A Scuola per recuperare l’identità

La domenica, Arabo

a lezione di arabo in una scuola media statale del nordest:
dall’integrazione al recupero delle radici
Nella zona a sud est di Verona, che comprende il Comune di Legnago e altri limitrofi, c’è una forte presenza di immigrati marocchini, occupati nei comparti del mobile, dell’edilizia e dell’industria meccanica e dell’agricoltura: è un’immigrazione che risale agli ultimi anni 80 e ha ormai prodotto una discreta integrazione e condizioni economiche abbastanza confortevoli. I figli frequentano regolarmente la scuola dell’obbligo. Ma l’integrazione anche linguistica non cancella il bisogno di mantenere viva la parola tradizionale, la comunicazione in arabo con i parenti rimasti in Marocco, la possibilità di accedere ai testi della patria e particolarmente al Corano.
La scuola media statale Frattini di Legnago, complice la passione di alcuni insegnanti italiani e la sensibilità dell’amministrazione comunale, ospita, la domenica mattina, tre insegnanti marocchini,  che tengono un corso di lingua araba in tre classi per un totale di circa  60 iscritti di varie età dai 5-6 ai 13-14 anni.
Vincenzo Cottinelli ha lavorato in queste classi per due domeniche mettendo in risalto anzitutto le personalità degli insegnanti.
Ilham Mayate scomparsa in un tragico incidente, era operaia in una ditta di confezioni; di bellezza spigliata e quasi veneta, insegnava con entusiasmo e tenerezza, faceva  da mamma ai più piccoli e con abilità suggeriva la tecnica di produzione dei complessi suoni della lingua araba.
Fatiha Tauriri (già bracciante in campagna) sembra una maestra di stile più tradizionale e pacato: veste secondo le regole tradizionali marocchine (porta il velo) ed è molto accurata nell’insegnamento della grafia.
Mustapha Benchiha (saldatore in una officina meccanica) è energico e appassionato, anche quando, come gli altri due, al termine della lezione insegna il Corano, di cui sottolinea anche i valori testuali e letterari.

Il racconto di Cottinelli è poi rivolto agli allievi, che sono vivaci, disciplinati, attenti (soprattutto le femmine, delle quali solo due o tre portano il velo tradizionale: le altre vestono in modi sobri ma perfettamente integrati); usano dei bellissimi sillabari e quaderni figurati, da riempire con le parole, che sono quelli ufficiali delle scuole marocchine.
Le immagini di Cottinelli mostrano tipiche aule di una scuola media italiana, con il classico crocefisso sopra la cattedra e le grandi carte geografiche fisiche di Italia, o Europa, o Africa. Ma la lavagna si riempie dei segni misteriosi e affascinanti dell’arabo classico del Corano, mentre insegnanti e allievi sono impegnati, appassionati, attenti. E’ un messaggio di pacificazione e integrazione, nel rispetto per l’identità e la cultura di origine di un popolo.


Cottinelli da questo suo lavoro ha prodotto un libro (appunto “La Domenica, Arabo”) e una mostra, presentati nel 2005 al Teatro Salieri di Legnago, con l’On. Livia Turco, il Prof. Claudio Marra e Vincenzo Consolo, che aveva scritto come introduzione il testo che segue. 


https://www.vincenzocottinelli.it/


Vincenzo Consolo

A Scuola per recuperare l’identità
Ottobre / Novembre 2005

Antiche e frequenti erano le emigrazioni che avvenivano, attraverso il Canale di Sicilia, dal Meridione d’Italia nel Maghreb, nelle ricche terre degli “in fedeli’. Erano, quelle, delle emigrazioni di contadini, muratori, “tonnaroti” (lavoratori delle tonnare), pescatori di spugne e di coralli. Nel Decamerone Boccaccio ce ne dà un’immagine nella Novella Seconda della giornata quinta, in cui una giovane dell’isola di Lipari, Costanza, alla ricerca del suo innamorato Martuccio, sbarca a Susa di Barberia e s’imbatte in una donna che parlava la “favella latina”. La donna, Carapresa, spiega allora a Costanza che era là a servire “certi pescatori cristiani”.
Finì questa emigrazione con quella che lo storico spagnolo Américo Castro chiama L’età dei conflitti, con la dominazione ottomana sulle coste africane e quella castigliana sulla Spagna e la Sicilia, con l’insorgere della guerra corsara: lunga e feroce guerra tra Musulmani e Cristiani. Scrive Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”.

Finisce questa guerra nel 1830 con la conquista di Algeri da parte dei Francesi. E riprende quindi l’emigrazione italiana nel Maghreb.
Prima è, negli anni Quaranta dell’Ottocento, un’emigrazione politica di fuorusciti: liberali, giacobini e carbonari che si rifugiano in Tunisia, Algeria, Marocco. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuorusciti”.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento riprende l’emigrazione di bracciantato nel Maghreb a causa di una grave crisi economica che investe soprattutto il nostro Meridione. Tra quegli emigrati c’è h povera famiglia Scalesi di Trapani, che si stabilisce a Tunisi.
Un figlio di questa famiglia, Mario, frequenta le scuole gratuite francesi (il trattato del Bardo del 1881 stabiliva il protettorato francese sulla Tunisia) e così non ha possibilità di imparare l’italiano (le scuole italiane erano solo private e a pagamento). Mario Scalesi, divenuto poeta, il primo poeta francofono dal Maghreb, scrive le sue opere in francese, fra cui Les poemes d’un maudit, e finanche il suo nome viene francesizzato: diviene Marius Scalesi. Scrive Pasolini in un articolo su Il Giorno del 3 marzo1965: “Sono andato l’altro ieri, domenica, a ‘visitare’ un campo profughi, ex campo di concentramento, vicino ad Alatri: un luogo tremendo (.,.) dove vive un gruppo di italiani espatriati dalla Tunisia. Ebbene, ho avuto modo di accorgermi come la loro ‘francesizzazione’ non consistesse solo in una francofonia abbastanza ortodossa (.,.), ma in una commovente francesizzazione culturale.,.”
È un esempio questo di migrazione linguistica, di cancellazione delle origini linguistiche e culturali del Paese da cui si proviene.

Sorte che tocca spesso ai figli e ai nipoti degli emigrati da un Paese a un altro. Un caso ce lo racconta Tahar Ben Jelloun in A occhi bassi, un romanzo del distacco e della lontananza, dell’emigrazione, dello sradicamento da una cultura, profonda, arcaica, religiosa, che mutila e separa, e del reinserimento di un’altra, laica, moderna, superficiale, che violenta, omologa e annienta ogni diversità. La pastorella berbera Fatima, emigrata dal Marocco a Parigi con la famiglia, frequenta qui la scuola ed ha un sogno-incubo. “Ci fu una breve guerra, ma efficace, tra le parole berbere e quelle francesi, lo fui difesa con fermezza e coraggio. Le parole berbere non si lasciavano mettere sotto. Avevano costituito una linea di difesa contro gli invasori. La battaglia fu rude (…) Le rare parole arabe che sapevo si erano buttate nella battaglia. Rinforzando la linea di difesa…”

Ma non tutti, tutti i bambini emigrati qui nel nostro Paese hanno avuto, come Fatima, questa linea di difesa, ma sono stati vinti dalla nostra lingua, dalla nostra cultura, cancellando in loro ogni cognizione, ogni memoria della cultura, della lingua del loro Paese d’origine.
Abbiamo detto sopra dell’emigrazione italiana nel Maghreb. A metà degli anni Sessanta del secolo passato comincia invece l’emigrazione di Maghrebini nel nostro Paese. E sono per primi i Tunisini che attraversano quel breve braccio di mare che separa la Tunisia dalla Sicilia, Tunisi da Trapani, i si stabiliscono a Mazara del Vallo abitando quel quartiere della cittadina, abbandonato dai mazaresi, chiamato Casbah, il quartiere dei loro antenati arabi, quelli che erano sbarcati in Sicilia nell’827 d.C. e avevano conquistato l’Isola. Il ritorno felice ha intitolato il suo libro su questa prima emigrazione “extracomunitaria” lo studioso mazarese Antonino Cusimano. Da quegli anni Sessanta sappiamo quanto massiccia e varia sia stata e sia ancora oggi l’immigrazione nel nostro Paese, quanto avventuroso, spesso atroce, tragico l’attraversamento, da parte dei cosiddetti “clandestini”, di quel fatale Canale di Sicilia divenuto equorea tomba di morti annegati. E ancora questa estate appena trascorsa, questo tempo della vacanza, dopo l’inverno del nostro scontento, per dirla con Shakespeare, è stata turbata dalle notizie e dalle immagini che i media ci riversano addosso di guerre, guerriglie, terrorismo, devastanti uragani, carestie e fame, di morti annegati, come quei poveri undici africani che il mare ha gettato sulla spiaggia di Gela in mezzo ai bagnanti, ultime vittime dello scialo di questo nostro Occidente insensato.
Abbiamo un po’ divagato, ma ci è sembrato giusto farlo, prima di giungere all’argomento che qui vogliamo trattare. Dicendo subito che non per tutti i maghrebini il “ritorno” nel nostro Paese è stato infelice. Che molti, giunti in Italia da tempo, prima che il nostro Parlamento votasse quell’infausta legge sull’immigrazione che va sotto il nome di Bossi-Fini, molti hanno trovato da noi accoglienza, lavoro e speranza per il futuro dei loro figli: si sono, come si dice, integrati. Un chiaro, luminoso esempio, è quello della comunità marocchina del comune di Legnago nel Veronese, i cui bambini hanno frequentato e frequentano la scuola statale italiana. Hanno imparato naturalmente l’italiano, questi scolari, ma hanno ignorato la lingua dei loro padri e dei loro nonni, e, con la lingua, la storia, la cultura, la religione del Marocco, il Paese delle loro origini. Hanno rischiato di divenire, loro, immigrati senza passato, senza memoria, così come è accaduto al poeta Mario Scalesi.
E già dal 1997, nel paese di Legnago, nella scuola media Frattini, la domenica mattina, i figli di operai i braccianti marocchini frequentano il corso di lingua araba tenuto da tre insegnanti volontari, imparano la lingua dei loro padri. Il fotografo Vincenzo Cottinelli, attento e appassionato documentarista di eventi sociali, ha fissato in magnifiche, toccanti immagini ciò che avviene in quell’aula scolastica: avviene di anticipazione e di esempio, alla luce della recente chiusura della scuola islamica di via Quaranta a Milano e delle polemiche che ne sono seguite.
Ci colpisce subito, fin dalle prime foto. l’insegnante llham Mayate con la sua lunga treccia di capelli, che Lalla Romano, ne La treccia di Tatiana, avrebbe letto come segno e aforisma. La bella Ilham, ora rimpianta per la sua inopinata e prematura scomparsa, la vediamo quindi nell’aula contro la nera lavagna con i bianchi segni dell’ornata scrittura araba, il crocefisso, le carte geografiche, Ilham che, si capisce dai gesti, insegna la pronuncia di quella lingua “altra”, piena di aspirate e gutturali. Un’insegnante, lei, amorosa e materna, che guida con la sua la mano del bambino che scrive, bacia la bambina che ha saputo leggere bene le parole sulla lavagna. I bambini sono allegri, vivaci. Ci n’è uno chi si gira verso Cottinelli che fotografa e scherzosamente lo mima portando davanti agli occhi il suo astuccio per le penne.
Fatiha Taouriri, l’altra maestra (bracciante agricola) insegna la giusta e bella grafia delle parole arabe. Gli alunni la seguono e scrivono sulla lavagna e sui loro quaderni figurati. Mustapha Benchiha (saldatore in una officina meccanica) è il terzo insegnante, il quale, al termine della lezione, insegna il Corano, la lingua aulica, classica di questo libro sacro, come la lingua attica dei greci e il latino di Tacito o di Virgilio per i romani. In una foto, Mustapha tiene in mano il libro del Corano e si staglia contro il nero della lavagna con i segni arabi; sopra, vi è il crocefisso; a destra, la carta geografica della penisola italiana con in basso l’isola di Sicilia, il mare Mediterraneo e il capo Bon della Tunisia. E ci sembra, questa fotografia di Cottinelli, la sintesi del discorso che qui abbiamo voluto svolgere; e la metafora, ci sembra, di ciò che dovrebbe essere, come è stato sempre nel cammino della storia, il riconoscimento, il rispetto, lo scambio e l’arricchimento di civiltà e culture diverse tra loro. Rispetto e scambio di cui la scuola di arabo di Legnago è un bellissimo esempio.

l’ islam dei nostri antenati Tahar Ben Jelloun e Vincenzo Consolo

 

l’ islam dei nostri antenati

COMO – “L’ Islam e l’ Europa”: pochi temi sono tanto all’ ordine del giorno. Rapporto in divenire, sempre più denso e complesso, sollecita il dibattito a partire da numerosi spunti: integrazione, contrasti e dialoghi tra culture diverse, forme violente di xenofobia, norme giuridiche a favore di regole civili (vedi la legge contro il velo nelle scuole in Francia) legate a una visione laica della società, contrapposte a un sistema di pensiero dove i precetti religiosi determinano i criteri della convivenza sociale. Per parlare de “L’ Islam e l’ Europa” si sono incontrati di recente a Como gli scrittori Tahar Ben Jelloun e Vincenzo Consolo: un marocchino emigrato a Parigi, autore tra l’ altro di due libri importanti per capire le difficoltà di relazioni tra i due mondi, Il razzismo spiegato a mia figlia e L’ Islam spiegato a mia figlia; e un siciliano che vive a Milano, profondamente consapevole delle trasformazioni antropologiche e sociali che l’ impatto di altre culture ha prodotto sulla realtà italiana. Ecco la sintesi della loro conversazione, avvenuta nella sede della Fondazione Antonio Ratti diretta da Mario Fortunato (curatore di una serie di dialoghi dedicati all’ Europa: nel prossimo appuntamento, fissato per il 22 gennaio, parleranno delle prospettive della politica culturale europea Chris Smith, ministro della Cultura nel primo governo Blair, e Giovanna Melandri). TAHAR BEN JELLOUN – «Sono tanti i cliché legati all’ idea di Islam, una religione come le altre, che in quanto tale può produrre irrazionalità e fanatismo, degenerazioni esistenti in ogni società e cultura. Voglio dire che non è l’ Islam, come spesso si è portati a credere, la religione che più propende al fanatismo, anzi. Religione giovane, nel senso che ha “solo” 15 secoli, differisce dal giudaismo e dal cristianesimo, gli altri due grandi monoteismi, perché più temporale che spirituale, concepita per dare una linea di condotta ai cittadini. Perciò il profeta Maometto ci appare innanzitutto come un essere umano, con le sue qualità, le sue debolezze e una vita sessuale nota, scelto tra gli uomini come portatore del messaggio divino. Un altro pregiudizio diffuso riguarda il fatto che l’ Islam autorizzi il suicidio e i kamikaze, nozione proveniente dall’ Asia, e che non ha niente a che vedere con la religione islamica. Bisogna rendersi conto del vero significato della Jihad, parola che deriva dal verbo arabo “Igetahada”, che vuol dire fare uno sforzo su se stessi: la Jihad fu istituita dal Corano per indurre il credente a combattere le proprie mancanze. Quanto alla “piccola Jihad”, equivale alla guerra difensiva. Secondo l’ Islam non bisogna offrire l’ altra guancia. Quando il Papa Urbano II partì alla conquista del Vicino Oriente con le Crociate, i musulmani furono obbligati a difendersi: gli contrapposero appunto la Jihad». VINCENZO CONSOLO – «Perciò, quando nelle cronache più violente dei nostri giorni si parla di “Jihad islamica”, nel senso di movimento terroristico, si stravolge il significato del termine». BEN JELLOUN – «Infatti. La parola è stata fraintesa in quanto la Jihad produce martiri, ovvero coloro che muoiono in difesa della religione. è un termine affettivamente emblematico per i credenti, poiché un versetto del Corano recita che i martiri continuano a vivere con Dio. Se si crede a questa ricompensa, il martirio può attirare i giovani». CONSOLO – «Uccidersi per uccidere altre persone: il solo pensiero fa inorridire. Due anni fa sono stato in Palestina con una delegazione internazionale di scrittori, e mi ha sconvolto la discrepanza tra i due mondi, l’ israeliano e il palestinese. è facile ubriacarsi di esaltazione religiosa quando si raggiunge quel grado di disperazione. Mi sono tornati in mente gli scritti dello storico ebreo Giuseppe Flavio, che racconta l’ assedio di Masada, durante l’ occupazione di Israele da parte dei romani. Per non cedere agli invasori, gli ebrei decisero di uccidere mogli e figli e di suicidarsi. Se all’ epoca ci fosse stato il tritolo, è certo che vi avrebbero fatto ricorso». BEN JELLOUN – «Facile trasformare in kamikaze i giovani che vivono nei campi dei rifugiati palestinesi. Per questo la soluzione del conflitto dev’ essere innanzitutto politica. L’ Islam non incita i giovani ad andare a farsi esplodere nei luoghi pubblici, ma può diventare un rifugio per ragazzi senza futuro. Quanto all’ Europa, il problema va affrontato a partire dalla scuola primaria, informando davvero gli studenti, e dando loro una visione obiettiva dell’ Islam, al di là dei pregiudizi che hanno finito per farne una religione diabolica. E soprattutto bisogna tenere conto di una realtà incancellabile: nel continente delle democrazie e delle libertà ci sono varie religioni, e tra di esse l’ Islam è al secondo posto. Oltre dieci milioni di musulmani vivono in Europa, e molti tra loro non sono europei. In Francia ci sono circa 4 milioni di musulmani, e il 72 per cento sono di nazionalità francese. Prendiamone atto: l’ Islam è tra noi e non se ne va. Bisogna ripensare l’ Europa come inclusiva della cultura islamica». CONSOLO – «Vengo dalla Sicilia, la regione più araba d’ Italia e una terra fra le più arabe al mondo. Mi sembra utile, in quest’ occasione, tracciare in sintesi la storia della conquista araba della Sicilia. è Dante, che di solito viene pensato come il creatore della lingua italiana, a riferirci che in realtà l’ italiano nacque in Sicilia, alla Corte di Federico II, sovrano che riunì attorno a sé vari esponenti della scuola poetica siciliana: Ciullo D’ Alcamo, Oddo delle Colonne, Jacopo da Lentini. Nel loro modo di poetare era fortissimo il retaggio arabo. Dopo aver preso la Spagna gli arabi, divisi in tribù, si volsero alla conquista della Sicilia, nodo decisivo nella strategia politica del Mediterraneo. Dalla Fortezza di Susa, l’ attuale Sousse, partì un centinaio di navi, con diecimila soldati e i cavalli. Nel giugno dell’ 827 dopo Cristo, l’ armata approdò a Mazara, e da qui iniziò la conquista dell’ isola, durata 75 anni. Gli arabi la trovarono in uno stato di abbandono e miseria a causa delle depredazioni romane e delle varie spoliazioni. L’ obiettivo era la conquista di Siracusa, roccaforte dell’ Impero Bizantino nell’ isola, a cui seguì la presa di Palermo, eletta capitale dell’ Emirato. Con la civilizzazione araba, durata due secoli e mezzo, la Sicilia attraversò una sorta di rinascimento: scoprì le tecniche dell’ agricoltura, vide fiorire le arti e la scienze e diffondersi princìpi di uguaglianza e tolleranza. Quando giunsero i Normanni, che riportarono l’ isola alla cristianità, l’ eredità dei vinti fu accolta e inglobata, tanto che sotto il regno di Ruggero il Normanno Palermo contava 300 moschee, oltre a sinagoghe ebraiche e a chiese cristiane dei due riti, romano e bizantino. Nell’ epoca di Federico II iniziano i conflitti, con la conquista turca del mondo arabo-islamico da una parte e l’ invasione cattolica del Mediterraneo dall’ altra. Emergono i fondamentalismi: le guerre si scatenano quando la religione diventa potere politico». BEN JALLOUN – «Anche in Spagna c’ è stata una presenza araba molto importante. Eppure, dopo cinque secoli, il paese sembra aver cancellato questa parte della sua storia. E anzi la diffidenza è talmente profonda che nella mentalità dello spagnolo la parola musulmano equivale a cattivo. Oggi bisogna ripensare la relazione della Spagna con gli arabi, così come quella della Francia con l’ Algeria, una questione su cui sembra che non si sia ancora riusciti a voltare pagina. Senza il chiarimento storico di certi rapporti, il fanatismo continuerà a usare la fede dei credenti per intimorire l’ Occidente e minacciare gli europei. è inoltre fondamentale ripensare la politica dell’ emigrazione in Europa. E convincersi del fatto che gli emigrati della vecchia generazione non si integreranno mai. Per i loro figli è diverso: un bambino nato in Francia da genitori algerini, marocchini o tunisini è già integrato, perché di fatto è francese. Altrettanto decisivo è far capire l’ importanza del laicismo. Quando la Francia ha votato una legge contro l’ introduzione dei segni religiosi nella scuola, non ha saputo spiegare agli arabi come i loro antenati si siano fortemente battuti, fin dai primi del Novecento, per separare il potere religioso da quello politico. Il laicismo non equivale all’ ateismo: significa semplicemente che ogni cosa deve stare al proprio posto. Se la religione islamica dettasse le regole dell’ istruzione, a scuola non si potrebbe parlare di Darwin, né riconoscere il valore rappresentativo della pittura». CONSOLO – «Vorrei aggiungere che a fine Ottocento ci fu una grande carestia al Sud d’ Italia, e molti lavoratori sardi, siciliani e calabresi emigrarono nel Magreb, soprattutto in Tunisia, Algeria e Marocco, per trovarvi speranza e lavoro. Erano viaggi clandestini, perché quei paesi appartenevano alla Francia, e gli italiani si avventuravano nel Canale di Sicilia con mezzi di fortuna. Spesso avvenivano naufragi disastrosi, proprio come accade oggi, coi tanti sventurati che cercano di raggiungere le coste della Spagna o le isole intorno alla Sicilia. La storia della civiltà è fatta di immigrazioni, che a società invecchiate portano nuove memorie ed energie. Dall’ antica Grecia ai giorni nostri, siamo tutti emigrati: è un movimento che porta solo ricchezza».
Leonetta Bentivoglio

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Caravaggio in Sicilia ” Le orme del maestro ” Vincenzo Consolo

CARAVAGGIO IN SICILIA

“E venne l’ora. Arrivò il tempo del carosello a mare, giunse il momento dell’annuale torneo navale, la giostrata con le galere da Marsa Grande a Marsamuscetto, per onorare la memorabile vittoria, la più alta palma regalata da Dio ai cristiani”. Questo è l’attacco del romanzo di Pino di Silvestro, La fuga, la sosta – Caravaggio a Siracusa, l’ultima fra lo sterminato numero di opere, di saggistica e di narrativa, dedicate al pittore. Dice, quell’attacco del romanzo, della confusione a Malta per la celebrazione della vittoria di Lepanto. E di quel notturno tripudio, di quel frastuono di festa in cui Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, riesce a fuggire dalla prigione di Forte Sant’Angelo, a calarsi con una corda dalla torre, arrivare sulla spiaggia e da lì, confuso tra un gruppo di marinai fiamminghi, imbarcarsi sulla speronara del raìs Leonardo Greco e sbarcare, l’8 di ottobre del 1608, a Siracusa, nel porto grande di  Ortigia

Perché in prigione, Caravaggio, nell’isola di Malta, dove s’era rifugiato dopo esser fuggito da Roma, inseguito dal “bando capitale”, per condanna in contumacia “in penam ultimi supplitij”,per aver ucciso in Campo Marzio Ranuccio Tomassoni? In prigione, sì, per aver ferito gravemente, il gran ribelle, il cavaliere di giustizia Girolamo Varays. In prigione, nonostante la sua fama di pittore eccelso, il conferimento della croce di cavaliere di “grazia”, la committenza di opere  come la straordinaria Decollazione del Battista per la chiesa di San Giovanni dei Cavalieri, due ritratti del Gran Maestro Alof de Wignacourt. E nonostante soprattutto la protezione di don Fabrizio Sforza, figlio di Francesco e di Costanza Colonna, marchesi di Caravaggio, al cui servizio era stato il “mastro di casa” Fermo Merisi, padre di Michelangelo; nonostante la protezione di don Fabrizio, che era, in quell’anno 1608, ammiraglio della flotta maltese. Ed è lo Sforza che aveva dato al fuggitivo asilo nell’isola dei Cavalieri, dopo la prima sosta o rifugio del pittore nei

domini dei Colonna, tra Palestrina, Paliano e Zagarolo dopo la sosta a Napoli, dentro una realtà teatrale e popolare. Da Napoli Caravaggio s’imbarca per raggiungere Malta.

Ora, ci sono due considerazioni che qui vogliamo fare. E la prima è questa. Il geniale pittore, il rinnovatore della pittura, attardata allora nei canoni della Controriforma, colui che dice che la vera realtà è quella che rivela la luce squarciando la cortina buia del mondo, colui che annulla i due piani separati del divino e dell’umano e afferma che grazia e santità dimorano nell’umanità più sofferente ed emarginata, che la vita è violenza, agone, e morte, questo Caravaggio è apprezzato e conteso da cardinali e principi durante la sua stagione romana. Eppure, pur potendo rimanere chiuso e al sicuro nei palazzi del cardinal Del Monte, dei, dei Mattei o dei Borghese, vivere delle loro protezioni e committenze, sono le strade che egli predilige, i quartieri malfamati di bari, prostitute, ragazzi di vita. In un “romanzo nero” è immersa la vita del pittore, nella violenta vita secentesca della Roma controriformistica e bigotta di Sisto V, Clemente VIII e di Pio V. Una Roma di scontri armati tra squadre di bravi al servizio delle varie casate nobiliari divise tra partigiani degli Spagnoli e dei Francesi, la Roma della decapitazione dei Cenci e del rogo di G. Bruno. E i nobili dimostravano il loro potere proteggendo le loro “squadre” fino all’ultimo scherano, i loro dipendenti fino all’ultimo servo. “Il mondo così andava nel secolo decimo settimo” scrive Manzoni. Così andava in quel secolo di ingiustizia e di marasma, e dunque così si spiega la costante protezione degli Sforza-Colonna per il figlio di Fermo Merisi, di Michelangelo da Caravaggio, al di là o al di sopra del fatto che egli fosse il geniale pittore conclamato.

La seconda considerazione o il secondo quesito che poniamo è il seguente. Cosa aveva dentro, il giovane Michelangelo, di dolore e di furore per prediligere i margini, i bassifondi, per essere spinto più e più volte a coinvolgersi in risse, ferimenti, per arrivare fino all’omicidio ? Nel natìo borgo di Caravaggio, nell’aspra natura e nella vita ancor più aspra e dura dei contadini, e quindi a Milano, presso il pittore Simone Pederzano (aveva allora soltanto undici anni), in giro col maestro, l’apprendista, per la Lombardia, a Bergamo, a Brescia, a Cremona, a Lodi, avrà visto miserie, orrori, violenze, e avrà forse subito egli stesso una qualche violenza, fanciullo com’era.

La furia del pittore riesplodeva dunque nel rifugio e nel sicuro asilo di Malta. Non si sa per quale motivo il Caravaggio litiga col Varays e lo ferisce gravemente. E ormai qui, a Malta, cupo e furente, lontano dai momenti di serenità romani, lontano dal tempo, sia pure della “libera fame”, presso Lorenzo siciliano, “che di opere grossolane tenea  bottega”, lontano dal felice tempo adolescenziale presso la corte del cardinal Del Monte, tempo quello per esempio del Giovane con un cesto di frutta, del Suonatore di liuto,  del Concerto, de I bari, del Ragazzo morso da un ramarro, e lontano anche da tutto lo spettacolo di corpi in primo piano di Santi e Madonne per le chiese di Roma. C’è qui a Malta e ancor più dopo in Sicilia qualcosa come la pasoliniana abiura della “trilogia della vita”.

In Sicilia dunque, a Siracusa, sotto la protezione dei Cappuccini, e con la compagnia di don  Vincenzo Mirabella, musicista e storico di Siracusa. E’ don Vincenzo a fare da guida a Caravaggio per i vari strati o gironi nella profondità storica di Siracusa. Dalla contemporanea città controriformistica, di inquisizione e ispanica militarizzazione, di religiosità popolare e di superstizione, fino alla Siracusa della solarità dei templi, dei teatri e degli anfiteatri greci e romani, alla Siracusa delle latomie, tra cui quelle profonde del Paradiso, in cui penosamente lavorano i cordari  e in cui è l’Orecchio di Dionisio. Ed è ancora il Mirabella a convincere il Senato a commissionare al pittore il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa di Santa Lucia al Sepolcro nell’antica zona dell’Acradina. In questo quadro, come in quello di Malta della Decollazione del  Battista, è l’ambiente, lo spazio che prevale. I personaggi, clero e fedeli, sono relegati, quasi schiacciati contro l’alta parete di tufo, n ella penombra d’una latomia o catacomba. E il gonfio corpo della fanciulla, di Lucia, Giustiniani steso a terra, s’intravede tra le quinte in primo piano dei corpacci ignudi di due interratori, cordari delle latomie oppure monatti del remoto ricordo della peste del 1576 in Lombardia, in cui morirono il padre Fermo e il nonno  Bernardino del pittore. La luce qui non ha i tagli obliqui e forti della precedente pittura caravaggesca, ma è come se sorgesse al di qua del quadro, e nel quadro si diffonde rivelando la scena. “Contrasti istantanei di misura, sbalzi tra ‘primi piani’ e ‘campo lungo’, che solo il Caravaggio seppe escogitare….” Scrive Roberto Longhi. Non è sicuro che a Siracusa Caravaggio abbia rincontrato il pittore siracusano Mario Minniti, già suo compagno a Roma nella bottega di Lorenzo Carli, noto come Lorenzo siciliano, il Minniti che sembra gli abbia fatto allora da modello per il Suonatore di liuto e per altri quadri. Ma il Minniti adulto, in ogni caso, come altri pittori siciliani, da Alonzo Rodriguez a Filippo Paladini, a Pietro Novelli, subì il fascino e l’influsso della pittura di Caravaggio.

Due mesi rimane a Siracusa Caravaggio, chè già nel dicembre dello stesso 1608 è a Messina. La città, per via del porto e dell’industria della seta, della presenza di una classe di mercanti, è più aperta, più “liberale” di Siracusa o della capitale, di Palermo, dove risiede il retrivo e superstizioso viceré spagnolo marchese di  Villana. A Messina, preceduto com’è il Caravaggio da “grande rumore…ch’egli fosse in Italia il primo dipintore” ha richieste di quadri per chiese e privati. Otto mesi trascorre nella città dello stretto e qui dipinge vari quadri, sette o otto almeno, ma due soltanto ne rimangono oggi nel Museo Regionale di quella città, L’adorazione dei pastori  e la Resurrezione di Lazzaro. Quello della Natività, della nascita di Cristo in una stalla è un tema che interpreta il “pauperismo” dei Cappuccini, e Caravaggio lo rappresenta nel modo più vero, più radicale. La Madonna, con il Bambinello in braccio, è semisdraiata a terra (humus = humilitas, hanno osservato i critici), e i pastori sono disposti, come gli apostoli nella Incredulità di San Tommaso, a forma di croce. Anche qui un grande spazio, il fondo nero della sconnessa capanna, sovrasta la scena, i personaggi. Siamo qui a Messina nel tempo estremo di un Caravaggio sempre più cupo, tragico. E il susseguente, o precedente, quadro Resurrezione di Lazzaro esprime con più evidenza il suo stato d’animo. La scena, con quel corpo di Lazzaro appena riesumato dalla tomba, è di assoluta tragicità, nonostante il braccio teso del Cristo che richiama alla vita. Ma qui  è la morte in proscenio, la morte con quel

corpo rigido e livido di Lazzaro simile a quello gonfio della Santa Lucia di Siracusa. Scrive il barone messinese Nicolao di Giacomo: “Ho dato la commissione al sig. Michiel’Angelo Morigi da Caravaggio di farmi le seguenti quatri: Quattro storie della passione di Gesù Cristo da farli a capriccio del pittore (…) S’obbligò il pittore portarmeli nel mese di Agosto con pagarli quanto si converrà da questo pittore che ha il cervello stravolto”. Ha il “cervello stravolto” il disperato Caravaggio perché si sente continuamente braccato dagli emissari dei Cavalieri di Malta o della famiglia di Ranuccio Tomassoni, stravolto perché privo come qui in Sicilia della protezione degli Sforza-Colonna; stravolto, perché forse sente la sua fine imminente. Delle quattro storie della passione di Gesù Cristo solo una, l’Ecce Homo, ora a New York, sembra abbia dipinto, chè nell’agosto 1609 Caravaggio è già a Palermo.

A Palermo infatti, per l’Oratorio di San Lorenzo, dipinge la Natività con i santi Lorenzo e Francesco.E rientra, anche in questa natività nei canoni cappuccineschi dell’umile scena, con la Madonna seduta a terra a contemplare il  Bimbo sopra la paglia, con un san Giuseppe non vecchio, ma uomo ancor vigoroso, di spalle, con il cocuzzolo o “ritrosa” imbiancato. Il nero dello spazio in alto è rotto questa volta dalla luminosità di uno dei tanti angeli caracollanti in cielo di Caravaggio.

Questo quadro, ahi noi, esiste ormai nel ricordo o in qualche riproduzione fotografica perché è stato rubato da un mafioso nel 1969 e mai più ritrovato. La Palermo dell’inquisizione e della nobiltà più retriva e dissennata, del lusso e della miseria, dei loschi traffici di personaggi protomafiosi, da quel  Seicento della sosta di Caravaggio ad oggi non è mai cambiata, è rimasta sempre uguale a se stessa.

Dello stesso periodo palermitano sembra sia il San Francesco in meditazione sulla morte, oggi nella chiesa di San Pietro di Carpineto Romano. E quest’immagine di un fraticello con il teschio in mano ci sembra un ulteriore autoritratto del pittore, non per somiglianza fisica come quella del romano Bacchino malato o del Golia del napoletano David, ma per  somiglianza psicologica.

La limpida luce mediterranea di Malta e di Sicilia non è riuscita a consolare  il tetro umore del povero Caravaggio. Ma il suo passaggio per le due isole ha illuminato quel periferico e arretrato mondo, ha rivoluzionato la pittura del tempo suo e del futuro.

                                                     Vincenzo Consolo

Milano, 10.12.03

In FMR n. 1 giugno/luglio pag. 18/24  2004  in italiano

Col titolo “Le orme del maestro”- pag. 17-24

“ col titolo in spagnolo “ Las huellas del maestro” pag.17-24

Caravaggio - La Decollazione di San Giovanni Battista

Intervista a Vincenzo Consolo ” La Sicilia e il meridione “

Intervista a Vincenzo Consolo

a cura di Antonino Musco

La Sicilia ed il meridione dall’Unità d’Italia ai giorni nostri.

Le ansie, le battaglie per i diritti, le speranze disilluse.

Un viaggio letterario, sociale e politico, accompagnati dal grande scrittore siciliano.

 

 

Io sono nato nel 33 in questa plaga della Sicilia, terra dei Nebrodi in una zona di confluenza tra la Sicilia occidentale e quella orientale.

Faccio questa divisione perché c’e’, o meglio, c’era, una profonda differenza tra queste due parti della Sicilia. La parte occidentale era la zona del latifondo dove i segni della storia erano molto più incisivi, più profondi. La parte orientale era più contrassegnata dai segni della natura, vuoi una natura serena, come questa dei Nebrodi, vuoi una natura minacciosa, come può essere quella intorno all’Etna o sullo stretto di Messina, funestato da terremoti

ricorrenti.

La mia è una geografia di tipo umano ma anche di tipo socio-letterario. Nella parte orientale non c’era il latifondo ma la piccola proprietà contadina, quindi i segni della storia sono stati meno accesi, meno evidenti che nella Sicilia occidentale, dove da sempre c’e’ stato il conflitto tra i contadini, i lavoratori, e la classe dominante, i feudatari e quella classe intermedia, che si e’ interposta tra i feudatari ed i contadini che erano i gabelloti, i campieri, da cui e’ nata la mafia.

Il nucleo della mafia rurale è nato proprio nel latifondo.

Ho pensato che in Sicilia quelli che hanno avuto più consapevolezza del loro ruolo nella storia sono stati veramente quelli provenienti dalla parte occidentale, nella zona del latifondo, perché hanno preso coscienza della loro condizione di soggezione, di sfruttamento e ci sono stati di tempo in tempo momenti di ribellione, di rivolta nei

confronti degli oppressori, che detenevano il potere. Questo avveniva sia in superficie, con le rivolte contadine, sia in quella parte della Sicilia dove per la prima volta si era affacciato il mondo industriale, sia pure di un’industria particolare quali le miniere di zolfo.

Gli “zolfatari”, vivendo in condizioni estreme nel sottosuolo con il rischio continuo della vita, capirono di doversi mettere insieme per poter chiedere i propri diritti e riscattare la propria condizione di sfruttati. Alla fine dell’Ottocento c’è stata una presa di coscienza ben chiara, ben evidente, con il messaggio socialista arrivato fin qui

da noi in Sicilia e ci furono i primi moti che vanno sotto il nome di “Fasci Siciliani”; ci sono state rivolte, ma tragica è stata la repressione da parte dello Stato; i vari governi centrali, prima quelli borbonici, poi subito dopo quelli del Regno d’Italia del 1860 poi la venuta di Garibaldi e’ stato il momento di accensione di queste rivolte di contadini, di braccianti. Ad esempio la rivolta di Bronte o di Alcara Li Fusi. Su quest’ultima ho scritto il romanzo “Il sorriso

dell’ignoto marinaio” cercando di rivisitare questo momento storico attraversato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a Pirandello, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, in quanto punto cruciale.

Gli scrittori siciliani si sono chiesti il perché di tanta infelicità sociale partendo proprio dall’unità d’Italia, momento che aveva acceso tante speranze. Si pensava che l’unità avrebbe finalmente portato una equità sociale, una sorta di armonia fra le varie classi della società. Tutto questo non e’ avvenuto, perché a Cavour interessava soltanto l’unità politica del paese, consegnandolo alla monarchia Sabauda e le condizioni sociali rimasero quelle che erano, se non addirittura peggiorarono, in quanto ci furono aggravamenti di tasse nei confronti delle classi inferiori, l’obbligo

della leva, ci fu uno scontento generale.

Queste condizioni si protrassero per anni, questa infelicità sociale continuò soprattutto nelle plaghe meridionali nell’Italia. E’ nata una letteratura sia di tipo strettamente letterario che di tipo storico-sociologico, che prese il nome di “Meridionalismo” (tra i più famosi autori Gramsci e Salvemini), perché c’era una discrepanza fra la condizione della popolazione del meridione e quella del nord, dove era avvenuta -soprattutto in Lombardia- la prima rivoluzione industriale.

La letteratura meridionale ha affrontato sempre questi temi, come la condizione della popolazione, cercando di capire le ragioni, le cause di questa perenne infelicità sociale.

Ma l’indipendentismo non e’ stato una soluzione…

L’indipendentismo è stato un peggioramento delle condizioni, perché la classe dominante degli agrari, quelli che ci ha raccontato De Roberto nei “Viceré” e che poi Lampedusa ha ripetuto, coloro che quando c’è stato un cambiamento politico hanno adottato il cosiddetto “trasformismo”.

Erano dominatori prima e, con i cambiamenti politici, hanno continuato ad essere classe dominante. La famosa frase “bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima” è molto significativa di questo trasformismo delle classi dominanti meridionali.

Salvo Uzeda, il protagonista de “i Viceré”, dopo l’Unità d’Italia si presenta alle elezioni ed è il primo eletto nel suo collegio. Lui, spiegandolo alla zia reazionaria, dice che loro si adattano perché devono sempre dominare.

Le piaghe siciliane e meridionali rimangono sempre aperte.

Tutte le ansie, le speranze del meridione, sono state soffocate, come ad esempio i Fasci siciliani del 1892/93, con la repressione; c’è stata un’ondata di rivolte popolari dopo la Prima Guerra Mondiale con la crisi economica, con l’avanzare del messaggio socialista, Giuseppe Antonio Borgese ha scritto un grande libro su questo momento storico (il 1918/19), “La crisi dei partiti, le rivolte, gli scioperi”.

Gli agrari si sono sempre schierati dalla parte della reazione e della repressione, il fascismo è nato proprio per arginare questa ansia di riscatto delle classi popolari, Mussolini ha fatto da baluardo perché si aveva paura delle classi popolari. Si pensava che potesse arrivare qui quello che era avvenuto in Russia con la rivoluzione bolscevica.

Il fascismo ha occultato per ventanni tutte le problematiche popolari con la repressione e la mancanza delle libertà.

Con la fine della guerra, nel ’43, sono riemerse quelle che erano le aspettative, le ansie, la richiesta di diritti delle classi popolari e sono incominciate le lotte per la Riforma Agraria, l’occupazione delle terre.

In questo quadro, proprio perché le classi dominanti avevano paura che i contadini potessero ottenere i loro diritti vennero fuori i partiti reazionari, la Democrazia Cristiana di destra da una parte, ed il movimentoIndipendentista Siciliano, che era formato dagli agrari, i fascisti che stavano occultati ma fomentavano la reazione e da questo movimento capeggiato da Andrea Finocchiaro Aprile.

In Sicilia ci furono le prime elezioni regionali nel 1947 con un grande successo del cosiddetto “blocco del popolo”, i partiti popolari di sinistra, comunisti e socialisti insieme. Ci fu la coalizione delle forze reazionarie, forse anche con l’aiuto della CIA e degli americani, spaventati di questa “rivoluzione sociale” in potenza, il primo maggio del 1947 ci fu la Strage di Portella della Ginestra.

Dal punto di vista letterario, nel secondo dopoguerra è uscita tutta una letteratura chiamata “neorealismo”, che affrontava i temi del riscatto delle classi popolari dei braccianti, ad esempio Antonio Rossello in un suo romanzo “La luna si mangia i morti” sui temi dell’occupazione delle terre, sul conflitto tra le classi popolari ed i signori, oppure Angelo Petyx con un romanzo chiamato “La miniera occupata” sul mondo dei minatori, delle zolfare, riprendendo un

tema affrontato da Verga con la piece teatrale “Dal tuo al mio”.

La concezione metastorica di Verga si può spiegare soltanto attraverso la concezione metafisica del fato, dell’impossibilità’ da parte degli uomini di intervenire nella storia per cambiare il proprio destino, questa predestinazione che l’uomo ha di essere segnato dalla nascita nella sua condizione, questo avviene ad esempio ne

“I Malavoglia”, avviene in tutti i suoi racconti.

Questa concezione si può spiegare soltanto in un mondo dove domina la paura della natura, il mondo di Verga era attorno all’Etna, egli pensava che la storia non poteva influire sulla predestinazione dell’uomo.

Una concezione da fato greco, ma anche un po’ coranica.

La conservazione del potere, dinamiche e mezzi.

Tutto parte dall’immobilità. La letteratura del secondo dopoguerra ha rappresentato questo. Tomasi da Lampedusa, con la sua visione positivistica del mondo, dice che le classi sociali hanno una dinamica quasi meccanica. Nascono, si raffinano con la ricchezza ed il benessere, poi tramontano. Un po’ come le stelle, questa era la concezione del principe di Salina. Ma questa è una concezione inaccettabile.

Sciascia da illuminista ha cercato di centrare la sua attenzione, la sua tematica prima a quelli che sono i grandi temi illuministici, la pena di morte, la tortura, con i primi romanzi: “Il consiglio d’Egitto”, “Morte della requisitoria” e poi ha visto quello che era il male profondo della società siciliana, la mafia.

La mafia del secondo dopoguerra, con l’avvento della democrazia che stabilì un legame, un’alleanza strettissima con il potere politico.

Tutti i suoi romanzi d’indagine, tutti i polizieschi, dal “Il giorno della civetta” in poi, trattano il tema del connubio, dell’alleanza tra mafia e politica.

Per quanto mi riguarda, ho cercato di rappresentare questa Sicilia del secondo dopoguerra con un primo romanzo, dal nome “La ferita dell’aprile”, dove ho cercato di raccontare questo momento storico che và dal 47 al 48 visto dagli occhi di un ragazzino quale io ero allora, nella ricostituzione dei partiti, nella nuova impostura dei nuovi poteri che si intrecciavano, la strage di Portella della Ginestra ed il fallimento delle speranze che si erano accese.

Poi in una trilogia narrativa che parte dal “Sorriso di un ignoto marinaio”, passa attraverso “Nottetempo, casa per casa” e arriva a “Lo Spasimo di Palermo” ho cercato di rappresentare tre momenti importanti della storia italiana, ma anche siciliana perché parto sempre dalla Sicilia, da momenti storici e ambienti siciliani per poter rappresentare la storia italiana.

“Nottetempo, casa per casa” appunto racconta il momento della crisi del primo dopoguerra, della grande guerra, i conflitti sociali, la nascita del fascismo.

“Lo Spasimo di Palermo” si svolge nella contemporaneità, negli anni che vanno dal 68, con il risveglio politico dei giovani, il terrorismo, il fallimento della generazione dei padri, nutrendo speranze di cambiare questa società ed il fallimento della generazione dei figli, i ragazzi del 68, ed in questo movimento di speranze disilluse si e’ innestato il terrorismo che ha distrutto tutto.

Quello che e’ nobile in queste generazioni, al contrario di quelli che stono stati latitanti e perciò conniventi e colpevoli, è che si sono impegnati – oggi la parola impegno è diventata oscena –nella speranza, nel sacrificio, nella lotta. C’era una nobiltà nel tentativo di svecchiare questa società italiana che è disperante nelle sue vicende.

In Italia e’ mancata una rivoluzione borghese, qui da noi, soprattutto in Sicilia, non è mai arrivata. L’illuminismo è arrivato fino a Napoli, c’è stato il tentativo della Repubblica Partenopea del 1799 ma anche lì c’è stata la grande repressione borbonica, con Nelson che ha dato una mano alla reazione.

I capi rivoluzionari, da Caracciolo a tutti gli altri grandi illuministi napoletani, come la poetessa Eleonora Fonseca Pimentel o Mario Pagano, sono stati uccisi.

Le condizioni attuali dell’Italia le conosciamo, dopo il disfacimento del vecchio potere democristiano e socialista oggi ci troviamo in un Italia berlusconiana, che quanto di più vergognoso, più insopportabile, si poteva immaginare.

Quali maestri ha avuto Vincenzo Consolo?

Mi misi da ragazzino a leggere, soprattutto gli autori meridionalisti, gli autori siciliani e incominciai a capire questa realtà siciliana. Ero molto curioso, da ragazzo. Quando frequentavo il liceo e nei primi anni di università mi interessavano le personalità come Nino Pino Ballotta ma anche Danilo Dolci che lì a Partinico faceva gli “scioperi a rovescio”.

Dopo la pubblicazione del primo libro importante fu l’amicizia con Leonardo Sciascia, che andavo a trovare a Caltanissetta, e poi anche molte personalità politiche siciliane importanti, da Pompeo Colaianni, Girolamo Li Causi, delle personalità straordinarie.

Ho abbastanza anni per aver vissuto un periodo molto alto della storia siciliana attraverso queste personalità. Ho frequentato poi un urbanista che si chiamava Carlo Doglio che era stato prima a Partinico con Danilo Dolci e poi era diventato consigliere comunale del comune di Bagheria, nel momento duro dello scontro per la speculazione delle Aree edificabili. Lui lottò molto perché la mafia non s’impossessasse di queste aree che erano tutte di proprietà della

nobiltà siciliana e i vari principi Alliata piuttosto che altri vendevano questi terreni ai mafiosi e loro facevano speculazioni edilizie.

Ricordo che una volta ho dormito in casa di Carlo Doglio, la mattina siamo usciti ed io, disinvoltamente, varcai la soglia del portone, lui mi prese per la camicia, mi tirò indietro, e mi disse che prima di uscire bisogna guardarsi bene; rischiavano la vita, insomma.

Poi è venuta la signora Dacia Maraini ed a distanza di trent’anni ha scritto il libro “Bagheria” scoprendo l’acqua calda, perché i responsabili erano i suoi parenti, gli Alliata, di questo sacco, insieme agli altri nobili, nutrendo la mafia di Bagheria.

Erano gli anni molto importanti d’impegno civile e politico, gli anni di Buttitta, di Sciascia, di Danilo Dolci, oggi c’è una sorta di sonno della ragione, come di resa nei confronti di questi poteri che ci sovrastano e anche di pessimismo, di rassegnazione.

Lei si e’ trovato a Milano nel ’68. Come ha vissuto un siciliano proveniente da un piccolo paese questa cosa?

Io sono arrivato a Milano il 1 gennaio del 68.

Ho provato una sorta di spaesamento, pur avendo studiato a Milano, in quanto avevo conosciuto una Milano ancora prima del miracolo economico, negli anni 50, una Milano con ancora le ferite della guerra; avevo assistito a tutto l’esodo dei braccianti meridionali che andavano a lavorare all’estero perché abitavo in piazza Sant’Ambrogio dove c’era un Centro orientamento immigrati, vedevo queste masse che venivano sottoposte alle visite mediche e poi

inviati alle miniere di carbone del Belgio piuttosto che in Svizzera o nelle fabbriche della Francia.

Quando sono ritornato a distanza di anni a Milano mi sono ritrovato dinnanzi una città che non conoscevo, di fronte ad una realtà industriale e nel pieno dello scontro sociale molto acceso fra i lavoratori e gli imprenditori, i grandi scioperi, ecc.

Da questo sono rimasto spiazzato ed ho cercato di capire realtà che mi circondava.

Nel 68 tutto era messo in discussione, tutte le certezze che avevamo anche dal punto di vista culturale, c’erano le riviste che io leggevo, sono stati anni di studio, di meditazione, d’osservazione di questa realtà.

Se mi posso permettere, senza essere ridicolo, lo stesso spaesamento l’ha avuto Verga quando è approdato a Milano, nel 1872. Egli si trovò in una Milano in preda alla prima rivoluzione industriale ed in lui ci fu una specie di regressione ideologica, perché rifiutò quel mondo nuovo, quel mondo di scontri, di scioperi, quel mondo industriale; ritornò indietro con la memoria, lì avvenne la sua conversione, del Verga che noi conosciamo, che ci ha restituito un

grande autore dovuto a questo ripiegamento, a questo ritorno alla memoria dell’infanzia, alla Sicilia arcaica ed alla sua concezione metastorica.

Per me è stato assolutamente diverso, ho cercato di capire questa realtà industriale di una metropoli del nord, quali erano le ragioni di questi conflitti sociali, le ansie di rinnovamento. Le avevo vissute in Sicilia con i contadini, lì mi trovavo di fronte a degli operai che avevano maggiore consapevolezza di classe; le battaglie di Sciascia e di Pasolini, di Franco Fortini di Paolo Volponi, di Calvino, l’esperienza dell’Olivetti, avevo cercato di studiare tutto questo.

Per poter scrivere il secondo romanzo stesi 13 anni senza pubblicare, proprio per questo spaesamento che ho provato: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ambientato nel 1860, rifletteva il mondo che io stavo vivendo, conflitti sociali, nuove istanze e nuove idee.

Dal punto di vista narrativo non mi sono mai allontanato dalla Sicilia, ho scritto poco su Milano in modo diretto. La letteratura e’ metafora, se parlo della Sicilia parlo del nostro Paese intero, della condizione degli uomini dell’occidente.

Come vede la letteratura siciliana di oggi?

Vedo che c’e’ stata dopo la mia generazione una frattura.

Quando sono nato come scrittore, c’era un senso d’appartenenza, una consapevolezza di appartenere ad una tradizione importante letteraria, un filone con una sua identità ben precisa, infatti si parla di letteratura siciliana perché ha una sua precisa identità e una sua concatenazione e consequenzialità.

Quando pubblici il mio primo libro lo mandai a Sciascia con una lettera dove denunziavo il debito nei suoi confronti; Vittorini lo seguivo a Milano attraverso i suoi insegnamenti ed i suoi interventi giornalistici nella rivista Menabò insieme a Calvino.

Capivo di appartenere a questa tradizione letteraria siciliana.

Dopo la mia generazione c’è stata come una sorta di frattura da parte dei nuovi autori, i quali non si riconoscono più in questa tradizione, i loro modelli sono sempre altrove, non c’e’ il senso di appartenenza a questa storia, i temi che loro scelgono spesso sono contrassegnati dall’ansia del successo facile, della ribalta, della notorietà, quindi

l’adozione del romanzo poliziesco, il più facile e di maniera, il tipo televisivo, c’è stato come uno iato, una frattura, i loro riferimenti sono ormai non più alla tradizione letteraria ma al cinema, ai fumetti, alla canzonetta.

Vivere in Sicilia, adesso.

Con le ultime elezioni nazionali, la Sicilia portò questa valanga di consensi alla destra.

61 a zero, ricordo che mi hanno interpellato su questa vicenda ed ho risposto “i siciliani siamo servili, cerchiamo di accontentare l’ultimo padrone che arriva o per cinismo o per ingenuità: gli ingenui ci cascano nell’illusione, poi ci sono i cinici ed i trasformisti di sempre, come abbiamo visto nella storia, quelli che tentano sempre di salire sul carro del vincitore per avere dei vantaggi. Tutto rimane immobile”.

Oggi siamo in una condizione veramente penosa, con il signor Totò vasa-vasa, con i signori Miccichè e con mezzo parlamento siciliano d’inquisiti, taluni condannati conniventi con la mafia, quello che sarà poi esiziale sarà l’attuazione di questi progetti megalomani di opere pubbliche. Un disastro, dal ponte sullo stretto di Messina a tutto il resto. Adesso devono pagare le cambiali, le promesse fatte ai poteri oscuri, per non dire mafiosi. I cantieri devono aprire.

La Sicilia e’ quella che offre le truppe d’assalto al potere d’oggi. Salvemini li chiamava i coco’ o i paglietta, gli avvocaticchi dell’estrema provincia siciliana che approdano al governo e che sono le macchinette parlanti di Berlusconi, i vari Schifani, Nania, ecc.

Noi abbiamo sperimentato sempre tutto ciò. Ho abbastanza anni, ho visto già dal secondo dopoguerra, si mettono sempre in moto queste forze. Quando c’è un’ansia di rinnovamento, di cambiare questa società allora arrivano queste forze oscure che fanno alleanze con i politici e stabiliscono dei “patti diabolici”.

Questa Sicilia, questo meridione, rimane sempre uguale a se stesso.

Adesso viviamo nella menzogna, nell’impostura, perché adesso si e’ abbattuto su tutto questo il potere mediatico, che e’ un potere di menzogna e d’impostura. Una forza che nessuna dittatura ha mai conosciuto, una forza subdola di persuasione delle masse, di controllo delle masse attraverso la menzogna, la menzogna mediatica.

Nient’altro è che il messaggio pubblicitario applicato alla politica.

Pasolini giustamente diceva che il nuovo fascismo è la pubblicità. Adesso viviamo in questo nuovo fascismo.

Il potere berlusconiano nasce dalla pubblicità, volgarità, il consumo delle merci. I metodi della menzogna pubblicitaria le hanno applicate alla politica. Viviamo in un paese di gente “telestupefatta” che vive in una sorta di sogno mediatico.

La vita reale ormai non si distingue più da quella fittizia televisiva. La vita perde valore, come ogni cosa.

C’è anche una politica nell’emissione della notizia, perché i telegiornali non parlano di temi importanti ma di cronaca nera? Perché così facendo si può avere più polizia, più repressione, loro non si sentono responsabili, non pensano che la responsabilità sia loro quando una società e’ malata.

Perché viviamo in una società malata, alienata. Loro ti danno solo l’effetto. Il delitto familiare, il massacro, l’arma a portata di mano per cui si uccide per pochi euro.

Ovviamente loro non ti dicono la loro responsabilità, di questa mancanza, di questa svalorizzazione dei valori veri, il valore della vita umana che è un valore incommensurabile, e di tutti gli altri valori, l’onestà, l’etica, il rispetto delle regole. Tutti questi valori sono saltati, propinandoti quotidianamente l’impostura.

Questa società sembra sempre uguale a se stessa, si e’ tentato tante volte di cambiarla culturalmente, socialmente, politicamente ed ogni volta è stato uno smacco, perché le forze che ci sovrastano sono più potenti ed ogni volta sembra che sia un fallimento.

Non sono un pessimista, sono uno storicista e penso che la storia abbia i suoi momenti alti, momenti di accensione di grande speranza. Parlavo infatti di nobiltà d’intenti.

Però ci sono momenti d’arresto e di regressione, ma la forza della storia non si può fermare.

Credo che nella generazione come la tua (sono del ’79, ndr), o nella successiva, verrà un desiderio di rinnovare, di cambiare la condizione degli altri, la propria condizione e di rendere questo mondo più civile e più umano.

 

Fonte: Erroneo – Lunedì, 22 Marzo 2004

Colloqui Vincenzo Consolo e la scrittura

*
Colloqui VINCENZO CONSOLO E LA SCRITTURA:
VOCAZIONE E MESTIERE

Una ricca e amichevole conversazione con l’importante scrittore siciliano morto nel 2012 a quasi 79 anni. Il dialogo, svoltosi nella sua casa di Milano nel 2004, il giorno del suo 71mo compleanno, tocca i nodi fondanti del suo lavoro letterario: a partire dalla sua scelta di un linguaggio espressionistico, stratificato e sperimentale, che determina la rivendicazione di una narrazione moderna molto diversa dalle forme del romanzo tradizionale, ottocentesco. Nei suoi tanti libri c’è spesso la riflessione storica e la costante sensibilità verso i problemi del tempo presente.
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di Maria Jatosti Mattina di febbraio. Una corsa in taxi dentro una Milano quieta, larga, ottocentesca: stradoni, viali, slarghi, palazzi borghesi, opulenti, balconi floreali. Il tassista ascolta Radio Popolare, è comunista. Parliamo della guerra in Irak, dell’America di Bush e ci troviamo d’accordo su tutto. Sono arrivata. Un portone imponente, lustro e massiccio, un bel cortile, una casa grande, soffitti alti, finestroni alla francese, tendaggi, poltrone comode, silenzio. Vincenzo Consolo, ignoto marinaio sorridente, è seduto davanti a me, curioso, acuto, ironico. Cominciamo.  2004 In uno dei tuoi libri, L’olivo e l’olivastro, dici: “Scrivere è una lotta non solo con la realtà, ma con me stesso. Ma scrivere è la mia vocazione, il mio mestiere”. Possiamo partire da qui, dal tuo altissimo artigianato della scrittura, da questa grande, complessa, ininterrotta avventura, che è immersione nel passato, nella memoria, stratificazione di culture e civiltà. Il sorriso dell’ignoto marinaio, nel ’76, fu per me una fascinazione… Nel tuo scrivere totale, metaforico, nella tua lingua, c’è dentro tutto: l’antico, il classico, la storia, il quotidiano, il popolare, ma non dialettale… Vedi, Maria, il dialetto si forma dai sedimenti linguistici che hanno lasciato le varie dominazioni. Quello che io faccio, con una tecnica un po’ da archeologo dilettante, è disseppellire la lingua che sta sotto il dialetto, scavare nei giacimenti linguistici siciliani e immettere le parole anche arcaiche, auliche, che hanno un significato e un significante, che possiedono cioè una loro bellezza anche sonora, e che ti dicono molto di più del vocabolo italiano, perché nascono da una matrice antica, vengono da parole greche, latine, arabe, spagnole, eccetera. Dopo di che, innesto e organizzo la frase in senso fonico, ritmico, insomma cerco di raschiare sotto la crosta per recuperare le radici linguistiche e far capire – poiché la letteratura è memoria – da dove veniamo, come si sono formati i nostri linguaggi, le nostre lingue, eccetera. Nel mio caso si è parlato spesso, con molta superficialità, di dialetto. Ma il mio non è dialetto. Lo dico con lo stesso furore, la stessa forza con cui lo diceva Verga. Verga, che è arrivato alla perfezione dei Malavoglia, aborriva il dialetto ed era in polemica con Capuana, che invece lo frequentava. Quella di Verga è un’operazione linguistico-stilistica che consiste nell’aver abbassato il codice centrale, toscano, al livello del modo di pensare e di essere del popolo, cioè dei pescatori e dei contadini siciliani. Pasolini lo chiama “un italiano irradiato di dialettalità”. Non è un gioco estetico, il mio, ma etico direi, e politico. Un’operazione sperimentale complessa, di grande impegno e difficoltà… Infatti è una strada ardua, ma ho capito che per me era l’unica possibile. Ti dico, Maria, che ho fatto questa scelta con la consapevolezza di essere uno che veniva dopo grandi scrittori di una generazione precedente. Parlo di Moravia, di Calvino, di Sciascia, tutti autori che avevano scelto la cifra comunicativa, illuministica, razionalistica. Appena ho cominciato a scrivere mi sono reso conto che non potevo adottare lo stesso registro stilistico. Avendo vissuto il fascismo, la guerra, quegli scrittori avevano nutrito la speranza che, abbattuto il regime, tornata la pace, con l’avvento della democrazia si potesse formare una società armonica con la quale comunicare, come avveniva in Francia. Questo pensavo allora. Ma, nel ’63, quando ho pubblicato il mio primo libro, queste speranze erano già cadute. Il sogno di una società armonica con la quale comunicare era crollato, quindi ho adottato un mio modulo espressivo che fatalmente mi metteva in quella linea di sperimentatori che nella letteratura moderna parte da Verga e arriva fino a Gadda, a Pasolini. Questa è stata la mia scelta… … che hai perseguito tenacemente, senza cedimenti… Ma parlavi di senso etico, politico. Vogliamo chiarire meglio questo concetto? Vedi, al contrario della maggior parte degli scrittori contemporanei, io non scelgo mai dei temi assoluti, esistenziali o metafisici: i miei sono sempre temi relativi, storici e sociali. Attraverso la scrittura letteraria ho assunto, diciamo così, una funzione di critica nei confronti dei responsabili del malessere sociale. Io credo che l’esistenza sia penosa, anche se sono felicissimo di essere e di essere stato in questo mondo. Pensa a tutti quelli che non sono stati, che sono morti bambini. È straordinario! Però vivere è arduo, noi siamo creature fragili, sentiamo il senso della morte, il senso della nostra fragilità. Leopardi dice che il dolore dell’esistere si può mitigare, che la società può mitigarlo, 4 ma quando la possibilità di rendere meno penosa, più armonica, la vita dell’uomo viene tradita dai responsabili, allora chi scrive deve fare i conti con questo, e scrivere diventa dunque un’azione politica. Per questo parlo di senso etico e politico. Quando scriviamo un libro, quello che generalmente intendiamo per romanzo, noi perseguiamo un’utopia di armonia ma rappresentiamo la dis-armonia. Il contrario di utopia credo sia dis-topia… È da questa concezione, o meglio convinzione, che nasce la tua lingua ricca, densa, unica; la tua narrazione metaforica così piena di riferimenti che diventa a volte difficile coglierli tutti. Penso a L’olivo e l’olivastro… In quel libro ho eliminato completamente la finzione del romanzo. È un po’ un viaggio nella realtà, prendendo come cifra l’Odissea, l’Ulisse, l’eterno Ulisse. Per me – proprio in questo tempo di superficialità dovuta all’esplosione, alla rivoluzione dei mezzi di comunicazione di massa – la scrittura, il testo letterario, è ipertesto, nel senso di cercare di scrivere – appunto perché, ribadisco, la letteratura è memoria – su altre scritture e quindi di rimandare continuamente in modo implicito o anche esplicito ad altri esempi letterari. È ciò che determina una scrittura stratificata, nella quale spero ci sia anche un ritmo… … una musicalità interna, poetica. I tuoi libri, tu non ami definirli romanzi. Sì. Ci tengo a dire che non ho mai scritto romanzi. Il romanzo credo che non si possa più scrivere. I romanzi li scrivevano fino al Novecento quelli che avevano sperato in una società nuova. Oggi l’autore non sa più a chi si rivolge, chi è il suo referente. Io credo si sia rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale. In questa civiltà di massa, lo scrittore scrive un po’ come il poeta. È vero, la mia scrittura tende verso la forma poetica, nel senso che il dialogo diventa monologo. Per questo i miei libri non li chiamo romanzi, ma narrazioni. Nel saggio su Nicolaj Leskov, contenuto in Angelus novus, Walter Benjamin fa distinzione fra romanzo e narrazione: la narrazione rimanda alle narrazioni antiche, orali, quelle che, appunto per ragioni mnemoniche, eliminavano tutti gli scogli della frase… Io ho adottato questo stile chiamiamolo post moderno, abolendo tutto quanto facevano gli autori una volta, come, per esempio, sulla scia di Manzoni, interrompere il racconto per introdurre una riflessione filosofica. Questo non si può più fare perché è venuto meno il dialogo con il lettore. Quasi sempre, se nei miei libri interrompo ogni tanto la narrazione, è per inserire una parte corale, diciamo un canto, cioè una sorta di digressione, di commento, o di lamento, rispetto all’azione che sto narrando. Nella sua storia della tragedia, parlando del passaggio da Eschilo e Sofocle alla tragedia moderna, Nietzsche afferma che con Euripide c’è l’irruzione dello spirito socratico, cioè della filosofia. Milan Kundera teorizza l’irruzione della filosofia, dello spirito socratico nel romanzo. Il romanzo, secondo Kundera, deve essere anche saggio. Infatti nei suoi libri lui inserisce sempre delle parti filosofiche, riflessive. Ma io non sono d’accordo, io sostengo che oggi questo non è più possibile. Non c’è più da ragionare… Per me nella scrittura devono esserci, come nella tragedia antica, l’azione scenica e il coro, non lo spirito socratico. Semmai la riflessione storica. La storia è spesso centrale nei tuoi libri: il Risorgimento, il fascismo…  Sì, la riflessione storica portata dalla metafora. Io tratto temi storici, ma non a caso. Io non parlo degli egizi, io parlo di eventi della nostra storia, del nostro passato per rappresentare il presente. Per questo ho scelto dei momenti cruciali. Ad esempio, nel ’92, quando ho capito che in Italia stava avvenendo qualcosa di sinistro – non di sinistra, purtroppo – con Nottetempo, casa per casa ho voluto raccontare la nascita del fascismo, poi, nel ’98, con Lo spasimo di Palermo, la terribilità della lotta alla mafia, il sacrificio dei magistrati… Tra La ferita dell’aprile, uscito nel ’63 in una collana sperimentale mondadoriana, e Il sorriso dell’ignoto marinaio corrono più di una decina d’anni, tredici, per la precisione. Com’era la tua vita in quegli anni? Dove ti trovavi, cosa facevi? Quella lunga interruzione coincide con il trasferimento a Milano. Perché Milano? Perché Milano era la città dove c’erano Vittorini, Quasimodo, la città dov’era stato Verga: avevo questa mitologia letteraria. Ma c’era già stata una prima stagione milanese. Nel ’52, al tempo dell’Università, la mia famiglia aveva deciso di mandarmi a studiare altrove; in principio io pensavo alla Normale di Pisa, ma poi ho optato per Milano. Volevo comunque uscire dalla Sicilia, conoscere quell’“altrove”, che per me era rappresentato da Milano. Allora a Milano c’era molta domanda di lavoro e, finita l’Università, con la mia laurea in legge in tasca, ricevetti diverse proposte. Ma io volevo fare lo scrittore, non mi interessava legarmi in qualche modo al mondo dei legulei, così me ne tornai in Sicilia dove sono rimasto fino al ’68 e dove scelsi di insegnare nelle scuole agrarie. Mi affascinava il mondo contadino. I miei riferimenti erano da una parte Vittorini e dall’altra Carlo Levi:  Cristo s’è fermato a Eboli e Le parole sono pietre; poi c’era la cifra di Danilo Dolci e Sciascia aveva già scritto Le parrocchie di Regalpietra. Tutto questo mi aveva influenzato e determinato: volevo provare a scrivere in quella linea storico-sociologica, ma la mia era una scrittura prettamente letteraria e così le intenzioni andavano da una parte e la scrittura da un’altra. Infatti scrissi La ferita dell’aprile che con il mondo contadino non aveva proprio niente da spartire. Com’ è avvenuta la pubblicazione del tuo primo libro? L’esperienza di Vittorini e dei “gettoni” einaudiani si era conclusa e da Mondadori Vittorio Sereni dirigeva insieme a Niccolò Gallo una collana di ricerca che si chiamava “Il tornasole”. Mandai il dattiloscritto e dopo due anni ricevetti un telegramma. Mi convocarono a Milano. E da lì è cominciato tutto. Elio Vittorini e Vittorio Sereni A parte quella che, implicitamente e esplicitamente, è dentro la tua scrittura, che posto ha la poesia nella tua vita, nella tua formazione? Hai mai scritto poesie? Mi sono nutrito di poeti, ma ho troppo rispetto per la poesia e so di essere un narratore a tutti gli effetti. Naturalmente la conosco e l’ho frequentata, sia quella italiana che quella straniera… Chi degli stranieri ami in particolare? A prescindere dai francesi, Baudelaire, eccetera, il mio poeta in assoluto, quello che mi ha sempre affascinato, è Eliot.  Non avevo dubbi. Il titolo del tuo primo libro è quasi una citazione. Sì, La ferita dell’aprile è praticamente ricalcato sulla famosa frase “Aprile è il più crudele dei mesi”… Per me aprile significa adolescenza e quello è il libro dell’adolescenza, la mia e l’ennesima adolescenza della Sicilia, con la ricostituzione dei partiti, le prime votazioni, le prime lotte, la strage di Portella della Ginestra… E poi le elezioni del ’48 con la vittoria della Democrazia cristiana… … la grande illusione del Fronte popolare… Il Blocco del Popolo, già. Negli anni Sessanta, come ti dicevo, insegnavo negli istituti agrari perché volevo raccontare il mondo contadino, ma mi rendevo conto che quelle scuole erano diventate una specie di inganno. Ho vissuto il tempo della grande emigrazione meridionale, lo spopolamento dei nostri paesi. I padri dei ragazzi che venivano a scuola da me erano emigrati e sapevo che i figli avrebbero seguito la stessa strada, allora facevo di tutto perché rimanessero in Sicilia, consigliando loro di abbracciare mestieri che gli avrebbero permesso di restare nella loro terra. Alcuni mi hanno dato retta… Intanto frequentavo Sciascia, e lui mi diceva: “Cosa ci fai qui? se fossi nelle tue condizioni: scapolo, giovane, io farei la valigia e me ne andrei”. Un giorno mi disse questa frase lapidaria: “Qui non c’è più speranza”. Purtroppo aveva ragione. Eravamo sotto il dominio spudorato della Democrazia cristiana. Io avevo già pubblicato il mio primo libro e per me si trattava o di stare con il potere democristiano mafioso oppure di essere emarginato. Allora ho seguito il consiglio di Sciascia e, nel ’68, ho fatto le valigie e sono partito per Milano. Anche perché in quegli anni era qui che bisognava stare per cambiare il mondo… Hai ragione, erano gli anni della Grande Speranza. Milano per me era l’antitesi della Sicilia. La città dove c’era stata la rivoluzione industriale, di tradizione socialista turatiana, con una equità sociale… Ma quando sono arrivato mi sono trovato di fronte un luogo diverso, che non riconoscevo più. Quella che avevo visto da studente era una Milano ancora di tipo portiano, con addosso le ferite della guerra, ma con una memoria popolare ancora autentica, viva. Le speranze si sono riaccese poi, nel ’68: i conflitti sociali, gli scioperi… Per me Milano in quegli anni era una realtà da studiare e da capire… E intanto scrivere. Così cominciai a collaborare a dei giornali tra cui «Il Tempo illustrato», un settimanale molto bello, diretto da Nicola Cattedra. Lo ricordo bene. Ci scrivevano Bocca, Pasolini, Bianciardi… La critica letteraria la faceva Giancarlo Vigorelli… È vero. Mi mandarono subito a fare un’inchiesta sui cavatori di pomice di Lipari. Fu una grande esperienza… Dalla Sicilia m’ero portato dietro tante idee… Se ti ricordi, nel Sessanta, con la celebrazione del centenario dell’unità d’Italia, c’era stata una revisione critica del Risorgimento, per cercare di liberarlo da tutta l’oleografia romantica, e, di conseguenza, la rilettura di Gramsci, di Salvemini… Ma poi, nel ’68, fu rimesso tutto in discussione. Allora Vittorini, Calvino invitavano i giovani intellettuali a inurbarsi per studiare la trasformazione della società italiana, il neocapitalismo… Tutte queste idee, tutti questi elementi, le lotte contadine, eccetera, mi hanno portato a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio.  Ma a Milano, a parte la scrittura, le collaborazioni giornalistiche, come vivevi? Per chi lavoravi? Mi vergogno a dirlo, ma ti risponderò come feci una volta con Malerba, il quale mi chiedeva che mestiere facessi: “Lavoro in una fabbrica d’armi”, gli dissi. Intendevo la Rai, che credimi era peggio di una fabbrica d’armi. Come c’eri finito? E com’era lavorare per la televisione? La televisione di allora, a confronto con quella di adesso, era un’altra cosa, c’erano persone di cultura. Il direttore era Angelo Romanò. Ci finii partecipando a un concorso per funzionario programmista. In commissione c’erano Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Leone Piccioni… Io avevo già pubblicato e, inoltre, conoscevo bene la storia del teatro, del cinema… Arrivammo in cinque: un bassettiano, che poi diventò direttore generale della Rai, un nipote di Pasquale Saraceno, un altro che veniva dall’Università cattolica, e per finire il figlio di un eroe della Resistenza. E poi c’ero io, senza nessuna protezione. Mi venne affidata una rubrica di libri, “Tuttolibri” si chiamava. Io la curavo dall’interno e Nascimbeni la presentava. Comunque, ho avuto parecchie storie e alla fine sono stato emarginato; così, dopo una breve carriera al livello più basso, me ne sono andato. Esaurita l’esperienza Rai sono diventato consulente della Einaudi. I torinesi mi volevano come redattore, mi avevano già sistemato in un residence in attesa di trovarmi casa. Ci ho provato… C’era questa torre d’avorio della realtà einaudiana e tutt’intorno… Be’, insomma, in capo a una settimana non ce la facevo più: ho fatto la valigia e sono scappato, nonostante le insistenze di Giulio (Einaudi n.d.r.) che mi inseguiva al telefono. Alla fine il rapporto si trasformò in una collaborazione esterna e ogni settimana andavo a Torino per delle riunioni… Ma vivevo e abitavo a Milano. Dove hai sposato una ragazza milanese. Lombarda. Caterina è di Bergamo. Io ero il solito emigrato con la valigia di cartone… La tua vita sentimentale non è stata particolarmente avventurosa, pare… No, mi considero nella norma… Esiste una norma? Lasciamo stare, parliamo della parentesi romana. A Roma ci sono stato un anno, per la Rai. Abitavo al residence di via di Ripetta. Dovevo scrivere una sceneggiatura per Marco Bellocchio. Si trattava di una vita di Pascoli, ma dopo la prima puntata Marco, che era tutto preso da altri progetti suoi, si disamorò e non se ne fece più nulla. La sceneggiatura è rimasta lì. Mi dispiacque perché era interessante. Il lavoro riguardava la parte pubblica più bella di Pascoli, prima della svolta familistica, la vicenda bolognese, di quando va a finire in prigione, di quando aveva aiutato Andrea Costa a scappare assieme ai compagni, eccetera… Ma Bellocchio non ebbe più voglia di farlo… Peccato. A Roma chi frequentavi? Ero molto amico di Vincenzo Cerami, vedevo spesso Moravia… Pasolini era già morto. Lui l’avevo conosciuto prima, in Sicilia, a un premio letterario, il Brancati, dove c’erano anche Moravia, Sciascia, Bufalino… E Brancati l’hai conosciuto? No. Mi ricordo benissimo quando è morto, a Torino, in quel modo orrendo, così brancatiano. Quest’uomo si portava dentro i polmoni il feto di un fratello gemello… Una fine barocca, letteraria, che sembra inventata da lui… Grande scrittore, Brancati. Le sue lettere alla Proclemer ricordano quelle di Pirandello a Marta Abba. Sono strazianti. Pirandello era innamoratissimo della Abba, ma lei pensava soltanto al lavoro, al teatro, al successo. Attraverso Pirandello voleva arrivare in America, al cinema… Vagheggiava di diventare la nuova Greta Garbo…  I luoghi dell’anima: “La mia isola è Las Vegas” Torniamo alla Sicilia. La “tua” Sicilia. Luogo mitico, dell’anima, del sogno… Sì, la sogno. So che quando ci si allontana dalla sfera della memoria, il ritorno diventa impossibile: si è condannati per il resto della vita all’eterna erranza. In realtà, io non mi sento più di appartenere a questo luogo idealizzato. Raggiungere il centro ideale, la “patria immaginaria”, che poteva essere Roma o Firenze o Milano è stato il mito di tanti letterati siciliani. Per molti di noi, che eravamo ai margini, in un confine storico e anche linguistico, era facile identificare, idealizzare, il “centro” in vari luoghi, ma poi ti accorgi che la patria scelta nella realtà è sempre diversa da quello che hai immaginato e subentra la delusione. Intanto la terra che hai lasciato si trasforma; d’altra parte, niente rimane fermo. Non voglio cadere nella mitizzazione del luogo abbandonato, ma, per riprendere la metafora de L’olivo e l’olivastro, Itaca non è più raggiungibile, perché mentre tu sei via – mentre Ulisse era via – è stata conquistata dai Proci e tu non puoi più approdare nella terra che hai lasciato, nella terra della memoria. Non c’è più la ricomposizione dello squarcio… Se non si può né stare né tornare, qual è la speranza? Che cosa deve accadere? Io non sono pessimista. Io credo che nella storia ci siano momenti di involuzione e poi grandi momenti di apertura e di crescita. Senza retorica, io spero molto nella immigrazione dal terzo mondo, gente che viene qui a portarci qualcosa di vitale, di nuovo, di diverso, di più umano. Io ci spero. La storia della civiltà è fatta di incroci, di spostamenti… La Sicilia è il simbolo massimo di questi arricchimenti reciproci… Per esempio, i Normanni sono stati conquistatori intelligenti: loro non hanno cancellato, come spesso fanno i dominatori, i resti della civiltà arabo-musulmana. L’hanno lasciata e l’hanno adottata. Sotto i Normanni a Palermo c’erano trecento moschee, chiese cristiane del 11 rito greco e del rito latino, sinagoghe: erano diversità che coesistevano e competevano in grande armonia, nel reciproco scambio, nel rispetto dell’altro, del diverso da te… Questi sono momenti alti della civiltà, che creano armonia… … un’armonia che in Sicilia, a Palermo, nonostante tutto, si percepisce fisicamente, si sente nella lingua, nei nomi, nell’arte, nell’architettura; si respira nell’aria, nei suoi odori… Ma tutta questa armonia che fine ha fatto? È stata distrutta dalla nostra civiltà. È finita con la dominazione spagnola, con l’Inquisizione. Quello è stato un momento di frattura tra le culture. È sparita con le guerre corsare, con le lotte fra le due religioni: musulmana e cattolica… Oggi viviamo veramente in un’epoca di teocrazie… E quando le religioni diventano potere… Già. E gli Ebrei? Gli Ebrei in Sicilia sono stati cacciati come in Spagna, nel 1492. Sono venuti al Nord, in Toscana soprattutto, dove c’erano i Medici che erano molto aperti. Devi sapere, cara Maria, che io, con il mio cognome, devo essere un marrano, cioè un ebreo convertito. Qui al Nord tutti i Consolo sono ebrei. A Milano, Segre, Fortini mi chiedevano se ero ebreo. Il fatto è che il mio cognome viene da “console”, la carica elettiva della corporazione di arti e mestieri. Si eleggevano tre consoli e poi la carica diventava nome. Ora, la corporazione arti e mestieri l’avevano in mano gli ebrei, ed è successo che mentre quelli cacciati hanno mantenuto la loro cultura, la loro religione, quelli rimasti sono stati costretti a convertirsi. Morale della favola, credo proprio di essere un marrano. Questa storia ho cercato di rappresentarla in Nottetempo, casa per casa il cui protagonista si chiama Marano, che viene da Marrano, un cognome molto comune… Nella nostra lingua e nella tradizione popolare il termine “marrano” ha un significato, una connotazione negativi. Sì, appunto: vile marrano, traditore, uno che cambia religione… Parliamo del futuro. Attualmente sei nel mezzo di quella lotta non solo con la realtà ma con te stesso che per te è scrivere? Insomma, stai componendo un’altra narrazione? Sì, sto lavorando al prossimo libro. Questo è il mio mestiere, la mia vocazione, non posso fare altro. Il luogo, dal quale non so prescindere, è la mia terra lontana. I miei libri sono tutti ambientati in Sicilia, come sai. Questo si colloca nel ’600. Ho trovato delle carte… dei documenti… È una storia di inquisizione che mi sembra rispecchi il momento nostro… Tu non perdi mai di vista l’attualità storica, il tempo che stiamo vivendo… No, mai. Quando era a Milano, Verga scrisse a Capuana a proposito della necessità della distanza per poter parlare della Sicilia. Il suo capolavoro, I Malavoglia, l’ha scritto a Milano. Quando è tornato a Catania, non ha scritto più niente. La distanza è indispensabile, diceva a Capuana, però poi bisogna verificare… 12 Arriva Caterina con una caraffa di bibita colorata. “Sono le sue arance, vengono proprio da laggiù. Non c’è bisogno dello zucchero…”, dice. “Poi te le faccio provare in insalata, se ti fermi…”. La bibita è dolce e freschissima, non c’è bisogno di zucchero. Faccio qualche passo nella stanza, sbircio dalle tende il paesaggio che volge al plumbeo. Vincenzo è rimasto seduto, mi chiede se sono inquieta, se ho bisogno di qualcosa, se sono stanca. Non sono inquieta e nemmeno stanca, caro Vincenzo. Non smetterei mai di ascoltarti, di sapere… Andiamo avanti. Consolo con la moglie Caterina Vogliamo parlare di quest’Italia di oggi? Secondo te, nell’attuale situazione culturale che possibilità ha un giovane di talento di pubblicare, venir fuori, affermarsi? Una volta c’erano i Vittorini, i Calvino, i Sereni, le collane specializzate, sperimentali, aperte ai principianti, le riviste letterarie, la critica, con la sua funzione fondamentale… Proprio così, i grandi editori di una volta: Mondadori, Rizzoli, Einaudi, come le grosse industrie, si permettevano di avere dei laboratori di ricerca dove si promuovevano gli esordienti. E poi, appunto, come dici tu, c’erano le riviste letterarie che facevano da tramite, c’era la critica. Tutto questo è scomparso. Oggi esiste soltanto il mercato, per cui se non sei confortato da qualcosa che non ha niente da spartire con la letteratura, se non sei un personaggio extra-testuale, se non appartieni al mondo dello spettacolo o non sei una presenza televisiva: barzellettiere, cantante, e così via, e comunque non fai notizia, non hai nessuna possibilità di pubblicare. D’altra parte, i nuovi autori hanno poco a che vedere con la tradizione letteraria. Sai, facendo parte di giurie di alcuni premi dove è prevista anche la sezione degli esordienti, mi sono reso conto che c’è stata una sorta di frattura, di jato. Non voglio fare il moralista e non so come saranno giudicati domani, ma, al di là di ogni giu- 13 dizio mi sembra che questi ragazzi non abbiano punti di riferimento nella tradizione letteraria, com’è stato per la mia generazione e oltre, fino a Tabucchi che ha dieci anni meno di me. Loro guardano al cinema, ai fumetti, alla televisione, alla canzonetta. Quando noi ci promuovevamo, sapevamo da chi eravamo stati preceduti e chi erano quelli che stavano nel contesto letterario, nella società letteraria in quel momento, insomma chi erano i nostri punti di riferimento. Ne avevamo consapevolezza. Ma questa frattura a cosa si deve? Io credo che sia dovuta all’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa: il trionfo dell’esteriorità. Ci sono fenomeni che non sono soltanto giovanili. Prendi il caso Camilleri, un fenomeno di tipo mediatico, che ricalca i moduli di stampo televisivo, nel senso del cattivo cinema, dello stereotipo dell’eterna Sicilia di colore che non ci togliamo di dosso, con l’uso di un dialetto di tipo regressivo, che è una cosa che mi offende terribilmente. Questo è ciò che fa il signor Bossi: la regressione linguistica dall’italiano a un padano che non esiste più. Nulla giustifica l’uso e la pratica di questo tipo di linguaggio, di questo siciliano di colore che nessuno più parla. Andrea Camilleri E tuttavia, qual è la ragione del grande successo popolare e non solo di Camilleri? Intanto c’è lo strumento televisivo. Stamattina parlavo con un medico il quale lamentava le stesse cose nel suo campo professionale. Oggi i grandi medici sono soltanto quelli che appaiono continuamente in televisione, che diventano personaggi, tanto per dirti che questo accade in ogni settore. Insomma, se questo strumento, di per sé innocente, da noi ha inciso più in profondità che altrove, è perché noi abbiamo avuto una storia che nessun paese europeo ha avuto: una trasformazione radicale che nell’arco di pochissimi anni ha portato l’Italia da paese povero e contadino a una delle sette 14 potenze più industrializzate del mondo, con grandi spostamenti di uomini dal Sud verso il Nord. Tutto ciò ha determinato uno sconvolgimento. Pasolini si è dannato su questi temi. E sulla trasformazione, sulla nascita della nuova lingua nazionale – la lingua del politichese, la lingua mediatica, televisiva – s’è innestata la televisione. Di fronte all’arrivo di nuove masse di meridionali nel Nord, Elio Vittorini, nella sua ingenuità di letterato, diceva che i dialetti del Sud lo “spazientivano” perché erano portatori di soggezione e spesso anche di corruzione, cioè di passività, mentre nei dialetti settentrionali lui ravvisava l’attivismo. Diceva inoltre che sarebbe stato interessante studiare gli incroci tra dialetti settentrionali e meridionali, perché da quegli incroci sarebbero nate le nuove koiné. Ma la storia non gli ha dato ragione. Questo non è avvenuto… No, affatto. Perché è passato il rullo compressore della televisione a omologare tutto ai livelli più bassi. Purtroppo la letteratura dei giovani riflette proprio questo: le koiné generazionali, i gerghi, oppure i dialettismi di maniera alla Camilleri. Ma se vai a guardare le famose classifiche che escono settimanalmente sui giornali, ti scoraggi: tutti libri di terz’ordine, tutti prodotti mediatici, figli della televisione… Non credi che la televisione abbia in qualche misura assolto, almeno all’inizio, a una funzione sociale e pedagogica? Che abbia in un certo modo contribuito a saldare l’unità d’Italia? Sì, all’inizio ha avuto la funzione di togliere i dialettofoni dalle sacche di incomunicabilità in cui erano relegati. C’è un bellissimo racconto di De Roberto intitolato Paura, che si svolge in trincea durante la prima guerra mondiale. Ci sono soldati che parlano fra di loro ognuno nel proprio dialetto e non riescono a comunicare, o comunicano a malapena. Sì, comunque hai ragione, all’inizio la televisione ha avuto una funzione pedagogica, di educazione popolare. Umberto Eco e Tullio De Mauro l’hanno sottolineata, affermando che finalmente con la televisione gli italiani potevano comunicare fra di loro. Ma a quale prezzo? Un prezzo altissimo. La perdita è stata enorme. La nostra lingua s’è impoverita poiché s’è inaridito l’apporto che veniva dal basso, dalle condizioni dialettali. Analizzando la nostra lingua e facendo il paragone con quella francese, che definisce una lingua geometrizzata, Leopardi dice che la nostra non è una lingua ma un’infinità di lingue. La grande ricchezza della nostra lingua derivava appunto dall’incontro degli apporti popolari dal basso con la lingua colta dall’alto. Oggi non è più così. Oggi abbiamo l’inaridimento dei due affluenti. Le due realtà sono confluite al centro, ma perdendo ricchezza. La scrittura letteraria è inesistente. I nuovi autori scrivono tutti allo stesso modo, usano la lingua corrente della comunicazione che è la lingua del giornalismo, la lingua mediatica… Lo stesso discorso, secondo te, vale per la poesia? No. Io credo che nella poesia – e anche nel teatro, direi – vi sia molta più vivacità che nella narrativa. La poesia sente che ormai la nostra lingua è poeticamente quasi impraticabile. Per questo sono nati i poeti neo-dialettali, proprio come bisogno di una lingua altra che non sia questa lingua arida. 15 Il fenomeno dei neo-dialettali è diverso dalla poesia in dialetto di un tempo perché i contesti dialettali non esistono più. Il neo-dialetto è una lingua di cultura, costruita con molta consapevolezza. Un’operazione in qualche modo a tavolino. Senza dubbio. È come se si scrivesse in latino, proprio per il bisogno di usare una lingua che non sia quella della comunicazione, ma una lingua alta. C’è un poeta napoletano, non so se lo conosci, Michele Sovente, che scrive napoletano e latino insieme. In Sicilia, il neo-dialettale De Vita usa una lingua che non è la lingua di Buttitta o dei cantastorie… La poesia dialettale, soprattutto in Sicilia, proprio per la forte tradizione che aveva, diventava molto spesso arcadica. La svolta l’ha determinata Ignazio Buttitta con la sua poesia civile, ma la tradizione era quella, quella di Giovanni Mele, il famoso poeta arcadico del Settecento, per intenderci. Comunque, l’angoscia, il grande interrogativo dell’uomo di oggi, non solo dell’uomo di lettere, che in qualche modo ha smarrito la consapevolezza dei propri strumenti, è come se ne esce. Dove andiamo? Dov’è la speranza? Mi verrebbe alla mente il tempo in cui nei conventi si copiavano a mano i testi classici… Gli amanuensi… Amico mio, non vorremo concludere questa chiacchierata con l’invito amletico a ritirarci in convento, spero… Trionfo di colori-odori-sapori mediterranei sulla tavola a casa di Consolo Niente convento, dice Vincenzo col sorriso aguzzo e gli occhi che bucano. Per ora si va a mangiare, vieni. Rinunciamo al ristorante e decidiamo d’accordo di onorare l’invito di Caterina. Di là c’è aria di festa. La tavola è già apparecchiata per tre. Un goccio di bianco di Salaparuta per aprire la strada a un pasto felicemente multietnico: si va dai formaggi bergamaschi alle arance di Sicilia, passando 16 per l’aglio-e-oglio di Roma, in onore alle nostre rispettive origini. Il caffè è napoletano, e così l’unità d’Italia si compie alla grande. È tardi, fuori il grigio s’è impastato di nebbia veleni e nevischio. Il nostro tempo è volato via. Fiumi e montagne e orizzonti di parole come musica: un mondo sconfinato, una navigazione in mare aperto, un bottino prezioso racchiuso nello scrigno del registratore digitale, che mi porto via insieme ai colori e agli odori barocchi di questa cucina luminosa. Grazie Vincenzo. A presto.
Milano, 18 febbraio 2004, settantunesimo.
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Poche notizie Vincenzo Consolo. Siciliano di nascita (18 febbraio 1933), lascia la sua Sant’Agata di Militello e va a laurearsi a Milano dove torna negli anni Sessanta, dopo una parentesi di lavoro sull’Isola e poi a Roma, per restarvi fino alla morte (21 gennaio 2012). Scrittore fecondo, di grande rigore etico e impegno morale, fiero odiatore di oleografie e mitizzazioni estetiche tendenti a dare della sua terra amatissima, presente in tutta la sua opera, un’immagine stantia, stereotipata e lontanissima dalla realtà. Giornalista, insegnante, reporter, saggista, consulente letterario e televisivo. Intellettuale curioso, arguto, ironico e consapevole, grande affabulatore, ospite generoso e gentile, come dimostra questa chiacchierata-fiume nella bella casa milanese, tra salotto e cucina, il giorno del suo settantunesimo compleanno. Ha scritto: Romanzi e racconti: La ferita dell’aprile, romanzo,1963; 1977; 1989 Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, racconto, in Narratori di Sicilia,1967 Il sorriso dell’ignoto marinaio, romanzo, 1976; 1987 Un giorno come gli altri, racconto, in Racconti italiani del Novecento,1983 Lunaria, racconto, 1985; 1996 Retablo, romanzo,1987; 2000 Le pietre di Pantalica, racconti, 1988;1990 Catarsi, in Trittico, 1989 Nottetempo, casa per casa, romanzo,1992; 2006 Fuga dall’Etna, 1993 Nerò Metallicò, 1994; 2009 L’olivo e l’olivastro, 1994 Lo spasimo di Palermo, 1998 Di qua dal faro, 1999 Il teatro del sole, racconti di Natale, 1999 Il viaggio di Odisseo (con Mario Nicolao), 1999 La rovina di Siracusa, racconto, in “Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo italiano”, 2000 Isole dolci del dio, 2002 Oratorio, 2002 Il corteo di Dioniso, 2009 La mia isola è Las Vegas, 2012 17 E numerosi saggi, tra cui: Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, 1985; Il barocco in Sicilia, 1991; I ritorni; conversazioni in Sicilia, 1997; La pesca del tonno in Sicilia, 2008 Esercizi di cronaca, Sellerio 2013 (postumo) I suoi libri sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno, catalano.

La sintassi del regime

LA SINTASSI DEL REGIME

di Vincenzo Consolo

«L’ idea di questa gente era di distruggere tutto quanto di fine e di delicato vi era stato in una tradizione poetica di più di sei secoli, deridendo la democrazia, applicavano alla letteratura i metodi più violenti della demagogia. Se ci fossero stati degli usignoli a cantare nei boschetti immortali del Petrarca e del Leopardi, essi li avrebbero fatti tacere uccidendoli». «Questa gente», «essi», gli uccisori degli usignoli, chi sono? Sono i Futuristi, i seguaci di quel movimento letterario d’avanguardia «inventato» da Tommaso Filippo Marinetti. E il brano sopra riportato è tratto da Golia – Marcia del fascismo di Giuseppe Antonio Borgese. Autore di saggi e di romanzi, fra cui il celebre Rubè, Borgese nel 1931 va esule, per antifascismo, negli Stati Uniti, dove scrive appunto Golioath in inglese. In questo saggio, lo scrittore analizza la situazione sociale e il clima culturale degli anni Venti in Italia per cui è nato il Fascismo, per cui è assurto al potere, imponendo la sua dittatura, un omuncolo, un piccolo borghese di nome Mussolini. Con la crisi economica succeduta alla prima guerra mondiale, con i conflitti sociali, gli scontri tra capitale e lavoro, con la crisi delle ideologie, con l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi di segno nero e bianco, si coniugava il decadentismo culturale, l’estetismo languido ed estenuato di Gabriele D’Annunzio. Ma il prezioso drappo bizantino del languore e dell’estenuazione nascondeva l’aggressività, la ferocia, la voluttà della guerra, del sangue e della morte. D’Annunzio forniva a Mussolini e alla piccola borghesia italiana la terminologia barbarica e guerresca del fascismo. «Ehia, ehia, alalà!» era l’urlo delle masse ottuse e ignoranti. Parallelamente e specularmente al dannunzianesimo sorgeva il Futurismo di Marinetti. Questo italiano avventuriero della cultura, da Alessandria d’Egitto approdava a Parigi, dove pubblicava sul Figaro, nel 1909, il primo Manifesto del Futurismo e quindi, l’anno dopo, il Manifesto della letteratura futurista. Nei due Manifesti, Marinetti teorizzava la distruzione della lingua logico-comunicativa, scardinava lessico, grammatica e sintassi riducendo la scrittura a fragoroso balbettio monosillabico, esaltava il dinamismo, i miti della violenza e della guerra (Guerra sola igiene del mondo scrisse), il mito del Fascismo e della dittatura. Questo nefasto personaggio finì i suoi giorni, insieme a Mussolini, nell’estremo rifugio della Repubblica nazi-fascista di Salò. Giuseppe Antonio Borgese, più degli storici, ha dimostrato che il primo sintomo – come la febbre nelle infezioni del corpo umano – dell’insorgere del fascismo, del totalitarismo, è la modificazione della lingua, lingua che, dal fascismo divenuto potere dittatoriale, viene ulteriormente modificata. Così è stato in Italia. Il Fascismo nacque sulle modificazioni linguistiche di D’Annunzio e di Marinetti e, divenuto regime dittatoriale, si preoccupò subito di modificare la lingua italiana interrompendo l’incontro tra lingua colta e lingua popolare o dialettale, reprimendo o prosciugando i due affluenti che avevano arricchito il fiume della lingua italiana fin dalla sua sorgente, dalla sua nascita. Il regime fascista creò così una lingua media piccolo borghese e burocratica da una parte, eroica e ridondante dall’altra. Mussolini impose, col nero di catrame e a caratteri cubitali, sui muri degli edifici pubblici e privati di tutto il Paese, una sua antologia di vuoti motti dannunziani, di slogan guerreschi e retorici. Questo è avvenuto in Italia con il Fascismo. E lo stesso in Germania con il Nazismo, come ci ha insegnato il filosofo ebreo tedesco Viktor Klemperer. Da professore a Dresda ridotto a manovale, continuò a scrivere il suo giornale di linguistica, stese il suo libro sulla Lingua Tertii Imperii, la trucida lingua delle iene naziste. Thomas Mann, che ebreo non era né filologo, abbandonando nel ’34 la Germania per esiliarsi negli Usa, forse per difendersi, oltre che dal Nazismo, dalla modificazione della lingua tedesca e quindi del romanzo, quindi della letteratura, si immergeva, nel viaggio in mare attraverso l’Atlantico, nella lettura del grande archetipo del romanzo europeo, nel Don Chisciotte di Cervantes. Nel libro Una traversata con Don Chisciotte , Mann ci fa scoprire i barbagli di gemme nascoste, i rimandi a testi di autori classici, di Apuleio, di Achilleus Tatios, nel capolavoro cervantino. Ed elogia la lingua del traduttore del Don Chisciotte, lingua che non è certo quella modificata dal Terzo Riech. «Non saprei esprimere fino a qual punto mi entusiasmi la versione di Ludwing Tieck col suo linguaggio sereno, ricco e prezioso dell’età classico-romantica, questo tedesco nel suo stadio più felice». Infelice doveva essere invece lo stadio della lingua spagnola, la lingua di Cervantes, quando nel ’36, all’inizio della Guerra Civile, i falangisti irrompevano all’università di Salamanca e ululavano al rettore, a don Miguel de Unamuno, in una feroce lingua, «Viva la muerte!» E lui don Miguel, rispondeva, «Sento un grido necroforo e insensato», lui, che aveva sciolto un inno alla sua lingua, «…lengua en que a Cervantes / Djòs le diò el evangelio del Quijote». E vorremmo ancora dire, se ne avessimo cognizione, delle modificazioni del russo di Puskin e di Tolstoj in Urss, dei linguisti sovietici, a cui Stalin, che era Stalin, oppose un suo breve saggio. Vorremmo ancora dire di altre modificazioni linguistiche che hanno preluso all’avvento dei totalitarismi, i quali poi continuano a modificare la lingua, modificazioni che hanno annunciato l’età delle catastrofi, il Novecento appena trascorso, il Secolo breve, come l’ha chiamato Eric Hobsbawm. Catastrofi. Sono sì quelle racchiuse tra le due Sarajevo, come scrive Adriano Sofri, l’intellettuale innocente recluso da sei anni in una prigione italiana, ma che vanno ancora oltre la seconda Sarajevo, oltrepassano il Novecento, arrivano a questo nostro terzo Millennio. In questo presente in cui ormai tutte le nostre lingue sono state modificate, in cui sono insorte nuove metafisiche, nuovi misticismi, come negli anni Venti, l’instaurarsi di nuovi totalitarismi. E, prima d’ogni altro, il totalitarismo dei mezzi di comunicazione di massa, che ha il potere di seppellire, nel nostro mondo globalizzato, le parole della verità, di imporci ogni giorno l’impostura, la menzogna. E nel fango della menzogna viene seppellita la libertà di pensiero, la libertà di espressione. Viene seppellita la poesia, viene seppellita la civiltà. Totalitarismo, quello dei media, che è feroce, aggressivo, bellicoso. E mette in campo, come simulacro, come ieri metteva in campo la diversità della razza, la categoria metafisica del Male: questo indica come Nemico, questo urla di voler distruggere con le armi. Ma dietro lo spirituale simulacro, sappiamo – riusciamo ancora a sapere -, che vi è la materialità delle fonti energetiche, l’oleosa, sporca concretezza dell’oro nero, del petrolio. Dietro o sotto le bombe vi sono invece le vite umane, vi sono i corpi fragili degli innocenti. «La guerra, la guerra!» urlata dagli uomini di voce dura, è stata da sempre una barbarie, uno scandalo. Scandalo è stata l’antica guerra narrata da Omero. Ed Efesto, narra il poeta, fabbrica le armi di Achille e scolpisce sullo scudo le scene di guerra, in cui «Lotta e Tumulto era fra loro e la Chera di morte, / che afferrava ora un vivo ferito, ora un illeso / o un morto tirava pei piedi in mezzo alla mischia, / veste vestiva sopra le spalle, rossa di sangue umano». E poi, nel secondo poema, ci fa capire che quello decennale del più umano degli eroi greci, di Odisseo, non è che un viaggio, un nòstos di espiazione della colpa, di rimorso per i morti e per la distruzione di Ilio. «Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / l’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio…» Così scriveva Salvatore Quasimodo nel ’47, nel ricordo ancora vivo degli orrori, delle distruzioni, degli stermini della guerra, della notte più fitta d’Europa, del mondo. Dopo i campi di sterminio e Hiroshima, un’altra guerra esplodeva in Corea, ancora stermini si compivano. E Picasso, nel tratto e nella monocromia di Guernica, nella memoria de I disastri della guerra di Goya, dipingeva i grandi cartoni del Massacro in Corea e de La guerra e la pace . E dopo fu il Vietnam, la Bosnia, l’Iraq, la Serbia, la Palestina, l’Afgnanistan… E ancora le bombe sono state puntate contro Saddam Hussein, il raìs di Bagdad, contro il popolo iracheno. Ma bisognerebbe ricordare all’altro raìs, a Bush junior, al presidente monosillabico del paese più potente del mondo, che il tiranno è un uomo senza speranza, che nel suo futuro non ci sono che le Idi di marzo, sul suo cammino i pugnali di Cassio e Bruto e l’ignominia della storia. Bisognerebbe ricordare a Bush II che se qualcuno dall’esterno lo colpisce, il tiranno si rafforza, che l’assalto esterno fa riporre il pugnale ai congiurati, ricordare che, nella sua nera disperazione, nel buio della sua mente, il tiranno vuole soltanto che insieme a lui finisca, si dissolva il mondo intero. «Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo…» fa dire a Macbeth Italo Calvino nel suo Il castello dei destini incrociati.

13 gennaio  2004 L’Unità  edizione Nazionale (pagina 23) nella sezione “Cultura

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La voce di Ulisse le azioni di Don Chisciotte e i baci di Casanova

Regali di Natale: La voce di Ulisse le azioni di Don Chisciotte e i baci di Casanova

di Vincenzo Consolo

1 DIRE «sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini / per tutte le astuzie, la mia fama va fino in cielo. / Abito ad Itaca chiara nel sole…» È il primo personaggio, nella storia della letteratura occidentale, che dice e dice, alla corte del re Alcinoo, la sua storia, racconta in prima persona la sua avventura per mare nel ritorno verso casa. La prima parte del «racconto», quella in terza persona, la Telemachia, l’ha fatta l’autore del poema, dell’Odissea, quel signore di nome Omero. E l’Odissea, in questo dire in prima persona, la si può riallacciare, nella letteratura moderna a un altro straordinario e sterminato racconto: Alla ricerca del tempo perduto del signor Marcel Proust.
2 FARE Nessuno, nella letteratura europea, ha più fatto infaticabilmente come il Don Chisciotte della Mancia di don Miguel de Cervantes. Fatto e fatto, il cavaliere dalla trista figura, come il nobile hidalgo e il suo fido scudiero Sancio Panza. Ha fatto anche, in tempi moderni, in modo infaticabile e penoso, un umile muratore che diviene ricco ma che muore solo e disperato, il Mastro-don Gesualdo di Verga.
3 BACIARE Di baci son pieni tutti i romanzi stranieri e italiani (tranne I promessi sposi, in cui non vi è, ohibò, nessun bacio), classici e moderni. Ma se il baciare lo volgiamo nel francese baiser, allora il verbo può prendere un significato ben più carnale, più profondo. E col baiser ci si può allora sbizzarrire, anche trascurando i stettecenteschi romanzi libertini o la sterminata e succosa Storia della mia vita di Giacomo Casanova, e arrivare a L’amante di Lady Chatterly o al dittico Tropico del cancro e Tropico del capricorno di Henry Miller.
4 LETTERA Se intendiamo lettera nel senso «letterale», nel senso vale a dire di lettera dell’alfabeto, allora bisogna segnalare il classico americano La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorn, la lettera A di adultera cucita sul vestito di Hester Prynne, là, nella puritana Boston. Ma se per lettera intendiamo un missiva, allora bisogna ricordare le lettere d’amore che il nasuto Cirano detta per il cadetto Cristiano e destinate alla bella cugina Rossana. Nel Cirano de Bergerac di Edmond Rostand sono forse le più belle lettere d’amore e passione della letteratura moderna.
5 TESTAMENTO Un grande romanzo, poco frequentato oggi, ahinoi, che è stato, come dire?, oscurato dall’omologo e inferiore Gattopardo è I Viceré di Federico De Roberto. Tutto parte, in questo romanzo, e le vite dei personaggi sono determinate, da un testamento, quello di donna Teresa Uzeda, dei prìncipi di Francalanza.

14 December 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 21) nella sezione “Cultura

Un comunista dalla coscienza pulitaDall’intransigente lotta alla mafia alle accuse di collusione

Un comunista dalla coscienza pulita Dall’intransigente lotta alla mafia alle accuse di collusione: la «storia capovolta» di Giovanni Parisi

di Vincenzo Consolo

«Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!» declamava, alla prima seduta dell’Assemblea regionale, il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nella sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Giuseppe Velasquez palermitano, che raffigurano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli, di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e di vicerè, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici a sinistra, i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro, democristiani e separatisti, a destra, monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, il cardinal Ruffini, il quale implorerà «di cuore sul nuovo Parlamento siciliano abbondanza delle celesti benedizioni». Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà invece da lì a poco solo su quel gruppo democristiano che con il cardinal Ruffini, e non solo con lui, aveva intrecciato unità di intenti e di voleri. E, detto questo per inciso, pur senza l’implorazione di un cardinale, ma con misteriose strategie, stabilendo ignoti patti, un’ancor più travolgente abbondanza di voti otterrà in Sicilia il centrodestra di Berlusconi-Dell’Utri-Miccichè, di Fini-Lo Porto e di Buttiglione-Totò Cuffaro alle ultime elezioni politiche del 2001. Ma torniamo alla storia degli inizi nel dopoguerra dell’attività politica in Sicilia, nella Regione, dotata d’una autonomia a statuto speciale, «specialissimo». Che cosa voleva dire quella invocata «concordia sacra», quella «tregua di Dio» del presidente Lo Presti? Voleva dire che nella sala d’Ercole, tra gli scanni, un profondo fossato s’era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, entro cui scorreva il sangue di dodici morti e dei trentatré feriti della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio del 1947. E ancora, dopo quella fatidica data, in vista delle elezioni politiche del ’48, «microfoni di Dio», calati da Roma, e intimidazioni, assassini di sindacalisti, di capilega, di militanti, assalti e incendi a sedi di partito e sindacati, perpetrati dalle forze politico-mafiose, hanno fatto calare sulla Sicilia e sul Paese quel potere politico che è durato mezzo secolo e che è finito per autodisfacimento, per corruzione interna. Questo lungo preambolo, questo excursus sulla storia politica in Sicilia, della Regione siciliana, per dire quanto duro, di totale impegno, di sacrificio, di valore sia stato il lavoro degli uomini della sinistra, dell’allora Partito comunista, a partire dai dirigenti fino all’ultimo militante («In Sicilia, per essere almeno liberali, bisogna essere comunisti» affermò una volta con ironico paradosso Vitaliano Brancati). Il lungo preambolo per parlare del libro di uno dei militanti, dei dirigenti più attivi, più intelligenti, più limpidi e intrasigenti del Pci-Pds-Ds, per parlare de La storia capovolta di Giovanni Parisi. Figlio di comunisti, da ragazzino Parisi ha avuto il privilegio d’essere il destinatario della lezione politica e morale di Girolamo Li Causi, ospite allora o rifugiato nella casa dei suoi genitori perché braccato, con l’intento di assassinarlo, dal bandito Giuliano. Li Causi, spiegava per esempio al dodicenne Parisi il perché, appena sbarcato in Sicilia, era andato a Villalba a sfidare in un comizio il capomafia don Calò Vizzini: per la pubblica proclamazione che tra comunisti e mafia non poteva esserci coesistenza, ma solo lotta, guerra. Parisi poi, da segretario di una federazione giovanile cittadina, arriva a ricoprire, in più di un quarantennio di attività politica, le più alte cariche del partito. Una vita limpida, integerrima, la sua, spesa in un totale impegno nell’aspra lotta al potere politico-mafioso, in difesa dei principi della democrazia, della dignità umana. Sennonché, quest’uomo, questo politico, un giorno (20 settembre 2000) assurdamente, come l’impiegato di banca Josef K., viene risucchiato nelle spire di un incomprensibile processo, viene incriminato, dai Pm della Procura di Palermo Gaetano Paci e Gaspare Sturzo, per «concorso esterno in associazione mafiosa». Lo accusa il pentito di mafia Angelo Siino, il borghese amministratore finanziario della mafia e assiduo frequentatore dei salotti palermitani. Secondo Siino, dice Parisi, «Avrei procacciato appalti agli imprenditori di sinistra Potestio e alle famose coop rosse con il beneplacito di Lima, essendo io, secondo l’accusa, il referente del Pci per la spartizione degli appalti (…) Ero allibito. Ma chi aveva mai avuto a che fare con Siino o Lima? E aggiunge: «Con serenità e certezza della mia coscienza pulita e con l’orgoglio delle mie battaglie, affronto anche questa prova, dura, inaspettata, amara». La coscienza pulita e la dura prova portano dunque Parisi a scrivere questa «storia capovolta» quasi come memoria difensiva e insieme come racconto della propria vita, privata e pubblica. E di questo racconto sono le pagine più belle e più toccanti. In cui dice dei politici che ha conosciuto e frequentato, dice dei familiari, della moglie Svetlana, dei figli Carlo e Diana. E della figlia diciottenne Elena, morta in Francia in un incidente stradale. Il 12 marzo 2003, il Gip Gioacchino Scaduto ordinava l’archiviazione del procedimento nei confronti di Gianni Parisi. Questa volta però non vi è stata conferenza stampa dei magistrati, non vi è stato clamore alla televisione e sui giornali. Solo questo giornale, «l’Unità», ha scritto dell’archiviazione. Storia capovolta-Palermo 1951-2001 di Gianni Parisi Sellerio pagine 261, euro 15

3 December 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 24) nella sezione “Cultura

Un eterno medio – evo ” Negli occhi e nel cuore “

“ Un eterno medio- evo riemerge e getta le sue tenebre in vari momenti della storia. Il medio – evo che ha creato le esclusioni e le reclusioni delle diversità. Debolezze, povertà, malattie. Per i lebbrosi ed i malati venerei, gli appestati o i colerici, sono state le separatezze, le emarginazioni, le prigioni, ma soprattutto per i folli sono stati creati quei luoghi di violenza , di disumanità, di orrore che sono i manicomi.

Di questi luoghi ci racconta M. Foucault in Storia della follia, questi luoghi ci rappresenta goya, ci rappresenta i mostri creati dal sono della ragione, mostri che sono fuori dalle mura del manicomio, che sono tra noi, sono nella società, nel potere politico.

Desastres, caprichos, disparates, goyeschi, sono la rappresentazione della nostra “normale” locura, della follia, della società che legittima torture, pena di morte, manicomi… Si difende, questa folle società, dalla follia pura, innocente dei cosiddetti malati mentali, si difende riempiendo navi di folli, costruendo atroci corral de locos.

Di tempo in tempo tuttavia si accendono bagliori di ragione, calori di umanità che riescono a fugare le tenebre, a rivoluzionare la storia, riescono a riscattarci dalle nostre colpe.

Nel vento di rinnovamento, nella luce che ha relegato nel passato ogni oscurità medievale,nelle giuste, umane, istanze, in campo culturale e specificatamente psichiatrico, Franco Basaglia con la sua “istituzione negata” è stato il maggiore e più eroico protagonista.

In questo tempo di involuzione, di regressione culturale, civile, politica si cerca di vanificare e annullare l’opera di Basaglia. Se riusciranno a far questo, gli uomini del potere politico, si renderanno colpevoli di un crimine contro la civiltà.

Ma i miei timori si attenuano pensando che gli oscurantismi troveranno a sbarrare loro la strada – oggi come domani – la saldezza, la compattezza e la passione di Psichiatria Democratica”.

Vincenzo Consolo, scrittore

Tratto da “Negli occhi e nel cuore “ – Trent’anni del movimento di Psichiatria Democratica ,  pag. 55 – Napoli, ottobre 2003.

Incontri (Storie di cause celebri) Mostra fotografica di Giovanna Borgese

Università di Messina, 19 giugno 2003

MOSTRA FOTOGRAFICA DI GIOVANNA BORGESE

Nel 1931 il grande scrittore Giuseppe Antonio Borgese emigrava, per ragioni di antifascismo, negli USA. Da lì inviava al Corriere della sera corrispondenze che, raccolte poi in un volume, presero il titolo di Atlante americano.  Dice, in quei suoi articoli-saggi, di Manhattan, la “città assoluta”, dell’Empire State Building, il grattacielo dello Stato dell’Impero (inaugurato proprio nel 1931), della trasformazione della lingua inglese nell’americano, in quella lingua ch’egli dice monosillabica, della Provincia, della Frontiera americana…  Diceva insomma, Borgese, in quell’Atlante americano, della “prigione”, dell’Incubo ad aria condizionata, come l’ha chiamata Henry Miller, che era, che è oggi più che mai, l’America.
Nel 1936, Borgese in America, in inglese, Golia, marcia del fascismo, pubblicato poi in Italia nel 1946.
Golia era una delle più profonde e severe requisitorie contro il fascismo, l’arringa dottissima di un pubblico ministero nel tribunale della storia contro le colpe di un Paese consegnatosi all’orrore della dittatura, contro il Paese dei tribunali speciali, della pena di morte, della denunzia e della condanna degli oppositori, del loro imprigionamento, del loro confino di polizia, e del loro assassinio.
“Golia”, scrisse Renato Poggioli “è da collocare nella linea italiana del Principe e della Storia di De Sanctis.
Oggi qui ho il privilegio di parlare, se pure inadeguatamente, della Mostra fotografica di una lucida storica, attraverso le immagini, di questo nostro Paese; di parlare delle fotografie di Giovanna Borgese. Il grande scrittore era suo nonno. Giovanna ci restituisce immagini della storia italiana appena passata, l’atroce storia che parte dagli anni Settanta e si fa evidente, si rappresenta sul palcoscenico del teatro giudiziario a cavallo degli anni Ottanta.  Dal ’69, e via via dopo, erano state compiute stragi, in questa Italia che sembra immobile, sempre uguale a se stessa, erano stati compiuti omicidi politici, fra cui quello più tremendo nella sua spettacolarità, più oscuramente emblematico di Aldo Moro; dilagava la corruzione politica, il malaffare, il terrorismo, assassinio di segno nero e rosso, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la devianza dei servizi segreti, dei poteri dello Stato; prendeva potere la finanza criminale, come quella di Sindona, Calvi o di Marcinkus, e la balzachiana setta dei Devorants con il suo Ferragus, che erano la Loggia Massonica P2 e Licio Gelli.
Il potere politico democristiano intanto, legato alla o sostenuto dalla criminalità, era tetragono, indifferente a ogni nefandezza, continuava a dominare il Paese.  E quindi i responsabili, una minima parte dei responsabili dei crimini, delle nefandezze, arrivava in Tribunale, davanti ai giudici.  E Giovanna Borgese fotografa questa umanità approdata nei Palazzi di Giustizia.  Palazzi che sono quelli di Milano, Torino, Padova, Roma, Cremona, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Bergamo, ecc.
Si legge, in queste immagini, l’angoscia e insieme la pietà della fotografa nei confronti dell’umanità.  Ma si legge anche, nelle immagini, repulsione, ironia, acutezza e trepidazione in un luogo come il Tribunale, dove culmina la tumultuante tragedia, si placa, per prendere astratta e definitiva forma giuridica.  Ed è per questo che le foto, trascendono la cronaca, diventano  prezioso documento umani, libro di storia.
La storia di quegli anni nostri in cui sembrava – sembrava allora, come sembra più che mai oggi, in questa felice tarda primavera del 2003, in un Paese governato da un signore che si chiama Berlusconi – sembrava, dicevo, che una sorta di malattia morale, di peste fosse dilagata: la peste dell’irrazionalità, della disgregazione delle coscienze, della sopraffazione e della violenza.
E come in tutte le epidemie, le pesti, si riempivano le fosse di cadaveri, si affollavano i cameroni dei lazzaretti di contagiati. Così, la malattia di quegli anni sovraffollava le carceri di imputati in attesa di giudizio, stipava i gabbioni di vaste palestre adattate ad aule giudiziarie, per celebrare processi di massa. È qui dunque, e non forzatamente, che cogliamo la rispondenza fra Golia e queste foto. Nel fatto che G.A. Borgese, il nonno, individui le cause della nascita del fascismo, della Grande Involuzione, più che in oggettivi fatti storici, nel soggettivo disordine etico, nella malattia spirituale che di tempo in tempo riaffiora nel carattere italiano.  Riaffiora quello che Carlo Levi ha chiamato “l’eterno fascismo italiano”. E nel fatto che Giovanna Borgese, la nipote, abbia colto nei lazzaretti, nelle aule dei tribunali, sui corpi e sui volti delle persone i segni della malattia riemersa in quegli anni nel nostro Paese, prefigurazione di quella malattia a contatto della quale oggi noi viviamo.
Dicevamo che nei tribunali culmina e si placa la tragedia.  Ma da lì non si può fare a meno di uscire e ripercorrere le fasi del suo svolgersi, di riandare per le strade delle nostre città e rivedere i morti ammazzati dai camorristi, dai mafiosi, dai terroristi; i morti per droga; di leggere nelle facce porcine, da faine o da volpi di politici, generali, finanzieri, le ruberie, le corruzioni, le speculazioni, le esportazioni di capitali all’estero: di tutto lo scialo insomma dei potenti che hanno prostato l’economia del nostro paese.

Gli imputati, da una parte – da Liggio, a Cutolo, a Curcio, a Moretti, a Peci, a Negri, a Fioravanti, a Rizzoli, a Tassan Din, a Sindona, a Calvi ( La sua testa chiusa nel cerchio dei berretti dei carabinieri!) … Gli imputati, da una parte, dall’altra, i giudici – dal procuratore generale di Milano Corrias, al consigliere di Cassazione Scopelliti (che sarà ucciso dalla ?ndrangheta), ai magistrati della Suprema Corte di Cassazione (che sembrano creati dalla fantasia di Daumier), agli allora giovanissimi giudici istruttori Turone e Colombo. Tutti insomma, i grandi e piccoli sacerdoti della giustizia. Fenomeno metafisico, la Giustizia, come la religione, come l’arte. Partecipano, tutti e tre, del mistero della creazione.  Nella Giustizia, il momento creativo è quello della sentenza.  Quando il giudice legge la frase di rito: “In nome del popolo italiano…”, è allora che crea la verità giuridica.  L’altra verità, quella storica, da quel momento non esiste più, non ha più valore. Così i giudici, investiti di questo terribile potere, tendono a formare un corpo separato dal resto della società, a far parte di una casta che sembra procedere su un altro piano, parallelo a quello storico.  Com’è di certi ecclesiastici, di certi artisti.  Sta alla volontà di ognuno di loro di non perdere il contatto con l’altro piano, di fare continue incursioni nella storia.  Si pensi alla vicenda umana di uno scrittore come Kafka, ridottosi in un deserto di vita, nel labirinto dei cunicoli d’una tana per dedicarsi unicamente alla trasformazione della vita in scrittura.
E proprio lui, Kafka, ha avvertito come nessuno la metafisicità della giustizia, ha sentito come la vita umana non è che un intervallo tra un’oscura imputazione e l’attesa di una sentenza. Nei giudici fotografati dalla Borgese si legge la metafisica e la storia.  La prima, negli alti magistrati acconciati nei loro paramenti rituali, “oggettivamente ritratti”, come avrebbe fatto il pittore Titorelli del Processo di Kafka, o come soggettivamente li avrebbe visti, al pari dei cardinali, Francis Bacon.  La seconda, la storia vale a dire, Giovanna Borgese la legge nei giovani pretori e nei giudici istruttori, disarmati e disarmanti, ancora “sporchi” di vita, solitari e dibattuti nella difficoltà d’essere “ “insieme umani e fuori dall’umano”. Abbiamo detto degli imputati e dei giudici.  Dimenticavamo le terze persone del dramma: i parenti delle vittime, il pubblico, i testimoni.  E, fra questi non si possono dimenticare le facce dei grandi del potere politico e di quello finanziario: Agnelli, Bonomi, Mandelli, Spada, Andreotti, Donat Cattin, Emilio Colombo…  Colpevoli e innocenti, puniti e impuniti.  Nella storia giudiziaria di questo paese, si sa, molto spesso le colonne dell’infamia sono state issate solo per i deboli, solo per gli innocenti. E le leggi che oggi si votano nel nostro Parlamento sono solo a favore di un grande imputato e dei suoi coimputati, dei cittadini più uguali davanti alla legge, vale a dire cittadini che nessun tribunale di questo paese può giudicare.

Vincenzo Consolo
Milano 18 giugno 2003

Giovanna Borgese, Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga Consolo. Foto di Corrado Stajano

Foto Giovanna Borgese testi di Corrado Stajano
Giudici di Cassazione