come L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson o I viaggi di Gulliver di Johnatan Swift.

Quale è l’autore che più ha amato?

Non si può prescindere da Dante e poi viene Leopardi cito due poeti perché amo più i poeti che la narrativa.

Cosa pensa dei giovani scrittori, è’ davvero sterile il panorama italiano contemporaneo ?

Leggo molti libri italiani per dovere d’ufficio perché faccio parte della giuria del premio Grinzane Cavour, mi tocca leggere ogni anno tutti i romanzi che sono usciti. Dopo la morte della tradizione italiana sino a Calvino, Sciascia, Moravia, Pasolini, c’è stata una sorta di frattura, di vallo, con questi scrittori si aveva la consapevolezza di una tradizione letteraria di cui eravamo figli. Credo che oggi nel villaggio globale a causa di quest’estrema comunicazione, i giovani narratori abbiano rotto con la tradizione. I loro punti di riferimento e la loro cultura sono il cinema americano, la canzonetta, i fumetti e la televisione. Poi quelli che si chiamano “cannibali” o “pulp” sono approdati ad una forma di neonaturalismo che riproduce nel modo più supino, più magmatico, quella che è la realtà narrata senza una metafora, senza un punto di vista di tipo etico o estetico. Non ne ho visti di talentosi, apprezzo Daniele Del Giudice che trovo uno scrittore di prim’ordine, Erri De Luca e una scrittrice Fabrizia Ramondino, ma questi non sono più così giovani.

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dialogario del 30 giugno 1999
di Giuseppe Puntarello

Intervista inedita a Vincenzo Consolo, a cura di Irene Romera Pintor.

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Da quello che ho letto, volevo sapere: quanto per Lei è importante quello che scrive e quanto per Lei è importante come lo scrive?

Non ho mai creduto, non credo ancora, che possa esistere in arte, tanto meno in letteratura, l’instintualità, l’ingenuità o l’innocenza. Quando si sceglie di esprimersi attraverso la scrittura,la pittura o la musica, si sceglie di esprimersi attraverso il mondo espressivo. Bisogna avere consapevolezza di come collocarsi, sapere cosa si vuole rappresentare, cosa si vuole dire, sapere quali sono le proprie scelte di campo per quanto riguarda i contenuti e lo stile.
Per quanto mi riguarda, ho esordito nel ’63, io avevo … nel ’63 … 30 anni. Quindi non ero un fanciullo, ero una persona formata e sapevo cosa avrei dovuto fare, cosa avrei dovuto dire e come dirlo. Per quanto riguarda la scelta dei contenuti, mi interessava esprimere una realtà storico-sociale. Erano assolutamente lontane da me le istanze di tipo esistenziale o psicologico e meno ancora le istanze di tipo metafisico o spirituali. Come tutti gli scrittori siciliani avevo a che fare con una realtà quanto mai difficile, infelice e parlo di una realtà storico-sociale. Quindi quella realtà volevo esprimere, proprio immettendomi nella tradizione della letteratura siciliana, che ha sempre avuto -almeno questa è la costante da Verga in poi- lo sguardo rivolto all’ esterno, nel senso che da noi non esiste una letteratura di introspezione psicologica. Tutta la letteratura siciliana è con lo sguardo rivolto all’esterno, alla realtà storico-sociale ed è una letteratura di tipo realistico con tutte le sue declinazioni.
Per quanto riguarda la scelta dello stile ora chiarisco. Sono nato come scrittore, dopo la stagione cosiddetta neo-realistica, dopo gli scrittori che avevano vissuto il
 periodo del fascismo e il periodo della guerra. Questi scrittori – parlo di Moravia, Calvino, Sciascia, avevano uno stile di tipo razionalistico, illuministico, di assoluta comunicazione: interessava loro comunicare l’argomento nel modo più chiaro, nel modo più referenziale, con le dovute differenze, naturalmente. Secondo me questi scrittori avevano adottato questo stile diciamo toscano-
allo stile illuministico di matrice francese. Sciascia e Calvino, sono due esempi classici di scrittori di tipo illuministico, razionale.
C’è da fare un discorso sulla lingua francese, sulla sua perfetta geometria. Leopardi fa un paragone fra la lingua italiana e la lingua francese. Ma questo discorso lo possiamo riprendere dopo.
Ecco, dicevo, io sono venuto dopo, e la speranza che questi scrittori avevano nutrito nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, quella speranza, per quelli della mia generazione era caduta, perchè si era stabilito in Italia un potere politico che ripeteva esattamente quello che era crollato. In qualche modo, sì, eravamo in democrazia, però con un sistema di potere che lasciava sempre fuori, ai margini, tutti quelli a cui non erano stati riconosciuti i loro diritti. Parlo delle classi popolari e quindi la mia scelta stilistica non poteva essere nel segno della speranza, ma doveva essere nel segno dell’opposizione, della rottura con il codice centrale linguistico, con l’adozione di un altro codice linguistico che rappresentasse anche le periferie della società. Questa scelta mi è stata facilitata perchè il luogo dove sono nato, la realtà che potevo esprimere, era una realtà dal punto di vista linguistico quanto mai ricca, perché in Sicilia, oltre ai vari monumenti, le varie civiltà, da quella greca in poi o anche prima, hanno lasciato un grande deposito linguistico. Quindi io, piuttosto che avere lo sguardo rivolto verso il centro, l’avevo rivolto verso orizzonti più vicini, verso la realtà in cui mi trovavo a vivere, e ho attinto a questa ricchezza linguistica, a questi depositi linguistici che in Sicilia c’erano, esistevano. Non bisogna però pensare subito al dialetto, io sono uno che non ha mai amato la parola dialetto. La mia scelta era nel senso di rompere il codice linguistico centrale -quindi toscano razionalista- e di immettere in questo codice, e innestare diciamo delle voci, delle forme grammaticali o sintattiche che attingevano al patrimonio linguistico dell’isola.
Di volta in volta ho usato parole che avessero una loro dignità filologica, che venissero da altre lingue, che potevano essere il greco, il latino, l’arabo,lo spagnolo, il francese. E quindi mi sono immesso in quella linea che si chiama la linea sperimentale, che nella storia della letteratura è sempre convissuta insieme alla linea centrale-razionale. Ecco, la linea sperimentale, secondo me, parte da Dante, perchè Dante ha formato la lingua italiana proprio ricomponendo tutti i dialetti che allora si parlavano nell’ Italia medievale. E da Dante poi arriva, dopo il periodo rinascimentale, dove c’era stata la centralità della lingua italiana,con i grandi scrittori italiani che conosciamo, cioè gli autori dei grandi poemi come l’Ariosto e il Tasso , arriva al Seicento,arriva alla rottura di questo codice centrale con la Controriforma e con la frantumazione, della lingua centrale. E la linea sperimentale arriva sino ai giorni nostri, dopi i vari ritorni alla centralità con i movimenti toscani appunto del rondismo del vocianesimo che in Italia si erano diffusi negli anni Trenta, a cavallo fra le due guerre. Nel dopo- guerra c’è stata, di nuovo una frantumazione del codice centrale. Il primo nome che viene in mente è quello di Carlo Emilio Gadda poi di Pasolini. Io mi sono immesso in questa linea sperimentale, con l’impasto linguistico o plurivocità o polifonia, come si suol dire, percorrendo una linea assolutamente speculare a quell’altra linea che è la linea retta, del codice centrale. Questo ho fatto sin dal mio primo libro, proseguendo man mano in questa sperimentazione. Posso aggiungere che i motivi per cui avevo scelto questo stile erano non solo di tipo estetico, erano di tipo etico e di tipo politico.
Ho detto le ragioni, insomma, di questa opposizione a una lingua centrale, alla lingua dominante, la lingua del potere e quindi ho cercato di crearmi una lingua che fosse oppositiva al potere stesso. Pasolini, ha fatto, già nel 1961, un’analisi della lingua italiana, con un saggio che si chiama “Nuove questioni linguistiche”, dove annunziava la nascita di una nuova lingua italiana. Che cosa era avvenuto? Con il cosiddetto miracolo economico, con la trasformazione di questo paese, da paese millenariamente contadino in paese industriale, con le grandi trasformazione rapide e profonde che sono avvenute si era formata una nuova lingua. La ricchezza della lingua italiana (Leopardi dice: “L’infinito che c’è nella lingua italiana”) dovuta appunto agli apporti che venivano dal basso e che provenivano dai vari dialetti che portavano la loro vitalità dentro la lingua toscana, si era interrotta. C’è stata come una frattura e con la nascita della nuova nuova lingua italiana come lingua nazionale, questa lingua si è impoverita, perché ha perso i contatti e l’afflusso che veniva dalle parlate popolari, e quindi si è costituita una lingua, che Pasolini chiama di tipo aziendale-tecnologico. Per cui oggi la lingua italiana è una lingua enormemente impoverita, è una lingua priva ormai di memoria, ed è una lingua, secondo me, anche in via di estinzione, perchè, da una parte, ha perso la ricchezza che aveva prima e dall’altra è invasa da una lingua altra, che è la lingua della tecnologia, che molto spesso è l’americano o l’inglese; è invasa da questo linguaggio di tipo tecnologico ed economico che la impoverisce,la appiattisce sempre di piú. Quindi ho sentito sempre di più il bisogno di insistere nella mia sperimentazione, perché credo che sia proprio questo il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perchè la letteratura è memoria e soprattutto memoria linguistica.
In questa ricerca particolare del linguaggio si nota, nei suoi scritti, una spiccata tendenza alla sperimentazione di qeneri diversi: favola teatrale, romanzo storico, poema narrativo, racconti e riflessioni della Sicilia. C’è una ragione specifica? Lei preferisce un genere in particolare? Qual è il suo progetto letterario?
Credo di avere un progetto, un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo. Ho scritto dopo il mio romanzo di formazione, d’iniziazione,La ferita dell’aprile, un romanzo storico: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo romanzo l’ho concepito proprio per raccontare la storia italiana attraverso varie tappe, attraverso momenti critici della storia. Ho cominciato appunto con il 1860, che è un topos storico per cui siamo passati tutti noi, scrittori siciliani, perchè forse da lì sono partite tutte le questioni e le disillusioni ed i problemi che oggi ci assillano. Romanzo dell’Unità d’Italia, affrontato da tutta la letteratura siciliana, da Verga a Pirandello, a Lampedusa, a De Roberto, sino a Leonardo Sciascia e ad altri. Mi sono cimentato in questo 1860, da una angolazione diversa. De Roberto ha visto l’orrore del potere in mano ai nobili, Lampedusa ha cercato di riparare questa offesa al potere dei nobili scrivendo “Il Gattopardo”, Sciascia ha fatto vedere il trasformismo della classe dirigente italiana e siciliana. Io ho cercato di raccontare il 1860 con gli occhi degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati.
Naturalmente la scelta linguistica è conseguenziale alla alla materia,ed anche alla struttura del libro. Dopo, ho raccontato la nascita del fascismo, visto da un paese della Sicilia che si chiama Cefalù.
Ho raccontato questo periodo storico in un libro che si chiama “Nottetempo, casa per casa”. Sono arrivato quindi ai giorni nostri, cercando di raccontare il presente, con il libro che è uscito adesso e che si chiama “Lo spasimo di Palermo”. Naturalmente sono tutti romanzi storico- metaforici: scrivendo del 1860 ho cercato di scrivere, di raccontare l’Italia degli anni Settanta, cioè la nascita delle speranze di cambiare la società e, quindi, la disillusione, la perdita di questa speranza. Gli anni Settanta sono gli anni in cui le nuove generazioni hanno cercato con molto slancio, di cambiare la società, hanno vissuto la politica in un modo intenso, ma poi tutto è crollato, è diventato terribile, atroce, con il terrorismo. Invece, in Nottetempo, casa per casa, ho cercato di raccontare metaforicamente gli anni Novanta, quando in Italia, per la prima volta,dopo la seconda guerra mondiale, sono entrati nel governo italiano i fascisti, cioè dopo che erano stati allontanati, condannati dalla storia.
Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terrorismo vissuto a Milano e anche con quello che è il male della Sicilia, con le atrocità delle stragi di mafia. Infatti il libro si conclude con la strage di Via d’Amelio e con la morte del giudice Borsellino.
Questo è stato il mio progetto letterario. Poi, naturalmente, accanto a questi libri, ci sono dei libri collaterali, ma tutti convergono su questa idea, cioè, sul potere, sulla corruzione del potere: sia la favola teatrale “Lunaria” o “Retablo”. Ho voluto, in questo viaggio in un fantastico settecento, rappresentare che cosa è il potere che non crede più in se stesso. Un Vicerè che non è il Re e che quindi può mettere in campo i suoi dubbi e la sua crisi, perchè non crede al potere che deve rappresentare. Ho voluto far vedere appunto nel personaggio di un Viceré che cosa è il potere quando cade in crisi, attraverso questa favola teatrale. Non solo il potere ma anche la caduta di una certa cultura, la perdita della memoria nella nostra società, perchè questa nostra società è proprio contrassegnata dalla cancellazione continua della memoria, esercitata dalle forze economiche e politiche: questa cancellazione che è il maggiore misfatto della nostra epoca. Oggi quella che si chiama la rivoluzione tecnologica, ci fa vivere in un eterno presente, dove non abbiamo più memoria del nostro passato e non immaginiamo neanche quale è il nostro futuro. Quindi viviamo in una continua invasione dell’informazione: l’informazione dei messaggi mediatici e viviamo ormai in un neofascismo, il neofascismo dell’informazione dei media. Ecco, io ho questa sensazione di una cultura che sta terminando, che sta finendo proprio in questo nostro contesto dove non è più possibile la letteratura, non è più possibile l’arte, non è più possibile qualsiasi tipo di espressività o di espressione.
Milano, Lunedì 15 febbraio 1999.
Pubblicata successivamente come “VINCENZO CONSOLO. AUTOBIOGRAFIA DELLA LINGUA”. Modificata, ed. Ogni uomo è tutti gli uomini, 2016.

Da un’isola di narratori, la voce di Vincenzo Consolo

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Intervista a Vincenzo Consolo
Da un’isola di narratori, la voce di Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo, uno scrittore che ha saputo interpretare e rinnovare la grande tradizione letteraria siciliana, erede di Verga e di Pirandello, un intellettuale che ha nella storia le sue radici e nell’attualità il suo sguardo.

Nelle sue opere è molto importante il rapporto con la Storia. Per uno scrittore oggi in che modo la Storia può essere una fonte ispirativa ?
C redo che sia importante il contesto storico per scrittori della mia generazione e soprattutto della mia estrazione. Io sono uno scrittore siciliano che ha alle spalle una tradizione altissima, da un punto di vista letterario. La particolarità degli scrittori siciliani, da Verga in poi, per non andare più lontani, e in genere degli scrittori meridionali, è proprio questa attenzione verso il mondo esterno, verso i contesti storico-sociali. Da noi è quasi assente il romanzo d’introspezione psicologica che appartiene ad altre aree letterarie. La Storia è importante perché permette, a me e ad altri che hanno usato nelle loro opere il contesto storico, (il nostro archetipo naturale è il Manzoni) di operare quella famosa metafora: parlare di eventi, di fatti storici per significare il presente, per cercare di capire il presente.
Un altro elemento presente nella sua scrittura è la ricerca sul linguaggio. Una vera sperimentazione linguistica.
I o appartengo proprio a questa linea sperimentale che è sempre convissuta nella letteratura italiana, insieme alla linea di tipo razionalistico illuministico. Ci sono questi due crinali che partono dalle origini della nostra letteratura, da Dante, Petrarca e giù giù sino ai giorni nostri, passando per scrittori della grandezza di Manzoni o di Verga, per arrivare fino a Gadda e a Pasolini. Ecco io appartengo proprio a questa linea sperimentale che opera sul linguaggio, sullo sconvolgimento del codice linguistico dato, per cui la scrittura non diventa più necessariamente comunicativa, ma si complica. Si complica con vari espedienti e con varie sperimentazioni, per arrivare alla polifonia di Gadda, o alla digressione pasoliniana, partendo sempre dalla grande rivoluzione stilistica che ha fatto Verga nei confronti dell’italiano. Verga è stato il primo sperimentatore della letteratura moderna ad aver irradiato di dialettalità quello che era il codice centrale, per intenderci il codice toscano che era stato ipotizzato e praticato da Manzoni. Mi muovo su questa linea sperimentale, cioè lungo la linea verghiana, gaddiana, pasoliniana.
La Sicilia è una terra che ha prodotto grandi scrittori. C’è un rapporto particolare tra questa terra e la letteratura?
L a Sicilia è caratterizzata da una grande produzione letteraria che va da Verga passando per Pirandello, Vittorini, Brancati, fino a Tomasi di Lampedusa, Sciascia e sicuramente ho dimenticato molti altri nomi. Credo che questo dipenda da due fattori. Il primo è la complessa entità della Sicilia, frequentata fin dai tempi più remoti da diverse civiltà che, passando nell’isola o dominando l’isola, hanno lasciato la loro cultura, la loro lingua, oltre ai monumenti che conosciamo, dai Fenici in poi. L’altro motivo credo risieda nel fatto che la Sicilia ha sempre avuto una storia sociale non felice e questo ha portato molti a chiedersi la ragione di questa infelicità sociale e di cercarne una spiegazione attraverso la scrittura. La Sicilia non è una terra di grandi poeti, a parte la tradizione dialettale dei poeti sette-ottocenteschi, è soprattutto un’isola di narratori. Attraverso il romanzo si cerca di trovare le ragioni della complessità culturale e linguistica e anche le ragioni di questa perenne infelicità sociale.
Oggi si parla di grave crisi della narrativa. Lei è d’accordo?
S i parla spesso di crisi e in particolare di crisi del romanzo.
Il romanzo è un genere letterario moderno nato con la nascita della borghesia. Oggi con le trasformazioni nel nostro contesto occidentale, con il postindustrialesimo, con la civiltà di massa, soprattutto con la rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa, questo genere letterario è stato messo in crisi e io credo che sia una crisi effettiva. La nostra è una civiltà in cui le radici profonde della memoria e le radici linguistiche si sono quasi esaurite e lo scrittore non sa più chi è il suo referente, qual è il contesto a cui si rivolge.
Credo che voci nuove e interessanti si trovino in quelle zone del mondo in cui ancora l’industrializzazione non è passata, dove ancora si conserva una memoria e soprattutto una memoria linguistica. La crisi in poesia non si è avverata, infatti ci sono interessanti poeti, premiati anche col Nobel che provengono da zone del mondo non post-capitalistiche.
Crede nell’utilità dei premi letterari? Oggi anche questo è un tema molto dibattuto.
S i parla molto male dei premi letterari, ma credo che in questo nostro Paese siano ancora necessari. L’Italia è un paese dove la lingua è circoscritta a una zona molto ristretta, non abbiamo aree italianofone perché, grazie a Dio, non abbiamo avuto colonie, quindi non abbiamo l’estensione linguistica che ha avuto la Francia, l’Inghilterra o la Spagna: i lettori italiani sono sempre di meno, sono sempre molto pochi. I premi servono a puntare l’attenzione sulla letteratura, sugli scrittori e anche con le loro storture, con le ingerenze politiche o editoriali, tutto sommato servono a far porre attenzione alla letteratura, alla narrativa o alla poesia italiane.
Quali progetti ha per l’immediato futuro?
S to lavorando a un libro di saggi, in parte già scritti, altri ancora da scrivere, di tipo storico-letterario, sociale-letterario, ad esempio sul mondo delle zolfare in Sicilia e sulla letteratura che è nata da questo contesto. A questi si aggiungeranno saggi prettamente letterari su Verga, Pirandello, Sciascia e tanti altri. Spero di pubblicare il volume entro l’anno.

Intervista a cura di Grazia Casagrande

15 gennaio 1999

Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

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Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

Roberto Andò

L’intervista postula tra chi pone le domande e chi le subisce il vago stagliarsi di un’impersonale vibrazione in cui aleggiano due voci in cerca di echi, pensieri, ricordi, probabili pudori intorno a un mestiere impossibile. Ci si accosta al rito teatrale dell’intervista con un certo senso paradossale di sfida alla nicchia invisibile di chi scrive, immemori al cospetto della condizione ideale che rende autorevole e senza un volto lo scrittore, intenti a violare il vero desiderio di ogni grande scrittore che è quello di sparire. L’amicizia, la conoscenza o la confidenza, nella concitazione rituale, vengono deposti per lasciare il posto enunciati in cerca di oggettività. Tuttavia ci si accorge, a intervista conclusa, che si è accennato un ritratto, in forma di catalogo, dove la malinconia e quella dimensione salvifica della memoria che è la letteratura fanno dello scrittore, ovunque e comunque, un esiliato irriducibile, perfettamente a proprio agio solo nell’esilio della scrittura.

Ho incontrato Vincenzo Consolo e ne sono diventato amico molti anni fa per il tramite di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, per parlare di poeti dimenticati o rimossi dalla civiltà letteraria del consumo, poeti della luna. Ci possono essere mille ragioni per il senso di un incontro o per il suo bilancio. Di quel primo incontro ricordo il piacere immenso di poter riferire la letteratura a ciò che sta fuori dalla letteratura, la possibilità di insediarla al centro di un’emozione da fronteggiare e distanziare senza tradirne il senso sacrale misterioso. E ricordo anche una certa cupezza del momento, identica, per ragioni diverse, al momento in cui si è svolta questa intervista, che essendosi teatralmente compiuta in due tempi, a distanza di poco più di un anno, presagiva nella latenza di certi motivi quanto è successo in Italia, ciò che rende oggi il nostro Paese irriconoscibile, sfigurato e, se possibile, persino più smemoratamente cialtrone. A segnare il tempo, da Nottetempo, casa per casa, vincitore del Premio Strega nel periodo del nostro primo incontro, Consolo è approdato nel suo personale viaggio a L’olivo e l’olivastro, vale a dire dalla malinconia del racconto al furore di chi sa che nel disastro le strategie del racconto non sono più bastevoli e la letteratura senza puntelli può affrontare il rischio di nuovi confini, di un nuovo tono di voce.

ll malinconico, con la sua segreta e dolorosa interiorità, è un esiliato in potenza. Leggendo i tuoi libri, e in modo accentuato Nottetempo, casa per casa, si assiste a uno sfaccettarsi di figure del dolore, malinconici più o meno furiosi, con gli altri, con sé. L’epigrafe della Kristeva, che attribuisce alla malinconia il ruolo del sacro nella nostra epoca, sembra avvertire che nei cicli della Storia I conti possono farsi e disfarsi incarnandosi nella singolarità del male, del dolore umano…

“Hai detto bene. Il protagonista di Nottetempo è un esiliato che rompe a un un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre a esempio

che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna una figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura dominata da un dolore insopportabile che equivale a un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa. Ma c’è un altro grado di follia, sotto forma di mania di persecuzione, di paranoia, che vive nel romanzo la sorella del protagonista, Lucia. E ancora un terzo grado di malinconia, di dolore, quello del personaggio intravisto nella penombra della stanza, racchiuso in un gesto meccanico, nello sgranarsi rigido di un rosario in cui la vita si pietrifica. Ho voluto rappresentare la follia dolorosa e innocente che questa famiglia ha pagato forse per una ragione atavica, esistenziale, di razza, e per ragioni storiche. È una famiglia infatti che ha attuato un passaggio, un salto di classe. La provenienza reale è quella del proletariato contadino. Li ho chiamati Marano, da Marrano, rinnegato. Si portano dietro un coagulo di razze. Oltre a essere ebrei il narratore dice che dentro, attraverso la madre, filtra una memoria di nomi greco – bizantini, spagnoli, insomma il crogiuolo della civiltà mediterranea. Ed è come se assommassero nel loro destino il peso di tanti esili diversi. Pagano il prezzo di un cambiamento, di un passaggio di classe: da contadini che erano diventano piccoli proprietari terrieri per un atto di generosità compiuto da un uomo a sua volta folle, in un gesto che è di distacco dalla propria classe. È il personaggio di Don Michele, lo zio dell’antagonista del romanzo, una figura tolstoiano, anch’egli esiliato. Un’antecedente di questa figura di autoesiliato in una famiglia potente lo si trova in De Roberto e nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Nei Viceré è uno degli Uzeda che, folgorato dalla lettura dell’Isola del Tesoro di Stevenson, si esilia in una campagna dove fa il falegname. È chiamato dai parenti il Babbeo. In Pirandello è tratteggiato in Don Cosmo Laurentano, ritratto d’eccentrico che si confina nella tenuta della contrada Valsanìa. Lì il personaggio è quello di uno studioso d’astronomia; e in qualche modo lo cito nel romanzo in quel passaggio in cui le stelle sono chiamate “i chiodi del mistero”. Dicevo che questa famiglia Marano, nel proprio destino di follia, svela una condizione che è nostra, l’approdo a una informe identità alienante, ricca, abbiente, in continuo movimento nel proprio delirio. Lo sfondo storico è quello della follia ideologica, collettiva, gli anni Venti dell’avvento inquietante del fascismo”.

Insomma, ci sono le fughe nella follia che non possono raccontarsi e quelle che possono trovare forma nel racconto. Il silenzio, l’afasia o l’esilio della parola chiara, delle ragioni per fronteggiare il dolore, del dolore che sa raccontarsi senza altri compagni di strada che la propria solitudine. In mezzo c’è la falsificazione, i contorcimenti e le parodie dell’ inautentico: Crowley, Don Nenè, D’Annunzio, Schicchi…

<< Si, è l’inautentico,la perdita della veritàil decadentismo. Nel romanzo ho usato molto la disgressione.Queste digressioni hanno un po’ la funzione del coro. In una di queste digressioni, quando c’è l’episodio Crowley conil suo seguito adorante che scende verso la spiaggia e sorprende il pastore Janu con la ragazza, questa discesa notturna con le torce in mano ricorda al narratore certa pittura vascolare in finzione, la sostituzione della verità con una sua rappresentazione, l’incidersi di una cesura, di un distacco definitivo dalla verità.  Quando il protagonista si allontanerà dal paese in  una sorta di eco dell’abbandono di Renzo e Lucia,  c’è la dolorosa consapevolezza di questa frattura insanabile e inaccettabile. La sua gente si allontanata dalla realtà, quella realtà con cui  intratteneva un rapporto armonico. E’ uno stato di sfasamento, di follia generale in cui gli è possibile volgere le spalle al paese senza rimpianto>>.

L’altro scacco viene subito dalla nozione mitica di ragione …

<< Sì, la ragione viene sconfitta.  Un barlume resta in quello che è Il deuteragonista del racconto, Cicco Paolo. C’è un dialogo significativo che s conclude con questa battuta: “ la fantasia è più bella della ragione “.  L’ irrazionale, la violenza, la falsificazione sono le modalità cui la ragione viene sconfitta, e dalla sconfitta fa capolino la follia. Questo  tema della follia d’altronde mi ha accompagnato in tutti i miei libri. Nel segno della follia si apre libro che non a caso si svolge anch’esso a Cefalù,  Il sorriso dell’ignoto marinaio. La prima azione di quel romanzo è un gesto di follia rintanato n antefatto in un’ azione  in limine alla narrazione, che in qualche modo la prec ede e l’orienta. E’ la comparsa di Catena, che sfregia quel quadro che sta li a simboleggiare il discorso della ragione, acquattato nelle pieghe di quel volto. Dalla ragione può uscire dal basso per corruzione, in modo speculare al gesto della ragazza, ed è Il caso del monaco pazzo personaggio della corruzione e della disgregazione che compare nel terzo capitolo in cui si narra dello stupro praticato nei confronti di una ragazza morta, o dall’alto, come fa Caterina sfidando la creazione, l’atto creativo. Lei è un’intellettuale, una che ha letto gli illuministi napoletani francesi  protosocialisti, e che ha vagheggiato una sorta di nuovo assetto sociale: la sua uscita dalla ragione è nelle pieghe dell’ utopia politica. In questo libro, invece, che accanto al  Sorriso un dittico, c’è la sconfitta, lo scacco storico – sociale: e l’unica luce è innocenza dell’umanità è la scrittura come possibilità di raccontare il dolore>>.
Questa possibilità di raccontare il  dolore ha modelli e antecedenti in cui si mescolano letteratura e solchi personali inevitabilmente …
<< In questo  libro c’è il rovesciamento di un rovesciamento. Quando  parlavo del Sorriso del Ritratto d’Ignoto di Antonello,  dicevo di uno segnato dal dolore della conoscenza. Avevo rovesciato la cognizione del dolore di Gadda.  Qui, in Nottetempo c’è veramente l’esposizione della conoscenza del dolore, non più il dolore della conoscenza >>.
A un certo momento del libro il protagonista il parla così: << Non so adesso … Adesso odio il paese,l’isola odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole … odio finanche la lingua che si parla >>. Mai adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui ci sono luoghi cui dedicare una  presunta fedeltà…
<< Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi  c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare. C’è risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non parlo solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della  lingua è chiaro, qui. Io ho sempre cercato di scrivere in un’altra lingua,ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di uscire dai codici, il  disobbedire ai di codici>>.
Questa  disobbedienza ai codici, nelle cose che scrivi, ha però un segno opposto  a quello dei percorsi linguistici dell’avanguardia, nei cui confronti hai sempre provato insofferenza e ostilità …
<< Pasolini, nelle sue invettive, ha detto tutto quello che si può dire contro l’avanguardia. Bisogna distinguere tra sperimentazione e avanguardia. lo credo che ogni vero scrittore dovrebbe essere sperimentatore dentro l’alveo di una tradizione. L’avanguardia è qualcosa di stupidamente in quietante, che io rigetto. Mi sembra un azzeramento e una ricostruzione artificiale, un atto di violenza. Ne ho avuto sempre Il sospetto,non  solo dal punto di vista letterario, ma  direi principalmente in senso etico, o se preferisci politico. Gli azzeramenti preludono sovente alla mediocrità o all’orrore. La tradizione non si può cancellare, e chi  pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa  la vera funzione della letteratura , nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria >>.

C’è una figura fondamentale nel tuo tragitto. Per rispetto alle origini più o meno casuali degli incontri mi piace ricordare che è una persona che ha fatto da tramite al nostro primo incontro che molte volte abbiamo frequentato insieme. La distanza di generazione e Il momento in cui l’ha incontrato e si è stabilita un’amicizia fa sì che io lo consideri , con tutte le zone ambigue del termine, un maestro. Per te potrei dire con più forte ambiguità che si delinei, cosi lontana nel tempo dei tuoi primi passi nella letteratura e cosi ingombrante, come un  figura paterna. Parlo di Leonardo Sciascia.

<< La Presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in  un certo senso, per un tratto della mia attività, di  concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se si vuole delle vacanze. Perché lui aveva una metafora certa – era la sua impostazione letteraria della vita storico-sociale del nostro paese. I Suoi libri erano tutti metafore e letture della contemporaneità politica scavate in una scrittura di tipo illuministico, dentro le strutture del giallo. La sua azione di scrittore civile consentiva  a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e  Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e Italiana. In quel momento  mi sono  accorto che avevano tirato un respiro di sollievo volevano sbarazzarsi della sua forza letteraria, che avevano fretta di fare i conti, di neutralizzarne l’eco. Il fenomeno paradossale è nel fatto che coloro che stanno producendo la barbarie , i detentori della comunicazione, i giornalisti scrittori, si sono sentiti liberati della presenza di uno che batteva sul loro stesso terreno d’investigazione loro, con ben diversi risultati letterari,  tra i più alti della letteratura contemporanea. Anche la mia presenza li irrita, proprio perché invece non combatto nello stesso terreno. I miei  libri, che sono anch’essi profonda mente metaforici, vengono invece attaccati sul piano formale,  mentre cresce il  fastidio per questa  querimonia sicula che continua ancora. Questa  voce siciliana che non si estingue li irrita>>.

Qual è Il tuo rapporto con la società letteraria, ammesso che ne esista una, con la più giovane leva di scrittori?

Una società letteraria non esiste più. Ai giovani  rimprovero la facilità con cui si sottopongono alla proposta omologante delle aziende editoriali . Lo scrittore come oggetto coltivato in serra è una evidenza. Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie. Lo scandalo che alcuni hanno sollevato intorno alla Storia della letteratura di Giulio Ferroni è consequenziale alle dimensioni di libertà di quel libro, libertà dalle aziende che invece riflettono il loro messaggio sulla cosiddetta critica militante dei giornali. In questo senso l’Università come luogo di ricerca di spiriti liberi può ritrovare una funzione liberatoria.

Perché nutri un interesse cosi esclusivo per la Sicilia?

Prima o poi finirò anch’io per scrivere un mio Per le vie. La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’e, ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce sino in fondo, è connaturato un uno stile che ingloba la memoria  attraverso il linguaggio. Un linguaggio si abita, nostro malgrado. Anche se non ho avuto la stagione mondana di Verga, a Milano mi sono ritrovato Nella sua stessa condizione di spaesamento, a contatto  con un mondo che non riuscivo capire. Verga lo scrittore  gigantesco c è, nasce da una regressione da una  paura, da un’impossibilità. Anch’io quando  mi sono trasferito a Milano avevo intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capii che per farlo avevo bisogno della distanza della metafora storica. E’ quello che acutamente ha sottolineato come peculiarità del mio modo di scrivere un critico come Cesare Segre: è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente.

Che cosa ti interessa della letteratura Europea  contemporanea?

Quando parliamo di letteratura dobbiamo circoscrivere discorso alla narrativa; la poesia ci porterebbe altrove. La narrativa resiste nei luoghi periferici, non colonizzati, se vuoi nei  terzimondi. Nel mondo post-industriale essa è  seriamente minacciata da un linguaggio che somiglia alla letteratura, un po’ come accade in politica: appaiono linguaggi copia, surrogati,imposture. Milan Kundera è uno degli scrittori più interessanti e di resistenza. I frutti più vitali del romanzo contemporaneo sono legati infatti a questo senso incombente di fine. La poeticità sta sparendo dal mondo e da solo il romanzo può raccontare questa fine. Una certa vivacità la si trova anche nella letteratura araba, come sino a qualche anno fa la si trovava nella letteratura sudamericana.
Il cosiddetto crollo delle ideologie ha ridefinito Il ruolo dell’ intellettuale, o piuttosto quella figura e quel ruolo sembrano stagliarsi piccoli e sperduti in un paesaggio in continuo cambiamento. Senza grandezza senza avventura

L’intellettuale ha avuto sempre angoscia di rimanere fuori dalla storia. Angoscia della cancellazione, oscillando fra opportunismo, cinismo ed entusiasmi. Questa storia del crollo delle ideologie è in conflitto con i nodi irriducibili dell’esistenza: il povero e il ricco esistono senza possibili equivoci e il postulato ideologico che s’è sostituito all’ideologia – la ricerca della felicità e del godimento –   è continuamente attraversato da un’inquietudine insanabile. Ingiustizia, Invenzione di nuovi confini, ritorno dell’orda tribale poveri che premono ai  cancelli, enormi frange di gente che si sposta alla ricerca di mezzi di sussistenza: il panorama reale che viene incontro a noi è questo. Le ideologie dei conservatori e degli esteti non mi sono mai piaciute. Preferisco l’ideologia degli esiliati che alita sul nostro benessere.

Il fatto indubbio è  la continua esibizione di aspetti miserabili della vita intellettuale.

E’ la televisione, la bomba atomica permanente che distrugge i linguaggi dopo avere già avuto distrutto la poesia del cinema. Attraverso la televisione si attua una perdita continua di pietas. E’ Il campo di sterminio della coscienza e dell’intelligenza del dolore. Ne ho orrore, e una certa e sinistra vi ha concorso a pari merito con il dilagare tronfio della conservazione.

L’olivo e l’olivastro un libro Importante, un libro indignato che fruga in quel male che la televisione cerca di divorare quasi sempre in modo avvilente,perfettamente intercambiabile con la posizione opposta.  E un libro dolente che piega la scrittura a un un tono che sta dentro e fuori dalla letteratura senza rinunziare alle tensioni del linguaggio muovendosi a zig zag Tra ciò che resta di un luogo, la Sicilia, dopo e durante il disastro. Il tono e quello della disillusa e intelligenza evocata dal viaggiatore del libro, disperata ma non rassegnata. Almeno cosi mi pare di averla avvertita, o mi sbaglio?

Ricordo una drammatica fotografia scattata da Ferdinando  Scianna dopo Il terremoto della valle del Belice; si vedeva un uomo sopra un cumulo di macerie di quella che forse era stata la sua casa, lo sguardo, un pugno chiuso rivolti contro il cielo; certo è l’immagine di un’imprecazione, di una bestemmia mossa dal dolore, dalla disperazione.

Ne L’olivo e l’olivastro il viaggiatore tra le rovine di Sicilia. o l’io che narra, se vuoi, è mosso, negli urli, nelle invettive, dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione.

Ti è capitato sempre più spesso di dover far sentire la tua voce pubblicamente, di rimettere nelle mani di chi te  l’aveva consegnato il mandato di Presidente di un teatro, a esempio. Perché  il ruolo dell’intellettuale in Sicilia rischia di essere sempre più di dimissionario o di scomunicato?

Ho accettato quell’incarico per ingenuità, con l’illusione che cosi avrei potuto portare sul piano della prassi  un contributo immediato alla cultura palermitana. Delusione e quindi tristezza. All’intellettuale non è ancora permesso nessun tipo di rapporto col potere.

Quali sono le cose che ti irritano maggiormente nelle vicende di potere in Sicilia e qual è lo spazio d’azione dell’Intellettuale? Parlo di uno spazio d’azione comune, che sfugga alla barbarie della duplicazione della guerra civile che si nota nelle relazioni tra intellettuali e a tutti i livelli della vita sociale.

Mi irrita l’aggressione costante che i mediocri mettono in atto nei confronti di persone o enti che hanno saputo realizzare qualcosa di valido: l’aggressione alla casa editrice Sellerio, l’unico fenomeno culturale vero venuto fuori dal l’Isola dal dopoguerra a oggi, è un esempio al di là di ogni vicenda politica o giudiziaria. Gli aggressori dovrebbero sentire una grande vergogna. Azione comune? Com’è difficile! Siamo, noi Intellettuali vanitosi e superbi, ferocemente individualisti, distruttivi e autodistruttivi .

Qual è il libro che ti racconta meglio e perchè?

Tutti: li considero capitoli di un unico libro. Ma più strettamente legati tra loro che più mi raccontano sono ll Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa timo libro casa per casa, e quest’ultimo libro L’olivo e l’olivastro
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