I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo



Giulio Ferroni
Università La Sapienza


Nel capitolo VI de Il sorriso dell’ignoto marinaio si svolge un’intensa interrogazione del senso della scrittura dei «cosiddetti illuminati», dei «privilegiati» che pure tentano di dar voce ai villani che si sono ribellati alle ingiustizie; se ne rileva il carattere di impostura, di fronte alla
difficoltà e impossibilità di far parlare le lingue “altre”, di trovare «la chiave, il cifrario dell’essere», lo strumento di accesso al mondo delle classi subalterne, alla loro espressione, al loro essere, al loro sentire e al loro risentimento. Entro questa insuperabile difficoltà viene chiamata più specificamente in causa l’insufficienza dei nomi, delle parole del codice politico, fatto di termini che restano estranei alle classi popolari; anche le grandi parole come «Rivoluzione, Libertà, Egualità, Democrazia» mostrano la loro incorreggibile parzialità. Di fronte a questa situazione, si delinea l’attesa di parole nuove, di nomi capaci di afferrare quella realtà che sfugge al linguaggio attualmente disponibile, conquistati dagli stessi soggetti che da quello sono esclusi: “Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose”1 . I nomi vengono ad essere, in effetti, nella loro evidenza, gli strumenti essenziali di un contatto con le cose, qui con una proiezione utopica (che risente ancora delle utopie sessantottesche) verso il sogno di un legame futuro, solidale, tra nomi e cose, verso una conciliazione che cancelli ogni scissione, ogni lacerazione tra il linguaggio e la realtà. 56 Ben presto però, nell’esperienza di Consolo, al di là di questa proiezione in avanti, si impone un movimento opposto che conduce la scrittura, nel confronto con l’evidenza dei nomi, a risalire all’origine, o comunque ad un perduto passato di conciliazione tra la realtà e il linguaggio. Essi si porranno allora come segni persistenti di ciò che è stato lacerato, segni che recano in sé le stigme del dolore, che manifestano la necessità e insieme l’impossibilità di un riconoscimento, di una risposta all’offesa del male e della violenza. Nel testo eponimo de Le pietre di Pantalica lo sguardo agli oltraggi subiti da Siracusa rinvia ad uno scritto di Alberto Savinio (Nivasio Dolcemare), Fame ad Atene, con il terribile ricordo di uno degli oltraggi subiti da Atene nella seconda guerra mondiale (la morte per fame di ottocento persone), e al modo in cui lo scrittore cercò di rievocare e difendere la memoria della città proprio affidandosi ai suoi nomi: “Allora lo scrittore, per quest’offesa all’umanità, per quest’oltraggio alla civiltà, fa una rievocazione della sua Atene servendosi dei nomi: di vie, di piazze, di bar, di ritrovi; di persone, di oggetti; e soprattutto di cibi, di dolci. Nomi scritti nella loro lingua, in greco. Roland Barthes ci ricorda che in latino sapere e sapore hanno la stessa etimologia. E anch’io allora, come Nivasio Dolcemare, vorrei, se ne fossi capace, rievocare la mia Siracusa perduta attraverso i nomi: di piazze, di vie, di luoghi … Ma soprattutto di cibi, di dolci, magari servendomi di un prezioso libretto, Del magiar siracusano, di Antonino Uccello. Ma, Antonino, ha senso oggi trascrivere quei nomi?”2 . La coscienza della divaricazione tra l’originario mondo della tragedia greca e l’uso delle contemporanee rappresentazioni in traduzione (proprio nella disastrata Siracusa) fa poi sorgere un’allocuzione ai mitici personaggi di Argo, città «ridotta a rovine», il cui ricordo può persistere, come quello di Siracusa o di Atene, solo nella parola originaria della poesia: “Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città”
3 . 2. 3 Ibidem. 57
Il rilievo del nome sostiene l’ampio uso che Consolo fa della enumerazione caotica e dell’elencazione seriale, che dà assoluta evidenza ai sostantivi nei loro diversi tipi, dai nomi propri (luoghi, persone, dati della storia e del mito, ecc.) a quelli comuni di cose materiali e concrete a quelli di cose astratte e ideali, ecc. Queste enumerazioni di nomi si collegano talvolta a scatti improvvisi della sintassi, tra inversioni e alterazioni ritmiche: il linguaggio viene così forzato in una doppia direzione, sia costringendolo ad immergersi verso un centro oscuro, verso l’intimità delle cose e dell’esperienza, verso il fondo più resistente e cieco della materia, il suo inarrivabile hic et nunc, sia allargandone l’orizzonte, dilatandone i connotati nello spazio e nel tempo, portandolo appunto a “vedere” la distesa più ampia dell’ambiente e a farsi carico della sua stessa densità storica, di quanto resta in esso di un lacerato passato e di faticoso proiettarsi verso il futuro. Nel IV capitolo di Nottetempo casa per casa il «maestricchio» Petro Marano, chiuso nella torre del vecchio mulino avuto in lascito, meditando sul dolore della propria famiglia, dopo essersi abbandonato ad un urlo indistinto e senza scampo, si aggrappa alla forza delle parole, che sono prima di tutto «nomi di cose vere, visibili, concrete», nomi che egli scandisce come isolandoli nel loro rilievo primigenio e assoluto e da cui ricava un impossibile sogno di un ritorno alle origini, di un rinominare capace di trarre alla luce una realtà non ancora contaminata dal dolore e dalla rovina. Nuovo inizio potrebbe essere dato appunto dalla trasparenza assoluta di nomi che designano una realtà senza pieghe dolorose, in un nuovo flusso sereno della vita e del tempo: “E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno …» scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento 58 in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”4 . Petro rinvia alla scaturigine dei nomi, che, quando designano cose concrete, sembrano mantenere ancora il nesso primigenio, la misura di quando nulla era ancora accaduto, di quando il male e il dolore non aveva ancora lacerato le possibilità dell’esperienza. E si noti come in questa elencazione, che la punteggiatura fissa in una sorta di forma pura, i vari nomi si succedano a gruppi, riferiti a diversi settori d’esperienza, secondo una progressione che va dalla solidità elementare della terra al richiamo aereo del volo e di uno spazio cosmico, fino alla colorata impalpabilità dell’arcobaleno. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio l’evidenza del nome si impone fi n dalle pagine iniziali, con lo sguardo del barone Mandralisca che si avvicina alla costa della Sicilia, la cui immagine si fissa nei nomi dei feudatari signori delle torri sormontate dai fani (si noti qui la quasi totale assenza degli aggettivi: c’è solo il generico grande e il numerale cinque). “Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo …”5 . Ai nomi dei feudatari che in quel momento dominano i luoghi succedono poi quelli delle città sepolte, evocate dalla sapienza archeologica del barone: “Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni”6 .  6 Ibidem. 59
Ecco poi più avanti un elenco dei pellegrini che procedono verso il santuario di Tindari e degli oggetti che recano con sé: “Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti con qua e là crescenze gonfi ori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano”7 . E si ricordino ancora più avanti i nomi elencati dal Mandralisca di fronte ai pazienti visitatori della sua casa- museo: “Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare ad una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli e valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma”8 . E del resto la figura stessa del Mandralisca, erudito e malacologo, raccoglitore e classificatore di oggetti, di dati e di date, è elettivamente disposta alla ricerca e alla sistemazione dei nomi, alla loro disposizione ed elencazione (e si può ricordare, sempre nel Capitolo primo, il sogno di farsi pirata per impadronirsi della «speronara» che sta trasportando chissà dove dei marmi: se potesse averli farebbe schiattare di rabbia altri collezionisti concorrenti, i cui nomi vengono anch’essi riportati in elenco)9 . Ma in tutta l’opera di Consolo si danno le più diverse variazioni, combinazioni, funzioni in questo uso dei nomi. Così nel racconto di cui qui presentiamo la traduzione di Irene Romera Pintor 7 Si noti qui la sottile scansione, con la successione dei tre membri introdotti nell’ordine da donne, vecchie, uomini, e poi il successivo elenco in cui risaltano i luoghi d’origine dei diversi prodotti, dove l’evidenza delle derrate alimentari è sottolineata dal complemento con il nome proprio, il tutto disposto in una sequenza di quattro settenari e di un endecasillabo: vino di Pianoconte,/ malvasia di Canneto,/ ricotte di Vulcano,/ frumento di Salina,/ capperi d’Acquacalda e Quattropani. 8  «Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina».
60 Pintor, Filosofiana, si può trovare una fitta presenza di nomi geografi ci e topografi ci, mentre fortissima suggestione ha l’elenco dei nomi delle erbe pronunciato dall’impostore don Gregorio: “E salmodiando, don Gregorio gettava sopra la balàta le erbe che prendeva a una a una dalla sporta, chiamandole per nome. «Pimpinella,» diceva «Petrosella, Buglossa, Scalogna, Navone, Sellerio, Pastinaca…»”10.
Ma vorrei insistere un po’ più diffusamente su Retablo, che prende avvio proprio da un nome, quello della donna amata da Isidoro, Rosalia, subito scomposto nelle sue due componenti, Rosa e Lia, poi ossessivamente ripetute. Ciascuna di queste due componenti dà avvio ad una serie di esaltate variazioni. La prima variazione scaturisce dal piano semantico di rosa, in un delirio floreale, carico di profumi e di colori, che dà luogo ad altre serie di termini moltiplicati. Dopo il nome e la sua scomposizione, rosa viene ripetuto quattro volte, ogni volta seguito da una relativa che ne specifica l’azione; poi si passa ad una negazione paradossale (Rosa che non è rosa) e a due nuove riprese di rosa, accompagnate ancora da relative, ma stavolta le relative danno luogo a predicati nominali, entro ciascuno dei quali si dispongono quattro termini con nomi di fiori (prima datura, gelsomino, bàlico e viola; poi pomelia, magnolia, zàgara e cardenia). A queste identificazioni della donna con i diversi fi ori succede l’immagine del tramonto, con il suo trascolorare (fissato nell’immagine della sfera d’opalina, cioè di un vetro traslucido e opalescente) e con l’addolcirsi dell’aria (forte l’espressività di sfervora, come se essa riducesse la sua febbre), seguita nel suo penetrare dentro il chiostro del convento e nel suo spandervi nuovi profumi (ancora con elencazioni seriali, prima dei predicati, coglie, coinvolge, spande, poi dei complementi aggettivati, odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi) che sembrano risultare da un’opera di

10 CONSOLO, V. (1988: 92). Vero tour de force quello della traduzione di Romera Pintor, in CONSOLO, V. (2008: 69): “Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre./ «Pimpinella» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…»”. 61

distillazione (e i balsami sono grommosi perché sembrano carichi di incrostazioni, di una sensuale impurità): “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ah!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”11. Sul secondo termine della scomposizione si svolge tutta una serie di variazioni foniche a partire dal significante lia, in un viluppo di termini che contengono la sillaba li o la sola labiale l (daliato a lumia a liana a libame, licore, letale, ecc., fi no a liquame). Dal nome Lia si svolge, come un vero e proprio denominale, il verbo liare (che indica un’azione simile a quella che fanno sui denti agrumi come il cedro e la lumia), a cui segue tutta una serie di sostantivi caratterizzati dalla posizione iniziale della sillaba li, da liana (che contiene in sé il nome Lia); si notino le voci dotte libame (latino libamen), «libagione» che agisce come una droga (oppioso), lilio per «giglio», angue per «serpente»; limaccia indica una «lumaca» che lo avvolge nei suoi vischiosi avvolgimenti, attassò, (siciliano da attassari, «assiderare, freddare»); lippo è il siciliano lippu, che indica il musco e in genere ogni pellicola viscosa che si attacca: “Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione”12. 12 Ibidem. 62 Ruotando sul nome e scomponendolo, in queste cascate di sostantivi che solo in pochi casi sono accompagnati da aggettivi, si svolge così un canto d’amore cieco e sensuale che si riavvolge su se stesso e che trova una figura esemplare, nel serpe che addenta la sua coda, del riavvolgersi di ogni esperienza su se stessa (è una figura, questa, molto cara a Consolo, come quella simile della chiocciola, riavvolta su di sé, in un percorso circolare che sempre torna al punto di partenza). Dopo questa scomposizione del nome della sua Rosalia, il frate ricorda di averla cercata nei luoghi più diversi di Palermo, fino ad identificarla in modo blasfemo con l’immagine della santa protettrice della città, Rosalia appunto, venerandone il corpo racchiuso nel sepolcro di cristallo nel celebre santuario del Monte Pellegrino: esasperata sensualità, erotismo, ossessione funebre, ritualità spettacolare, senso del peccato e della dannazione si fondono qui in un nesso inscindibile. Il nome di Rosalia viene ripetuto poi più volte, in diversi punti del libro; e al diario della peregrinazione del pittore Fabrizio Clerici si intreccia una confessione di Rosalia, che si scinde e si confonde in un’immagine singola e doppia, la Rosalia di don Vito Sammataro e la Rosalia di Isidoro che è in realtà «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»13. Nell’attraversare i luoghi della Sicilia, Fabrizio Clerici ne assapora i nomi propri, trae in luce i signifi cati che addensano in sé; e dalle più semplici etimologie può lasciar scaturire altre cascate di nomi, come qui, che dal nome di Salemi vengono fuori in successione altri nomi astratti, altri nomi geografi ci, altri nomi concreti: “Ma era certo insieme quel paese Salem e Alicia, luogo di sale e luogo di delizia, del rigoglio e del deserto, dell’accoglienza e dell’inospitale, della sterilità e del fico bìfero, ché subito, appena pochi passi oltre l’aridume, ove la terra veniva ristorata dalle fonti di Delia, Ràbisi, Gibèli, Rapicaldo, dal Gorgo della donna, la terra si faceva, come la Promessa, copiosa di frutti d’ogni sorta, e di pascoli, di vigne, d’olivi, di sommacco”14.. 63 Poco più avanti si ascolta don Carmelo Alòsi, esperto nell’arte «degli innesti e della potatura», elencare, come «un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini» che ha conosciuto e in cui ha lavorato: “di Francofonte o di Lentini, della Conca d’Oro o del Peloponneso, di Biserta o d’Orano, di Rabat o di Marrakech o di Valencia. Come pure i giardini di capriccio e d’ornamento, piccoli come quelli di Mokarta, del Patio de los Naranjos sotto la Giralda di Siviglia, del Generalife sopra all’Alhambra di Granada o quello delle latomìe del Paradiso in Siracusa”15. Ma la campionatura dei nomi di Retablo può agevolmente condurre dai nomi geografi ci e topografi ci a quelli mitici. Così da una epigrafe greca di Selinunte sgorga una serie di nomi di classiche divinità: “Vinciamo per Zeus, per Phobos, per Eracle, per Apollo, per Poseidon e per i Tindaridi, per Athena, per Malophoros, per Pasikrateia e per gli altri dèi, ma per Zeus massimamente…”16. Ci sono poi i nomi storici, come quelli delle famiglie nobili di Trapani di cui don Sciavèrio Burgio presenta le dimore, a cui seguono i nomi delle chiese: “- Del barone Xirinda –dicea– del duca Sàura, dei signori Scalabrino, del marchese Fardella, del barone Giardino, Piombo, della Cuddìa, di San Gioacchino, dei signori Pèpoli, Staìti; e ancora: Poma, Todaro, Reda, Milo, Salina, Bartalotta, Riccio, Pandolfina, Rapì, Arcudaci… Quindi le chiese, più belle, più imponenti: del Collegio, di san Lorenzo, di Santo Spirito, della Badia, del Monserrato…”17. In questo delirio dei nomi, quello del poeta Giovanni Meli, ricordato dal pastore Alàimo, dà luogo ad una serie di variazioni paronomastiche: 64 “D’un poeta di qua, mi disse dopo, da tutti conosciuto e frequentato, di nome Meli. Ma Mele dico ei doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male”18. Ecco poi gli elenchi di nomi di oggetti, come quelli che popolano la casa-museo del Soldano: “… mi parve d’entrare nel museo più stivato e vario. V’era per tutte le pareti, sopra mobili e mensole, capitelli e basi di colonne, dentro nicchie e stipi, pendenti fi nanco dal soffi tto, ogni più bello e prezioso o più orrido e peregrino oggetto. Integri e lucidi e con disegni limpidi, neri crateri sicoli e attici, anfore oriballi coppe pissidi lecane, teste e gambe e torsi di terre cotte e marmi, arcaici rilievi di frontoni, di corrose metopi, luminosi parii di dèe e divi e d’eroi mitici di grecanica, fattura nobilissima o nei rifacimenti de’ romani; tavole dorate bizantine, croci dipinte, pale dei Fiamminghi, e vaste tele delle scuole del Sanzio, del Merisi o del Vecellio; stemmi, pietre mischie, conche di porfido, retabli gagineschi, calici incensieri cantaglorie, teschi d’avorio o maiolica sopra le cartapecore di codici e messali; cereplaste di Vanitas, morbi, pesti, flagelli e di Memento mori…”19. Come sintesi esemplare di questa furia della nominazione che agisce in ogni momento di Retablo, che agisce allo stesso modo sul frate siciliano sfratato e sul viaggiatore milanese che attraversa la Sicilia (anche se questi mette in bocca molte di queste serie di nomi a siciliani, a ospitali personaggi incontrati durante il suo viaggio), si può ricordare la pagina seguente, che si svolge in accumuli successivi di nomi di ordini diversi, da nomi geografi ci a nomi di navi a nomi di merci di ogni sorta. Siamo davanti al porto di Trapani (come fatto riavvolgere su se stesso attraverso il gioco paronomastico porto/ porta, in più complicato dal superlativo importantissima), la cui immagine balena in tutta evidenza davanti al lettore grazie ad una sorta di litania, attribuita da quel don Sciavèrio che accoglie i viaggiatori (e proprio letàne viene chiamata, non senza una certa ironia, quasi un fuggevole. 65 do autoironico di Consolo alla propria così pervicace e suggestiva passione per i nomi): “In quel porto, ch’è porta importantissima d’ogni incrocio e scambio, d’ogni più vario mondo, d’ogni città di traffico e commercio d’infra e fuori Regno, del settentrione e del meridione, del levante e del ponente, d’ogni isola, costa o continente: di Cipro, Rodi, Candia, Malta e di Pantelleria, d’Amalfi , Procida, Livorno, Lucca, Pisa, Genoa e Milano, di Venezia e di Ragusa, di Barcellona, Malaga, Cadice, Minorca… Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffi co, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, poi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favignana, Scopello e Bonaglia, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolizia, sommacco, pelli, solfo, tufi , marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, fl anella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca… Queste letàne me le cantò orgoglioso un trapanese, cònsolo del Corpo dei naviganti, patrone di vascelli, don Sciavèrio Burgio…”20.
 20 CONSOLO, V. (1987b:132). 66 BIBLIOGRAFIA: CONSOLO, V. (1987a): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Introduzione di Cesare Segre, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1987b): Retablo, Palermo: Sellerio. CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (2006): Nottetempo casa per casa, Prefazione di Giulio Ferroni, Torino: UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci. CONSOLO, V. (2008): Filosofiana (relato de Las piedras de Pantálica), Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor, Madrid: Fundación Updea Publicaciones


La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


L’isola in me – in viaggio con Vincenzo Consolo

L’isola in me

18 ottobre 2009

L’isola in me – in viaggio con Vincenzo Consolo
L'isola in me foto 1 di 2

un film documentario di Ludovica Tortora de Falco

durata: 75 MINUTI
supporti: 16 mm, super 8, HDV
materiale di archivio video e fotografico
formato: DIGI-BETA, STEREO
fotografia: FERRAN PAREDES RUBIO
montaggio: ILARIA FRAIOLI
musica: ANDREA AMENDOLA
produzione: ARAPÁN CINEMA DOCUMENTARIO 2008
produzione esecutiva per ArapánCinemaDocumentario: GIUSEPPE SCHILLACI, LUDOVICA TORTORA de FALCO

Realizzato con il contributo del Ministero Beni Culturali – Direzione Generale Cinema – e dell’APQ ‘Sensi Contemporanei’ della Regione Siciliana.

Un viaggio nella Sicilia suggestiva e dolorosa di Vincenzo Consolo.
Un ritratto originale dell’isola attraverso gli occhi dello scrittore, ma anche un ritratto dell’uomo e dell’artista attraverso le luci e le ombre della sua terra.
Questo documentario riscopre la voce preziosa di Consolo attraverso i suoi testi e le immagini della sua Sicilia, dalle profondità del Mito dell’isola, emerge una lettura lucida della Storia siciliana, italiana dal Dopoguerra ad oggi: l’emigrazione verso il Nord, la vita dei minatori delle zolfare, la fine del mondo contadino, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose di ieri e di oggi.
Una storia che lo scrittore stesso ha vissuto in prima persona, condividendola con alcuni tra i più importanti intellettuali italiani (Moravia, Levi, Pasolini, Sciascia).

Premio per il Miglior Documentario al Sicilian Film Festival di Miami Beach, Florida (aprile 2009),
Menzione Speciale della Giuria al Mediterraneo Video Festival di Agropoli, Salerno (settembre 2009)

Vincenzo Consolo ci racconta Pio La Torre

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Vincenzo Consolo ci racconta Pio La Torre

Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso, all’aeroporto, dove il Governo di Spadolini aveva deciso di far installare i missili Cruise. Ero là in uno dei giorni in cui facevano il blocco davanti al cancello centrale dell’aeroporto i pacifisti giunti d’ogni dove. Erano ragazzi accovacciati a semicerchio per terra. Volevano così impedire ai camion, alle impastatrici, agli operai di entrare nel campo. Tutti avevano maglie, giacconi variopinti sopra le teste di capelli ricciuti.

Alcuni avevano tute e casacche bianche, e sul petto e le spalle dipinte grandi croci scarlatte. Le ragazze portavano giacchette indiane con ricami e specchietti o la kufia palestinese sopra le spalle. Sul muro di mattoni sovrastato dal filo spinato e da un filare di eucalipti erano scritte di calce e appesi striscioni di tela. Dicevano «Pace», «Amsterdam contra militarisme», «Testate nucleari – Carcero speciali – È questa la guerra contro i proletari», «Vogliamo vivere, Vogliamo amare – Diciamo no alla guerra nucleare». Erano ancora tutti assonnati e di più assonnati i poliziotti e i carabinieri che chissà in quali ore notturne erano stati fatti partire dalle caserme di Ragusa o Catania. Erano giovane anch’essi e schierati davanti al cancello, a fronteggiare quegli altri accovacciati per terra. M’aggiravo sullo spiazzo di terra battuta e di stoppie, da un capo all’altro, e guardavo quei visi di giovani e volevo capire chi era dell’Isola, vedere se ne riconoscevo qualcuno. Ma nessuno; mi sembravano tutti d’un luogo di cui non avevo cognizione. Fu allora che mi sentii chiamare, richiamare. E mi corsero incontro alcuni del mio paese lì alle falde del Nébrodi, figli o nipoti di vecchi amici e compagni. Erano Aldo, Antonella, Francesco, Rino, Grazia, Saro. Mi dissero che era stato là, nei giorni passati, Pio La Torre, che li aveva spronati a resistere, a opporsi a quel progetto terribile dei missili Cruise, che avrebbero dovuto essere installati anche su rampe mobili e scorazzare per tutta la Sicilia.

Arrivano quindi le impastatrici e i camion degli operai decisi a entrare. I ragazzi fecero blocco, li fermarono. Arrivava intanto altra gente, politici, preti, un abate di Roma ch’era stato sospeso dal suo ufficio. Arrivò anche il questore, un omino atticciato in giacca e cravatta. Si mise a dire che doveva entrare nel campo, che doveva telefonare a Roma. Tutti dissero no, no! e serrarono le file davanti al cancello. E si misero a scandire slogan. «Dalla Sicilia alla Scandinavia – No ai missili e al patto di Varsavia». Il questore, a un punto, si mise a urlare, a dare ordini. Si mossero subito i militari con elmi, scudi e manganelli. Picchiarono e picchiarono sopra teste, schiene nude e braccia. Urla si sentirono, lamenti e un gran polverone si levò da terra. Sparavano lacrimogeni e nel cielo si formavano nuvole. Inseguivano e picchiavano tutti, giovani e no, deputati, medici e infermieri, giornalisti e fotografi. Stavo là impietrito a guardare. E vidi Luciana Castellina scaraventata per terra e picchiata; un giovanissimo carabiniere che s’inginocchia e piange; un poliziotto che sta per sparare, quando un altro a calci nel polso gli fa cadere l’arma di mano… Vidi che afferravano per i capelli e a calci e spintoni facevano salire sui furgoni i catturati. Mi sorpresi trasognato a urlare, a chiamare i miei giovani compaesani: «Antonella, Mino, Saro…», i quali arrivarono sanguinanti, pallidi, storditi. «Scappiamo, scappiamo!» dissero. «Hanno preso Grazia» dissero «Hanno preso Francesco»… Li lasciai raccomandando loro di tornarsene a casa, ché tanto a Roma il governo aveva deciso a tener duro su Comiso, a far rispettare a ogni costo gli impegni con gli Usa.

E invece no. Per merito di Pio La Torre e del movimento dei pacifisti, i missili Cruise vennero portati via, l’aeroporto sgomberato da quella minaccia. E l’aeroporto, già intitolato al generale di Mussolini Magliocco, venne poi intitolato, nell’aprile del 2007, a Pio La Torre, ucciso dalla mafia, venticinque anni prima. Ed ora, vergognosamente, il sindaco di An di Comiso vuole restituirlo alla memoria fascista di quel generale. Vergogna e ancora vergogna!
Pio La Torre, uno dei martiri siciliani, dei combattenti contro la mafia, l’oscuro e terribile potere politico mafioso. Nel secondo dopoguerra è il combattente martire insieme a Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale… Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni, quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della Riforma Agraria, per l’assegnazione ai contadini di «fazzoletti» di terra nei feudi dei Gattopardi. Eletto nel Parlamento italiano, poi La Torre decide di tornare in Sicilia. Torna perché sente che sono tre i grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana all’aeroporto di Comiso. Col suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarmemolte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, e soprattutto la legge, che porta la sua firma, del sequestro dei beni dei mafiosi, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. La Torre viene ucciso la mattina del 30 aprile 1982 mentre è in macchina, in via Generale Turba, a Palermo, insieme al suo autista Rosario Di Salvo.

È Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi caduti nella lotta alla mafia, sono loro l’onore di Sicilia, e di tutto questo nostro Paese. Paese oggi irriconoscibile e irriconoscente. Paese in cui l’attuale sindaco di Comiso di An Giuseppe Alfano (tanto nome!) immemore o smemorato o incosciente, vuol togliere il nome di La Torre all’aeroporto e restituirlo al generale fascista Vincenzo Magliocco. Dopo la via di Roma da intitolare as Almirante, le impronte digitali ai bambini rom, la criminalizzazione dei clandestini, dopo il lodo Alfano e tanto, tanto altro di questo onorevole Governo Berlusconi, questa è la poitica di ministri e piccoli sindaci del nostro irriconoscibile paese.

L’Unità

Un ritratto di Elio Vittorini a cento anni dalla nascita di Vincenzo Consolo

Vittorini
da Siracusa
alle città del mondo

(“Il Manifesto”, quotidiano comunista,

24 luglio 2008)

Jole, sorella di Elio Vittorini: e viene subito in mente la più famosa sorella della letteratura italiana, Maria, la Mariù di Zuanì, di Giovanni Pascoli. Ma Jole Vittorini è quanto di più lontano si possa immaginare da quel precedente. Il suo libro, Mio fratello Elio non è una imbarazzante agiografia, ma una breve memoria remota, un piccolo quadro di vita familiare, d’una famigliola siciliana dei primi anni del Novecento in cui i genitori, i figli, i nonni, gli zii risultano avvolti in una tenera luce, la jonica luce di Siracusa, in cui il primogenito Elio, luminoso per nome, risulta il più ricco d’inventiva, il più assetato d’avventura. Sembra, il racconto di Jole Vittorini, ubbidire innanzitutto al pudore, alla discrezione in cui sempre avvolgeva l’autore di Conversazione in Sicilia la sua famiglia, la sua vita privata, in cui era avvolta la madre Lucia, luminosa per nome anche lei.

Scrive Jole: «Mia madre era gelosa dei suoi sentimenti; e non permetteva che altri frugassero nella sua vita sentimentale. Un po’ come Elio». È quella madre che, scoperta un giorno la figlia intenta a leggere le lettere che il marito le aveva inviato, le strappa, una per una. (Questa ritrosa e orgogliosa Lucia ricorda Clementina, la protagonista del racconto di Giuseppe Antonio Borgese La Siracusana). «Non avrà più di sedici anni, ma gli si sente addosso l’odore della gonna di mamma. Oh, altre donne ha per il capo» pensa del ragazzo che è con lei nello scompartimento del treno la procace e vitale canzonettista Montalbano del racconto Piccolo amore di Piccola borghesia. Questo è il racconto di Jole. Salvatore Vittorini, diplomato maestro, decide d’imbarcarsi su un bastimento. La sua carriera di marinaio si interrompe però al primo viaggio dopo una tempesta nel canale di Sicilia e un fortunoso approdo nel porto di Pozzallo. Il mare lo regala alle ferrovie. È il 1906. L’anno dopo il giovanotto sposa la bella Lucia Sgandurra, figlia di un barbiere appassionato lettore di libri (De Amicis, a Siracusa, di cui scrive splendidamente in Ricordi di un viaggio in Sicilia, capita nella bottega dello Sgandurra e dirà di non aver mai incontrato un barbiere così colto).

Epiche avventure tra case di fango

I due sposini Salvatore e Lucia raggiungono Sant’Agata di Militello, un paese di pescatori e di contadini sulla costa tirrenica. È la prima stazione di tante altre, il primo di altri paesini, di luoghi sperduti in cui dimoreranno i coniugi Vittorini con i quattro figli che con gli anni verranno. «Si stava in piccole stazioncine ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno. Era un deserto ovunque di malaria; e ovunque di latifondo incolto; in qualche luogo con un allevamento di pecore a un tiro di schioppo, in qualche altro luogo con una miniera di zolfo nelle vicinanze» (Elio Vittorini, Pesci rossi, 1949, n. 3 della rivista bollettino editoriale di Bompiani in Diario in pubblico).

È la smarrente solitudine, l’angosciante desolazione del povero, nudo paesaggio del racconto La signora della stazione ancora di Piccola borghesia, o di Conversazione in Sicilia. È la solitudine più toccante della bambina Jole, unica femmina e ultimo rampollo di una nidiata di maschi: Elio, Ugo, Aldo, che per i campi s’inventavano epiche avventure, si costruivano mondi favolosi. «La mia unica distrazione erano gli arrivi e le partenze dei treni. Li guardavo dalle finestre, dietro le grate metalliche che dovevano proteggerci dalla zanzara anofele», scrive Jole. Ma pure, tra le case di fango davanti alla stazione, la piccola scopriva persone, vicende, destini umani: donna Luigia, i sei figli e il marito cantoniere avventizio e cacciatore di conigli e di istrici; Mariannina, moglie dello zolfataro Gueli e sorella di Salomone, fattosi bandito per un delitto d’onore, che nella solitudine della montagna legge la Divina Commedia.

Nel ’24 il ferroviere Vittorini viene trasferito finalmente nella sua Siracusa, in Ortigia, bianca come il miele ibleo e azzurra come il Ciane o la fonte Aretusa. La famiglia va ad abitare nella casa dei nonni materni, nella via Mastrarua, nella Siracusa teatro del Garofano rosso e di Piccola borghesia. E a Siracusa, proveniente da Licata, si trasferisce pure la famiglia del ferroviere Quasimodo. Elio s’innamora subito di Rosina, la sorella del poeta Salvatore. I due ragazzi, per l’opposizione delle rispettive famiglie, compiono la famosa fuga d’amore, la fuitina, e passano la loro prima notte sotto le stelle, sui gradini del Teatro Greco: si può immaginare una prima notte d’amore più «siracusana» di questa? Dice De Amicis, trovandosi nel silenzio di quel teatro: «Sentii le grida dei ventiquattromila spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei Persiani». Non sappiamo cosa sentirono i due giovani Elio e Rosa in quella solitudine notturna del teatro greco.

Dopo il matrimonio riparatore, i due si trasferiscono a Gorizia, dove Elio lavora come assistente alla costruzione di un ponte. Il successivo trasferimento sarà a Firenze. Ma dopo, conclusa questa breve, epifanica storia, comincia l’altra storia di Elio Vittorini. Ma il narratore Vittorini, il suo accento favoloso, lirico, il suo tono civile, la sua tensione all’ottimismo, al movimento, l’intellettuale Vittorini libero e orgoglioso, attivo e generoso, non si può capire senza la sua famiglia, la sua Siracusa, il mondo libertario dei ferrovieri, senza le stazioncine sperdute nel vasto teatro dell’infelicità sociale della Sicilia. «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori: non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto». Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia. E aveva, quell’attacco, il ritmo di un rintocco di campana, lento e triste, che dava suoni, voce, nell’atrocità del regime fascista e della guerra in corso, nel ricordo dell’atroce guerra civile di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno. Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo della ideologia. Ed è insieme, come quello di Odisseo e di Enea, un nòstos e un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli inferi, nel regno delle ombre, dei morti per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, attraversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, approda in una Sicilia invernale, livida, in una patria di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma in una patria anche di fieri e indomiti «gran lombardi», di uomini che parlano di «nuovi doveri», di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblio del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio bloccandolo a una patologica, infinita adolescenza, come succede al Giovanni Percolla del Don Giovanni in Sicilia di Brancati, ma è una madre, quella di Vittorini, che spinge il figlio a ritornare al suo lavoro di linotipista, di compositore di parole, ai suoi doveri di uomo, di scrittore, di intellettuale.

Fallimenti e speranze perdute

«La parola utopia rappresenta nell’uso comune lo stadio ultimo della umana follia o della umana speranza» scrive Lewis Mumford, autore di una Storia dell’utopia. E aggiunge «che quasi tutte le utopie criticano implicitamente le civiltà in cui nascono e sono implicitamente un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni originano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini». Ed è dall’utopia, parola coniata da Tommaso Moro, dall’utopia, come «stadio ultimo dell’umana speranza», che bisogna partire per leggere Le città del mondo di Vittorini. La concezione utopica credo che sia la matrice del libro. E dobbiamo dunque partire da Platone e, giù giù, passare per Bacone e Campanella, il monaco calabrese che, con la sua Città del sole, aveva inventato la comunità ideale, in cui gli uomini «sono ricchi perché non hanno bisogno di nulla; sono poveri perché non posseggono nulla; di conseguenza non sono schiavi delle loro circostanze, ma sono le circostanze che li seguono». Partire da Platone, dicevo, e arrivare agli illuministi lombardi, ai Verri, al Beccaria, al Cattaneo; arrivare a Melville, De Foe; arrivare forse fino ad Adorno, Horkheimer, Marcuse. E se nei filosofi antichi l’utopia sorge da un connubbio di religione e di ragione, nei filosofi moderni l’utopia o le «città del mondo» sono le città dell’uomo, le città a misura d’uomo, dove l’uomo può essere felice. Ne Le città del mondo ancora una volta il siracusano Vittorini ritorna alla Sicilia. Ma vediamo per quali occasioni nasce questo romanzo. Nel 1950 compie un viaggio in Sicilia, insieme al fotografo Luigi Crocenzi e a un gruppo di amici, per preparare un’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (nel ’49 era uscito Le donne di Messina). Nel ’50 erano successe molte cose. Vittorini, dopo la famosa polemica con Togliatti, era uscito dal partito comunista. Aveva anche visto, lo scrittore, il fallimento di una certa politica meridionalista e perso la speranza di una soluzione a questo annoso problema. E aveva visto forse fin d’allora che il mondo contadino meridionale era ormai «perduto alla storia».

Il viaggio in Sicilia del ’50 fu molto stimolante. Da una parte, incominciò a maturare in lui l’idea utopica, utopia come superamento di condizioni statiche inaccettabili (e l’idea già in qualche modo era espressa ne Le donne di Messina, nella costruzione di una nuova comunità democratica) e dall’altra, si andava definendo in lui l’idea di illuminismo-razionalismo lombardo, della Lombardia o della Milano, ripetiamo, dei Verri e del Beccaria, illuminismo contrapposto alla irrazionalità, alla staticità, al verghiano fatalismo. Contrapposizione che diventerà poi quella tra mondo neo-industriale e mondo contadino. Tema che teorizzerà e svilupperà ne Le due tensioni e nei fascicoli della rivista Il menabò, a cominciare dal famoso numero quattro dove si parla di «industria e letteratura». Questa idea, questa utopia vittoriniana, sorta forse per la scoperta del petrolio in Sicilia e per l’impresa di Mattei, ma sorta anche per la frequentazione di quell’industria a misura d’uomo che era rappresentata dalla Ivrea di Adriano Olivetti. Questa generosa idea, questa utopia, sappiamo, s’infrange poi, contro gli scogli della storia, della mala storia, la mala storia che creerà gli inferni ambientali e antropologici di Priolo, di Melilli, di Gela.

Il castello di Lombardia

Dietro la sua idea utopica, aveva scritto Vittorini Le città del mondo, opera che, a causa della delusione storica vuole distruggere. Le città del mondo, fortunatamente salvato da Ginetta Varisco, seconda moglie di Vittorini, è l’ultima opera prima del silenzio narrativo e, come scrive Pampaloni, il romanzo può «essere letto in positivo e in negativo». Poeticamente (e affettivamente) esprime le sue idee, la sua utopia già in Conversazione in Sicilia con il tema, lì allora accennato, del Gran Lombardo che «doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava il dialetto ancora oggi quasi lombardo di quei posti lombardi del Val Demone: Nicosia o Aidone». Ne Le città del mondo sviluppa pienamente il tema con la contrapposizione città-lombarde belle, altre città brutte. Dice Rosario, il pastorello che arriva a Scicli col padre: «…e la gente è contenta nelle città che sono belle… e si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente ! Lo stesso ogni volta che entriamo ad Enna. Ma che bella gente!». Diciamo qui per inciso che per fortuna l’ideale Lombardia siciliana di Vittorini non era, non corrispondeva all’attuale atroce fascistica razzistica Lumbardia di Bossi e della Lega Nord, Nicosia e Aidone non hanno nulla da spartire con Pontida, Pontedilegno o Casalpusterlengo.

Ma torniamo a Enna, la città che nomina il pastorello Rosario. È la città, Enna, dove c’è il castello di Lombardia, alto, con le sue alte torri. La città, così alta che è tutta un castello di Lombardia ha un monumento in una delle sue piazze. È il monumento al socialista Napoleone Colajanni, di Leonardo Ximenes, e questo monumento Vittorini fa fotografare a Crocenzi, nell’edizione illustrata di Conversazione, facendolo riprendere da più parti. Vittorini identifica Colajanni con il Gran Lombardo. Ne Le città del mondo, Colajanni compare proprio come statua assieme a quella del re Ruggero, di Garibaldi, della regina Giovanna. Il protagonista storico del movimento contadino, dei Fasci Siciliani, così lombardo, cioè così ricco di volontà di superare il momento storico è il suo eroe positivo. Vitalità, movimento, atteggiamento attivo, questo ama Vittorini (e arriva per questo sino alla bestemmia letteraria per il suo contrapporsi al fatalismo di Verga: «il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni» scrive ne Le due tensioni). Ed è per questo che Le città del mondo è il libro più antinaturalistico della letteratura meridionale.

Qui tutto brucia nella metafora. I personaggi sono in figura di funzione, hanno perso la consistenza realistica; parlano in modo metaforico, declamatorio, parlano ritualmente e profeticamente. «Ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà (…), ma una utilizzazione della realtà che possa rendere immediatamente, subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare…» scrive ancora Vittorini in Le due tensioni. E quindi i personaggi del romanzo sono in continuo movimento sul palcoscenico della Sicilia, il movimento fisico e psicologico, in ribellione e in tensione di felicità e di dolore.

Ma che cosa narra infine questo romanzo, uscito postumo, ricordiamolo, nel 1969? Così riporta la nota in chiusura del curatore Vito Camerano, riprendendola dalla rivista «Galleria d’arte e lettere» del ’53: «Con questo romanzo che ha per titolo provvisorio Le città del mondo e che forse finirà per intitolarsi I diritti dell’uomo, Vittorini ritorna alla sua Sicilia, ma a una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, prostitute, zolfatari e campieri, paesi e città sono come vie, piazze, angoli di una medesima città, e, nello stesso tempo, è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l’universo, poiché tutto ciò che è nel libro viene citato come estraneo all’Isola, è ancora come se fosse Sicilia. Così i Pirenei, così Gerusalemme e Samarcanda e Tucuman e Ur dei Caldei. E un episodio della Bibbia è anche un fatto accaduto in Sicilia, proprio come un parlamento di siciliani radunatisi in un vallone, diciamo delle Madonie o dei Monti Erei, per far festa o cospirare. Una Sicilia che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di sempre, la Sicilia fertile e desolata, isola felice e terra di fame». La trama di questo romanzo è quanto mai aperta e libera. C’è la Sicilia, immensa e areosa, biblica e da Mille e una notte, di Ariosto e di Cervantes. Vittorini, in una di quelle classificazioni che vogliono esemplificare, aveva diviso i romanzi in arteriosi e venosi. Ecco, questo suo libro postumo è certo il più arterioso, il più ricco di ossigeno, di flusso vitale. È ricco di luce, di cristallina luce siracusana, del «dolce color d’oriental zaffiro».

Conversazioni-in-Siciliaelio-vittorini

Sulla regionalità letteraria in italia: Pirandello, D’arrigo, Consolo

Salvatore C. TROVATO

Pages 41 – 56
LA REGIONALITA LETTERARIA TRA REALISMO ED ESPRESSIONISMO

1
La lingua italiana di base fiorentina diffusasi dal Cinquecento in poi in tutta la penisola per l’adesione spontanea degli scrittori – d’arte e non – si incontr fin dall’inizio con le tradizioni linguistiche regionali, ben radicate nel territorio. La conseguenza fu che l’interferenza della lingua col dialetto caratterizz fin dall’inizio (e caratterizza tuttora) la storia linguistica italiana. La lingua letteraria – che almeno fino all’Unità d’Italia fu la lingua tout court – ne venne ovviamente coinvolta sul piano stilistico, particolarmente in autori e in momenti in cui la regione entra realisticamente nell’opera letteraria o, ancor più, in autori in cui il plurilinguismo, giocato anche sul versante della regionalità linguistica, diventa ingrediente forte di scritture espressionistiche. Espressionismo e realismo insieme, dunque, sono gli elementi che possono indirizzare le scelte linguistiche degli autori nella direzione della regionalità [1] Non interessano, in questa sede, le scelte mistil… [1] .
2
Dopo l’Unità del paese (a. 1861), la lingua letteraria italiana, cristallizzata nell’uso scritto, era giunta da tempo al bivio e portava il peso di essere stata per più di tre secoli lingua scritta senza ricambi con un modello parlato. A ci bisogna aggiungere i guasti provocati dalla sclerosi retorica. La consapevolezza dello stato della lingua e la necessità di poter contare, ora che la nazione era unificata in uno stato, su di un codice di interscambio sia scritto sia parlato, era diffusa negli ambienti colti italiani.
3
La vivacità delle discussioni sulla lingua, le varie proposte e la stessa insistenza sul problema anche a livello istituzionale, mostrano quanto fosse importante la questione della lingua, a maggior ragione che i problemi non erano più o non erano solo di livello letterario, ma anche e soprattutto sociale. In ogni caso si trattava di proporre alla nazione un modello di lingua che non fosse più solo scritta, ma anche parlata.
4
La soluzione manzoniana, com’è noto, è quella del fiorentino colto, una soluzione che d’un sol colpo avrebbe dato alla nazione un modello parlato, vivo, moderno. Ma, ahimé, senza prestigio, perché il fiorentino colto degli anni posteriori all’Unità non era certo la lingua italiana di base fiorentina esemplata sui grandi trecentisti, che era stata universalmente accettata da tutta la nazione. Peraltro, nella proposta manzoniana era coerentemente insita la preclusione ai dialetti.
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La soluzione ascoliana, invece, si basava sull’italiano della tradizione, da rinnovare in conseguenza e in parallelo al rinnovarsi della cultura. L’una e l’altra, la lingua e la cultura, erano affidate all’energia operosa degli ” operaj della intelligenza ” [2] V. Graziadio Isaia Ascoli, 1870, ” Proemio ” all’Archivio… [2] . Nessuna preclusione nei confronti delle fonti del rinnovamento e del ringiovanimento in Ascoli, nessuna preclusione nei confronti degli apporti dialettali.
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Al di là delle proposte di Ascoli e Manzoni, va qui ricordato che tutte le volte che la letteratura italiana, nei suoi quasi ottocento anni di storia, è venuta a trovarsi in stato di sofferenza comunicativa ed espressiva, ha ricevuto il soccorso dei dialetti che della lingua da sempre sono l’inesauribile risorsa. D’altra parte i dialetti nelle regioni hanno da sempre costituito il sostrato della lingua medesima, sia al livello scritto (e cioè fin dal Cinquecento) sia a livello parlato (solo posteriormente all’Unità d’Italia). È pertanto del tutto naturale che i dialetti facciano capolino, entrino o trionfino nella lingua letteraria che, nel corso dei secoli, si è spesso rinnovata alla fonte dei dialetti. Di vario ordine sono i motivi della penetrazione dei dialetti nella lingua letteraria.
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Innanzi tutto storico: il corrispettivo parlato della lingua letteraria scritta è stato costituito dai dialetti. E con questi gli scrittori d’Italia hanno da sempre dovuto fare i conti per escluderli (istanza puristica) o per accoglierli (istanza antipuristica). L’italiano di base toscana è stato dovunque la lingua appresa sui classici, linguisticamente insufficienti ad esprimere tutta la realtà. I dialetti, viceversa, non hanno mai difettato degli strumenti, sia pure all’interno di determinati limiti, per comunicare la realtà.
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Segue l’istanza realistica, per la quale la regione non pu essere comunicata senza il coinvolgimento degli strumenti espressivi della regione medesima, strumenti che da sempre sono stati (e in gran parte sono) i dialetti.
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Un terzo motivo è di ordine politico-sociale. In questo caso i dialetti possono assumere funzione di rottura e di polemica contro una lingua troppo borghese, che si è poco rinnovata o che appare socialmente sclerotizzata e sclerotizzante o addirittura di classe.
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Il quarto motivo, infine, è di ordine più squisitamente soggettivo – anche se spesso legato a mode, correnti, ideologie e, comunque, a scelte personali – ed è dovuto al gusto espressionistico, che caratterizza tante opere ed autori della storia letteraria italiana, insomma, all’ ” eterna funzione Gadda ” di continiana memoria.
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Non senza illustrare le motivazioni profonde, teoriche, dell’innesto del dialetto sulla lingua negli autori oggetto della nostra analisi, ovviamente quando questi ne abbiano lasciato traccia, scopo di questo lavoro è quello di mettere a fuoco da vicino, sulla base di una rappresentativa se pur limitata campionatura, i modi di accessione al dialetto da parte di autori come Pirandello, D’Arrigo e Consolo. Tre autori compromessi col dialetto, pur se in modo, in misura e con motivazioni diverse l’uno dall’altro, in rapporto, ovviamente, alla temperie storico-culturale in cui hanno vissuto o vivono.
TRE SCRITTORI COMPROMESSI COL DIALETTO: PIRANDELLO, D’ARRIGO, CONSOLO

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La dialettalità o regionalità che dir si voglia dei nostri tre autori si gioca sul piano del realismo e dell’espressionismo. In Pirandello i piani sono tutti e due coinvolti, D’Arrigo e Consolo sono autori espressionisti che si collocano all’interno di una vasta area sperimentale che da Gadda va agli autori di “Officina” e a un discreto numero di isolati tra cui, appunto, i nostri due, ma anche Pizzuto, Bianciardi e Testori [3] Cf. Romano Luperini et al., La scrittura e l’interpretazione…. [3] .
1. Luigi Pirandello

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Pirandello, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, è tra gli scrittori teoricamente più consapevoli. Ascoliano fin dalla giovinezza, non ha preclusioni nei confronti della lingua della tradizione. Ma, attraverso quella lingua, si fanno breccia, nella prassi scrittoria di Pirandello, con discrezione, i neologismi d’autore e l’elemento regionale (siciliano e non).
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Fin da quando era ancora studente a Bonn aveva notato che un siciliano e un piemontese ” messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana parlata in Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto ” [4] Luigi Pirandello, 1890, ” Prosa moderna (Dopo la lettura… [4] .
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Se c’è spazio, all’interno della lingua letteraria, per il dialetto, il varco è aperto dal desiderio, da parte di Pirandello, di portare nella lingua la scorrevolezza e la vivacità del parlato. L’espressività e la comunicatività sono le esigenze attorno alle quali coagula la dialettalità pirandelliana.
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Dal punto di vista comunicativo, l’elemento regionale – per lo più, ma non esclusivamente, lessicale – diventa necessario ” perché serve a denotare momenti, oggetti e nozioni della vita paesana e rurale regionale, per i quali il termine di lingua, anche se esiste, non rende con fedeltà la specifica natura della cosa o dell’azione, come sono proprie di quell’ambiente ” [5] Antonino Pagliaro, 1969, ” Teoria e prassi linguistica… [5] . Per quel che riguarda il piano dell’espressività, in cui prende forma la tensione fantastica, il dialetto partecipa a quest’ultima come fonte viva del parlato [6] Pagliaro, Teoria., p. 268. [6] . Per quest’ultima via è possibile il calco semantico, una sorta di traduzione della sottesa forma dialettale ” che riprende con efficacia e precisione la connotazione più rilevante del significato del termine dialettale, sovvenuto per primo alla coscienza “, come acutamente mette in evidenza Pagliaro [7] Pagliaro, Teoria., p. 268. [7] .
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Un cenno, infine, prima di mostrare qualcuno degli esempi più significativi della regionalità pirandelliana, meritano i modi dell’assunzione della regionalità da parte dello scrittore agrigentino. Essi sono improntati, secondo Maria Luisa Altieri Biagi [8] Maria Luisa Altieri Biagi, 1980, ” Pirandello: dalla… [8] , al ritegno linguistico che impone la giusta cautela sulla via dell’espressionismo e al ritegno filologico, che porta lo scrittore a non fare a meno – ascolianamente – della lingua della tradizione. Questa, muovendosi programmaticamente nella direzione del parlato, permette allo scrittore di assumere per la sua prosa – sia sul versante del realismo sia su quello dell’espressionismo – gli elementi regionali che di volta in volta riterrà opportuno.
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Infine, nel pieno rispetto del lettore, Pirandello, tutte le volte che assume elementi regionali che ” in base alla sua sensibilità filologica, non prevede la possibilità di promozione a lingua ” [9] Altieri Biagi, La lingua…, p. 171. [9] , ricorre alla corsivizzazione, alla virgolettazione o anche alla glossa, intesa quest’ultima come nota esplicativa del termine regionale adoperato. Ci si spiega, ancora una volta, all’interno dell’ideologia ascoliana dello scrittore, ” impegnato anche civicamente a collaborare alla formazione di una lingua unitaria, che fosse strumento valido di comunicazione orale di cittadini di diverse regioni ” [10] Altieri Biagi, La lingua…, p. 170. [10] .
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Cosî, nella sua prosa entrano parecchi regionalismi cosiddetti segnici, ripresi cioè nella totalità del significante – adattato, ovviamente alle strutture fono-morfologiche dell’italiano – e del significato.
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Tra i tanti [11] Uno spoglio completo dei regionalismi nelle Novelle… [11] è possibile ricordare: babbo [12] Gli esempi che seguono sono tratti da Luigi Pirandello,… [12] per ‘stupido’, bollo [13] Nella novella Il ” fumo “, I*, p. 67 (in un discorso… [13] per ‘bollore’, candelina di pecorajo [14] Nella novella Chi la paga, II*, p. 466. [14] per ‘lucciola’, mesi grandi [15] Nelle novelle Tanino e Tanotto, II**, p. 755, e Il… [15] per ‘i mesi che vanno da maggio a ottobre’, nànfara [16] Nel Vitalizio, II**, p. 854. [16] per ‘vocetta di naso’ e, per quel che riguarda i regionalismi semantici: giardino [17] Nelle novelle Il vitalizio, II**, p. 845, 846; Il… [17] per ‘agrumeto’, giro [18] Nelle novelle Il ” fumo “, I*, p. 52 ; La giara, III*,… [18] per ‘appezzamento di terra’, principali [19] Nella novella La morta e la viva, III*, p. 88. [19] per ‘commercianti, magazzinieri, sensali di noleggio’, ma anche parlare usato come sostantivo maschile col significato di ‘decisione, parere’: ” Don Simo’a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? ” [20] Nella novella Fuoco alla paglia, I*, p. 345. [20] ; peccato mortale [21] Nella stessa novella, p. 339. [21] col significato di ‘persona che vive in peccato mortale’ e tanti altri ancora.
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Tra i calchi, non frequenti, va ricordato l’esempio, credo paradigmatico, di sorsare ‘tirare su col naso’, che Pirandello usa nella novella Cinci [22] In Novelle, III**, p. 667-675. [22] , in un contesto in cui il senso della parola è più che evidente: ” Tornando a scuola, quel pomeriggio, [Cinci] ha dimenticato a casa il fazzoletto, per cui ora, di tanto in tanto, lî seduto a terra, sorsa col naso. ” [23] P. 668. [23] La riusa poi in altri contesti. In Resti mortali, ad esempio: ” [Zio Fifo] si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d’esplorazione il naso puntuto […] ” [24] II**, p. 690. [24] , in cui la trasparenza semantica è evidente; e ancora: in Lumie di Sicilia: ” – C’è o non c’è? – domand il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. ” [25] II**, p. 904. [25] Sorsare, per, col significato di ‘tirare su col naso’ non è registrato da tutti dizionari [26] Non lo registrano, infatti, Dardano, Devoto-Oli, 2000… [26] : Treccani IV lo registra riportando il contesto pirandelliano e lo stesso fanno, seguendo il GDLI [27] E cioè: Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio,… [27] , De Mauro 2000 e il GRADIT.
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L’unica strada che ci permette di cogliere la ” creazione ” pirandelliana resta quella del dialetto agrigentino, nel quale surchjari, che per il significato di ‘bere a sorsi’ corrisponde all’it. sorsare, ha, come secondo significato, quello di ‘tirare su col naso’. È evidente che Pirandello ha esteso il secondo significato della parola agrigentina alla corrispondente parola italiana. E quest’ultima, per calco semantico, ne è uscita sicuramente rinnovata e arrricchita. L’operazione certamente sfugge ai più, ma è sintomatica dell’ideologia di un autore che, a riprendere Altieri Biagi [28] Altieri Biagi, La lingua…, p. 170. [28] ha voluto essere ” impegnato anche civicamente a collaborare alla formazione di una lingua unitaria “.
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Il lessico, comunque, è il settore in cui maggiormente, nell’opera pirandelliana, il dialetto si incontra con la lingua. Andrebbe ancora ricordato l’uso di lessemi complessi, come le molte polirematiche (avanzare il passo [29] In Distrazione, I*, p. 468 e Marsina stretta, II*,… [29] per ‘accelerare l’andatura’, far buona comparsa [30] La verità, I*, p. 743. [30] per ‘far bella figura’, guardarsi davanti e dietro [31] Lo spirito maligno, II*, p. 174. [31] per ‘esser guardingo’) e i proverbi (fortuna e dormi, meglio nero pane che nera fame) [32] Entrambi nel Vitalizio, II**, p. 843 e 872. [32] , mentre, tra i tratti morfologici più vistosi trasferiti dal dialetto alla lingua, è ancora il caso di ricordare peggiorativi del tipo figliacci [33] Ne L’altro figlio, II*, p. 47. [33] e madraccia [34] In Acqua amara, I*, p. 270, e L’imbecille, I*, p…. [34] con gli stessi valori delle forme dialettali figliazzi e mammazza e cioè ‘figli e mamma degeneri’.
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A livello sintattico, infine, è opportuno segnalare l’uso dello stato in luogo con a + art. + nome, come in dialetto, piuttosto che con in + nome, come in: ” Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all’Argentina, né al Brasile, né agli Stati Uniti. ” [35] Ne Il ” fumo “, I*, p. 64, corsivo mio. [35]
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I pochi esempi ricordati danno un’idea più che sufficiente delle scelte linguistiche e stilistiche di Pirandello e spiegano bene perché ” l’impatto della prosa pirandelliana sulla formazione della lingua nazionale è stato notevole e duraturo ” [36] Luca Serianni, 1993, ” La prosa “, in Id. e Pietro… [36] .
2. Stefano D’Arrigo

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È l’autore di Horcynus Orca, romanzo uscito nel 1975 presso Mondadori. Il romanzo, lunghissimo, fu atteso per lungo tempo e fu fonte di vivaci discussioni dopo la pubblicazione. Oggi se ne parla poco. Le storie letterarie si limitano a collocare il romanzo nell’area dello sperimentalismo espressionistico [37] Cosî, ad esempio, Giulio Ferroni, 1991, Storia della… [37] .
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Sono poche le occasioni in cui D’Arrigo ha potuto consegnare alla critica la sua “poetica”. In un’intervista concessa a Stefano Lanuzza [38] In Stefano Lanuzza, 1985, Scill’e Cariddi. Luoghi… [38] dichiara che nello scrivere il suo Horcynus il problema non era ” di raccontare certi fatti ma del come raccontarli, e, di conseguenza, di quale linguaggio […] adoperare ” [39] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134. [39] . E subito dopo: ” Ho costantemente cercato di far coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile. ” [40] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134-35. [40] Infine, in riferimento all’utilizzazione del dialetto, passato ovviamente attraverso il filtro dell’italiano, dichiara: ” […] per non pochi aspetti, Horcynus Orca [è] il momento, certo non paradigmatico, di una scrittura che vuole rifarsi anche all’espressività del parlato e all’idioma popolare, ma in un senso non demagogico né pretestuoso, cercando di trar fuori, ricreare e quindi valorizzare al massimo la temperie culturale e l’elemento estetico di quell’idioma. ” [41] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 139. [41]
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Quell’espressività è dilatata dallo scrittore fino ai limiti delle possibilità consentite a un sistema linguistico e non sono pochi i casi in cui l’autore non esita a violare i “blocchi” che la lingua impone alla formazione di parole nuove [42] Ho segnalato altrove (Salvatore C. Trovato, 2007,… [42] . La ricchezza di forme tratte dal dialetto e da lui piegate in vario modo alle esigenze espressive della scrittura letteraria è inimmaginabile.
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La regionalità permea tutta l’opera di D’Arrigo, nella quale netto è il rifiuto della manzoniana lingua unitaria di base toscana, ormai storicamente e pedagogicamente superato, mentre il dialetto viene sfruttato sino alle possibilità estreme, fino a diventare forma lessicogena per lingue altre, che di volta in volta, nella costruzione darrighiana, possono assumere, esternamente, veste francese o addirittura latina, ferma restando l’anima, che è dialettale. Tale è il caso, ad esempio, di improsare ‘truffare; ingannare’ e improsatura ‘truffa; inganno’, trasportate direttamente dal sic. mprusatura e mprusari ‘id.’, ma anche di improsé (p. 62), improsato (p. 716) e della bella e imprevedibile retroformazione (in) prosum (p. 85), in latino!, qui inventata a coprire di raffinatezza, ostentata e ironica, un concetto colpito da tabù, oltre che a supplire egregiamente un proso mancante in Horcynus come nel siciliano, ma ben presente in vari gerghi, e nell’argot nella forma proze.
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Intere famiglie lessicali e campi semantici vengono attinti al siciliano e trasportati in italiano.
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Tra le famiglie lessicali, tantissime, si pu ricordare quella formatasi, nel siciliano e nel romanzo darrighiano, attorno a babbo ‘stupido; persona stupida’ coi derivati babbigno, babbione, babberia, babbicello, imbabbirsi e i composti babbannacchio e babbabella; mentre, tra i campi semantici, si pu ricordare, tra i tanti, la terminologia degli uomini di mare appresa dallo scrittore dai pescatori dello Stretto: acciara, bastardello, caloma, conzo, feluca, filere, gistra, intinnere, ontro, palamitara, palella, rema calante, rema montante, sciabica, scorciatore, traffinera; e, ancora, una serie di neoformazioni che ruotano attorno ai poemi epici del ciclo carolingio – notissimi nella cultura popolare attraverso l’Opera dei Pupi – e in particolare ai due toponimi Maganza e Roncisvalle. Dal primo D’Arrigo deriva l’agg. maganzese ‘traditore’, il cui modello immediato è nel sic. maganzisi ‘id.’ [43] Cf. Tropea Giovanni, a cura di, 1985, Vocabolario… [43] ; dal secondo, Roncisvalle, invece, forma alcuni derivati inediti. Il percorso muove dall’uso referenziale del toponimo con un primo passaggio a quello antonomastico: ” Dallo sperone [i pellesquadre] avevano voglia a gridare per avvertirli [i pescespada] che stavano incappando a Roncisvalle, perché questa fu: una Roncisvalle, una carneficina, una strage degli innocenti, uno sterminio ” (p. 524); prosegue poi dal nome proprio al nome comune: ” Ci furono miserande roncisvalli di marinai italiani come voi, nei mari qui dintorno e sti nomi di strage, certo v’arrivarono pure a voi […] ” (p. 346), e quindi all’aggettivo: ” I pellisquadre se lo sentirono subito che quella era aria maganzese, impresa roncisvalla ” (p. 522), o in: ” I pellisquadre si confermarono che quello delle fere era appostamento roncisvallo ” (p. 523). Dal nome comune, infine si passa da un lato al verbo roncisvallare e roncisvallarsi e all’agg. verb. roncisvallato, e dall’altro all’agg. roncisvalloso.
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Numerose poi le neoformazioni in cui: a) a una base italiana si aggiunge un suffisso siciliano (induzione del suffisso), come il notevole deissa [44] P. 383 con numerose occorrenze. Si noti che l’it…. [44] (← it. dea + sic. -issa, ad es. di bbatissa ‘badessa’, bbarunissa ‘baronessa’, liunissa ‘leonessa’, ecc.); b) a una base siciliana si aggiunge un suffisso italiano, come è il caso, ad es. di pazziscolo [45] Con numerose occurrenze nel romanzo, di già segnalate… [45] ‘un po’ pazzoide’ che presuppone il sic. pazziscu (l’it. ha pazzesco) cui si aggiunge il suff. it. -olo (dimin., vezz., o, nel caso in questione, attenuativo). E tanti altri.
33
Ancora il dialetto gli fornisce forme reduplicate del tipo maremare, piedipiedi (nella forma graficamente unita), oltre che orlo orlo, pelo pelo, riva riva i quali tutti, sicilianamente, indicano moto attraverso luogo.
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Lo studio dei giochi di parole, altro campo di rilevante interesse in Horcynus, esce dal tema di questo breve intervento, ma è opportuno mettere in rilievo, sia pure di passata, che anche in questo un campo D’Arrigo si è egregiamente misurato. Basti pensare a famera e ferame che rappresentano il diverso sviluppo dell’incrociarsi di fera e fame; a Masignora, in cui a incrociarsi sono il modello francese madame e il calco italiano mia signora; a barca che, per sottrazione progressiva di lettere (o di suoni) dà luogo ad arca, ma anche a bara e ad ara; oltre che a giraluna ammiccante neoformazione calcata sul “normale” girasole.
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Questi pochi esempi [46] Ma v. Salvatore C. Trovato, La formazione delle parole…… [46] danno appena l’idea della lingua di D’Arrigo e della grande tensione stilistica che attraversa tutto il romanzo. E ha ragione Guglielmi [47] Angelo Guglielmi, a cura di, 1981, Il piacere della… [47] quando scrive che ” il lettore è trascinato a una vigilanza cui solitamente non è chiamato “, poiché sono i grandi testi che obbligano a capire o a interrompere per sempre la lettura.
3. Vincenzo Consolo

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Vincenzo Consolo, parlando di sé e della sua opera in una intervista effettuata a Roma nel giugno del 1993 [48] Vincenzo Consolo, 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia… [48] si autodefinisce scrittore ” di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale ” (p. 6); mentre poi, parlando del suo primo libro – La ferita dell’aprile [49] Prima ediz, 1963, Milano, Arnoldo Mondadori. Seconda… [49] – sottolinea che ” il racconto non [è] di tipo realistico-testimoniale, ma memoriale e metaforico ” e che la scrittura di quel suo primo romanzo non è ” di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva ” [50] Consolo, Fuga…, p. 14. [50] . Poco più oltre ribadisce il bisogno di conservare alla memoria fatti e persone, in un mondo ” che cerca di cancellare la nostra memoria ” [51] Consolo, Fuga…, p. 28. [51] , e assegna alla letteratura la funzione del ” memorare “. E il ” memorare ” trascina con sé ” la necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici ” di quel mondo scomparso, che Consolo rappresenta nei suoi romanzi.
37
Successivamente, all’intervistatore che, nel dichiarare l’assoluta novità della Ferita cosî fortemente espressionista, gli chiede se nel 1963 avesse letto Gadda, Consolo risponde positivamente ribadendo che ” in letteratura non si è innocenti ” [52] Consolo, Fuga…, p. 15. [52] . Seguono poi delle parole importanti a capire la formazione dello scrittore e le sue scelte linguistiche e stilistiche: ” Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’oltre quell’esperienza. Mi sono trovato cosî fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si pu rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari all’impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnologico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo ’63. ” [53] Consolo, Fuga…, p. 15. [53]
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Memorialità della scrittura letteraria e forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria nella maniera che le intende lo scrittore non sono conseguenza dello sperimentalismo, che pure fa parte del credo poetico consoliano, ma elementi di fondo che convergono verso lo sperimentalismo. Nella prassi Consolo mostra di sapere sapientemente mescolare i codici più svariati, la lingua e il dialetto o i dialetti, il latino e il greco, il francese e lo spagnolo, ma anche i vari registri della lingua, l’italiano aulico e duecentesco, quello regionale, quello popolare, lessici specialistici e linguaggio popolare, o di attribuire al dialetto – in particolare a quello di San Fratello, un’isola linguistica italiana settentrionale tra le parlate siciliane – funzione di protesta e di rabbia sociale, quando, nel Sorriso dell’ignoto marinaio lo mette in bocca al povero prigioniero del principe Granza Maniforti, o di presentarlo come la lingua di un’Arcadia felice, naturale, primigenia, la lingua della ” remota Contrada senza nome “, nella favola teatrale Lunaria [54] V. per ci, S. C. Trovato, 1995, ” Forme e funzioni… [54] .
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Cosî, a ripercorrere qualcuno dei romanzi consoliani, ci si imbatte, pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, in parole attinte al siciliano e promosse a lingua letteraria. Tra queste, una serie di regionalismi segnici, come arco di Noè (No. [55] No. = Vincenzo Consolo, 1992, Nottetempo, casa per… [55] 108) per ‘arcobaleno’; carnaglie (No. 61) per ‘quantità di prodotti in natura che il fittavolo deve al proprietario del fondo oltre al canone pattuito’, adattamento del sic. carnaggi ‘id.’; luponario (No. 114) per ‘licantropo’; male catubbo (No. 7, 14) per ‘epilessia’; tarderite (No. 51, 144) per ‘pipistrelli’ o anche zampette (No. 125, 131, 134) spiegato con ‘uose’ dallo stesso Consolo: ” Batteva e ribatteva alla buffetta, tagliava e cuciva Gandolfo Allegra, e d’incanto fiorivano nelle sue mani paia e paia di scarpe, che scarpe non erano ma uose pelose di vacca becco porco. Zampette le chiamavano […] ” (No. 125). E poi i regionalismi semantici o di significato, meno numerosi, ma ugualmente presenti, come: bramare (No. 81) per ‘urlare’, imbarazzi (So. [56] So. = Vincenzo Consolo, 1976, Il sorriso dell’ignoto… [56] 97, No. 47) per ‘cianfrusaglie’, làstrico (So. 105, No. 30, 49, 110, 169, Spa. [57] Spa. = Vincenzo Consolo, 1998, Lo spasimo di Palermo,… [57] 31, 48) per ‘terrazzo’, lenticchie (No. 78) per ‘efelidi’ o ‘lentiggini’ ed altri ancora.
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Vanno ancora ricordati calchi del tipo piumaccio (Pa. [58] Pa. = Vincenzo Consolo, 1988, Le pietre di Pantalica,… [58] 79 e No. 24) ‘guanciale, cuscino’ rifatto sul sic. chjumazzu ‘id.’ o anche sap’egli (Fe. [59] Fe. = Vincenzo Consolo, 1977, La ferita dell’aprile,… [59] 22) per ‘chissà’, strutturalmente calcato sul sic. sapiddhu ‘id.’.
41
Poi, per quel che riguarda il patrimonio lessicale recuperato alla memoria, è possibile indicare sequenze di lessico settoriale appreso dai pastori, dagli olivicultori, dagli agrumicultori, dai pescatori e dai lavoratori del mare, lessico che rende davvero Consolo, come egli ama dire di sé stesso, scrittore ” di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale ” e, insieme, nella misura in cui alcune di quelle parole possono essere frattanto sparite, scrittore “memoriale”.
42
Al lessico della pastorizia sono attinte cazza, rtola, fiscelle: ” Partiti i genitori e i fratelli, Janu […] supino sul paglione, […] prendeva da terra il fiasco e scolava quel vino vecchio, acido, da tempo nella nicchia, tra cazza rtola fiscelle, lasciato dalla brigata […] ” (No. 75 [60] Corsivo mio. [60] ); a quello degli olivicultori le parole che nel brano che segue evidenzio in corsivo: ” Petro […] faceva i conti nel quaderno, scriveva le partite, i rotoli i cantàri delle olive, il tempo di passata della mola, il numero di coffe riempite, la primitura prima e altre, i cafîsi di vergine di pasta di sansa di rinzzolo, il numero di otri riempiti, l’olio d’inferno che prendevano i fezzari pel sapone e per le lampe […] ” (No. 108); alla terminologia agricola dell’agrumicultura e dell’orticultura vanno riferite le sequenze lessicali evidenziate in corsivo nel brano che segue: ” […] qui giardini di tarocchi portogalli sanguinelli cedri chinotti mandarini, là distese di carcioffoli cocuzze saracine cardi vrccoli finocchi – appresso Làscari Roccella Bonfornello […] ” (No. p. 123); alla terminologia dei vasai: ” Lasci la riva una speronara ch’avea fatto carico di pignatte quartare lancelle giarre piatti lemmi e mafaràte delle fabbriche di Marina di Patti ” (So. p. 9); e infine, a quella dei pescatori e della gente di mare: ” Tonno. Tonnina, ventresca, bottarga, cuore, ficazza, lattume e buzzonaglia ” (So. p. 31).
43
Gli esempi potrebbero a lungo continuare, ma preferisco rimandare per ci al lavoro in stampa di Grasso-Trovato [61] Sebastiano Grasso, Salvatore C. Trovato, in stampa,… [61] .
44
Sull’altro versante dello sperimentalismo, ecco la lingua colta, elevata, la lingua per la quale Consolo si considera legato alla tradizione letteraria. Anche per questa è possibile compilare un vocabolario. Qui basta solo ricordare parole come verone, madonna, guata, vento di Soave che entrano in un brano di grande tensione lirica, composto da splendidi endecasillabi – ” Al castello de’ Lancia, sul verone, / madonna Bianca sta nauseata. / Sospira e sputa, guata l’orizzonte. / Il vento di Soave la contorce. / Federico confida al suo falcone: […] ” (So. p. 4) – e utilizzato dallo scrittore a introdurre una citazione dotta: i versi di una canzone di Federico II:
O Deo, come fui matto
quando mi dipartivi
là ov’era stato in tanta dignitate
E sî caro l’accatto
e squaglio come nivi… ” (So. p. 4).
45
Altrove, come ad es. in Nottetempo, è posibile trovare altre parole colte o comunque rare e iperletterarie come pusterla (p. 11), la casa de la dolora (p. 41), i propugnacoli (p. 141), l’nfalo (p. 150), gli olifanti (p. 153) e poi ancora flammule (p. 152), flato (p. 152), pàrodo e stàsimo (p. 167), iconostasi e flicorni (p. 153) e tante altre.
46
E infine, tralasciando le citazioni latine, greche, i prestiti francesi, l’italiano popolare delle iscrizioni del nono capitolo del Sorriso, ecco la chiusa del romanzo nel dialetto galloitalico di San Fratello, in cui il povero prigioniero del Granza Maniforti – e con lui lo scrittore – si appella alla ” fam sanza fin/ di/ libirtaa ” ‘la fame senza fine di libertà”.
PER CONCLUDERE

47
Al di là delle motivazioni storiche e stilistiche che hanno spinto e spingono gli autori della letteratura italiana a utilizzare, nella loro scrittura, movenze e forme attribuibili al dialetto, non posso non concludere queste righe, senza citare, ancora una volta, Pirandello. Scrive, infatti, l’autore agrigentino che la ” generalità ” della nostra letteratura – e cioè la caratteristica peculiare della letteratura italiana – è la ” dialettalità, da intendere come vero e unico idioma, vale a dire come essenziale proprietà d’espressione, la quale, come Dante scrisse: “in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla” ” [62] Luigi Pirandello, 1921, ” Dialettalità “, Cronache… [62] . E la dialettalità non è difetto, ma ricchezza, ” ricchezza di storia, ricchezza di vita, ricchezza di forme e di costumi, ricchezza di caratteri ” [63] V. nota precedente. [63] .
Notes

[1]
Non interessano, in questa sede, le scelte mistilingue.
[2]
V. Graziadio Isaia Ascoli, 1870, ” Proemio ” all’Archivio Glottologico Italiano I, ristampato in parte in Id., Scritti sulla questione della lingua a cura di Corrado Grassi, Torino, Einaudi, 1975, p. 28.
[3]
Cf. Romano Luperini et al., La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. 3. Dal Naturalismo al Postmoderno, t. III : Dal Fascismo ad oggi, Palermo, Palumbo, 2001, p. 762.
[4]
Luigi Pirandello, 1890, ” Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro don Gesualdo del Verga) “, in Vita Nuova, 5 ottobre 1890, ora in Id., 2006, Saggi e Interventi a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, Milano, Arnoldo Mondadori, p. 78-81: p. 81. Il corsivo è nel testo.
[5]
Antonino Pagliaro, 1969, ” Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello “, in Bollettino [del] Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, vol. 10, p. 249-293: p. 268.
[6]
Pagliaro, Teoria., p. 268.
[7]
Pagliaro, Teoria., p. 268.
[8]
Maria Luisa Altieri Biagi, 1980, ” Pirandello: dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica “, in Ead., La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, p. 163 sgg.
[9]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 171.
[10]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 170.
[11]
Uno spoglio completo dei regionalismi nelle Novelle per un anno è stato portato a termine, nell’ambito delle loro tesi di laurea, dalle mie allieve Maria Rosa Bonanno e Maria Giovanna Màvica, che ora ne preparano l’edizione per la stampa.
[12]
Gli esempi che seguono sono tratti da Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Milano, Arnoldo Mondadori, 1985, voll. I* e I**; 1987, voll. II* e II**; 1990, voll. III* e III**. Cosî, il babbo (nel femm. babba e in un discorso diretto) in questione è in Tutt’e tre, II*, p. 273.
[13]
Nella novella Il ” fumo “, I*, p. 67 (in un discorso diretto).
[14]
Nella novella Chi la paga, II*, p. 466.
[15]
Nelle novelle Tanino e Tanotto, II**, p. 755, e Il Vitalizio, II**, p. 841.
[16]
Nel Vitalizio, II**, p. 854.
[17]
Nelle novelle Il vitalizio, II**, p. 845, 846; Il viaggio, III*, p. 222; I due giganti, III**, p. 1157.
[18]
Nelle novelle Il ” fumo “, I*, p. 52 ; La giara, III*, p. 5.
[19]
Nella novella La morta e la viva, III*, p. 88.
[20]
Nella novella Fuoco alla paglia, I*, p. 345.
[21]
Nella stessa novella, p. 339.
[22]
In Novelle, III**, p. 667-675.
[23]
P. 668.
[24]
II**, p. 690.
[25]
II**, p. 904.
[26]
Non lo registrano, infatti, Dardano, Devoto-Oli, 2000 (Dir.), Zingarelli, 2007.
[27]
E cioè: Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio, a cura di, 1998, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, vol. XIX, p. 505.
[28]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 170.
[29]
In Distrazione, I*, p. 468 e Marsina stretta, II*, p. 311.
[30]
La verità, I*, p. 743.
[31]
Lo spirito maligno, II*, p. 174.
[32]
Entrambi nel Vitalizio, II**, p. 843 e 872.
[33]
Ne L’altro figlio, II*, p. 47.
[34]
In Acqua amara, I*, p. 270, e L’imbecille, I*, p. 519.
[35]
Ne Il ” fumo “, I*, p. 64, corsivo mio.
[36]
Luca Serianni, 1993, ” La prosa “, in Id. e Pietro Trifone, Storia della lingua italiana, Vol. primo. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, p. 571.
[37]
Cosî, ad esempio, Giulio Ferroni, 1991, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Torino, Einaudi, p. 534 e Luperini et al., Storia e antologia…, p. 762.
[38]
In Stefano Lanuzza, 1985, Scill’e Cariddi. Luoghi di ” Horcynus Orca “, Catania, Lunarionuovo, p. 133-39.
[39]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134.
[40]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134-35.
[41]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 139.
[42]
Ho segnalato altrove (Salvatore C. Trovato, 2007, ” La formazione delle parole in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Tra regionalità e creatività “, Quaderni di Semantica a. XXVIII, n. 1, p. 41-88) stravaganterîa per stravaganza e posso ancora aggiungere, tra i tanti, delinquenteria, nonsenseria, allarmosamente, spontemente segnalati da Clara Grosso, in stampa, ” Horcynus Orca tra italiano regionale e creatività linguistica “, in L’Italia dei dialetti. Atti del Convegno Internazionale di Dialettologia, Sappada-Plodn, 26 giugno – 1 luglio 2007.
[43]
Cf. Tropea Giovanni, a cura di, 1985, Vocabolario siciliano, Catania-Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, II, p. 580.
[44]
P. 383 con numerose occorrenze. Si noti che l’it. conosce deessa e diessa, il fr. déesse (cf. Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio, a cura di, 1966, rist. 1971, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, vol. IV, p. 112).
[45]
Con numerose occurrenze nel romanzo, di già segnalate in Trovato, La formazione delle parole…, p. 43 n.
[46]
Ma v. Salvatore C. Trovato, La formazione delle parole… oltre che Id., ” Italiano regionale e creatività linguistica in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo “, Siculorun Gymnasium. Rassegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, N.S., a. LVI, n. 1, p. 211-223.
[47]
Angelo Guglielmi, a cura di, 1981, Il piacere della letteratura. Prosa dagli anni ’70 ad oggi, Milano, Feltrinelli, p. 164.
[48]
Vincenzo Consolo, 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
[49]
Prima ediz, 1963, Milano, Arnoldo Mondadori. Seconda ediz. 1977, Torino, Einaudi.
[50]
Consolo, Fuga…, p. 14.
[51]
Consolo, Fuga…, p. 28.
[52]
Consolo, Fuga…, p. 15.
[53]
Consolo, Fuga…, p. 15.
[54]
V. per ci, S. C. Trovato, 1995, ” Forme e funzioni del linguaggio “, in Nuove Effemeridi. Rassegna Trimestrale di Cultura, VIII, n. 29: p. 15-29 [numero monografico dedicato a Vincenzo Consolo].
[55]
No. = Vincenzo Consolo, 1992, Nottetempo, casa per casa, Milano, Arnoldo Mondadori.
[56]
So. = Vincenzo Consolo, 1976, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi.
[57]
Spa. = Vincenzo Consolo, 1998, Lo spasimo di Palermo, Milano, Arnoldo Mondadori.
[58]
Pa. = Vincenzo Consolo, 1988, Le pietre di Pantalica, Milano, Arnoldo Mondadori.
[59]
Fe. = Vincenzo Consolo, 1977, La ferita dell’aprile, Torino, Utet.
[60]
Corsivo mio.
[61]
Sebastiano Grasso, Salvatore C. Trovato, in stampa, Il vocabolario regionale di Vincenzo Consolo.
[62]
Luigi Pirandello, 1921, ” Dialettalità “, Cronache d’attualità, agosto-settembre-ottobre, ora in Id., 2006, Saggi e interventi…, p. 1025-1028: p. 1027, passim.
[63]
V. nota precedente.
Résumé

English
Both in the written and the oral form, the dialects have always been the great reserve of the Italian language, which has never had a spoken ” pendant “, being born as a literary language. The only true spoken language was, especially in the past, dialect. Italian writers have always derived data from this huge reserve. Realism and Expressionism have motivated writers to use dialects, even through the filter of the Italian language. According to that, are being examined both works of Pirandello, an author lived between the 19th and the 20th century, and works written by contemporary authors, like D’Arrigo and Consolo. For each of them a representative sample of their ” regionality ” is given.
Plan de l’article

LA REGIONALITA LETTERARIA TRA REALISMO ED ESPRESSIONISMO
TRE SCRITTORI COMPROMESSI COL DIALETTO: PIRANDELLO, D’ARRIGO, CONSOLO
1. Luigi Pirandello
2. Stefano D’Arrigo
3. Vincenzo Consolo

Giuseppe Tornatore fotografo Vincenzo Consolo

 

*
Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema.
Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui  esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.

Ya la esperanza es perdita
Y un solo ben me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto al vida.

Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono  ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria,  abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come  Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.

Indiscrezioni
Giuseppe Tornatore fotografie
Edizioni Fratelli Alinari 2008

Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia
foto di Giovanni Giovannetti

Giuseppe Tornatore, Vincenzo Consolo world copyright Giovanni Giovannetti/effigie

L’ape Iblea. Elegia per Noto

Invocazione

eterno transito,
segno della fine e dell’inizio,
d’ogni sciame mi dici
del cielo e della terra.
Dimmi dell’asse rotto,
dell’antico scuotimento
della plaga orientale
che ondeggia come mare
Dimmi dell’arnia d’oro
ricomposta al piano,
di Ibla e di Megara
della ragione e del compasso,
di Noto replicata
per apicule tenaci,
sfida a ulteriori scuotimenti,
sogno di scalpellini e architetti

Antica melodia

Per la porta reale
entra ora nel sogno,
nel teatro delle meraviglie,
inizia il tuo viaggio
nell’eco d’Aretusa,
nel coro vibrante delle api
vai tra le quinte di luce,
i fondali celesti,
le prospettive audaci,
il gioco di specchi sulla pietra opulenta,
il raggio che s’inombra nella spirale
Nell’oscillare della campana,
nel rintocco grave, sciamano uccelli,
svolano dalle canne, dai pantani,
migrano gli aironi, sfiorano la cupola ma la lanterna,
contro il cielo di cobalto

Favola della luna che si sfalda

Ma la Luna la Luna la Luna
la maculata Luna è dissonanza,
è creatura atonica, scorata,
caduta dalla traccia del suo cerchio,
vagante negli spazi desolanti.
È saturnina la Luna, atra,
malinconica, sospesa
nell’attesa infinita della fine
che non arriva mai
Esci, vola Regina degli Iblei
da questo labirinto,
da questo teatro che si disfa,
crolla per sordo terremoto…
… ricerca le dimore,
le arnie dimentiche sul ciglio dei burroni
Labirinto e crollo
E subito il boato,
lo schianto spaventoso,
il crollo della cupola
materna. La polvere
imbianca il cuore
della notte, il mio mantello
asciuga in gola
urlo, gemito
Il nome tuo NO
TO s’è spezzato.
L’ape, crisalide trafitta,
pupilla vuota, ombra

frammenti poetici di, Vincenzo Consolo incisioni di Daniele Montis
L’Ape Iblea maggio 2008 Carlo Delfino Editore

Presentazione del libro Filosofiana, di Vincenzo Consolo racconto tratto dal libro le “Pietre di Pantalica”. Madrid istituto Cervantes. Il 17 di aprile 2008 Presenta: Manuel Gil Esteve (Cattedratico de Filologia Italiana. Universidad Complutense. Partecipano: Renzo Cremante, Cattedratico de Filologia Italiana Director del Fond de Manuscritos de Autores Contemporaneos. Università di Pavia. Salvatore Trovato, Cattedratico de Linguistica Universidad de Catania. Irene Romera Pintor: Professora Titular de Filologia Italiana. Univesidad de Valencia.

Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Prima parte.
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Seconda parte
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Terza parte.